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26 novembre - comunità per minori

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26 novembre - comunità per minori
Comunità per minori
Da:
•Saglietti Marzia, 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma
•Bastianoni P., Taurino A., Le comunità per minori, 2009, Carocci, Roma
1
•
•
•
•
•
Introduzione
Organizzazione delle comunità
Rapporto con le famiglie
Interazioni nelle comunità
Comunità come Ambiente Terapeutico Globale
2
introduzione
Tipologie di strutture
• In base alla normativa attuale si distinguono le
seguenti strutture:
a. comunità educativa
b. comunità di pronta accoglienza
c. comunità familiare
d. comunità alloggio
3
introduzione
Tipologie di strutture
• Comunità educative
– L’azione educativa è svolta da un gruppo di operatori
professionali (sono dei lavoratori); accetta, mediamente sul
territorio nazionale, intorno a 10 ospiti.
• Comunità di pronta accoglienza
– Accolgono minori in situazioni di emergenza, senza un piano
preventivo di accoglienza; permanenza breve (30/40 giorni) per
il tempo necessario a trovare una sistemazione più idonea;
accolgono in genere i MSNA (Minori Stranieri Non
Accompagnati): minorenne non di cittadinanza italiana, che si
trova sul territorio italiano e che non ha presentato domanda di
cittadinanza, senza un adulto che lo assisti o lo rappresenti
(genitori o altri) e che siano legalmente responsabili in base alle
leggi italiane.
4
introduzione
Tipologie di strutture
• Comunità di tipo familiare (o case famiglia)
– Strutture nelle quali l’attività educativa è svolta da due o più
adulti che vivono con i minori presenti, eventualmente
insieme ai propri figli, e che ne assumono la funzione
genitoriale; gli adulti sono, in genere, un uomo ed una donna;
possono svolgere attività professionale esterna e possono
essere aiutati, internamente alla struttura, da professionisti
retribuiti.
• Comunità alloggio
– Strutture che accolgono piccoli gruppi di neomaggiorenni, che
sono sostenuti verso un itinerario di autonomia attraverso
azioni educative che non hanno statutariamente un carattere di
continuità.
5
introduzione
Due caratteristiche comuni
• Tempo definito dell’accoglienza; i minori
possono permanere nella comunità per un
periodo di due anni;
• familiarità nella conduzione degli interventi:
gestione e routine familiare dei tempi e degli
spazi (non deve essere una istituzione totale).
6
introduzione
Familiarità per
• Offrire un clima di cura e protezione per la
promozione dell’identità personale e culturale del
minore;
• offrire sostentamento materiale;
• migliorare le capacità di comportamento e le
competenze sociali;
• aiutare i minorenni e i neomaggiorenni ad uscire dalla
comunità con migliori capacità e supporti (sociali,
economici, ….) per entrare con più sicurezza e
possibilità di successo in una nuova fase o nell’età
adulta.
7
introduzione
Due fasi nel percorso
• Internamente alle comunità per minori si individuano
due fasi riferibili al mantenimento del rapporto con il
contesto di origine:
– fase valutativa nella quale la comunità svolge una
azione di supplenza della famiglia di origine e ne
valuta i rapporti con il minore, eventualmente
proteggendolo;
– fase di affiancamento nella quale, qualora sia stato
individuato un percorso di ricongiungimento, la
comunità opera per far assumere (riassumere) ai
genitori il loro ruolo e le loro relative competenze. 8
introduzione
Requisiti per le comunità
• È ampio il dibattito su come valutare l’operato
delle comunità; a volte si stabiliscono dei criteri
però poi non ci sono strumenti per valutarli; ad
esempio spesso si ritiene indice essenziale una
adeguata formazione degli operatori, però rimane
aperto il problema di riuscire a valutarla.
• Ci sono comunque dei requisiti minimi, a livello
nazionale, che le comunità debbono rispettare
(D.M: 21/05/2001, n. 308):
9
introduzione
Requisiti per le comunità
• Ubicazione in luoghi abitati facilmente raggiungibili con l’uso
di mezzi pubblici, comunque tale da permettere la
partecipazione degli utenti alla vita sociale del territorio e
facilitare le visite agli ospiti delle strutture;
• dotazione di spazi destinati ad attività collettive e di
socializzazione distinti dagli spazi destinati alle camere da
letto, organizzati in modo da garantire l’autonomia
individuale, la fruibilità e la privacy;
• presenza di figure professionali sociali e sanitarie qualificate,
in relazione alle caratteristiche e ai bisogni dell’utenza
ospitata;
• presenza di un coordinatore responsabile della struttura;
10
introduzione
Requisiti per le comunità
• adozione di un registro degli ospiti;
• predisposizione per gli stessi di un progetto educativo
individuale; il progetto deve indicare: gli obiettivi da
raggiungere, i contenuti e le modalità dell’intervento,
il piano delle verifiche;
• organizzazione delle attività nel rispetto dei normali
ritmi di vita degli ospiti (una comunità non è una
istituzione totale);
• adozione, da parte del soggetto gestore, di una Carta
dei servizi sociali, per indicare alla collettività il
servizio che offre.
11
introduzione
Nuove emergenze per le comunità
• Ritorno in comunità di soggetti provenienti da adozioni o affidi
falliti (stimato intorno al 30% dei soggetti attualmente in comunità);
diventano soggetti rifiutati due volte: dalla famiglia di origine e da
quella affidataria/adottiva; per loro lavoro educativo particolarmente
impegnativo;
• presenza di minori stranieri che ha spinto gli educatori a riformularsi
sugli aspetti educativi e anche su quelli di accettazione
interculturale;
• crescente numero di neomaggiorenni fuori famiglia e questo fa
interrogare sull’opportunità di esaurire gli interventi con il
raggiungimento della maggiore età;
• il tasso crescente di accoglienze madre-bambino richiede nuove
competenze educative (ad es. la maternità).
12
organizzazione delle comunità
Comunità di pratica
• “Le comunità per minorenni sono sistemi sociali
organizzati dove le conoscenze, le competenze e le
pratiche sono distribuite fra le persone e le cose nel
tempo e nello spazio”*.
• Tali comunità sono assimilabili alle comunità di pratica
(Wenger E. (1998), Communities of practice. Learning, Meaning and Identity, Cambridge University Press, Cambridge.)
che sono caratterizzate da:
– un’impresa comune: argomento (tema, obiettivo, situazione
lavorativa, ……) che accomuna i membri che partecipano e che
può evolversi;
– un impegno reciproco: che stimola alla condivisione di idee ed
alle interazioni;
– un repertorio condiviso di azioni, linguaggi, pratiche, strumenti
(ideali e materiali).
13
*Saglietti M.,Organizzare le case famiglia, Carocci, 2012
organizzazione delle comunità
Comunità di pratica
• Le comunità di pratica si formano, evolvono, muoiono e,
per essere tali e non semplicemente dei ‘gruppi’, si
organizzano intorno ad un obiettivo comune (impresa
comune); si cementano attraverso continue negoziazioni di
significato, realizzate dagli stessi membri e facilitate dalla
comune volontà di stare insieme, di conoscersi e di vivere
l’esperienza in modo significativo (impegno comune).
• Sono gruppi sociali che mirano alla collaborazione e alla
condivisione e che costruiscono conoscenza in un processo
che vede i loro appartenenti accedere a essa e produrne di
nuova.
14
organizzazione delle comunità
• In definitiva una comunità per minori ha un
obiettivo comune, l’educabilità dei minori, che
realizza attraverso un impegno comune degli
operatori, utilizzando degli “attrezzi” condivisi
(idealità educative, strategie educative,
strumenti, …).
15
organizzazione delle comunità
Preoccupazioni[1]
• Dire che le comunità per minori sono dei sistemi sociali
organizzati non deve destare preoccupazioni;
• non si parla di istituzioni nel senso di istituzioni totali; Goffman
caratterizza le istituzioni totali nel seguente modo:
– “Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono sotto lo stesso
luogo e sotto la stessa, unica autorità. Secondo, ogni fase delle
attività giornaliere si svolge a stretto contatto con un enorme
gruppo di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte
obbligate a fare le medesime cose. Terzo, le diverse fasi delle
attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un
ritmo prestabilito, […] appositamente designato al fine di
adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione.” (Gofmann E., 1961,
Asylums,.….., Doubleday, New York, pag. 35-36, citato in Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci,
pag. 49)
16
organizzazione delle comunità
Preoccupazioni[]
• Non si parla nemmeno di aziende orientate ad
attività economiche dedite agli affari; questo
tentativo spesso sottende la volontà di
delegittimare l’azione educativa messa in atto
dalle comunità; certe volte, tuttavia, questo
tentativo si sposa con una inconsapevole
delegittimazione del proprio lavoro di educatore a
causa di una visione personalistica del fatto
educativo che riconduce tutto ad una relazione
affettiva personale ed esclusiva con il minore.
17
organizzazione delle comunità
Fragilità[1]
Le comunità, comunque, presentano delle fragilità:
• Una inadeguata distribuzione del lavoro: alti
carichi di lavoro, tempi di lavoro e di vita a volte
inconciliabili, orari lunghi, scarsa mobilità,
percorsi di carriera non ben definiti.
• Alto tasso di turn over degli operatori: costo
enorme per la comunità (nuova formazione,
perdita di competenze, frantumazione del gruppo
di lavoro), si genera anche una ricaduta non
positiva sulla riuscita dell’intervento educativo.
18
organizzazione delle comunità
Fragilità[2]
• Rischio di sviluppare la sindrome del burn out: “Il burn out […]
è un processo stressogeno, spesso legato alle persone che si
occupano di aiutare il prossimo nella sfera sociale, psicologica,
etc. Questi sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro
personale e quello della persona aiutata. Se non opportunamente
trattate, queste persone cominciano a sviluppare un lento
processo di ‘logoramento’ o ‘decadenza’ psicofisica dovuta alla
mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo
stress accumulato. Letteralmente burn out significa proprio
‘bruciare fuori’. Dunque è qualcosa d’interiore che esplode
all’esterno e si manifesta. Il burn out è spesso legato alle
difficoltà di realizzare una comunità di pratica in quanto non è
ben chiaro quale sia l’impresa comune e quale l’impegno
comune”
19
http://www.ipasvi.laspezia.net/pubblicazioni/newsletter/burnout.pdf
organizzazione delle comunità
Fragilità[]
• Scarsità di documentazione organizzativa prodotta:
non si rende visibile e accessibile il proprio lavoro,
così ne risente l’inserimento dei novizi (Un novizio
che si avvia ad imparare un mestiere, una professione,
una pratica è in una posizione di "partecipazione
periferica legittimata“ (Wenger), ma la sua posizione
diviene sempre più centrale quanto più l'esperienza e
la partecipazione gli consentono di sviluppare abilità
e conoscenze, cioè competenza (Pellerey).
20
organizzazione delle comunità
La leadership[1]
• Spesso si rimuove la presa di coscienza dell’importanza di una
leadership; spesso sembra che si ignori che esistano meccanismi di
potere, di controllo sociale, di presa di decisioni si pensa che la
leadership possa essere ricondotta ad una operazione che
tacitamente sceglie il leader secondo carisma o fascinazione e
tenendo conto di appartenenza ad identiche fedi ideali;
• altre volte, si ricorre ad una esagerazione della prevalenza di
coordinamento sociale, esageratamente basato su rapporti amicali e
di sostegno reciproco, sul collante di una identica fede ideale che è
espressa dal leader;
• si dimentica che lo scopo ultimo è avere scopi comuni che tendono
alla educazione di minori, e diviene prevalente sperimentare azioni
collettive.
• Invece …..
21
organizzazione delle comunità
La leadership[2]
• esercitare la funzione di coordinamento significa tenere
le redini di ciò che succede all’interno e avviare,
coltivare rapporti con il mondo esterno (sociale,
politico, economico);
• significa saper vivere dentro un sistema complesso per
trarre sostentamento e vita per la comunità;
• occorrono: flessibilità, saper creare un gruppo affiatato,
alimentare l’affiatamento, saper vivere nel tessuto
sociale a contatto con le rete che può garantire la
sopravvivenza, saper operare sul piano educativo per
comprendere le esigenze dei minori.
22
organizzazione delle comunità
La leadership[3]
In definitiva il coordinamento impone:
• la gestione delle risorse umane (assunzioni,
ferie, turnazione, dimissioni del personale, chi
fa cosa, i sistemi di avanzamento della carriera
e di premio, …)
• il sostenere l’organizzazione a livello sociopolitico-economico;
• la gestione della cura e dell’azione educativa.
23
organizzazione delle comunità
La leadership[]
• Il coordinatore (leader) è tutt’altro che una
figura basata sullo spontaneismo e non può
essere delegata ad assemblee familistiche, ma
deve racchiudere in sé consapevolezza,
sicurezza, capacità manageriali e conoscenza
dei processi educativi*; il tutto con una
flessibilità cognitiva ed operativa che permetta
di gestire i complessi sistemi di interazione
interna ed esterna.
24
* in collaborazione con specifiche figure
organizzazione delle comunità
Il volontario e/o il nuovo educatore[1]
• La figura del volontario da inserire nella comunità
offre interessanti spunti di riflessione con l’aiuto
di riferimenti alle comunità di pratica e, in
particolare, alla partecipazione periferica
legittimata (Wenger). Questa analisi può essere
riferita anche alla figura di un educatore che,
inesperto, entra nella comunità (in questo caso si
pensa ad un educatore inesperto nei servizi nelle
comunità e non a un nuovo educatore ‘trasferito’,
che avrebbe solamente da conoscere le abitudini
della nuova ma conosce i ferri del mestiere).
25
organizzazione delle comunità
Il volontario e/o il nuovo educatore[2]
• “Un’identità non è un’idea astratta o un’etichetta,
come un titolo, una categoria etnica o un tratto
personale. È l’esperienza vissuta di appartenere
[…]” (Wenger E. C., 2006, Comunità di pratiche e siatemi sociali di apprendimento, pag. 43-44, citato in
Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, pag. 460).
• “la partecipazione periferica legittimata postula
che un novizio, ovvero un volontario o un nuovo
educatore, occupi inizialmente una posizione
periferica rispetto alle attività della comunità
(siano esse pratiche, materiali o discorsive)
perché immerso in un processo di apprendimento
i cui esiti non possono dirsi certamente scontati.”
(Saglietti M., Organizzare le case famiglia, Carocci, 2012, pag. 60)
26
organizzazione delle comunità
Il volontario e/o il nuovo educatore[3]
• Ovvio che occorre prestare la massima attenzione
all’inserimento di nuove persone nella vita sociale
e lavorativa della comunità e per un buono
sviluppo competenziale del nuovo ma, e
soprattutto, per l’equilibrio dell’intera comunità;
• occorre, quindi, individuare quali possano essere i
luoghi da frequentare inizialmente, le attività da
svolgere e può essere utile o necessario prevedere
degli opportuni passi formativi iniziali.
27
organizzazione delle comunità
Il volontario e/o il nuovo educatore[]
• Al nuovo vanno garantiti tempi per capire
l’orizzonte educativo, il linguaggio, le pratiche, le
modalità di interazione, il modo di interpretare il
mondo interno; in definitiva deve poter capire
quale sia lo stile dello “stare dentro” quella
comunità.
• “Al volontario [o nuovo educatore], vanno
concessi […] spazi pensati che possano tollerare il
suo graduale apprendimento organizzativo, fatto
di prove, errori, ripartenze, piccole conquiste,
acquisizioni, innovazioni.”
(Saglietti M., Organizzare le case famiglia, Carocci,
2012, pag. 65)
28
organizzazione delle comunità
Domande da porsi
•
•
•
•
•
•
•
•
Quali risorse rappresenta il volontario [nuovo educatore] per la mia
comunità/servizio?
Quali problemi?
In quali attività della giornata/del servizio è inserito? Per quali
ragioni?
In quali momenti della giornata? Perché?
Di quali strumenti è dotato il volontario per interpretare la realtà, il
linguaggio, i riti della comunità di pratica?
Quale formazione è offerta al volontario per comprendere meglio che
cosa succede in comunità?
Quali sono gli strumenti offerti per sintonizzarsi sulle pratiche degli
educatori?
Come posso rendere il volontario [nuovo ..] attivamente competente
nella logica di una partecipazione adeguata al suo ruolo e
gradualmente sempre meno periferica?
(Saglietti M., Organizzare le case famiglia, Carocci, 2012, pag. 65)
29
organizzazione delle comunità
• Strumenti, comunque previsti dalla normativa,
idonei per orientare un nuovo verso la vita
nella comunità sono:
– il progetto educativo generale delle comunità;
– il progetto educativo personalizzato;
– il diario di bordo.
Si ribadisce che la valenza degli strumenti sopra indicati non è
solamente riferibile al loro utilizzo da parte dei novizi; sono
documenti espressamente richiesti dalle norme ed esplicitano
le prassi educative vissute nella comunità
30
organizzazione delle comunità
Progetto educativo generale[1]
Nel progetto educativo generale vengono generalmente esplicitate le
modalità:
• di sostegno psico-socio-educativo del minore in collaborazione con la
rete dei servizi territoriali per minori, finalizzato all’inserimento
scolastico, sociale e lavorativo;
• di cura della salute del minore (prevenzione, visite periodiche presso
il medico curante);
• di gestione di particolari momenti di crisi del minore derivati da
difficoltà di adattamento o da situazioni pregresse e/o contingenti;
• di predisposizione della scheda di ingresso del minore;
• di predisposizione della cartella del minore, contenente tutta la
documentazione psicosocio-educativa, giudiziaria e sanitaria del
minore;
31
organizzazione delle comunità
Progetto educativo generale[2]
• di strutturazione e compilazione del diario di bordo dove si
registrerà giornalmente l’attività svolta dai minori ed in
particolare ogni evento significativo ai singoli percorsi di
sostegno e recupero;
• organizzative e realizzative di attività sportive, ricreative,
artistiche e formative, e di incentivazione della partecipazione
del minore a queste;
• di partecipazione a progetti e laboratori, sul territorio, di
orientamento verso l’acquisizione di competenze professionali
per un eventuale avviamento al lavoro;
• di sostegno alla genitorialità, rivolto alle famiglie dei minori
ospitati;
32
organizzazione delle comunità
Progetto educativo generale[]
• di sostegno educativo finalizzato a guidare l’eventuale rientro
del minore in famiglia e nel proprio contesto di appartenenza
nell’imminenza delle dimissioni;
• di sostegno al minore dimesso, attraverso un servizio di
interventi domiciliari;
• di predisposizione di quant'altro occorra per assicurare il
regolare funzionamento della struttura e per le necessità degli
utenti;
vengono anche presentati:
– lo sviluppo della giornata tipo nella comunità e
– la struttura della comunità
un esempio (da conoscere; è possibile rintracciare altro progetto
educativo in sostituzione di questo).
33
organizzazione delle comunità
Progetto educativo personalizzato[1]
• Per ogni accoglienza va creato, aggiornato e condiviso un
PEP contenente obiettivi, modalità di intervento educativo e
anche metodi di verifica (legge 149/2001, D.M. 308/2001,
art. 5).
• Informazioni contenute in un PEP:
1. dati anagrafici,
2. obiettivi del progetto, motivazioni dell’intervento, durata;
3. data e motivazione dell’inserimento nella struttura;
4. composizione familiare;
5. situazione sanitaria;
6. situazione scolastica/lavorativa.
34
organizzazione delle comunità
Progetto educativo personalizzato[]
• Viene compilato dopo un periodo di osservazione;
• ha una struttura dinamica; può essere modificato nel tempo in base
all’evoluzione del minore, ma anche in base a revisioni/sistemazioni
teoriche degli operatori; ciò che si scrive nel PEP è strettamente
connesso con la visione professionale degli operatori; in genere si
scrive a più mani ma, anche quando viene scritto da un solo operatore,
riflette necessariamente la storia di percorsi sociali che si è tradotta in
teorie; inoltre diventa uno strumento per il gruppo;
• è un atto professionale che si realizza nella relazione fra educatori e
minore;
• un PEP diventa uno strumento indispensabile per ciascun nuovo
operatore: attraverso esso entra in contatto con la comunità, con i suoi
trascorsi di teorie e repertori educativi, con le pratiche professionali
degli altri educatori; nel suo percorso dalla periferia verso il centro il
nuovo potrà significativamente giovarsi del PEP.
35
organizzazione delle comunità
Domande da porsi
1.
2.
3.
4.
Quali contenuti sono rilevanti per il PEP?
Che finalità ha all’interno delle mie pratiche quotidiane?
Quali obiettivi?
Chi lo scrive? Attraverso quali fasi? Con quali tempi? Dopo quanto tempo
dall’inserimento del minore?
5. Quali destinatari? È possibile un coinvolgimento del minore e della sua
famiglia?
6. Il PEP rappresenta un documento di sola interazione interna o una risorsa
per la rete (scuola, assistenti sociali, ..)?
7. Quali e quanti aggiornamenti? Ogni quanto tempo? Per quali ragioni?
8. Come e in quale misura condivido il PEI con i miei colleghi? In quali
occasioni/momenti dedicati? Come lo aggiorniamo insieme?
9. Come sono inseriti elementi per la valutazione del cambiamento del
minore?
10. Quali azioni educative e organizzative apporto per ogni PEP e come
strutturo il lavoro mio e dei miei colleghi?
36
(Saglietti M., Organizzare le case famiglia, Carocci, 2012, pag. 70-71)
organizzazione delle comunità
Diario di bordo
• Diario dove si registrerà giornalmente l’attività svolta
dai minori ed in particolare ogni evento significativo ai
singoli percorsi di sostegno e recupero;
• gli operatori vi verbalizzano quotidianamente i fatti
accaduti nell’arco della giornata, significativi rispetto al
percorso del minore;
• possiamo definirlo come il passaggio di consegne (in
riferimento ai minori) tra i membri dell’equipe ed allo
stesso tempo l’espressione per i minori di un
interlocutore, quanto più possibile unico, con cui
relazionarsi.
37
organizzazione delle comunità
Agenda degli educatori
• Esiste, in genere, nelle comunità ed
• è uno strumento organizzativo; in esso
vengono annotati gli impegni e le
comunicazioni fra i soggetti della comunità;
• contiene, in genere, messaggi:
– rivolti ad altri educatori;
– rivolti al generico lettore dell’agenda.
38
organizzazione delle comunità
Gli spazi[1]
• Le norme nazionali stabiliscono, in riferimento alla
strutturazione degli spazi, solamente che le strutture debbono
essere facilmente raggiungibili e debbono prevedere spazi di
socializzazione distinti dalle camere;
• comunque le diverse associazioni di comunità hanno stabilito
una serie di norme così riassumibili:
– spazi distinti per équipe educativa, comunità e ragazzi;
– locale adeguato come cucina;
– limite massimo di posti letto per stanza;
– un locale comune accessibile a tutti;
– disponibilità di bagni accessibili ai disabili,
– attrezzature accessibili ai disabili.
39
organizzazione delle comunità
Gli spazi[2]
• In definitiva, si possono distinguere spazi:
– per educatori (sia privati che di lavoro),
– comuni, accessibili sia singolarmente che in gruppo,
– privati per i minori.
• Occorrerebbe rifuggire dalla logica del panopticon,
dove tutto è controllabile; se non esiste uno spazio per
le riunioni degli educatori, queste dove si tengono?
Nella cucina o nella stanza da letto dell’educatrice
(delle educatrici)? Se l’educatore deve rispondere ad
una telefonata su un minore, dove si rifugia in bagno o
nella stanza di una collega (se ad esempio l’educatore
non ‘risiede’ nella comunità)?
40
organizzazione delle comunità
Gli spazi[]
• La mancanza di un luogo privato riservato al
gruppo di lavoro, rivela una mancanza di senso
della natura organizzativa della comunità.
Sembrerebbe che tutto debba essere ricondotto
ad azioni singole, isolate, a responsabilità
educativa personale.
41
organizzazione delle comunità
Domande da porsi
• Nella struttura dove lavoro, gli spazi sono pensati e organizzati
adeguatamente?
• Quali sono e come sono strutturati gli spazi privati per gli
educatori?
• Quali sono e come sono strutturati gli spazi privati dei ragazzi?
• Come sono gestite le chiavi delle stanze?
• Come sono strutturati gli spazi comuni e quali attività rendono
possibili (giochi, cene con ospiti, compiti insieme, …)?
• Quali opzioni per migliorarli nel loro utilizzo pratico?
• Quali innovazioni si possono apportare (nella strumentazione,
nelle decorazioni, nelle proposte di nuove attività) si possono
apportare?
42
comunità e famiglia
Comunità e famiglia
• In campo psicologico, sociologico e pedagogico,
esiste un filone di studio e ricerca che predica che
un significativo legame fra comunità e famiglia
costituisca di per sé una buona possibilità di
successo del processo di evoluzione e della
famiglia e del figlio allontanato.
• Tale buon rapporto non matura spontaneamente
ma occorre mettere in atto opportuni interventi.
43
In questo contesto non si fa riferimento a quelle famiglie che ‘si ritiene’ non siano più adatte a realizzare una prospettiva educativa per il minore)
comunità e famiglia
Comunità e famiglia
• Nella logica enunciata:
– pensare di mantenere dei forti contatti con la famiglia di origine,
significa porsi nella logica di finalizzare l’azione educativa alla
riunificazione familiare (negli Stai Uniti il 57% dei minori rientrano
in famiglia, in Italia il 52%);
– occorre considerare il rientro in famiglia come prodotto finale e
come processo e,
– considerarlo come processo, significa pensare al periodo nella
comunità come un tempo aperto a continue interazioni con i
genitori per riabituarli alla genitorialità (abituarli ad una migliore
genitorialità) e a radicare nel minore la piena appartenenza alla
propria famiglia;
– così facendo si realizza una connessione del ragazzo con la propria
storia ed una costruzione di un maggior senso di identità.
44
comunità e famiglia
Comunità e famiglia
• La comunità non metterà in campo momenti e
strategie di cura rivolte al minore, ma anche alla
famiglia;
• la comunità opera sulla quotidianità, cioè sulla
possibilità di conoscere il minore nella sua vita
quotidiana, di osservarlo, di capirlo; acquisisce
delle informazioni che possono essere narrate al
genitore, restituendo una immagine che
probabilmente è diversa da quella che il genitore
ha costruito.
45
comunità e famiglia
Comunità e famiglia
• Nella sua relazione (professionale) con il minore, sostenuta da
osservazioni, l’educatore assume continue informazioni che lo
aiutano nella costruzione del suo profilo; il genitore, forse
distratto, non ha compreso come suo figlio si comporta in
determinate situazioni, non ha capito e/o non ha conosciuto le sue
conquiste e le modalità per raggiungerle; il racconto
dell’educatore può fornirgli punti di vista differenti, ottiche
nuove, la possibilità di analisi multiple delle situazioni, in
definitiva restituisce una immagine probabilmente nuova per il
genitore; una immagine che può far capire che esistono approcci
relazionali diversi, che può permettere una ricostruzione del
proprio profilo genitoriale.
46
comunità e famiglia
Comunità e famiglia
• Operando in questo modo la famiglia diviene
la protagonista del processo di intervento sul
minore; ciò comporta che anche essa diventi
soggetto da rieducare.
• Comunque esistono, agli estremi, due modelli
che esplicitano il rapporto con la famiglia:
quello sostitutivo e quello coevolutivo
47
comunità e famiglia
Comunità e famiglia
modello sostitutivo
• In questo caso la famiglia è considerata inadeguata e dannosa; l’educatore
“riconosce la significatività delle relazioni familiari per l’utente e
l’influenza che esse esercitano su di lui, ma non considera la famiglia una
risorsa per potenziare gli interventi promossi dagli operatori. Nel modello
della sostituzione, la famiglia diventa infatti un soggetto da contrastare:
l’operatore concepisce infatti il proprio intervento come alternativo o
correttivo rispetto a ogni possibile influenza esercitata dalla famiglia
dell’utente. […] Tale influenza viene contrastata tramite l’inserimento
dell’utente stesso in un ambiente, quello dell’operatore, che invece è
ritenuto adeguato a fornirgli le risorse di cui abbisogna; la richiesta più o
meno esplicita che viene fatta alla famiglia è quella di astenersi dal
prendere iniziative, permettendo così all’operatore di condurre in porto
l’intervento progettato. […] Nel modello della sostituzione, la valutazione
di inadeguatezza della famiglia costituisce una sanzione senza possibilità di
appello” (Fruggeri L., 1997, Famiglie. Dinamiche interpersonali e processi psio-sociali, Carocci, Roma, citato in
Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pag. 128)
Come già detto in precedenza, in questo contesto non si fa riferimento a quelle famiglie che ‘si ritiene’ non siano più adatte a realizzare una 48
prospettiva educativa per il minore)
comunità e famiglia
Domande
49
Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pag. 129
comunità e famiglia
Comunità e famiglia
modello coevolutivo
• In questo modello l’azione educativa ha una dimensione
maggiormente sistemica in quanto include anche il
contesto familiare; questo viene coinvolto fin dall’inizio e
i contatti proseguono durante l’intervento, producono
riprogettazioni in itinere. L’operatore è consapevole che
qualunque suo intervento è familiare, a partire
dall’allontanamento, per proseguire con tutte le attività di
cura dentro alla comunità, per proseguire e concludersi
con gli interventi che tendono a far riacquistare ai genitori
la loro funzione di genitorialità che ha come fine il ritorno
del minore nella sua famiglia di origine, ora ‘rivista’ e
‘aggiornata’.
50
comunità e famiglia
Comunità e famiglia
modello coevolutivo
• In questa prospettiva si sostiene che “qualunque intervento
attuato da un servizio, anche se a favore di una singola
persona, oltre a produrre effetti su di essa avrà implicazioni
sui suoi legami significativi, assumendo così il significato di
evento in grado di influenzare inevitabilmente il nucleo
familiare nel suo complesso. Per evitare che la propria
azione risulti inefficace, se non addirittura dannosa […]
l’operatore deve essere consapevole che non è nella
relazione diadica con l’utente, bensì all’interno di un più
ampio sistema di relazioni, di cui egli è parte costitutiva,
che si costruisce il significato dell’intervento” (Fruggeri L., 1997,
Famiglie. Dinamiche interpersonali e processi psio-sociali, Carocci, Roma, citato in Saglietti M., 2012, Organizzare le case
famiglia, Carocci, Roma, pag 130)
51
comunità e famiglia
Per
impostare
una azione
coevolutiva
52
Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pagg. 130, 131
comunità e famiglia
Per impostare una azione coevolutiva
53
Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pagg. 130, 131
Attenzione
• quelli presentati sono modelli che
rappresentano i due estremi e servono per
indicare entro quali poli si possono sviluppare
gli interventi; hanno un valore didattico.
• Nella realtà, una volta concepito e stilato il
PEP, il percorso si articolerà in modo dinamico
e sicuramente più variegato con momenti che
ricadranno nel continuo fra i due estremi.
54
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
• Secondo la normativa italiana una comunità
per minori deve mettere in campo
“organizzazioni e rapporti interpersonali
analoghi a quelli di una famiglia” (L.
149/2001, art. 2);
• è facilmente intuibile che si mettono in campo
diverse modalità con le quali impostare questi
rapporti.
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interazioni in comunità
Interazioni in comunità
• Agli estremi (ancora!), è possibile individuare due
filoni di analisi:
– modello direttivo (centripeto);
– modello aperto.
• Nel primo caso si fa riferimento ad un sistema rigido
nel quale le interazioni e le azioni educative sono
guidate e lo sono da un adulto, nel secondo caso si fa
riferimento ad un sistema non rigido nel quale vige una
modalità di interazione alla pari, maggiormente
discorsiva, che riconosce i diversi ruoli presenti nel
sistema, che riconosce ruoli di supporto educativo fra
pari (minori).
56
interazioni in comunità
Domande
• Nel mio servizio gli operatori sono in grado di parlare non
solo ai ma anche con i minori?
• Quali spazi di autorialità sono concessi ai ragazzi e per
quali ragioni?
• ………………..
• ……………..
• Come si utilizzano i discorsi, le domande, gli interessi, …
dei ragazzi? Come occasione di discussione collettiva?
• Quali sono i margini per i ragazzi di essere peer educators?
• ……………….
• ……………
• …….
57
Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pagg. 147, 148
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
Modello direttivo
• Facendo riferimento alle interazioni discorsive, il modello ha le
seguenti caratteristiche:
– la modalità degli interventi è da uno a molti;
– l’adulto è al centro dell’interazione, la gestisce, è lui che
comunica ed è a lui che preferibilmente vengono inviati i
messaggi;
– il linguaggio utilizzato non è libero, è fortemente orientato ad
essere interpretato dai membri della comunità ed ha finalità
chiarificatrici (unilaterali); l’adulto usa un linguaggio per
“bambini”;
– le regole di comunicazione son rigide e imposte: non ci si
sovrappone, è l’educatore che dà la parola; sono poco
accettate e sostenute le conversazioni fra pari (vengono fatte
cadere).
58
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
Modello direttivo
• Sono sistemi che ricordano, pur se in maniera
mitigata, le istituzioni totali: le regole sembrano
essere presenti in tutti i contesti; anche gli atti
linguistici tendono a enunciare regole (“no, non si
fa”, “fai questo”, ….); tutto sembra teso ad una
logica panoptistica, di controllo. Le regole
tendono a proteggere il minore, ma anche l’adulto
(di fronte a possibili azioni dei minori che
possano far preoccupare o che possano generare
inconvenienti); tendono ad impedire qualcosa ma
non a rendere il minore capace di evitare
nuovamente lo stesso pericolo.
59
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
Modello direttivo
• Sembra che il mandato sia quello di confezionare un prodotto pronto
per l’uso (forzando l’analisi: forse si prediligono forme future di
affido o di adozione?); si vuole “creare” un individuo rispettoso, non
problematico e non problematizzante, che “senta” l’autorità, che
sappia inserirsi (!!) in situazioni che, si crede, richiedano bambini
educati, rispettosi, ubbidienti?
• Si lavora per nuove appartenenze, non per ricongiungimenti?
• Il modello formativo di riferimento è la trasmissione di
informazioni, dall’adulto esperto al minore.
• Sembra che si modelli il minore affinché sia in grado di entrare in
nuovi incastri; non si tende a ‘formare’ un individuo capace di
gestire se stesso.
60
interazioni in comunità
Domande
Modello direttivo
• Nel nostro servizio sono presenti spesso momenti di interazione con i
bambini nei quali gli operatori utilizzano unicamente un registro
strumentale (“passami l’olio”, “finisci di mangiare”, “fai i compiti”)?
• Come vengono gestite discorsivamente le regole con i ragazzi?
• Come vengono gestite le trasgressioni delle regole da parte dei ragazzi?
• Quanto spesso e in quali situazioni emergono interazioni tipiche delle
situazioni scolastiche, con l’adulto che valuta e il bambino che deve fornire
la ‘risposta giusta’?
• …….
• Quali sono i contesti di discussione più attivi in comunità: a due, fra pari,
…?
• Tali contesti prevedono un adulto che gestisce il flusso discorsivo (dà turni
di parola, assegna ruoli discorsivi, …)?
• Qual è la posizione dell’adulto più frequente e in quali occasioni?
• ………
• …………
61
Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pag. 162
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
Modello aperto
• “per struttura di partecipazione aperta o modello aperto si intende […] un
sistema non rigido che permette l’elaborazione di attività discorsive,
l’assunzione di molteplici ruoli”, in una logica che predilige aperte
interazioni del gruppo di adulti e ragazzi; in riferimento ad interazioni
discorsive si possono individuare le seguenti caratteristiche:
– il parlato è socievole (amichevole) e socializzante;
– l’adulto non dirige sempre la conversazione e la sua posizione non è
sempre al centro, ma anche periferica; quando è al centro è solo per
coordinare;
– la discussione avviene in modo flessibile: da uno a molti, da molti a
molti, da uno a uno, …, in base alle esigenze che emergono;
– le discussioni possono avvenire in contemporanea, in modo integrato o
sviluppate in completa indipendenza.
62
Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pag. 163
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
Modello aperto
• Nella quotidianità, l’educatore non fornisce soluzioni,
ma aiuta a trovarle;
• il nascere di un problema, rappresenta l’occasione per
discuterne: non occorre dare risposte che risolvano e
che veicolano la regola sottesa e la impongono;
occorre argomentare fino a giungere a quella regola,
però attraverso una sua costruzione (ri-costruzione);
• una trasgressione, va discussa, analizzata alla luce
delle conseguenze per far acquisire ai minori
strumenti di autonomia rispetto a situazioni analoghe.
63
interazioni in comunità
Interazioni in comunità
Modello aperto
• Un minore in una comunità è spesso un individuo che
non è riuscito a costruire strumenti di regolazione nella
sua vita quotidiana, allora occorre ricostruirli; il
modello aperto predica uno sviluppo del minore basato
sull’esplorazione, sulla responsabilizzazione, sul
rinforzo continuo di sé nei termini di azioni e di
argomentazione e se tutto ciò non è stato realizzato
nella sua vita precedente, allora occorre prevedere
possibilità di ri-esplorazione, di ri-responsabilizzazione,
di ri-rinforzo nel periodo di vita nella comunità.
64
interazioni in comunità
Domande
modello aperto
• Nel nostro servizio è presente e in che misura il sociable talk
degli adulti, il registro discorsivo per “parlare per parlare”?
• Si parla spesso di cosa succede nel mondo? In quali situazioni?
Chi sollecita tali discorsi?
• ……….
• Sono attive scene interattive in cui i bambini costruiscono
strategie argomentative finalizzate?
• Quanto spesso i bambini parlano fra di loro?
• ………..
• Complessivamente, quanto lavorano gli adulti per costruire la
discussione di gruppo?
65
Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pag. 170
Attenzione
• quelli presentati sono modelli che rappresentano i due
estremi e servono per indicare entro quali poli si
possono sviluppare gli interventi; hanno un valore
didattico.
• Nella realtà ci sono momenti nei quali prevale l’uno ed
altri nei quali emerge l’altro ed esistono momenti che
sono sintesi dei due poli;
• occorrerebbe assumere un atteggiamento flessibile che
possa permettere di praticare azioni che siano il più
possibile a favore di una crescita (ri-crescita) armoniosa
del minore in comunità; che non procurino, cioè,
ulteriori disagi.
66
Comunità come Ambiente Terapeutico
Globale
“l’intervento di comunità residenziale richiede riparazione del passato e
promozione del futuro. Perciò il modello da proporre è la comunità
come ‘luogo’ mentale e sociale, […] dove l’ambiente è protettivo e
riparativo ma non sostituisce tout court l’ambiente di vita e quindi è
terapeutico in quanto garantisce processi di cambiamento personali
senza sradicare e/o separare i processi/percorsi personalizzati dalla rete
relazionale più ampia che contraddistingue la realtà di provenienza del
minore e dalle possibili dimensioni in cui si può configurare la sua vita
futura di adulto. In questa direzione, le condizioni di accoglienza e di
azione che deve mantenere l’educatore non sono più soltanto quelle di
caregiver [(badante)], cioè di colui che svolge funzioni di tutoring e
scaffolding, ma si trasformano in ‘azioni sollecitanti relazioni’, in cui
l’educatore è soprattutto un mediatore relazionale o […] un facilitatore
di rete”
67
Bastianoni P., Taurino A., Introduzione, pagg. 35, 36 in Bastianoni P., Taurino A. (a cura), 2009, Le comunità per minori, Carocci Faber, Roma
Comunità come Ambiente Terapeutico
Globale
•
•
•
La comunità si può configurare come Ambiente Terapeutico Globale (ATG):
“l’idea di Ambiente Terapeutico Globale […] chiarisce che in una comunità per
minori ciò che svolge funzione terapeutica è la vita quotidiana da intendersi
come luogo ‘pensato’ nella sua globalità per realizzare l’intervento riparativo e
terapeutico stesso. In questo senso, ciò che appare come particolarmente
interessante e incisivo, soprattutto in relazione alla tipologia dei problemi
presentati dai bambini e dagli adolescenti deprivati e maltrattati, è il rifiuto
della separazione fra un ‘setting’ a parte deputato all’intervento
psicoterapeutico (ad es., l’ora settimanale nello studio dello psicoterapeuta) e la
vita di ogni giorno all’interno della struttura residenziale.
Il modello proposto […], infatti, tende a realizzare una forte compenetrazione
fra l’interpretazione teorica del disturbo manifesto e la costruzione della
quotidianità, enfatizzando come tutta l’organizzazione del quotidiano nella
struttura residenziale deve essere considerata come parte integrante
dell’intervento riabilitativo e terapeutico”
68
Bastianoni P., Taurino A., Introduzione, pagg. 56 in Bastianoni P., Taurino A. (a cura), 2009, Le comunità per minori, Carocci Faber, Roma
Comunità come Ambiente Terapeutico
Globale
• Una cornice interpretativa teorica del modello ATG può
essere considerata la teoria interattiva-costruzionista dello
sviluppo che predica che ciascuno costruisce la propria
conoscenza e lo fa attraverso la negoziazione con gli altri;
• altri che possono essere adulti che mettono in atto azioni di
supporto (scaffolding) per aiutare coloro (studenti, minori)
che non sarebbero in grado, da soli, di svolgere compiti,
superare difficoltà e acquisire conoscenze e competenze.
• Inizialmente la funzione di scaffolding è delegata agli
adulti, successivamente diventa metodo permanente di
costruzione continua di conoscenza attraverso l’interazione
quotidiana con gli altri, nei contesti familiari, nella scuola,
nei gruppi di pari.
69
Bastianoni P., Taurino A., Introduzione, pagg. 57 in Bastianoni P., Taurino A. (a cura), 2009, Le comunità per minori, Carocci Faber, Roma
Comunità come Ambiente Terapeutico
Globale
• Attraverso questo processo l’individuo acquisisce un insieme di
significati della realtà che lo circonda, che gli forniscono identità e
stabilità. In un minore deprivato e maltrattato queste acquisizioni
non sono avvenute o non sono avvenute completamente e non sono
avvenute liberamente e attraverso negoziazione costruttiva, ma per
costrizione e sottomissione.
• Occorre allora recuperarle, riorganizzarle, per ritrovare fiducia in se
stesso, spontaneità, capacità di interagire, in definitiva occorre
recuperare la propria identità.
• Allora occorre regredire per ricostruirsi. “la regressione rappresenta
la speranza dell’individuo che certi aspetti dell’ambiente che in
origine fallirono possano essere rivissuti e che questa volta
l’ambiente riesca, invece di fallire, nella sua funzione di favorire la
tendenza naturale dell’individuo a svilupparsi e a maturare”
70
Bastianoni P., Taurino A., Introduzione, pagg. 59 in Bastianoni P., Taurino A. (a cura), 2009, Le comunità per minori, Carocci Faber, Roma
Comunità come Ambiente Terapeutico
Globale
• “proprio su questi presupposti si fonda pertanto l’organizzazione
delle comunità residenziali per minori, ossia impostare la struttura
(dagli spazi fisici fino alle attività quotidiane) come parte integrante
dell’intervento terapeutico, con l’obiettivo specifico di riparare i
precoci fallimenti ambientali. Attraverso il concetto di ambiente
terapeutico si focalizza l’attenzione […] sulla regolamentazione
della vita quotidiana per costruire occasioni di supporto alle carenti
funzioni dell’io, all’interno di specifiche relazioni vissute come
emotivamente ‘significative’ insieme ad adulti/altri significativi.
• Nell’ambiente terapeutico tutti i momenti della giornata hanno
rilevanza terapeutica, laddove siano presenti situazioni interattive e
relazionali gestite da adulti, che devono accedere, con il loro stesso
operato quotidiano, alla dimensione della significatività per il
minore in comunità”
71
Bastianoni P., Taurino A., Introduzione, pagg. 59 in Bastianoni P., Taurino A. (a cura), 2009, Le comunità per minori, Carocci Faber, Roma
Comunità come Ambiente Terapeutico
Globale
• In questa complessa operazione di ricostruzione il
minore ha necessità di imbattersi in contesti
stabili che presentano regolarità e protezione (le
routine) e di essere accompagnato da partner con i
quali intessere relazioni che facciano capire i
sentimenti e i comportamenti degli altri e il
funzionamento delle regole sociali e che lo
aiutino ad acquisire competenze in questi ambiti;
queste conquiste possano dare soddisfazione
nell’averle acquisite.
72
Bastianoni P., Taurino A., Introduzione, pagg. 58 in Bastianoni P., Taurino A. (a cura), 2009, Le comunità per minori, Carocci Faber, Roma
Deprivare
• Treccani: il fatto di privare o più propriam.
d’essere privato di qualche cosa, e spec. di
cosa necessaria o a cui si avrebbe diritto: la d.
della soddisfazione dei bisogni essenziali. In
partic., in psicologia, la carenza di condizioni
oggettive e soggettive favorevoli allo sviluppo
psichico del bambino, e il complesso degli
effetti che ne derivano.
73
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