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IL SACRO CHIODO - Duomo di Milano

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IL SACRO CHIODO - Duomo di Milano
MARCO NAVONI
IL SACRO CHIODO
DAL 20 MARZO 1461 AI GIORNI NOSTRI
1. 20 MARZO 1461: LA TRASLAZIONE IN DUOMO
Prendiamo le mosse da quel 20 marzo 1461, quando il Santo Chiodo, fino ad
allora conservato nella basilica estiva di Santa Tecla (ormai in via di demolizione) fu solennemente traslato nell’attuale Duomo, che stava sorgendo sempre
più grande e maestoso sul luogo della basilica invernale di Santa Maria
Maggiore.
È lecito chiedersi dove sia stato collocato il Santo Chiodo nel nuovo Duomo.
Senz’altro non nella collocazione attuale, visto che fervevano ancora i lavori per
la costruzione del tiburio: al concorso partecipò anche Leonardo che ci ha
lasciato nel Codice Atlantico alcuni disegni con le sue proposte per il tiburio del
Duomo, databili tra il 1487 e il 1490; e sappiamo che solo nel 1500 i lavori
sostanzialmente si potranno dire finiti, sotto la direzione dell’architetto Giovanni
Antonio Amadeo.
Quando dunque la reliquia fu collocata nel tabernacolo sotto la volta interna
del tiburio del Duomo, a più di quaranta metri dal piano della cattedrale, in
posizione eminente e inaccessibile, è difficile da determinare. Dobbiamo
supporre dopo la conclusione dei lavori del tiburio, e quindi nel XVI secolo.
2. AI GIORNI DI SAN CARLO BORROMEO
Notizie più sicure e documentate ci provengono dai biografi di san Carlo.
È il Borromeo infatti che in occasione della peste del 1576 decide di portare
per le strade di Milano la preziosa reliquia del Santo Chiodo, per impetrare dal
Signore la fine del flagello. Ebbene, Antonio Seneca, vicario generale di san Carlo,
testimonia che da venticinque anni essa non veniva più esposta alla venerazione
dei fedeli, a tal punto che – ci dice Giovanni Pietro Giussani, uno dei primi
biografi del santo – molti milanesi ne ignoravano persino l’esistenza.
Da queste prime notizie possiamo ricavare che vi era stata nel passato recente
(si parla di un quarto di secolo prima, ed è ovviamente un lasso cronologico da
prendere in senso elastico) una prassi di esposizione del Santo Chiodo alla
venerazione dei fedeli; il che lascia presupporre che la reliquia fosse accessibile
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e prelevabile. Di fatto questa prassi rituale di esposizione si interrompe e
provoca una specie di “rimozione” dalla memoria popolare dell’esistenza stessa
di questa importante e significativa reliquia della passione di Cristo. Possiamo
dunque supporre che sia stato proprio il collocamento del Santo Chiodo nel
tabernacolo eminente, elevato e inaccessibile sotto la volta del Duomo a
interrompere da circa venticinque anni a datare dalla peste del 1576 la sua
esposizione al culto pubblico e di conseguenza a far scendere progressivamente
l’oblio addirittura sulla sua stessa esistenza.
Ma torniamo a san Carlo. La reliquia del Santo Chiodo, la cui memoria si era
appannata negli ultimi tempi, diventa invece “ingrediente” fondamentale di
quella che potremmo definire la pastorale “penitenziale” di san Carlo,
perfettamente integrata con la sua spiritualità personale, una spiritualità
incentrata sul crocifisso, sulla passione di Cristo, sull’espiazione dei peccati
attraverso la penitenza, sulla contemplazione del mistero del Calvario.
E già abbiamo anticipato che il contesto storico per il rilancio del culto al
Santo Chiodo è il contesto tragico della peste del 1575/77, evento riletto da san
Carlo, secondo la spiritualità del tempo, come un appello divino alla conversione
dai peccati e alla penitenza: di qui l’intuizione del Borromeo di riportare il Santo
Chiodo fisicamente e spiritualmente presente nella vita religiosa di Milano.
Una nota degli Annali della Fabbrica del 1576 registra che per la prima volta il
Santo Chiodo fu fatto “discendere” dal suo tabernacolo. Si noti: “per la prima
volta”! Anche questo particolare ci autorizza a pensare che le esposizioni al culto
della reliquia di circa venticinque anni prima di cui parla il vicario generale
Seneca fossero possibili proprio perché il Santo Chiodo non era ancora stato
collocato nel suo inaccessibile tabernacolo.
Ma come fu fatto scendere quella “prima volta” nel 1576?
Il biografo Giussani ci informa che san Carlo aveva ordinato che fosse
costruita una apposita macchina, che dovette apparire come una novità per quei
tempi (novi operis machinam elaborari iussit) e che essa aveva l’aspetto di una
nuvola splendente (splendidae nubis species). Tale “marchingegno” fu fatto
scendere dalla sommità del tiburio del Duomo con appositi congegni muniti di
funi (technis funibusque aptis compositis).
Abbiamo, in succinte parole, una delle prime descrizioni del rito della Nivola,
che sarebbe poi diventato tradizionale e tra i più curiosi e suggestivi tra le
tradizioni rituali del Duomo, fino ai nostri giorni.
Tra l’altro si è favoleggiato talvolta anche sul nome di Leonardo come
inventore della Nivola, forse perché partecipò di fatto al concorso per la
costruzione del tiburio del Duomo, e anche perché ci fu un momento in cui
attribuire a Leonardo determinate macchine automaticamente li nobilitava,
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dando a essi una firma autorevole di prestigiosa di paternità. La nota degli
Annali della Fabbrica dove si parla di una “prima volta” in riferimento al 1576 e
le parole del Giussani che parlano esplicitamente di una “committenza” diretta
da parte di san Carlo, che diede ordine di costruire quel nuovo tipo di macchina
ci pare possano risolvere alla radice il problema.
Anche Carlo Bascapè, altro importante biografo di san Carlo, suo segretario e
poi vescovo di Novara, parla del rito di prelevamento del Santo Chiodo; ma – a
differenza del Giussani – ne parla due volte, e in maniera diversa.
Ne parla una prima volta in occasione della processione del 6 ottobre 1576,
nel pieno della pestilenza: processione che dal Duomo terminò alla Chiesa di
Santa Maria dei Miracoli presso San Celso (nell’attuale corso Italia). Il Bascapè
dice che, in tale occasione, il chiodo fu prelevato dal suo tabernacolo da alcuni
sacerdoti (sacri homines) sollevati in alto da macchine (machinis in sublime
tracti). Ma non descrive tali machinae: la notizia dunque resta molto generica.
Descrive invece con precisione la processione penitenziale: il chiodo fu inserito
in una grande croce e la processione si svolse, nonostante le perplessità delle
autorità spagnole spaventate dalla possibilità che il contagio si acuisse, con una
imponete partecipazione di popolo.
Sta di fatto che il contagio, invece di
acuirsi, cominciò a diminuire, e la
cosa fu riletta “agiograficamente”
come un effetto miracoloso della
processione del Santo Chiodo. In
ogni caso tale rito deve aver
incontrato l’apprezzamento di tutti,
se san Carlo l’anno dopo non solo
decise di ripeterlo, ma di renderlo un
rito stabile per la vita della
cattedrale e dell’intera città.
Decise che il rito si svolgesse in
occasione della festa dell’Invenzione
della santa Croce (3 maggio), ricorrenza che ricorda il ritrovamento della vera
Croce da parte di sant’Elena, madre di Costantino, fatto di cui sant’Ambrogio è
una fonte interpretativa fondamentale.
Decise che i due poli della processione con il Santo Chiodo fossero il Duomo e
la chiesa di San Sepolcro, dove del resto lui stesso era solito recarsi
frequentemente a pregare nella cosiddetta cripta (in realtà una chiesa ipogea),
presso il simulacro del sepolcro di Cristo.
Decise che in San Sepolcro il Santo Chiodo restasse esposto alla venerazione
dei fedeli per quaranta ore (le tradizionali quaranta ore che si suppone Cristo
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abbia passato nel silenzio del sepolcro tra il momento della deposizione nel
vespro del venerdì santo e la risurrezione all’alba della domenica di pasqua).
Decise che tutta la città fosse coinvolta con “micro processioni” che partivano
dalle varie parrocchie, secondo turni ordinati e prestabiliti, per giungere in San
Sepolcro dove lui era perennemente presente (dice il biografo, forse
esagerando), ad accogliere i pellegrini, a esortarli, a guidarne la preghiera con la
parola e l’esempio.
Ancor oggi, nella chiesa di San Sepolcro si
conserva il grande quadro che veniva esposto
sulla facciata del tempio in occasione
dell’esposizione
del
Santo
Chiodo,
rappresentante la croce con inserita la preziosa
reliquia e i santi Ambrogio e Carlo in adorazione,
con la mole del Duomo sullo sfondo.
Ma è in occasione del 3 maggio 1577, la prima
ostensione “stabile” del Santo Chiodo dopo
quella “eccezionale” dell’anno prima in piena
pestilenza, che il Bascapè ci descrive quelle
machinae usate per prelevare la reliquia dal suo
tabernacolo.
Il biografo attesta che gli ecclesiastici deputati
a prelevare la reliquia vengono sollevati poco a
poco in alto da machinae quae non apparent;
potremmo tradurre: da macchine/congegni che
non risultano invisibili alla gente assiepata in cattedrale. Il riferimento è agli
argani e ai verricelli posti esattamente al di sopra e dietro al tabernacolo del
Santo Chiodo tra la volta interna e il tiburio.
Ciò che invece appare benissimo è il receptaculum, l’abitacolo che accoglie gli
ecclesiastici, il quale è ornatissimo e avvolto da integumenta perlucida; anche
qui potremmo tradurre: da un rivestimento che lascia trasparire la luce, tanto è
vero che il Bascapè ci tiene a precisare che all’interno di tale abitacolo venivano
accesi molti lumi in maniera tale che l’effetto finale fosse quello di vedere una
nube spendidissima sollevarsi in alto e dall’alto discendere con il santo chiodo.
Lucidissimae nubis species!
Sono praticamente le stesse parole che usa anche il Giussani: dunque è
proprio sulla penna dei biografi di san Carlo che qui troviamo la prima, esplicita,
attribuzione a questa ingegnosa macchina delle fattezze di una nube, appunto la
Nivola come sarà poi universalmente e “meneghinamente” conosciuta.
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A differenza però del Giussani che descrive subito la Nivola in occasione della
processione del 1576, il Bascapè – come abbiamo visto – per il 1576 dà
un’informazione molto vaga, parlando genericamente di machinae; descrive
invece la Nivola nei suoi particolari solo in occasione della prima processione
“stabile” del 1577. Verrebbe da pensare che nel 1576, oltretutto in piena
pestilenza, il rito deve essersi svolto in maniera più sobria, che tutti i
meccanismi per il sollevamento di quella che poi sarà chiamata Nivola, erano sì
funzionanti, ma forse non ancora completati, e che la Nivola stessa non avesse
ancora le fattezze di una nube splendidissima, come è invece descritta per il
1577, quando, con la decisione di rendere “stabile” il rito a cadenza annuale,
tutto fu perfezionato, sia dal punto di vista tecnico, sia dal punto di vista
scenografico.
3. AI GIORNI DEL CARD. FEDERICO BORROMEO
In ogni caso quella descritta dal Bascapè (con i
lumi interni, tanto di effetto scenico, quanto
evidentemente pericolosi) non è però la Nivola che
conosciamo noi e che oggi vediamo: l’attuale Nivola
infatti è del 1624, dell’epoca del card. Federico di
manzoniana memoria. Così come la teca di cristallo
e d’argento che conteneva il Santo Chiodo, anch’essa
descritta dal Bascapè, non è la teca attuale, di epoca
posteriore. E anche la croce in legno usata da san
Carlo per le processioni con il Santo Chiodo non è
quella che si usa ancor oggi in Duomo (e che è
rappresentata nel grande quadro di San Sepolcro).
Quella originale (e che possiamo vedere raffigurata
nell’iconografia tradizionale dedicata a san Carlo
con il Santo Chiodo) è conservata nella chiesa
prepositurale di Trezzo d’Adda ed è molto semplice,
quasi modesta, rispetto a quella raffinatamente
intagliata e dorata che si conserva in Duomo.
Una cosa è certa: la devozione al Santo Chiodo, dopo san Carlo, si impose
progressivamente nella vita religiosa e devozionale di Milano. Del Chiodo si
cominciarono subito a fare copie, impreziosite con l’aggiunta di un po’ di
limatura tratta da quello originale. San Carlo stesso ne donò una copia al re di
Spagna Filippo II; una copia fu donata allo stesso Carlo Bascapè ed è conservata
presso la chiesa di San Barnaba, chiesa madre dei padri Barnabiti.
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Il rito stesso della Nivola con la processione alla chiesa di San Sepolcro
diventerà da allora un momento di grande partecipazione religiosa per l’intera
città; i sovrani di passaggio da Milano riterranno un onore portare il Santo
Chiodo dalla Nivola all’altare (come fu concesso al re di Spagna Filippo V e a
Maria Teresa d’Austria).
Ma tale rito, in alcune circostanze storiche, sarà anche occasione di tensione
tra l’autorità ecclesiastica e l’autorità civile, quando, prima con i regolamenti di
Giuseppe II, poi con la Repubblica Cisalpina, infine con lo Stato unitario liberale,
verrà vietata la processione cittadina, che – ricordiamolo – coinvolgeva
dall’epoca di san Carlo tutte le parrocchie della città con le “micro processioni” a
San Sepolcro; la processione con il Santo Chiodo verrà progressivamente
limitata all’interno del solo Duomo, o al massimo con l’uscita, quasi furtiva, sul
sagrato. Anche questo segno evidente che andava inevitabilmente affievolendosi,
per non dire scomparendo, la dimensione liturgico-devozionale di una società
ormai in via di laicizzazione.
4. AI NOSTRI GIORNI
Ma arriviamo finalmente ai nostri giorni. I cardinali Giovanni Battista Montini
e Giovanni Colombo furono i primi a salire personalmente sulla Nivola a
prelevare il Santo Chiodo al posto dei canonici. Potremmo dire che, fino a
quando i meccanismi per sollevare la Nivola furono a trazione umana con argani,
verricelli e corde, vi salivano i canonici; quando vennero meccanizzati e le
sicurezze aumentarono, si cimentarono gli arcivescovi.
Ma tutto si fermò con il 1969, quando – come è noto – il tiburio rischiò di
collassare, i pilastri vennero incamiciati con cemento armato, e iniziarono i
lavori di restauro statico della cattedrale. E il rito della Nivola, in una zona della
cattedrale diventata un grande cantiere in perenne fermento, divenne
impraticabile per quasi vent’anni.
Sennonché nel 1982 il Santo Chiodo, per motivi di sicurezza nel pieno dei
lavori, fu prelevato in maniera fortunosa: il capo cantiere di allora fu imbragato e
sollevato in alto fino al tabernacolo per prelevare in maniera informale la
reliquia. L’allora arciprete del Duomo, mons. Angelo Majo, colse l’occasione di
avere a disposizione, dopo più di dieci anni il Santo Chiodo, per rinnovare
almeno l’esposizione della reliquia alla venerazione dei fedeli durante la
settimana santa, introducendo anche la processione con il Santo Chiodo
all’interno del Duomo nella domenica più vicina al 14 settembre, festa della
Esaltazione della Santa Croce (nel frattempo infatti la riforma liturgica promossa
dal concilio Vaticano II aveva cancellato la festa della Invenzione della Santa
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Croce al 3 maggio – la data che era invece stata scelta da san Carlo –, forse anche
per gli aspetti leggendari che di tale festa erano stati all’origine).
Ma il vero momento di rilancio del culto al Santo Chiodo lo dobbiamo al
cardinale Carlo Maria Martini. Infatti nel 1984 cadeva il quarto centenario della
morte di san Carlo e l’arcivescovo Martini volle marcare tale ricorrenza
rinnovando la devozione al Santo Chiodo a livello diocesano 3e cittadino. Da
Trezzo fu portata in Duomo la croce originale di san Carlo e il Santo Chiodo
pellegrinò per tutta la diocesi, ritornando così all’attenzione dei fedeli
ambrosiani, molti dei quali – proprio come prima di san Carlo – forse ne
ignoravano l’esistenza.
E il venerdì santo 20 aprile 1984 lo stesso cardinal Martini portò in
processione il Santo Chiodo dalla piccola chiesa di San Carlo al Lazzaretto –
nell’attuale Viale Tunisia – fino al Duomo, con la partecipazione corale
dell’intera città e richiamando ai Milanesi i rischi delle pesti morali dell’epoca
moderna.
Due anni dopo, nel 1986, finalmente i lavori di restauro statico e il nuovo
assetto del presbiterio del Duomo erano finalmente terminati. E così il rito della
Nivola da allora riprese regolarmente, collocato nei tre giorni di sabatodomenica-lunedì più vicini al 14 settembre.
Rito indubbiamente scenografico, di grande impatto visivo ed emotivo, che
inserisce anche noi, ambrosiani del XXI secolo, in una lunga e nobile tradizione
della nostra Chiesa milanese.
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