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il jihadista della porta accanto

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il jihadista della porta accanto
il jihadista
della porta
accanto
khaled fouad allam
il jihadista
della porta
accanto
Isis, Occidente
Redazione: Edistudio, Milano
ISBN 978-88-566-1049-9
I Edizione 2014
© 2014 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano
www.edizpiemme.it
Anno 2014-2015-2016 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
In memoriam.
A mia madre e mio padre,
che mi hanno insegnato un altro islam.
A tutte le vittime crudelmente assassinate in questa
guerra in nome del jihad.
Premessa
Non abbiamo ancora compreso la gravità dell’odierna
situazione mondiale dopo la proclamazione di un nuovo
califfato nel cuore del Medio Oriente. Certo, sommersi
come siamo da una crisi economica e sociale senza precedenti, il Vicino Oriente non pare così vicino e le guerre
dell’islam, o che si perpetrano in nome dell’islam, sembrano appartenere a un racconto che si pensava chiuso
nei nostri libri scolastici di storia: invasioni barbariche,
guerre di religione, crociate e così via.
Questi jihadisti sembrano uscire dai racconti della letteratura fantastica, da alcuni manga che sacralizzano la
violenza, la lotta, o dai fumetti DC Comics, dove i cattivi lottano per far vincere “il principio del male”… Ma
in realtà le cose sono molto più vicine a noi di quanto
immaginiamo, anzi ogni giorno impariamo che possono
vivere nei nostri quartieri, coabitare con noi e avere
un’esistenza normale: sono nel cuore delle nostre società, dal Mediterraneo all’Atlantico.
Così, molti ragazzi e ragazze, figli della generazione
digitale, che hanno una dimestichezza eccezionale con
tutti gli strumenti della comunicazione elettronica e che
sono maestri dei social network, navigano in internet,
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come bambini che giocano ai videogame, con la differenza che i primi vanno sul fronte di guerra pronti a
morire e a far morire gli altri, formando un esercito invisibile. Sono cittadini dei nostri paesi – Italia, Francia,
Svizzera, Germania, Belgio, Stati Uniti, stati dei Balcani e, ovviamente, paesi arabi –, sono musulmani di
seconda o terza generazione, alcuni sono dei convertiti,
e per loro il jihad appare come un nuovo mondo. Non
gridano, come durante la Guerra di Spagna, che opponeva comunisti a franchisti, negli anni Trenta, «Viva la
muerte», ma scandiscono «Dio è grande» («Allah hu akbar»). Sono dunque cittadini stessi dei nostri paesi che
formano quest’esercito e qualcosa in loro li spinge verso
forme di guerra inedite, di un nuovo tipo, dove la barbarie
coabita con le più sofisticate tecnologie comunicative e
la propaganda mescola internet con il sangue. Vivono in
un doppio mondo, pieno di interstizi, in cui le domande
abbondano perché ci riesce difficile trovare una logica
a tutto questo e la storia veste le sembianze di un caos
mondiale. La situazione e il fenomeno che l’accompagna risultano di un’estrema complessità. Certo, si tratta
di una storia che è anche il prodotto di flussi e riflussi
della storia del Novecento: colonizzazione e decolonizzazione, fine dell’Impero ottomano, nel 1922 e nel 1924,
con la nascita di nuovi stati nazionali in Medio Oriente,
che poi sono risultati estremamente fragili. Il jihadismo
si è inserito dentro questa storia e la esaspera fino a inventare o reinventare un califfato, uno Stato islamico,
sulle rovine della storia del Novecento.
Sale un brivido freddo, un’enorme paura quando, sugli schermi dei nostri televisori, o guardando Youtube
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o i social network sui nostri computer o smartphone, la
comunicazione elettronica, con la quasi perfetta regia
della messa a morte, ci mostra un uomo vestito di nero,
esattamente il colore della bandiera del califfato, che
brandisce la lama del coltello pronto a mettere fine a una
vita, facendoci ripiombare, in quell’istante, nel buio più
profondo della storia. Un vero cortocircuito s’instaura
fra ciò che avevamo imparato nei nostri libri, a scuola,
e questa tremenda realtà.
Allora ci accorgiamo che tutto questo non è invisibile, che ciò che vediamo va oltre la semplice realtà, a
tal punto che un sentimento confuso ci fa barcollare fra
l’incubo e il significato crudele insito in questa guerra.
Inoltre, non abbiamo ancora realizzato che la proclamazione di questo califfato, avvenuta qualche mese fa, va
ben al di là di una semplice comunicazione politica, di
propaganda. Certo, il califfato non è riconosciuto dalla
comunità internazionale e, inizialmente, gli stessi paesi
arabi non hanno fatto molta attenzione a ciò che stava
succedendo. Anzi, lo hanno quasi sottovalutato pensando
che si trattasse del solito proclama di un gruppo fondamentalista come i tanti a cui si è assistito in diversi paesi
islamici negli anni passati: ad esempio, Algeria, Afghanistan, Somalia e, più di recente, anche Libia, Nigeria, ecc.
Si può già affermare che l’isis è riuscito ad aggregare
numerose fazioni del radicalismo islamico che erano
antagoniste tra loro. È di poche settimane fa la notizia
di gruppi legati ad Al Qaeda come, ad esempio, Aqmi
o le tribù beduine del deserto del Negev e del Sinai che
hanno prestato giuramento di fedeltà al califfo, mettendo
lo stato d’Israele in situazione di crescente allarme.
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Dal punto di vista politico, si tratta di un passaggio di
notevole importanza, che abbiamo sottovalutato: l’isis
è riuscito laddove gli altri gruppi fondamentalisti e del
radicalismo islamico, per anni e anni, non erano riusciti, vale a dire a trasformare il radicalismo islamico in
un’istituzione, il califfato, creando così uno stretto rapporto tra territorialità e identità: califfo e califfato. Non
è dunque un caso che nella loro comunicazione politica utilizzino spesso l’espressione “Stato islamico” (in
arabo al-Dawlah).
La proclamazione del califfo e il successivo giuramento di fedeltà vanno di pari passo con l’istituzione del
califfato e la sua reperibilità territoriale, anche se non
definitiva e in estensione (salvo lo scontro che l’Occidente ha ingaggiato per frenare o per eliminare l’isis).
Si può notare l’uso simbolico che fa l’isis del richiamo
al califfato delle origini, vale a dire dei primi momenti
dell’islam, quando, alla morte del profeta Muhammad,
nel 632, Abu Bakr, fedele compagno del Profeta, fu
eletto primo califfo dell’islam. La bandiera dello Stato
islamico, su fondo nero, che è il colore anche del suo
esercito, riproduce la testimonianza di fede, la shahada,
che recita: «Non esiste nessun Dio al di fuori di Dio e
Muhammad è il suo messaggero». Il tipo di scrittura si
rifà allo stile kufico, uno stile calligrafico dei primi secoli dell’islam, estremamente sobrio: questo segmento
dell’islam politico ha come modello la nozione di salafismo, come ricerca della purezza originale. Inizialmente, per “salafiti” si intendevano i primi pii, i primi
puri che hanno vissuto l’esperienza profetica della comunità di Medina, durata dieci anni, tra il 622 e il 632.
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Esiste dunque questa sublimazione di una purezza originale e questa visione quasi mitica non può che fare
tabula rasa di tutto ciò che è la storia della modernità e
delle sue conquiste in Occidente e non solo1.
Confrontarsi con questo dato sarà dunque estremamente lungo e difficile perché il contesto non è più quello
del deserto arabo, quello del famoso colonnello Lawrence d’Arabia e del generale Allenby, anche se nei video
degli jihadisti lo sfondo è sempre il deserto, dove non
appare nessun’altra realtà, come se un micidiale vento
fosse arrivato spazzando via tutto per poter ricostruire e
reinventare ciò che loro vogliono fare: il califfato.
Il contesto di oggi è quello di un islam mondializzato, di un islam global2 che trascende le vecchie frontiere geografiche e che distrugge, spezzandolo, l’antico
rapporto fra territorialità e identità, annunciando la fine
delle nazioni. Quando l’isis parla di un califfato mondiale, significa che il mondo intero, poco a poco, dovrà
essere sottomesso all’islam. Si capisce così che questa
volontà egemonica è una premessa per una nuova forma
di totalitarismo, di un totalitarismo di terzo tipo, proprio perché si muove nella globalizzazione. Di fronte
a tutto ciò, un certo pessimismo tende a prendere il sopravvento e un clima di sfiducia ci accompagna dinanzi
all’ampiezza del problema che, come ho sottolineato, va
oltre le frontiere. Dovremo abituarci a superare tutto ciò
1 È esistito nel mondo arabo un movimento moderno, nella seconda metà
dell’Ottocento, che si chiamava Nahda (“Rinascita”), in cui arabi cristiani e arabi
musulmani collaboravano per un nuovo sviluppo della loro società. Si vedano, ad
esempio, i lavori di Mohamed Arkun.
2 Roy O., Global muslim: le radici occidentali del nuovo islam, Feltrinelli, Milano 2003. Vedi anche Allam K.F., L’islam globale, Rizzoli, Milano 2002.
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e a insistere su un autentico dialogo con quell’islam che
pensa ancora possibile una propria via alla modernità:
che essere musulmano non risulti incompatibile con la
condivisione dei valori della democrazia e del progresso.
Certo, tutto questo spesso ci sembra utopico, soprattutto
oggi che viviamo l’epoca meno propensa al dialogo con
l’altro, in cui le diffidenze crescono e, come molti sondaggi affermano, l’opinione pubblica europea3 a proposito di islam e immigrazione oscilla tra lo scetticismo e il
rifiuto, e così è facile arrendersi al pessimismo e all’impotenza. Per certi versi, le decisioni o le non decisioni
politiche di questi ultimi anni riguardanti le “primavere
arabe” hanno accentuato l’implosione, in alcuni contesti: oltre alla Siria, la Libia è un esempio quasi perfetto,
quasi un caso di scuola.
Io stesso avevo scritto sul quotidiano «Il Sole 24 Ore»,
all’inizio della primavera araba libica, che la Libia poteva diventare una nuova Somalia: purtroppo la storia
di questi ultimi mesi mi ha dato ragione.
Dinanzi a questa deflagrazione generalizzata, i musulmani sono spesso criticati, messi sul banco degli accusati per la loro quasi assenza di presa di posizione
corale di fronte alla propria storia: il passaggio dalla colpevolezza individuale a quella collettiva sembra quasi
avvenire naturalmente.
3 Si veda il sondaggio di tns Sofres, pubblicato da «Le Monde» nel gennaio
2010, sull’integrazione dei musulmani in Francia e Germania in Allam K.F.,
L’islam spiegato ai leghisti, Piemme, Milano 2011. Si veda anche la recente polemica in Francia fra il giornalista Claude Askolovitch e il filosofo Alain Finkielkraut relativa alla discriminazione della popolazione musulmana in Francia e
all’interpretazione dell’islam relativa alla violenza. Cfr. Askolovitch C., Nos malaimés. Ces musulmans dont la France ne veut pas, Grasset, Paris 2013 e Finkielkraut A., L’identité malheureuse, Stock, Paris 2013.
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Come mai, ad esempio, pochi mesi fa, essi si sono radunati a migliaia in piazza Tahrir al Cairo, nel Bahrein o
nello Yemen a sfidare il loro “principe” mentre dinanzi
all’esecuzione plana un silenzio preoccupante? Certo,
li domina anche la paura. Mentre scrivo cominciano le
prime prese di distanza e le contestazioni da parte di
gruppi di giovani musulmani che rifiutano il jihadismo
con la campagna su Twitter Not in my name. Inoltre, il
rettore della moschea di Parigi, l’imam Dalil Boubakeur,
ha dichiarato che «i boia dell’isis andranno all’inferno»,
esprimendo cordoglio per le vittime dei carnefici.
L’editorialista Gad Lerner, in un suo recente articolo
sul quotidiano «La Repubblica», l’ha ribadito4. Non contesto, tuttavia non si può passare sotto silenzio che, come
ho già affermato più di una volta, esistono dei musulmani che si oppongono a tutto ciò e che si battono per
una via democratica all’islam. L’Europa, l’Occidente in
generale, tuttavia non li ha mai aiutati veramente, non
li ha mai valorizzati e allora questi musulmani chiamati
“moderati” sono fra i più esposti al pericolo.
Non possiamo parlare di integrazione se continuiamo
a chiudere in gabbie “etniche” queste popolazioni. Il risultato è che i ragazzi e le ragazze di oggi non hanno in
loro eroi positivi, perché sono sottorappresentati come
classe dirigente, nell’università, nel mondo giornalistico, nella ricerca, nelle arti e nei mestieri, ecc. I loro
“eroi” sono negativi, navigano in internet perché nella
realtà c’è il vuoto. È impressionante il dato rilevato dagli
analisti del web secondo cui, dopo la prima esecuzione,
4 Lerner G., L’ideologia jihadista e l’“album di famiglia” degli islamici, «La
Repubblica», 15/09/2014.
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quella del reporter americano James Foley, ci sono state
circa 27.000 condivisioni su Twitter che esprimevano
un qualche giudizio di approvazione. Un immenso lavoro collettivo va fatto per l’integrazione, per il dialogo
delle culture e dei popoli. In questo secolo appena iniziato si mescolano la globalizzazione, il Mediterraneo
e le nuove cittadinanze, ponendo una domanda: come
vivere insieme?
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