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RADIOTELEVISIONE 1° parte - Appunti di Scienze della
RADIOTELEVISIONE 1 Sistema radiotelevisivo e forma di Stato Questo mezzo di comunicazione è stato un vero e proprio “laboratorio”, con una storia molto diversa dagli altri mezzi di informazione, poiché lo Stato non solo ha dettato i limiti all’esercizio della libertà, ma ha, soprattutto, ricoperto il ruolo di soggetto attivo nel soddisfare le esigenze collettive legate al sistema radiotelevisivo(monopolio). In parallelo al dispiegarsi delle potenzialità del mezzo radio tv, l’attività di informazione ha acquisito una valenza diversa da quella tradizionale, intesa come libertà di esprimere liberamente le proprie convinzioni culturali, politiche etc… una valenza aggiuntiva che attiene alla posizione del destinatario del messaggio, il quale ha diritto ad un sistema informativo pluralistico, imparziale, completo. Questa evoluzione appare tutt’oggi lontana dall’aver raggiunto risultati soddisfacenti: tuttavia l’evoluzione è interessante per quanto riguarda lo studio dell’atteggiamento dello Stato in una materia decisiva (la radiotelevisione) per la democraticità complessiva del sistema costituzionale. Sotto questo profilo va segnalato subito come un ruolo fondamentale sia stato svolto dalla Corte Costituz., che si è spinta sino alla indicazione precisa, al Legislatore, dei contenuti minimi delle future leggi in materia di radiotelevisione. 2 ELEMENTI COMUNI NEI PAESI EUROPEI 2.1 Il periodo tra le due guerre mondiali in Europa Questo periodo è caratterizzato in Europa da scelte di MONOPOLIO PUBBLICO: ciò per ragioni di ordine tecnico, legate alla natura del mezzo radiofonico e alla sua limitata disponibilità in termini di frequenze radiofoniche. Al sistema di effettivo monopolio si arriva dopo una serie di interventi legislativi graduali, che mirano a far scomparire le iniziative private in favore di emittenti a prevalente o totale partecipazione pubblica (così in Austria, Inghilterra Italia, Finlandia) o in favore di enti pubblici nazionali di radiodiffusione (Danimarca, Belgio). Così l’attività radiofonica viene esercitata in esclusiva dal soggetto pubblico, sia sotto l’aspetto tecnico (le frequenze), sia sotto l’aspetto del contenuto informativo relativo alla programmazione. Questa evoluzione ha il suo punto d’arrivo nel MONOPOLIO PUBBLICO come scelta per scongiurare fenomeni di concentrazione delle emittenti radiofoniche, che già in quel periodo (primi del 900’) stavano portando all’eliminazione della concorrenza informativa. Con il monopolio lo Stato (in particolare il Governo) ha numerosi compiti e poteri: dalla nomina degli organi direttivi degli Enti (si pensi alla RAI), ai poteri di vigilanza e controllo sulla gestione finanziaria e sul contenuto della programmazione, poteri che finiscono per fare capo ad un Ministero competente. A ciò si aggiunga l’efficacia del nuovo mezzo comunicativo per la conquista e il consolidamento del consenso sociale a favore degli assetti politici, soprattutto per i regimi autoritari affermatisi in Europa tra le due guerre. 2.2 Le innovazioni della legislazione degli anni ’60 e ‘70 La seconda fase di evoluzione dei sistemi radiotelevisivi europei è caratterizzata da una riforma dei monopoli pubblici, ora non più solo radiofonici ma anche televisivi, riforma che lascerà molti aspetti invariati: rimane cioè la scelta di un modello pubblicistico in cui lo Stato esercita sia l’attività di gestione degli impianti di trasmissione, sia l’attività di diffusione dei programmi. L’abbandono del modello pubblicistico doveva rivelarsi difficile, anche per l’assenza nelle costituzioni europee di un apposita disciplina del mezzo radiotelevisivo. Da qui lo sviluppo di un dibattito, politico e scientifico, sulla possibilità di estendere, a tale mezzo, le garanzie previste per la manifestazione del pensiero (in particolare della libertà di stampa), dibattito che si incentrava: 1) sulle caratteristiche tecniche del mezzo (frequenze via etere, non illimitate); 2) sul suo impatto sociale a livello di informazione e formazione culturale e politica dei cittadini. Frutto di questo dibattito è stata la messa a punto di un principio costituzionale comune alla grande maggioranza degli ordinamenti europei: ossia l’inquadramento dell’ attività radio-televisiva nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero, accompagnato da una concezione di Stato come legislatore ma soprattutto come gestore del mezzo. E’ su questa base che la legislazione europea degli anni 60-70 (austria, svezia, olanda, belgio, francia, italia nel 1975) riforma la disciplina del monopolio tentando di conciliare insieme la nozione di “servizio pubblico” (di tipo monopolistico) e la nozione di libertà di manifestazione del pensiero (nel senso di pluralismo informativo). Si tenta di fare ciò su tre diversi piani: 1) Valorizzando il ruolo del Parlamento, quale soggetto istituzionale più idoneo e rappresentativo per garantire libertà e pluralismo; 2) Valorizzando il ruolo delle autonomie locali, mediante funzioni consultive sulla programmazione e sulle scelte di gestione del servizio; 3) Introducendo forme di partecipazione (diritto di accesso) dei gruppi sociali alla gestione ed utilizzazione del mezzo. 2.3 Le leggi della “terza generazione” e il superamento del monopolio Con l’inizio degli anni ’80 si avvia la terza fase dell’evoluzione europea. In questo periodo, in molti paesi europei la legislazione si trova a fronteggiare una realtà complessa, sia per l’accelerazione delle innovazioni tecnologiche (reti via cavo, via satellite, televisione diretta ect), sia per la crescente pressione esercitata dal mondo imprenditoriale e pubblicitario per liberalizzare e privatizzare l’attività radiotelevisiva, sia per le esigenze dell’equilibrio generale dell’informazione. Per la rima volta in Europa è una legge inglese del 1954 ad affiancare all’Ente pubblico rediotelevisivo, BBC, un altro ente, anch’esso pubblico, ma con il compito di diffondere i programmi radiotelevisivi prodotti da società private e finanziati con la pubblicità commerciale. Da allora, dovevano passare 30 anni prima che soluzioni simili venissero adottate nel continente europeo. Ad ogni modo, il primo terreno di liberalizzazione negli anni 70-80 è rappresentato dalle reti via cavo, che i privati, previa autorizzazione, possono istallare e gestire, giusto lo sviluppo tecnologico del mezzo, che sviluppava la disponibilità di frequenze utilizzabili, consentendo pluralità di iniziative private e facendo venir meno una delle ragioni che aveva giustificato il monopolio pubblico Se la spinta verso la privatizzazione rappresenta la nota nota comune di quella che abbiamo chiamato la “terza legislazione”, va sottolineato come ad essa si accompagni anche l’introduzione di specifiche NORMATIVE ANTITRUST. In questo campo la legislazione europea pare ispirarsi ad un modello comune: esso si basa sulla definizione di “soglie” massime di concentrazione non superabili (che rappresentano le c.d. “posizioni dominanti”), nonché una serie di obblighi di trasparenza delle vicende societarie delle imprese operanti nel settore. Insomma si afferma l’idea che un’informazione imparziale, oggettiva, completa e funzionale alla partecipazione dei cittadini, possa essere raggiunta meglio attraverso il concorso di più iniziative private (che la nostra Corte Cost. chiamerà “concorso esterno”) chiamate ad affiancare le già esistenti emittenti pubbliche nazionali. Nasce così un sistema misto pubblico privato, nel quale il soggetto pubblico tende a mantenere una posizione di preminenza. 3 Il caso italiano: la radiofonia nel periodo fascista Nel precedente periodo liberale, si era già sancita la riserva allo Stato dello “stabilimento ed esercizio di impianti radiotelegrafici e radioelettrici e, in generale, di tutti quelli per i quali si impiega energia elettrica allo scopo di ottenere a distanza degli effetti senza l’uso di conduttori” (art. 1 L. 395 del 1910). A questa riserva riferita agli aspetti tecnici si accompagnava il rilascio delle prime concessioni alle due società private più solide e affermate: è su queste basi che il legislatore fascista costruirà un regime ben più articolato e complesso. Con leggi del 1924 e 1925 si confermava la riserva allo Stato dell’attività radiofonica e si procedeva la rilascio di una sola concessione in esclusiva alla Unione Radiofonica Italiana (URI), della durata di 6 anni, comprendente sia la gestione degli impianti sia la diffusione dei programmi, concessione che comportava l’accettazione della concessionaria di una serie di condizioni, tra cui quella di trasmettere contenuti forniti dall’Agenzia di stampa Stefani, espressamente designata dalla Presidenza del Consiglio. Nel 1927 infine la concessionaria del servizio (URI) si pubblicizzava, divenendo proprietà SIP, e poi ricondotta nell’ambito dei poteri dell’IRI. Negli anni successivi si completava questo assetto assegnando al Ministero della Stampa e propaganda il controllo sui contenuti radiofonici. 4. Il periodo costituzionale provvisorio e il dopo guerra Le vicende legate al crollo del fascismo non comportarono alcun mutamento per lungo tempo. Si continuò infatti a tenere come buono il modello basato sulla riserva allo Stato e sulla concessione in esclusiva ad una società a prevalente capitale pubblico. Questo modello riceve puntuale e articolata conferma con la nuova concessione del servizio alla RAI del 1952, che precede di due anni l’inizio delle trasmissioni televisive. Quattro i contenuti importanti: 1) La concessione prevedeva la maggioranza assoluta delle azioni della RAI di proprietà dell’IRI, e apposita autorizzazione ministeriale per le compartecipazioni RAI in altre società; 2) Sei membri del Consiglio di Amministrazione RAI di nomina governativa, ed anche la nomina del Presidente, dell’amministratore delegato, del direttore generale; 3) Programmazione triennale sottoposta ad autorizzazione ministeriale (che il Ministro degli Interni poteva però cambiare per motivi di ordine pubblico); 4) Finanziamento attraverso il doppio regime del canone di utenza e degli introiti pubblicitari (con un tetto del 5% delle ore di trasmissione complessiva). Dunque, data questa grande continuità con il passato, non doveva passare molto tempo per il sorgere di problemi legati ai nuovi principi costituzionali (art. 21 Cost “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con ogni mezzo di diffusione”). Un modello pubblicistico come quello sopra descritto era ancora compatibile con il nuovo disposto costituzionale? Questi interrogativi di fondo arrivarono ben presto al giudizio della Corte Costituzionale: vediamone alcune pronunce rilevanti. 5 Il ruolo della Corte Cost.: dalla conferma di legittimità del monopolio pubblico, alla riforma del 1975 In Italia, l’avvio delle trasmissioni televisive nel 1954 fa sorgere subito un dibattito incentrato sul monopolio radiotelevisivo. Così nel 1960 si arriva alla prima sentenza della Corte Cost. (n. 59 del 1960), che segna gli sviluppi in materia almeno sino al 1975 (al varo della legge 103 del 1975): in questa sentenza si coglie subito il ruolo decisivo che la Corte intende assumere in questa opera di ridefinizione delle linee guida del mezzo radiotelevisivo. La Corte, chiamata a decidere sui dubbi di legittimità costituzionale della riserva allo Stato del servizio radio e tv, ne stabilisce la piena legittimità, ciò per tre motivi: 1) Le bande di frequenza non illimitate, la Corte sostiene che il mezzo radio tv non può essere parificato agli altri mezzi, che non hanno limitazioni simili; 2) La Corte sostiene inoltre che si deve evitare il rischio del formarsi di situazioni di monopolio od oligopolio privato, contrari al principio di pluralismo informativo; 3) In terzo luogo la Corte ritiene che la soluzione di assoggettare il settore al monopolio pubblico deve ritenersi una soluzione consentita, secondo il combinato disposto degli artt. 21 e 43 (riserva allo stato di servizi pubblici essenziali) Cost.. Il regime pubblicistico viene considerato come quello che maggiormente assolve al compito di assicurare il tasso di pluralismo necessario per far sì che la libertà di informazione possa svolgere una funzione democratica, formando l’opinione pubblica in chiave partecipativa. Oltre a ciò, la Corte si spinge ben oltre, affermando che il monopolio pubblico, per essere coerente con le finalità di cui all’art. 21, avrebbe dovuto prevedere la possibilità di accesso al mezzo da parte di tutte le correnti culturali e politiche, nonché un ridimensionamento del potere del Governo (indirizzo e controllo dell’ente concessionario del servizio) a tutto favore del Parlamento, organo in cui c’è la massima espressione di pluralismo politico. Queste evidenti sollecitazione della Corte al Legislatore, per mettere mano alla materia radio tv, non ebbero alcun seguito. Da questa sentenza della Corte, del 1960, doveva passare un decennio prima che la Corte intervenisse ancora in questa materia, questa volta determinando una reazione positiva del legislatore. E’ infatti con due pronunce del 1974 che la Corte accelera il dibattito parlamentare sulla riforma della disciplina del monopolio pubblico radiotelevisivo. Le sentenze n. 225 e 226 del 1974, appena successive all’applicazione tecnologica delle comunicazioni via satellite (prima solo via cavo), segnano l’inizio della riforma del monopolio pubblico: la sentenza n. 225 dichiara illegittima la riserva allo Stato dell’attività di ritrasmissione di programmi di emittenti estere e ne ammette l’esercizio anche da parte di soggetti privati (purchè dietro previa autorizzazione, da disciplinare dal legislatore), ciò perché la ritrasmissione di programmi esteri utilizzava bande di frequenza diverse da quelle dei servizi nazionali di telecomunicazione; La sentenza n. 226 dichiara l’illegittimità della riserva allo Stato nel settore della radiotelevisione via cavo (riserva prevista dal codice postale del 73), consentendo l’ingresso nel settore ai privati, ma solo con riferimento al livello locale (ed anche qui previa autorizzazione); ciò perché il mezzo tecnico del “cavo” era suscettibile di garantire una sua utilizzazione quasi illimitata. In questi “comandamenti” della Corte Cost., risulta chiaro l’intento della Corte di intervenire, in positivo, a condizionare l’operato del legislatore, con una serie di “moniti” destinati ad orientare le decisioni future del legislatore. 6 La legge 103 del 1975, e la sua rapida obsolescenza La legge 103 del 75 interviene a recepire i moniti della Corte, riformando il monopolio pubblico, vediamo le novità: 1) Si afferma la legittimità della riserva allo Stato, che però non si estende più alla ri-trasmissione (gestione di di ripetitori) di programmi esteri e nazionali (depurati però dalla pubblicità), né alla diffusione via cavo a livello locale (non più di 150.000 abitanti, con un tetto max di pubblicità del 5% del totale); 2) Attribuzione al Parlamento del potere di indirizzo e controllo sul servizio radiotelevisivo (una Commissione bicamerale nomina 10 dei 16 membri del Consiglio di amministrazione della concessionaria RAI, Presidente e Direttore generale vengono eletti all’interno del C.d.A.); 3) Attribuzione alle Regioni del potere di creare Comitati regionali per il servizio radiotelevisivo locale; 4) Attribuzione a vari soggetti, quali partiti, associazioni, sindacati, autonomie locali, confessioni religiose, gruppi etnici e linguistici, del diritto di accesso ai sistemi radio e tv, accesso fissato nella quantità minima del 5% delle ore complessive di trasmissione tv, e del 3% delle ore di trasmissione radio; 5) 6) Per quanto riguarda il diritto di rettifica, esso viene esteso ai direttori di tele e radio giornali, così come previsto dalla legge 47 del 1948 sulla stampa, che dunque devono rettificare sollecitamente la notizia, pena la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria e l’applicazione delle sanzioni previste; vengono estesi anche gli obblighi connessi alla registrazione ed alla responsabilità del direttore responsabile; Sui meccanismi di finanziamento viene confermato il canone, e si ammette anche la pubblicità con un doppio limite: il rispetto del 5% massimo delle ore totali di trasmissione, ed una soglia massima di denaro raccolto in pubblicità, soglia da definirsi annualmente da parte della Commissione bicamerale. Insomma, uno sforzo del legislatore per adeguare il monopolio pubblico al contesto costituzionale, in sintonia con le indicazioni puntuali della Corte Cost.. Ecco però che, ad un solo anno dalla legge, è di nuovo la Corte Costituzionale a determinare una svolta nell’evoluzione del sistema radio tv, decisione che, negli anni successivi, sarà decisiva nel orientale lo sviluppo del mezzo sino ad oggi. Nel 1976 infatti, con sentenza n. 202, la Corte sancisce la parziale illegittimità della riserva allo Stato dell’attività radiotelevisiva, poiché la disponibilità di frequenze via etere è tale da non consentire il formarsi di monopoli od oligopoli privati, con negative conseguenze sul pluralismo informativo. Dunque, una vera e propria apertura alle iniziative private della radiotelevisione via etere a livello locale (adesso paragonata alla “via cavo”). Questa sentenza, davvero storica, segna una svolta nel ragionamento giuridico della Corte, la quale ritiene che la limitatezza del mezzo deve essere considerata l’elemento essenziale del sistema monopolistico, venendo meno la quale (limitatezza del mezzo) si possono consentire soluzioni normative diverse dal monopolio, ugualmente garanti del pluralismo. La sentenza , in concreto, ipotizza un sistema misto, pubblico e privato, a solo livello locale per il momento; ciò sulla base della premessa che il moltiplicarsi di soggetti operanti nel settore costituisca garanzia sufficiente di pluralismo. Questa conclusione finisce però per rendere ambigua la nozione di attività radio tv: la nozione di servizio pubblico essenziale è riferite alla sola parte pubblica. Ambiguità che peserà a lungo sull’operato del legislatore e del giudice costituzionale. 7. Il lento cammino verso il sistema misto (pubblico e privato): la legge transitoria del 1985 e la sentenza del 1988 della Corte Costituzionale La sentenza del 1976 apre un lungo periodo (chiusosi solo nel 1990 con la legge 223) caratterizzato dai tentativi del Parlamento di riformare la materia, e dallo sviluppo consistente e tumultuoso di iniziative private a livello solo locale, le quali operano in base ad una legittimazione data dal giudice costituzionale, ma in assenza di una normativa di riferimento. Nel perdurare della latitanza del Parlamento, i privati (Berlusconi in particolare) si concentrano sempre di più in una sola, unica grande emittente, rispetto alle quali le emittenti locali fungono solo da semplici terminali per la diffusione dei programmi. Questo processo, spinto dalla polarizzazione della risorsa pubblicitaria, si realizza attraverso, per es, la messa in onda in contemporanea di programmi preregistrati, superando così l’ambito locale, cui la Corte aveva ancorato il “diritto” dei privati. Così, nel 1981, vediamo di nuovo la Corte Cost. (sentenza 148 del 1981) dichiarare che la parte rimanente di riserva allo Stato (ovvero la trasmissione su scala nazionale) è giustificata dalla assenza di una normativa idonea a contrastare i fenomeni contrazionistici in atto, anche nella raccolta pubblicitaria, e gli effetti negativi sul pluralismo. Dunque la Corte ammonisce nuovamente il Parlamento, inviandolo ad una normativa antitrust: da questo momento (1981) comincia un gara tra il Parlamento, impegnato a legiferare una norma antitrust, e le emittenti private, impegnate a conquistarsi sul mercato una posizione abbastanza solida da essere difficilmente ridimensionabile anche con l’intervento della legge. E’ nel 1985 con la legge transitoria n. 10 che si tenta di normare il sistema pubblico-privato della radio tv. La legge viene conosciuta con il nome “Berlusconi”, ossia del soggetto privato maggiormente interessato a che la vicenda apertasi con le iniziative dei giudici costituzionali si concludesse con una sorta di nulla di fatto. E tale risultato si concretò nel fatto che la legge era solo “transitoria” e delegava ad altra legge futura la disciplina della pubblicità nazionale e locale (ossia il cuore delle condizioni poste dalla Corte Cost.), delegava al futuro la disciplina dell’antitrust, e consentiva il proseguimento delle attività radio tv ormai a livello nazionale <<provvisoriamente consentendo ponti radio tra gli studi di emissione ed i ripetitori locali>>. Come contropartita a questa concessione, si imponeva l’obbligo di trasmettere il 25% della programmazione con prodotti cinematografici italiani o europei, e la soglia max del 16% alla trasmissione pubblicitaria. Ma l’ambiguità della legge del 1985 non si ferma qui, investe infatti anche l’organizzazione interna della concessionaria del servizio pubblico, ridisegnando i rapporti tra C.d.A. e Parlamento, che adesso nomina tutti e 16 i componenti, con l’evidente intento di consentire forti patti di maggioranza, destinati a trasferire all’interno del C.d.A della RAI una logica di schieramento analoga a quella della sede parlamentare, sottraendo allo stesso C.d.A. il potere di nomina dello stesso Direttore generale, la quale viene affidata all’azionista pubblico IRI, riproducendo il dualismo C.d.A. referente parlamentare, Direttore referente governativo. In questa confusa situazione, interviene di nuovo la Corte con sentenza n. 826 del 1988, la quale sostanzialmente “assolve” la legge transitoria del 1985, condizionatamente alla sollecita approvazione di una legge di riforma del settore da parte del Parlamento. In questa sentenza la Corte introduce uno sdoppiamento del pluralismo informativo, individuando un pluralismo interno (emittenze pubbliche) quale espressione del maggior numero di opinioni, tendenze politiche, ideologiche e culturali, ed un pluralismo esterno (emittenze private) quale presenza attiva del maggior numero possibile di fonti. Precisata questa doppia pluralità informativa, nella sentenza si trovano alcuni importanti corollari applicativi, nei quali la Corte Costituzionale: 1) Ribadisce la necessità di disciplinare i flussi finanziari che alimentano il sistema della pubblicità, per garantirne una distribuzione equilibrata; 2) Afferma poi l’esigenza di una disciplina della pubblicità radio tv a favore del consumatore, che operi sui contenuti e le modalità di presentazione dei prodotti; 3) Ribadisce poi la necessità di una normativa antitrust in grado di investire il complesso dei fenomeni di concentrazione, compresi quelli tra emittenti e imprese di pubblicità; 4) Afferma che le emittenti che operano a livello locale necessitano di maggior tutela, a queste deve essere garantita una effettiva autonomia, anche attraverso un’adeguata disponibilità di frequenze e di risorse pubblicitarie. Come abbiamo già detto, la Corte opera un salvataggio della norma transitoria condizionato ad una veloce riforma del settore secondo gli indirizzi forniti in sentenza. 8 La necessaria attuazione delle norme comunitarie in materia di pubblicità televisiva Un altro stimolo al legislatore italiano viene, nel 1989, da una Direttiva comunitaria (direttiva CE 552 del 1989), adottata al fine di coordinare le legislazioni europee in materia di esercizio dell’attività radio tv, con particolare riferimento alla pubblicità commerciale, e che impose al legislatore italiano norme specifiche e puntuali, tali da non lasciare alcun margine di discrezionalità: ciò con l’affermazione del principio di libera circolazione delle trasmissioni televisive europee e con l’apposizione di una serie di obblighi (obbligo di dedicare la maggior parte del tempo di trasmissione a prodotti europei, di tutelare l’industria cinematografica vietando la trasmissione tv dei film prima di certo lasso di tempo, obbligo di rigide regole pubblicitarie). Della disciplina pubblicitaria la direttiva affronta 4 diversi profili: 1) Contenuto del messaggio pubblicitario (divieto di trasmettere messaggi offensivi della dignità, del sesso o della razza, delle convinzioni politiche o religiose, divieto di messaggi nocivi della salute e dell’ambiente, divieto di pubblicità per i prodotti di tabacco o per i medicinali con ricetta obbligatoria); 2) 3) 4) Modalità di trasmissione del messaggio pubblicitario (necessaria riconoscibilità del messaggio pubbl., divieto di pubbl. subliminale o clandestina, obbligo di trasmettere le pubblicità “tra” le trasmissioni e non “nel corso” delle stesse, possibilità di pubblicità nel corso di alcune trasmissioni, divieto assoluto di trasmissione di pubblicità nel corso di telegiornali o funzioni religiose etc); Indice di affollamento, ossia il limite massimo di messaggi di pubblicità in relazione alle ore di trasmissione (18% del tempo di trasmissione quotidiano, 20% di quello orario, limite quotidiano del 20% nel caso la pubblicità avvenga con la televendita); Sponsorizzazioni (necessaria riconoscibilità delle stesse, divieto di ogni forma di condizionamento da parte dello sponsor sul contenuto del programma, divieto di inserire promozione diretta dello sponsor nel programma). Questa direttiva rappresenta il primo tentativo europeo di una disciplina comune di uno degli aspetti chiave dell’intero sistema radio tv, quale quello della pubblicità commerciale 9 La legge 223 del 1990 sul sistema radiotelevisivo misto pubblico e privato Corte Cost. e Comunità Europea avevano ormai tracciato il percorso per contemperare libertà di informare e libertà di iniziativa economica: la legge 223 del 1990 ruota pertanto su 5 assi portanti, che avrebbero dovuto “raddrizzare” la difficile situazione italiana che nel frattempo si era creata. 1) La legge detta alcuni PRINCIPI COMUNI definendo l’attività radio tv come <<attività di preminente interesse generale>> che vede i suoi principi generali nel pluralismo, obiettività, completezza ed imparzialità. Si detta poi la disciplina del REGIME CONCESSORIO dell’attività radiotv via etere. Per fare ciò si individuano due atti di pianificazione necessari: il piano nazionale di ripartizione delle frequenze, ed il piano di assegnazione delle frequenze. Con il primo si provvede a ripartire le bande di frequenza utilizzabili tra i diversi servizi radio tv, con il secondo si provvede ad assegnare le bande tra i vari bacini di utenza, ad opera del Ministro delle Comunicazioni. Questa attività di ripartizione delle frequenze disponibili riserva il 30% delle frequenza all’emittenza televisiva locale ed il 70% alle emittenti radiofoniche locali. Vengono stabiliti criteri per ancorare il rilascio delle concessioni, criteri basati sulla potenzialità economica delle iniziative, sulla natura dei soggetti tecnici, sulla qualità della programmazione (almeno il 20% settimanale all’informazione locale). Ancora vengono stabiliti obblighi gravanti sui concessionari, tra cui : obbligo di iscrizione al Registro nazionale imprese radiotelevisive, obbligo di comunicazione dei trasferimenti di proprietà, obbligo di rispettare tetti massimi di pubblicità, obblighi di rettifica delle notizie, obbligo di non trasmettere film prima di un certo periodo dalla loro pubblicazione, obblighi relativi al contenuto dei messaggi (niente messaggi subliminali, non nuocere allo sviluppo psichico e morale dei minori etc..) 3) Il cuore della norma è però rappresentato dalla NORMATIVA ANTITRUST: ciò per assicurare un tasso di pluralismo indispensabile. Tale disciplina viene divisa in tre grandi settori: a) il numero massimo di concessioni rilasciabili ad un singolo soggetto (diverso per il livello locale o nazionale, cui generalmente corrisponde il 25% delle concessioni); b) i limiti alla concentrazione tra stampa e radiotelevisione (nessuna concessione a chi stampa una tiratura superiore al 16% complessivo nazionale) c) I limiti alle concentrazioni tra emittenti e concessionarie di pubblicità, in cui queste ultime non possono raccogliere pubblicità per più di 3 reti tv nazionali, per più di 2 reti nazionali e 3 locali, ovvero 1 rete nazionale e 6 locali: ogni ulteriore attività di raccolta pubblicitaria deve essere indirizzata verso mezzi di comunicazione diversa. 4) DISCIPLINA DELLA PUBBLICITA’ RADIOTELEVISIVA Questo ambito, già normato dalle precedenti normative del 1975 e 1985 (la prima aveva introdotto il limite di massimo affollamento, la seconda lo aveva esteso ai privati sul livello locale). La legge del 1990 lo affronta in modo sistematico sotto più profili: a) per i limiti di contenuto del messaggio pubblicitario la legge si limita recepire la direttiva comunitaria (dignità umana, non discriminazione razziale etc, e divieto di pubblicizzare alcuni prodotti), dunque un generale indice di affollamento max del 15% giornaliero sia in ambito locale che nazionale; b) per le modalità di trasmissione dei messaggi pubblicitari la legge non accoglie le regole comunitarie, relative ai messaggi trasmessi “tra” e non “all’interno” delle trasmissioni, non accoglie nemmeno il limite dei 20 minuti tra un’interruz e l’altra, né il divieto di interrompere telegiornali etc..; c) riguardo le sponsorizzazioni, la legge si discosta ancora più dalla direttiva comunitaria, introducendo una nozione di sponsorizzazione più ampia, senza recepire il divieto di messaggi espliciti diretti all’acquisto del prodotto dello sponsor, rendendo difficile distinguere tra sponsor e pubblicità. STRUMENTI DI GARANZIA PER L’APPLICAZIONE DELLA LEGGE: si istituisce un’autorità garante (Garante per la radiodiffusione e l’editoria) cui si danno numerosi poteri, i più pregnanti dei quali fanno capo al Ministero delle Poste e Telecomunicazioni. Così il Garante deve assicurare il rispetto della normativa antitrust , cui si aggiungono poteri di proposta, di regolamentazione, di controllo e di sanzionamento. Tra i poteri di sanzionare troviamo il Garante che, dopo aver diffidato gli interessati contra legem, può irrogare sanzioni pecuniarie ovvero disporre la sospensione della concessione nei casi più gravi (sospensioni da 1 a 30 giorni). Sempre il Garante deve vigilare sull’antitrust invitando i concessionari a compiere gli atti necessari per rientrare al di sotto delle soglie massime consentite. Assai più consistenti i poteri sanzionatori affidati al Ministro, il quale può revocare la concessione su proposta del Garante: a ciò si aggiungano i poteri legati al mancato rispetto degli obblighi legati alla gestione tecnica degli impianti di trasmissione, anche qui con potere di irrogare pene pecuniarie, nalla sospensione della concessione fino a 30 gg., nella revoca della concessione in caso di recidiva. Per effetto della L. 248 del 1997 i poteri del Garante sono stati oggi trasferiti all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che vedremo in seguito. 4)