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Esperienza e senso comune

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Esperienza e senso comune
Sociologia
delle comunicazioni di massa
(4 CFU)
Prof. Giovannella Greco
Comunicazione Media e Educazione
3. Esperienza e senso comune
Un fatto della nostra vita ha valore non
perché è vero, ma perché ha significato
qualcosa.
Johann Wolfgang Göethe
Esperienza è un termine che si presta ad una
grande varietà di usi e significati, a seconda
dei contesti in cui si trova inserito.
I suoi svariati utilizzi, nel linguaggio comune,
indicano in modo generico la conoscenza del
mondo ottenuta attraverso il rapporto con le
cose e gli altri nella vita quotidiana (1).
Utilizzata in riferimento al know-how,
esperienza vuol dire aver attraversato una
serie di eventi che, accumulati, hanno
sviluppato un arricchimento interiore.
(1) Jedlowski P., (2005), Un giorno dopo l’altro. La vita quotidiana fra esperienza e
routine, Il Mulino, Bologna.
In questo senso, ritenendo che la maggior
parte dell’esperienza si accumula con
l’avanzare del tempo, si tende ad associarla
alla maturità o alla vecchiaia o, ancora, alla
perizia che si raggiunge attraverso la
consuetudine o l’applicazione costante in una
determinata tecnica o professione (tanto che
si è soliti chiamare “esperto” una persona
dotata di una considerevole esperienza in un
certo ambito).
Ma si può anche associare l’esperienza a
ogni singolo atto che ci permette di
conoscere un particolare aspetto del mondo
o della vita quale, ad esempio, un viaggio, un
dolore, un amore.
Limitandoci a considerare la storia di
questo concetto nell’ambito della cultura
moderna, possiamo osservare:
• la sua capacità di offrirsi a continue
trasformazioni e la sua disponibilità a
funzionare come elemento ricorrente di
una
de-strutturazione
dei
saperi
consolidati (1);
• il rapporto che l’esperienza intrattiene con
il senso comune (2).
(1) Jedlowski P., (1994), Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano, p. 70.
(2) Ibidem.
Nella vita quotidiana, teatro di una «tensione
costante» tra ciò che viviamo in prima
persona e ciò che tendiamo a routinizzare,
esperienza e senso comune sono, infatti,
profondamente intrecciati.
Il senso comune è tutto ciò che diamo per
scontato, ovvero «l’insieme di ciò che ognuno
considera ovvio, all’interno di una certa
comunità, e in un dato momento della storia»
(1).
Si tratta di un sapere fondato sui taciti
presupposti che sottendono il nostro agire
quotidiano, di quella forma di comprensione
(e autocomprensione) che crea il substrato
d’immagini e significati senza i quali non
potremmo interagire e comunicare (2).
(1) Jedlowski P., (1994), op. cit., p. 19.
(2) Greco G., (1997), Comuncazione Cultura e Rappresentazioni sociali, Rubbettino,
Soveria Mannelli.
Una conoscenza, dunque, essenzialmente
pragmatica che «consiste nel “saper fare”
irriflesso che accompagna la nostra vita di
tutti i giorni, e nel “saper riconoscere”
immediato con cui interpretiamo abitualmente
le cose che ci circondano e i comportamenti
delle altre persone» (1).
Questa forma di conoscenza si configura
come una sorta di sapere sociale che ci
fornisce le istruzioni per vivere e per
comprendere, mediante
una
costante
«sospensione del dubbio» (2) che la realtà
possa essere diversa da come ci appare.
(1) Jedlowski P., (1994), op. cit., p. 19.
(2) Schutz A., (1989), Saggi sociologici, Torino, UTET.
Questo «senso» è «comune» perché la
struttura
della
vita
sociale
è
intersoggettiva.
Come sostiene Heidegger, vivere è
necessariamente con-vivere; i significati
sedimentati nel senso comune si sono
costituiti, infatti, nel corso di innumerevoli
interazioni.
«In termini sociologici, ciò significa che
ogni comprensione del mondo che un
soggetto può mettere in atto è radicata in
una
struttura
di
pre-comprensione
socialmente data» (1).
(1) Jedlowski P., (1994), op. cit., pp. 34-35.
Il senso comune è perciò, al tempo stesso,
una memoria sociale e una costruzione
sociale, il cui elemento determinante
consiste nell’atteggiamento che dà il
mondo per scontato.
Nessuno di noi può prescindere da ciò che
è dato per scontato nell’ambiente sociale
in cui viviamo né, tanto meno, da quel
bagaglio d’istruzioni e interpretazioni che il
senso comune ci fornisce.
Ma ciascuno di noi sa che la propria
esperienza è altra cosa rispetto a ciò che
tutti sanno.
Il significato originario della parola
esperienza, proveniendo dal sostantivo
latino experientia, a sua volta derivato da
experiens, participio presente del verbo
experiri, indica al tempo stesso un «venire
da»
e
«un
passare
attraverso»:
esperienza è, pertanto, sia ciò da cui la
persona proviene, sia ciò che la persona
attraversa.
Comunque sia intesa, essa rimanda al
senso di un vissuto e di un sapere «situato
e parziale», che appartiene alla persona e
la caratterizza nella sua singolarità:
«Quello che so io ha un tono particolare: è
ciò che sperimento “in prima persona”. Può
anche essere “ovvio”, ma, poiché è ciò che io
so perché lo vivo io, non è esattamente “quel
che sanno tutti”. (…) in entrambi i casi si
tratta di un’organizzazione dei vissuti. Ma
laddove il senso comune li organizza
enfatizzando
l’accordo
intersoggettivo,
sviluppando un atteggiamento che dà per
scontato il riconoscimento, e riportando il
nuovo ogni volta al già noto, l’esperienza
tende a sottolineare la specificità di ciò che il
soggetto attraversa, a non dare tutto per
scontato, ed è tipicamente aperta al dubbio»
(1).
(1) P. Jedlowski, (1994), op. cit., pp. 63-64.
La radice dell’esperienza sta, infatti, nel
dubbio o, per meglio dire, in una domanda
di senso che il soggetto pone a se stesso,
dunque nell’ascolto della propria presenza
nel mondo, nel «prendere atto di ciò che
viviamo e farcene responsabili» (1).
La complessità di questo concetto sta
proprio nel fatto che «esperienza è… sia
ciò che si vive (solo in parte
consapevolmente),
sia
il
processo
attraverso cui il soggetto si appropria del
“vissuto” e lo sintetizza» (2):
(1) P. Jedlowski, (1994), op. cit., p. 11.
(2) Ivi, p. 69.
«L’esperienza è ciò che ciascuno vive e
conosce, ma è anche il processo
attraverso cui il soggetto diviene
consapevole di sé. Questa duplicità rende
conto del suo carattere paradossale:
perché l’esperienza è qualcosa che si fa
sempre, e contemporaneamente qualcosa
che si può non avere mai» (1).
(1) P. Jedlowski, (1994), op. cit., p. 13.
Il concetto di esperienza ha una storia
piuttosto articolata.
Limitandoci a considerare la storia più
recente, un primo passaggio epocale può
essere individuato nel concetto moderno
di «scienza», con il quale intendiamo «il
binomio scienza-tecnologia, cioè l’unione
inscindibile e necessitata tra funzione
conoscitiva e funzione tecnologica della
scienza» (1).
(1) Greco G., (1995), “Sulla costruzione di un’alternativa in ambito scientificotcnologico”, in D. Barazzetti, C. Leccardi (a cura di), Fare e pensare. Donne, lavoro,
tecnologie, Rosenberg & Sellier, Torino, p. 180.
Il processo che ha dato vita all’ideale
scientifico moderno è il risultato di una
visione del mondo in cui si esprime «la
continuità di un progetto di dominio sulla
natura che, a partire dall’epoca moderna,
ha ispirato la corsa alla tecnologia come
impresa capace di ri-creare il mondo,
dando vita, nel contempo, ad un processo
di reciproca legittimazione tra scienza e
tecnologia che, dalla modernità in poi, si
sono autorappresentate insieme come
conoscenza certa e fattualmente utile» (1).
(1) Greco G., (1995), op. cit., p. 177.
Con
l’avvento
della
scienza
moderna,
l’esperienza
diventa
esercizio
metodico
dell’osservazione, ovvero esperimento, e da
questa trasformazione prende forma un nuovo
ideale di conoscenza: la conoscenza cui la
scienza mira è una conoscenza razionale; in
quanto
tale,
deve
essere
verificabile
intersoggettivamente, «indipendentemente dalle
disposizioni soggettive, dai “pregiudizi” e dalle
“passioni” di ciascuno, e anche dalle
“deformazioni” dovute all’approssimazione dei
sensi.
Questa
conoscenza
si
fonda
sull’“esperienza” nel senso in cui questa sia un
esercizio rigorosamente controllato, ripetibile, e,
per così dire, depurato da ogni tratto soggettivo»
(1).
(1) Jedlowski P., (1994), op. cit., p. 71.
Dalla nascita della scienza moderna fino a
tutta la stagione del positivismo, l’esigenza di
privilegiare la dimensione oggettiva della
conoscenza comporta una progressiva
svalutazione tanto dell’esperienza soggettiva
quanto del senso comune, perché il sapere al
quale mira la scienza non ammette alcuna
vicinanza alla vita concreta delle persone e
delle comunità.
L’esperienza subisce, così, una metamorfosi
e da nozione che rimanda al vissuto
soggettivo, alla pratica dei mestieri e alla vita
quotidiana, si trasforma in metodo di ricerca,
strumento di verifica e capacità di
osservazione sistematica.
Verso la fine dell’Ottocento, prende avvio in
Germania la discussione sul metodo delle
scienze storico-sociali, posto come radicalmente
differente da quello delle scienze fisiche e
naturali.
Nel corso di questa discussione, il concetto di
esperienza subisce un ulteriore slittamento
semantico che sancirà la dissoluzione del
modello precedente, la cui crisi, tanto per le
scienze fisiche quanto per quelle umane,
avviene nel momento in cui alla nozione ingenua
di
«osservazione»
si
sovrappone
la
consapevolezza del ruolo costitutivo del
soggetto in ogni operazione conoscitiva:
I «fatti» non esistono: esistono percezioni che
attribuiscono una forma al reale nel momento
stesso
in
cui
apparentemente
lo
«rispecchiano». Questa consapevolezza
muta nuovamente i caratteri dell’esperienza.
Perché, se è vero che osservare è conoscere
attivamente, allora «fare esperienza» non
può significare registrare dei fatti, ma viene a
intendere un attivo processo di elaborazione
dei dati dei sensi e di organizzazione di forme
e di significati. L’esperienza è ora relazione,
un rapporto tra il soggetto e l’oggetto, la cui
linea di demarcazione reciproca diventa
problematica (1).
(1) Jedlowski P., (1994), op. cit., pp. 72-73.
Il nuovo concetto di esperienza prende forma
nel Romanticismo, e più in particolare
nell’ambito dell’idealismo tedesco (1), dove
esso acquisisce l’idea di un movimento che
s’incarna nella metafora del viaggio, di un
percorso volto alla realizzazione del sé che si
configura come attraversamento di una
biografia:
«Questa non è più – come poteva essere in
seno alle comunità tradizionali – svolgimento
di un destino segnato da ruoli immutabili: è
un cammino, il cui senso è la formazione
dell’individuo in quanto tale» (2).
(1) Hegel G.W.F., (1974), Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze.
(2) Jedlowski P., (1994), op. cit., p. 98.
Per usare le parole di Max Weber (1), nel
passaggio da un mondo del destino a un mondo
della scelta, l’esperienza diventa realizzazione e
scoperta del sé, ovvero un percorso che
corrisponde alle fasi di un processo di
individuazione:
«…il riferimento al concetto di individualità è
cruciale. Di fatto, il soggetto che le società
moderne pongono in essere è “individuo” in un
senso sconosciuto alla massa degli uomini e
delle donne dei mondi tradizionali. Questo
soggetto… è ciò che è capace di realizzare, ed è
chiamato a sviluppare, in un modo mai prima
inteso, il senso della propria unicità, a dispiegare
ciò che ritiene di essere: a farsi» (2).
(1) Weber M., (1980), Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino.
(2) Jedlowski P., (1994), op. cit., p. 99.
Dopo la stagione del Romanticismo,
l’esperienza va i frantumi e si trasforma in
un oggetto perduto: con il progressivo
dissolvimento
dei
mondi
stabili,
relativamente chiusi e culturalmente
omogenei che accompagna il procedere
della modernità, ogni tradizione tende ad
eclissarsi, cresce il contatto con persone
che provengono da mondi diversi, le
relazioni in gran parte anonime e mediate
da istituzioni impersonali assumono un
carattere per lo più funzionale, sfumano
progressivamente
i
contorni
delle
appartenenze e le norme a queste
connesse.
Nel corso del Novecento, prende avvio la
formulazione di un nuovo concetto di
esperienza, che W. Dilthey (1) ha definito
Erlebnis, un termine che allude all’esperienza
vissuta e nel cui nome si decreta la distanza
delle scienze storico-sociali, che si occupano di
produzioni di significato, da quelle fisiche e
naturali, il cui oggetto è costituito da fenomeni
materiali.
Per comprendere appieno il senso e la portata di
questo ulteriore cambiamento di significato, si
può risalire alla differenza, nella lingua tedesca,
tra due termini che, in italiano, si traducono
entrambi con la parola «esperienza», ma che
alludono a due significati profondamente diversi:
(1) Dilthey W., (2004), “‘Erleben’ espressione e comprensione”, in Id., Scritti filosofici
(1905-1911), UTET, Torino.
Il termine Erlebnis, che deriva dal verbo Erleben,
significa «essere in vita (Leben) mentre una
cosa accade»; il termine Erfahrung, che
proviene dal verbo Erfahren, significa invece
«passare attraverso».
(…) Se l’Erlebnis è… un vivido esserci,
l’Erfahrung è un processo che si dilata nel
tempo: un processo in cui la memoria è attiva
come facoltà di connettere diversi vissuti in una
continuità dotata di senso. Questo processo si
realizza in una «maturazione» che può apparire
come una dote – o una «qualità» – della
persona: chi ha «fatto esperienza» in questo
senso ha anche esperienza (1).
(1) Jedlowski P., (1994), op. cit., pp. 81-82.
È interessante osservare che i due termini, oltre a
rimandare a due diverse concezioni di «esperienza»,
non sono coevi: Erfahrung è un termine più antico di
Erlebnis; quest’ultimo risale alla seconda metà
dell’Ottocento, quando si afferma anche il termine
«modernità».
Allo slittamento tra queste due parole corrisponde secondo Walter Benjamin (1) - il venir meno delle
condizioni storiche e sociali che rendevano possibile
pensare all’esperienza come ad un processo di
maturazione nel corso della vita. L’Autore evidenzia,
infatti, un «declino dell’esperienza» (nel senso
dell’Erfahrung), dovuta al fatto che la sua esistenza era
legata alla stabilità di un mondo materiale e simbolico
(quello delle comunità tradizionali) che scompare con
l’avvento della modernità.
(1) Benjamin W., (1962), “Di alcuni motivi in Baudelaire”, in Id., Angelus Novus,
Einaudi, Torino.
La moltiplicazione degli ambiti di vita e
delle sfere di senso fra cui ora si muovono
le persone comporta una relatività dei
costumi, dei valori, delle spiegazioni del
mondo.
Ciò che caratterizza la società moderna è,
infatti, la complessità, il pluralismo, il
mutamento perpetuo.
In questo nuovo scenario:
l’esperienza non può più essere qualcosa
che «si ha», ma soltanto qualcosa che «si
fa», senza sosta (1).
(1) Jedlowski P., (1994), op. cit., p. 92.
Oltre a ciò, la crescente pervasività della
tecnologia che, incorporata in oggetti di uso
quotidiano, ci esonera da gesti, competenze
e sforzi precedentemente richiesti, modifica
profondamente le modalità e il significato
stesso dell’esperienza, per via della frattura efficacemente descritta da Georg Simmel (1)
- tra cultura oggettiva e cultura soggettiva,
ovvero della «dissonanza» prodotta dal fatto
che le cose diventano sempre più «colte» e
le persone sempre meno capaci.
(1) Simmel G., (1957), “Wom Wesen der Kultur”, in Id., Bruckee und Tur, Koehler,
Stuttgart.
Ma
l’aspetto
cruciale
della
profonda
trasformazione che l’esperienza subisce nella
modernità consiste, secondo Simmel, nella sua
«introversione» e «intellettualizzazione».
I ritmi incalzanti e il surplus di stimoli posti dalla
vita moderna esigono lo sviluppo di facoltà
mentali più che corporee: in un mondo dominato
dalla razionalità tecnica dei suoi apparati è più
importante, infatti, essere intelligenti che abili o
forti o sensibili.
Così, mentre il «sentimento» viene meno e si
potenzia
unilateralmrente
l’«intelletto»,
l’esperienza
tende
sempre
più
ad
intellettualizzarsi.
L’accorata denuncia del poeta angloamericano
T.S. Eliot (1) contro la «dissociazione della
sensibilità» che affligge l’uomo moderno
costituisce un esempio emblematico della
perduta capacità di coniugare intelletto e
sentimento.
Tale
concetto,
interpretato
come
una
conseguenza della modernità, allude al tramonto
di una collaborazione armonica tra i sensi, alla
perdita di quella «sensibilità unificata», tipica
delle società premoderne (2).
(1) Eliot T.S., (1921-1932), “The Metaphysical Poets”, in Selected Essay 1917-1932,
Faber & Faber, London.
(2) Greco G., Amor, amor, amor…, (1987), «SE. Scienza Esperienza», 49, pp. 32-33.
Oggi l’esperienza è chiamata in causa dalla
difficoltà di dare per scontato come si debba
vivere. Infatti, quanto più il senso comune
diventa instabile, tanto più cresce l’importanza
dell’esperienza, chiamata incessantemente a
costruire
percorsi
di
senso,
stabilità,
orientamento. Ma all’indebolirsi dell’unicità e
della tenuta del senso comune corrisponde una
difficoltà di costruzione dell’esperienza, due
fenomeni correlati e generati dal fatto che la vita
quotidiana tende sempre più a configurarsi
come un caleidoscopio: «Sia nel senso che
appare costituita da frammenti difformi e
apparentemente slegati; sia in quello per cui la
nostra prospettiva può mutare a ogni istante,
generando così configurazioni di senso diverse»
(1).
(1) Jedlowski P., (2005), op. cit., p. 46.
L’avvento, lo sviluppo e la crescente pervasività
dei media comportano una dilatazione degli
eventi, delle immagini, dei suoni, delle
informazioni di cui possiamo essere in qualche
modo testimoni.
Essi costituiscono il nuovo ambiente nel quale
viviamo e dal quale prendono forma gran parte
delle nostre esperienze cognitivo-emotive e
socio-relazionali (1).
In questo nuovo contesto, mutano le
caratteristiche
della
vita
quotidiana
e
l’esperienza si fa sempre più mediata.
(1) Greco G., (2004), op. cit.
Nasce, così, una nuova forma di esperienza che
si configura come una esperienza da spettatore,
nella quale:
«… la presenza del corpo, l’interazione con
l’ambiente fisico, il “fare”, sono ridotti ai minimi
termini; al contrario, si ampliano i contenuti di ciò
che veniamo a sapere, che possiamo
immaginare, o al cui suono possiamo “vibrare”.
Sapere, immaginare, vibrare emotivamente
hanno sempre fatto parte dell’esperienza… ma
mai si erano sganciati a questo modo dal fare,
dal rischiare – almeno un po’ – in prima
persona…» (1).
(1) Jedlowski P., (1994), op. cit., pp. 119-120.
Assumendo l’esperienza come un processo di
apprendimento grazie al quale, interpretando ciò
che
attraversiamo,
impariamo
come
comportarci, un processo che non ci lascia mai
identici a noi stessi, ma ci trasforma, la
questione che si pone è se e come possiamo
considerare esperienza quella mediata.
Secondo Daniele Del Giudice (1), la condizione
di
spettatore
indotta
dai
media,
pur
consentendoci di «partecipare» a una quantità di
eventi infinitamente maggiore di quella che
avremmo potuto vivere nella prima metà del
secolo scorso, non può dar luogo ad alcuna
esperienza poiché questa «partecipazione» non
ci modifica.
(1) Del Giudice D., (1992), “Gli oggetti, la letteratura, la memoria”, in A. Borsari (a
cura di), L’esperienza delle cose, Marietti, Genova.
Secondo Jedlowski, invece, l’essere spettatori
non ci lascia immutati poiché i media
influenzano l’attuale conformazione del senso
comune e la stessa costituzione della nostra
esperienza, soprattutto grazie a quel processo di
«compressione
spazio-temporale»
o
di
«sganciamento» dello spazio dal tempo che
consente una simultaneità despazializzata (1),
ovvero una inedita forma di esperienza,
impensabile prima dell’avvento dei media
elettronici.
Se in qualsiasi periodo storico precedente lo
«stesso tempo» implicava «lo stesso posto»,
oggi i media consentono di sperimentare come
simultanei eventi che accadono in luoghi diversi.
(1) Thompson J.B., (1998), Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale
dei media, Il Mulino, Bologna, 1998).
Si tratta di «una parziale de-fisicizzazione
dell’esperienza» e, al tempo stesso, di «un
emanciparsi del senso comune da legami
univoci col territorio»:
«Lo spazio a disposizione dei movimenti di
ognuno pare dilatato e insieme compresso…
le distanze cessano di essere rilevanti,
mentre la percezione della simultaneità di
eventi diversi provoca la sensazione di vivere
tutti
a
stretto
contatto
reciproco.
Appartenenze e identità possono ridefinirsi
sulla base di interessi, valori o immaginari
comuni,
senza
più
corrispondere
necessariamente a spazi fisici condivisi» (1).
(1) Jedlowski P., (2005), op. cit., p. 68-69.
Ciò comporta uno sradicamento dal contesto
originario di determinati elementi della vita
sociale e una loro ricollocazione in contesti
diversi, un doppio processo che produce una
inevitabile modificazione di quegli elementi e
delle loro relazioni con l’insieme:
«In queste condizioni, l’esperienza si trasforma
in un curioso equilibrio fra sentimenti di
presenza e di assenza, fra la percezione di
“essere lì” e di “non essere lì”. E ciò ha effetti
che concretamente trasformano le persone e i
loro orizzonti di azione e di senso. (…)
Ma il punto principale, riguardo all’esperienza, è
forse questo: che i media permettono una
prossimità mediata nei confronti di ciò che
percepiamo grazie a loro» (1).
(1) Jedlowski P., (2005), op. cit., pp. 144-145.
Quest’ultimo concetto si richiama a quello di
«intimità non reciproca a distanza», coniato
da John B. Thompson per descrivere il tipo di
rapporto che intratteniamo con i personaggi
dei media, nessuno dei quali abbiamo mai
incontrato di persona e che, se ci capitasse
d’incontrare, non potrebbe mai riconoscerci,
mentre noi sappiamo molto di lui e con lui
abbiamo un rapporto speciale, anche se
asimmetrico e non reciproco.
I personaggi che incontriamo nei media non
sono persone in carne ed ossa, così come le
situazioni e le emozioni cui partecipiamo non
si svolgono in luoghi e contesti in cui siamo
fisicamente presenti.
(1) Thompson J.B., (1998), op. cit.
Ma - come osserva Jedlowski - nei media
«incontriamo quanto meno noi stessi. E
non è detto che ciò non ci trasformi. In
ogni caso, tra la vita e le sue
rappresentazioni
si
stabilisce
una
circolarità: ciò di cui siamo edotti grazie ai
media è reincastonato nella quotidianità
tanto quanto la quotidianità lo è nei testi
mediali; quello che si instaura è un gioco
di citazioni reciproche che non lascia
nessuno immutato» (1).
(1) Jedlowski P., (2005), op. cit., p.148.
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