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Diffamazione a mezzo stampa
I D O S S I E R D I Dicembre 2005 T A B L O I D Relazione sulle sentenze emesse dal Tribunale penale di Milano nel biennio 2003-2004 Diffamazione a mezzo stampa E L A N U LE B I TR ENA P A cura di Sabrina Peron ed Emilio Galbiati avvocati in Milano 2 TRIBUNALE PENALE DI MILANO - Diffamazione tramite mass-media. Esaminate 116 sentenze del periodo 2003/2004 Giornalisti alla sbarra: condanne motivate (nella maggior parte dei casi) “per difetto del requisito di verità” La metà dei procedimenti penali instaurati si sono conclusi con una remissione di querela (45,5%) o con una pronunzia di intervenuta prescrizione (4,5%). Nella quasi totalità dei casi (94%) in cui gli imputati sono stati riconosciuti colpevoli sono stati condannati solo al pagamento di una multa (il cui importo massimo comminato è stato di euro 1.500). La condanna alla reclusione è stata disposta solo nel 6% dei casi (nella misura massima di 4 mesi) ed in nessun caso ha trovato applicazione la condanna congiunta a reclusione e multa. Sono stati riconosciuti e liquidati danni morali in misura, in media, pari ad euro 46.721,73 (contro delle richieste risarcitorie, in media, pari ad euro 351.033,42). Con riferimento a questi dati si precisa che la condanna risarcitoria più elevata è stata di euro 295.500,00, resa a favore di 197 parti lese costituitesi collettivamente Milano, 20 novembre 2005. Dopo l’analogo lavoro svolto sulle sentenze emesse in sede civile, nel numero 12/2005 di “Tabloid” verranno pubblicati i risultati della ricerca effettuata, dagli avvocati Sabrina Peron ed Emilio Galbiati, sulle sentenze emesse dal Tribunale di Milano, sezioni penali, nel biennio 2003-2004. Tale ricerca è stata autorizzata dal Presidente del Tribunale di Milano che ha demandato alle competenti Cancellerie il rilascio di copie delle sentenze nel rispetto della normativa in materia di privacy. I dati più significativi emersi con riferimento alle 116 sentenze penali di primo grado emesse nel biennio 2003-2004, sono i seguenti: durata del procedimento: la durata del procedimento penale, dalla data del rinvio a giudizio a quella del deposito della sentenza di primo grado, è in media leggermente inferiore ai due anni (666 giorni). Mentre tra la data di pubblicazione del pezzo incriminato alla data di pubblicazione della sentenza trascorrono in media poco più di quattro anni (1.546 giorni); • tipologia di testata: i procedimenti per diffamazione a mezzo stampa hanno interessato le seguenti tipologie di testate: - quotidiani nazionali 50% - quotidiani locali 7% - settimanali 25% - periodici 9% - reti televisive 8% - agenzie di stampa 1% 3 TRIBUNALE PENALE DI MILANO Diffamazione tramite mass-media. Esaminate 116 sentenze del periodo 2003/2004 • tipologia articoli diffamatori: i più colpiti da querela per diffamazione sono gli articoli di cronaca (nel 46% dei casi) quindi le interviste (31%) e per finire gli articoli di critica (23%); • professione delle parti offese: tra le persone offese sono principalmente emerse le seguenti categorie professionali: - 21% privati - 18% magistrati - 14% amministratori di persone giuridiche - 9% politici • remissione di querela/prescrizione: ben la metà dei procedimenti penali instaurati si sono conclusi con una remissione di querela (45,5%) o con una pronunzia di intervenuta prescrizione (4,5%); • percentuali accoglimento/rigetto: sul rimanente 50% dei casi giunti a dibattimento, il Tribunale ha pronunziato condanna per diffamazione nel 55% dei casi; • scriminanti assenti in caso di condanna: nella maggior parte dei casi la condanna è motivata, in via principale, per difetto del requisito di verità, anche sotto il profilo della putatività (90%), seguono i casi in cui sono risultati predominanti le violazioni del limite della continenza (7%) e la carenza di interesse pubblico (3%); • condanna penale: nella quasi totalità dei casi (94%) gli imputati riconosciuti colpevoli sono stati condannati solo al pagamento di una multa (il cui importo massimo comminato è stato di euro 1.500). La condanna alla reclusione è stata comminata solo nel 6% dei casi (nella 4 misura massima di 4 mesi) ed in nessun caso ha trovato applicazione la condanna congiunta a reclusione e multa; • condanna risarcitoria: in caso di condanna a favore della parte civile costituitasi in giudizio: - sono stati riconosciuti e liquidati danni morali in misura, in media, pari ad euro 46.721,73 (contro delle richieste risarcitorie, in media, pari ad euro 351.033,42). Con riferimento a questi dati si precisa che la condanna risarcitoria più elevata è stata di euro 295.500,00, resa a favore di 197 parti lese costituitesi collettivamente; - la sanzione civile è stata applicata in misura, in media, pari ad euro 7.116,67 (contro delle richieste di condanna, in media, pari ad euro 28.199,75). Anche con riferimento a questi dati si precisa che la condanna sanzionatoria più elevata è stata di euro 20.000,00, resa a favore di 10 parti lese; - la condanna in via provvisionale è stata disposta in misura, in media, pari ad euro 19.060,00 (contro delle richieste di condanna in via provvisionale, in media, pari ad euro 119.425,80) ed anche qui si precisa che la condanna provvisionale più elevata è stata di euro 45.000,00, resa a favore di 3 parti lese. - spese legali: infine, la media liquidata dal Tribunale di Milano a carico della parte soccombente ammonta ad euro 5.781,94. • impugnazione: avverso le sentenze penali è stato proposto appello nel 66% dei casi. 5 1 Il quadro della situazione a) Tempistica Anzitutto abbiamo ritenuto opportuno verificare la durata media del processo di primo grado. Premesso che la data del rinvio a giudizio è stata riportata solo su un campione ristretto di 57 sentenze, è comunque emerso che tra tale data ed il deposito della sentenza di primo grado trascorrono in media meno di 2 anni (e, più precisamente, 666 giorni). Abbiamo ritenuto interessante calcolare anche l’arco temporale medio che intercorre tra la data di pubblicazione del “pezzo” incriminato e quella di deposito della sentenza di primo grado. Si è potuto rilevare che le sentenze di primo grado sono rese disponibili, in media, poco più di 4 anni dopo la pubblicazione o la diffusione della notizia incriminata (e, più precisamente, dopo 1.546 giorni). I procedimenti penali di diffamazione a mezzo stampa nel 90% dei casi hanno riguardato testate giornalistiche. Nei casi residui la fattispecie asseritamente diffamatoria si è realizzata attraverso la diffusione di volantini/affissioni (2%), libri (2%), lettere/relazioni (2%), siti internet (2%), programmi TV non giornalistici (2%). Nell’ambito delle testate giornalistiche sono state interessate diverse tipologie di pubblicazione secondo le seguenti percentuali: • i quotidiani nazionali per il 50% • i quotidiani locali per il 7% • i settimanali per il 25% • i periodici per il 9% • le reti televisive per l’8% • le agenzie di stampa per l’1% b) Testate Percentuali testate / volantini / libri / lettere siti internet / programmi TV testate giornalistiche 90% Tipologia di testate reti televisive 8% agenzie di stampa 1% quotidiani nazionali 50% periodici 9% programmi TV (non giornalistici) 2% libri 2% lettere / relazioni 2% volantini / affissioni 2% siti internet 2% settimanali 25% Percentuali testate Altre testate (1) 20% Telelombardia 1,75% Corriere della Sera 23% Il Giorno 15% Panorama 13,5% Repubblica 1,75% Prima pagina 1,75% Il Mondo 1,75% Cronaca Vera Giornale 1,75% di Vimercate Giornale di Lecco 1,75% 1,75% In particolare, nel biennio 2003-2004, i procedimenti di diffamazione a mezzo stampa hanno riguardato gli articoli diffusi dalle seguenti testate: Corriere della Sera (23%), Il Giorno (15%), Panorama (13,5%), Oggi (3,5%) RAI (2,5%), Gazzetta dello Sport (2,5%), La Stampa (2,5%), Antenna 3 (1,75%), Bergamo Sette (1,75%), Cronaca Vera (1,75%), Giornale di Lecco (1,75%), Giornale di Vimercate (1,75%), Il Mondo (1,75%), L’Unità (1,75%), Oggi 3,5% Rai L’Unità 1,75% quotidiani locali 7% Gazzetta dello Sport 2,5% Antenna 3 1,75% La Stampa 2,5% Bergamo Sette 1,75% Prima pagina (1,75%), Repubblica (1,75%), Telelombardia (1,75%), altre testate con un caso per ciascuna (20%). Di seguito riportiamo i grafici inerenti al numero ed alla percentuale dei procedimenti relativi alle singole testate. Testate 30 (1) Amica; ANSA; Brescia Oggi; Cronaca Proibita; Cuore; Gazzetta di Lecco; Giornale di Brescia; Grand Hotel; Il Giornale; Il Secolo XIX; Il Sole 24 Ore; Italia Oggi; La Provincia di Sondrio; La Voce; La7; Lavaggio Industriale; L’Opera; L’Operese; M.F.; R.T.I.; Terzo Millennio; Tribuna di Treviso; Visto. 26 23 25 20 17 15 15 10 4 5 3 3 3 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 RA de I llo Sp or t La St am pa An te nn Be a rg 3 am o Se Cr tte on ac G a ior Ve na G ra le ior di na L le ec di co Vi m er ca te Il M on do L’U Pr nit im à a Pa gin Re a pu bb lic Te a lel om ba Al rd tre ia te sta te (1 ) O gg i G az ze tta Co rr Se ra Il G io rn o Pa no ra m a 0 c) Professione parte offesa dal reato di diffamazione a mezzo stampa In via preliminare, deve sottolinearsi che la persona offesa dal reato di diffamazione, dopo aver sporto querela, si costituisce parte civile nel relativo processo penale solo nell’80% dei casi. Ciò premesso, la diffamazione a mezzo stampa è un reato che può colpire soggetti appartenenti alle più varie categorie professionali e ciò anche a seconda dei temi di maggior attualità giornalistica in un particolare momento storico. Abbiamo pertanto ritenuto interessante enucleare il dato relativo alle diverse attività professionali delle persone offese: Professione parte offesa 35 32 30 25 29 22 20 15 15 12 10 9 6 6 5 5 0 5 4 4 ) e e e o o to ta re ca to ico (2 ar or at ier tiv lis idi e iva istra trato che olit ilit or dit oc erm ur ca nt p i p pr n i v m s a g e s v d f i e g i d a d a n a pr m min giur /i en sin im on rs dip ico am ne e d o o p e lic rs m bb pe pu Percentuali professione parte offesa privato 21% impiegato 1% magistrato 18% altri (3) 2% amministratore persone giuridiche 14% giornalista 2% artista 2% sportivo 2% imprenditore 2% sindacalista 3% 7 politico 9% militare 3% medico / infermiere 4% avvocato 4% persona giuridica 6% pubblico dipendente (2) 7% 3 3 2 1 1 1 1 o o ta io ta rio at ico ta lic tis lis ita at ar ieg no bb na rs m p r u e o l p iv im gio te dip un en re o s es of pr • 18% magistrati; • 14% amministratori di persone giuridiche; • 9% politici; • 7% pubblici dipendenti (2); • 6% persone giuridiche; • 4% avvocati; • 4% medici / infermieri; • 3% militari; • 3% sindacalisti; • 2% imprenditori; • 2% sportivi; • 2% artisti; • 2% giornalisti; • 1% impiegati; • 2% altri (con un caso ciascuno) (3); • 21% soggetti privati (in cui la fattispecie diffamatoria non ha investito o interessato l’attività professionale). (2) si precisa che, a fini statistici, è stato conteggiato come un’unica parte offesa la situazione giuridica di 197 pubblici dipendenti appartenenti ad una categoria asseritamente diffamata nel suo complesso e che avevano presentato un’unica querela. (3) diplomatico; ente pubblico; notaio; professore universitario. d) Tipologia articoli e/o servizi diffamatori Attraverso l’analisi delle singole fattispecie si è potuta verificare la tipologia degli articoli e/o servizi diffamatori: sul campione di 111 sentenze portanti il riferimento specifico al contenuto del pezzo incriminato, nel 46% dei casi si trattava di cronaca dei fatti, il 23% riguardava espressioni di critica e il 31% concerneva interviste. Percentuali tipologia articoli diffamatori cronaca 46% intervista 31% critica 23% 2 Le richieste del P.M. e della Parte civile a) Le richieste del P.M Meritano di essere specificamente analizzate le richieste processuali avanzate dalla Pubblica Accusa (con riguardo alle istanze di natura penale) e dalla Parte Civile (con riguardo alle domande civili avanzate in sede penale). 8 Va precisato anzitutto che non sempre da parte del P.M. è stata richiesta la condanna degli imputati. Più precisamente, il P.M. ha richiesto la condanna solo nel 34% dei casi giunti a dibattimento; nel restante 66% dei casi il P.M. ha chiesto l’assoluzione dell’imputato (anche nella forma della richiesta di non doversi procedere per intervenuti fatti estintivi del reato quali la remissione di querela o la prescrizione). Con particolare riferimento alla tipologia delle richieste di condanna avanzate dalla Pubblica Accusa si deve ricordare che: • in caso di diffamazione a mezzo stampa, ai sensi dell’art. 595, 3° comma, c.p., è prevista la pena edittale della reclusione da sei mesi a tre anni o, in alternativa, della multa non inferiore a euro 516,46; • qualora la diffamazione a mezzo stampa si realizzi nella attribuzione di un fatto determinato, ai sensi dell’art. 13 L. 08.02.1948, n. 47 (come richiamato anche dall’art. 30 L. 06.08.1990, n. 223, sul sistema radiotelevisivo), si applica la pena aggravata della reclusione da uno a sei anni unitamente alla multa non inferiore a euro 258,23. Inoltre, ai sensi del combinato disposto degli articoli 595 e 57 c.p. possono essere imputati del reato di diffamazione a mezzo stampa non solo Percentuali richieste P.M. assoluzioni 66% condanne 34% l’autore della pubblicazione (ed eventualmente il soggetto che abbia rilasciato un’intervista), ma anche il direttore responsabile che abbia omesso il controllo sulla pubblicazione: quest’ultimo, può essere punito con la pena prevista come sopra, diminuita in misura non eccedente un terzo (v. art. 57 c.p.). Dalla disamina delle richieste di condanna avanzate dal P.M., sono stati ricavati i seguenti dati: - solo nel 10% dei casi il P.M. ha fatto richiesta di condanna congiunta sia alla reclusione sia alla multa; - solo nel 7% dei casi il P.M. ha fatto richiesta di condanna alla sola pena della reclusione; - nell’83% dei casi il P.M. ha fatto richiesta di condanna alla sola pena della multa. Più dettagliatamente, la richiesta di condanna alla reclusione viene avanzata dal P.M. nelle seguenti misure: • 17% dei casi fino a sei mesi; • 83% dei casi da sei mesi a dodici mesi (la richiesta più elevata è stata di condanna a 12 mesi di reclusione); mentre la richiesta di condanna alla multa viene avanzata dal P.M. nei seguenti termini: • 89% fino a euro 1.000,00; • 11% oltre euro 1.000,00 (la richiesta più elevata è stata di condanna alla multa di euro 2.000,00). Percentuali richiesta reclusione P.M. oltre 12 mesi 0% reclusione + multa 10% multa 83% reclusione 7% Percentuali richiesta multa P.M. fino a 6 mesi 17% da 6 a 12 mesi 83% oltre 1.000,00 euro 11% fino a 1.000,00 euro 89% Ciò premesso, deve rimarcarsi il dato relativo alla dialettica processuale, intesa quale rapporto tra le richieste avanzate dalla Pubblica Accusa e le determinazioni adottate dal Tribunale all’esito del procedimento di primo grado. Si è potuto rilevare che il Giudice di primo grado ha integralmente rigettato le richieste del P.M. nel 17% dei casi. Il dato generale è di per sé significativo, ma per apprezzarne la reale portata riteniamo opportuno scorporare i dati specifici relativi a: casi di rigetto integrale di domande di assoluzione degli imputati: 5%; casi di rigetto integrale di domande di condanna degli imputati: 38%. Percentuali rigetto / accoglimento richieste assoluzione P.M. Percentuali rigetto / accoglimento richieste condanna P.M. rigetto 5% accoglimento 62% accoglimento 95% 9 Percentuali tipologia richiesta condanna P.M. rigetto 38% b) Le richieste della Parte civile 10 Il reato di diffamazione comporta, quale evento lesivo, una violazione del diritto costituzionalmente garantito all’onore ed alla reputazione del soggetto diffamato. La persona offesa da reato di diffamazione ha quindi diritto - ai sensi del combinato disposto degli artt. 185 c.p. e 2043, 2059 c.c. - a conseguire il risarcimento dei danni subiti per la lesione al proprio diritto. Inoltre l’art. 186 c.p. prevede (fatto salvo quanto sancito in altre disposizioni di legge, come ad esempio nell’art. 9 L. 08.02.1948, n. 47) che il giudice possa ordinare anche la pubblicazione della sentenza di condanna qualora questa costituisca un mezzo specifico per riparare il danno non patrimoniale cagionato dal reato. Da ultimo ai sensi dell’art. 12 L. 08.02.1948, n. 47, la persona offesa può chiedere, oltre al risarcimento dei danni, una ulteriore somma a titolo di riparazione pecuniaria (c.d. sanzione civile) determinata dal giudice in relazione alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato. Per completezza deve aggiungersi che, ai sensi dell’art. 539 c.p.p., qualora le prove acquisite non consentano la liquidazione del danno, il giudice può pronunciare condanna generica rimettendo le parti innanzi al giudice civile: in tal caso a richiesta della parte civile, il giudice penale può comunque condannare gli imputati al pagamento di una provvisionale, nei limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova. Si noti che, in questo caso, nel successivo giudizio avanti il giudice civile, possono essere convenuti, in solido con l’autore ed il direttore responsabile della pubblicazione, anche il proprietario e l’editore della testata, civilmente responsabili in via solidale ai sensi dell’art. 11 L. 08.02.1948, n.47. Venendo alla disamina delle specifiche richieste processuali avanzate dalla parte civile nelle pronunzie analizzate, è necessario svolgere una premessa di metodo. Va infatti precisato: - che come già in precedenza osservato al paragrafo 3, la persona offesa si costituisce parte civile nell’80% dei casi: pertanto sono state avanzate richieste di condanna civile in sede penale, solo in 93 sentenze su 116; - che in ben 54 casi, a seguito di presumibili accordi extragiudiziali, la parte civile ha provveduto, prima che la causa venisse introdotta in decisione, a rimettere la querela proposta: pertanto solo in 39 casi la parte civile ha presentato le proprie conclusioni risarcitorie; - che infine in 11 casi le richieste della parte civile sono state formalizzate in una nota allegata agli atti, il cui contenuto non è stato però riportato espressamente in sentenza. In definitiva quindi, i dati relativi alle richieste della parte civile sono stati ricavati da un campione di 28 sentenze. Con riguardo al campione di cui sopra può osservarsi quanto segue: • la richiesta di risarcimento dei danni civili è stata avanzata dalla parte civile in tutti i procedimenti esaminati (100%); • le richiesta di condanna alla pubblicazione - a titolo risarcitorio - della sentenza di condanna è stata formulata in 5 casi su 28 (18%); • la sanzione civile è stata domandata in 6 casi su 28 (21%); • la provvisionale è stata richiesta in 20 casi su 28 (71%). Quanto alla tipologia delle richieste di risarcimento dei danni civili, si è potuto rilevare che nel 61% dei casi sono stati lamentati sia danni patrimoniali sia danni morali, nel 7% dei casi solo danni morali, mentre per il restante 32% è stata formulata richiesta di condanna in separata sede civile (in nessun caso è stata richiesta la condanna al risarcimento di soli danni patrimoniali). Percentuali richiesta condanna parte civile solo danni patrimoniali 0% solo danni morali 7% liquidazione in separata sede 32% danni patrimoniali + morali 61% Al di fuori dei casi in cui è stata richiesta la liquidazione dei danni civili in separata sede, abbiamo constatato che le richieste risarcitorie sono state formulate in via equitativa solo nel 4% dei casi ed in misura determinata nel restante 96% dei casi. Percentuali richiesta danni in misura determinata / in via equitativa in via equitativa 4% in misura determinata 96% Infine, laddove le domande sono state formulate in misura determinata, abbiamo potuto calcolare il dato relativo all’entità media delle diverse richieste avanzate dalla parte civile: • media delle richieste di risarcimento danni (morali e patrimoniali) per la parte civile (campione 18 sentenze): euro 351.033,42 (la richiesta più elevata è stata pari a euro 3.000.000,00); • media delle richieste di sanzione civile da liquidarsi a favore della parte civile (campione 4 sentenze): euro 28.199,75 (la richiesta più elevata è stata pari a euro 61.976,00); • media delle richieste di condanna in via di provvisionale per la parte civile (campione 18 sentenze): euro 119.425,80 (la richiesta più elevata è stata pari a euro 551.645,69). 3 Esito del processo Con riferimento all’esito dei procedimenti penali per diffamazione tramite mass-media, il primo dato che abbiamo raccolto riguarda la percentuale di assoluzioni e di condanne nel biennio 2003-2004. Per chiarezza, merita anzitutto di sottolinearsi che il 50% dei giudizi penali oggetto di esame si sono conclusi con una pronunzia in cui il Tribunale ha dato atto di non dover procedere per avvenuta remissione di querela o per intervenuta prescrizione del reato nel corso del processo. In particolare, è avvenuta remissione di querela nel 45,5% dei casi ed è intervenuta prescrizione del reato nel corso del processo nel 4,5% dei casi. Per completezza si aggiunga che in 3 casi (pari statisticamente al 2,5%) il Tribunale ha definito il procedimento pronunziando su questioni di natura meramente processuale. Critica: percentuali assoluzioni / condanne condanne 54% assoluzioni 46% Intervista: percentuali assoluzioni / condanne assoluzioni 57% Con riferimento alle pronunzie (47,5%) vertenti sul merito delle fattispecie al vaglio del Tribunale, si è potuta rilevare una leggera prevalenza delle sentenze di condanna (55%) rispetto a quelle di assoluzione (45%). Percentuali assoluzioni / condanne assoluzioni 45% condanne 43% Abbiamo ritenuto di esaminare nelle motivazioni delle sentenze l’accertamento dell’assenza delle tre scriminanti elaborate dalla giurisprudenza: la verità della notizia, la continenza espositiva e l’interesse pubblico alla diffusione della notizia. I risultati dell’indagine possono essere così sintetizzati: nella maggior parte dei casi la condanna è motivata in via principale per difetto del requisito di verità, anche sotto il profilo della putatività (90%) seguono i casi in cui sono risultati predominanti le violazioni del limite della continenza (7%) e la carenza di interesse pubblico (3%). condanne 55% Le percentuali di cui sopra subiscono lievi ma significative variazioni a seconda della tipologia degli articoli e/o dei servizi diffamatori. E difatti, le condanne sono pari al 61% per i “pezzi” di cronaca, al 54% per articoli di critica e solo al 43% per le interviste. Percentuali scriminanti assenti interesse pubblico 3% continenza 7% verità 90% Cronaca: percentuali assoluzioni / condanne condanne 61% 11 assoluzioni 39% Anche a tale proposito le percentuali di cui sopra variano a seconda della tipologia degli articoli e/o dei servizi diffamatori. Con riguardo ad articoli di cronaca, nel 100% dei casi la condanna è stata pronunziata a seguito dell’accertato difetto di verità. Per “pezzi” di critica o interviste invece, è accaduto che in qualche caso - secondo le percentuali illustrate dai relativi grafici - la principale scriminante assente sia risultata essere la continenza o l’interesse pubblico. Critica: percentuali scriminanti assenti continenza 14% interesse pubblico 0% verità 86% Intervista: percentuali scriminanti assenti interesse pubblico 17% vertità 66% Privati: percentuali assoluzioni / condanne condanna 58% assoluzione 42% Magistrati: percentuali assoluzioni condanne condanna 43% assoluzione 57% continenza 17% Per completezza, abbiamo ritenuto interessante enucleare anche il dato relativo al rapporto percentuale tra assoluzioni e condanne in funzione della professione della persona offesa dal reato di diffamazione contestato, con particolare riferimento alle categorie maggiormente interessate secondo quanto rilevato al paragrafo 3 che precede (vale a dire magistrati, amministratori di persone giuridiche / imprenditori, politici ed infine privati). I risultati emersi - per certi versi sorprendenti possono sintetizzarsi come segue: • privati: la percentuale di sentenze di condanna per diffamazione, nel caso in cui la persona offesa sia un privato, è pari al 58%; • magistrati: la percentuale di sentenze di condanna è pari al 43%; • amministratori di persone giuridiche / imprenditori: la percentuale di sentenze di condanna è pari al 75%; • politici: la percentuale di sentenze di condanna è pari al 67%. Amministratori persone giurudiche / imprenditori: percentuali assoluzioni / condanne condanna 75% assoluzione 25% Politici: percentuali assoluzioni / condanne condanna 67% assoluzione 33% a) Condanne penali 12 In via preliminare meritano di sottolinearsi alcune fattispecie particolari: - in ben quattro casi il Tribunale di Milano, pur ritenendo realizzata una fattispecie diffamatoria, ha pronunziato sentenza di condanna solo nei confronti del soggetto intervistato, assolvendo invece il giornalista che aveva raccolto le dichiarazioni lesive ed il direttore che aveva consentito la pubblicazione, per avere questi ultimi rispettato i criteri che contraddistinguono l’esercizio del diritto di cronaca; - in ben tre casi il Tribunale di Milano, pur ritenen- do realizzata una fattispecie diffamatoria, ha pronunziato sentenza di condanna solo nei confronti del soggetto autore di una lettera al direttore, pubblicata nella relativa rubrica. Ciò posto, si osserva che, per le residue sentenze di condanna, nel 61% dei casi la pena viene comminata - anche se non in misura paritetica - sia all’autore del pezzo, sia al direttore responsabile (di regola per omesso controllo sul contenuto della pubblicazione ai sensi dell’art. 57 c.p.), mentre nel 30% dei casi la condanna investe solo il direttore responsabile e nel restante 9% solo il giornalista. Percentuali condanne giornalista / direttore solo direttore 30% giornalista + direttore 61% Inoltre, in ordine all’entità delle pene comminate, è emerso quanto segue: • la condanna alla reclusione non è mai superiore ai 6 mesi e addirittura la misura massima comminata è stata di 4 mesi. • la multa di cui viene ingiunto il pagamento, nel 46% dei casi è inferiore ad euro 500,00, nel 52% dei casi oscilla tra euro 500,00 ed euro 1.000,00 e solo nel 2% dei casi supera il valore di euro 1.000,00 (l’importo massimo comminato è stato di euro 1.500,00). Percentuali condanna alla multa solo giornalista 9% da euro 500,00 a euro 1.00,00 52% oltre euro 1.00,00 2% fino a euro 500,00 46% Premesso quanto sopra deve prendersi in considerazione la tipologia delle condanne comminate in concreto. Nella quasi totalità dei casi (94%) gli imputati riconosciuti colpevoli vengono condannati solo al pagamento di una multa, mentre la condanna alla reclusione viene comminata solo nel 6% dei casi. Si noti che in nessun caso ha trovato applicazione la condanna congiunta a reclusione e multa secondo quanto disposto dall’art.13 L.47/1948. Percentuali tipologia di condanna reclusione 6% multa + reclusione 0% multa 94% In definitiva, secondo i dati raccolti può ritenersi confermata la tendenza manifestatasi nella pratica, alla applicazione quasi esclusiva delle pena della multa: la reclusione, ove comminata, è disposta in misura tale da consentire la sospensione condizionale della pena. Fermo restando il condivisibile principio secondo cui sarebbe opportuno escludere la pena della reclusione per i reati di opinione, la portata pratica del progetto di riforma legislativa allo studio in tal senso risulta minima (gravi invece, secondo molti commentatori, appaiono i rischi derivanti dalla “bagatellizzazione” del reato prevista dal medesimo progetto). b) Condanne civili in sede penale Venendo alla disamina delle pronunce di condanna civile in sede penale deve svolgersi anche in questo caso una premessa di metodo: su un totale di 116 sentenze esaminate la condanna civile è stata comminata in 28 casi. Con riguardo al campione di cui sopra può osservarsi quanto segue: • la condanna al risarcimento dei danni civili è stata accolta in tutti i 28 casi (100%); • la condanna alla pubblicazione - a titolo risarcitorio - della sentenza è stata disposta in 10 casi su 28 (36%); • la sanzione civile è stata comminata in 6 casi su 28 (21%); • la provvisionale in attesa di liquidazione definitiva, è stata riconosciuta in 5 casi su 28 (18%). 13 Quanto alla tipologia delle condanne di risarcimento dei danni civili, si è potuto rilevare che: • nel 79% dei casi sono stati riconosciuti e liquidati solo danni morali; • per il restante 21% è stata disposta condanna con riserva di liquidazione in separata sede civile; • in nessun caso è stata pronunciata condanna al risarcimento di danni patrimoniali. Infine, laddove le condanne sono state disposte in misura determinata, abbiamo potuto calcolare il dato relativo alla media dell’entità delle condanne: • media delle condanne di risarcimento danni morali a favore della parte civile (campione 22 sentenze): euro 46.721,73; • media delle condanne al pagamento della sanzione civile a favore della parte civile (campione 6 sentenze): euro 7.116,67; • media delle condanne in via di provvisionale a favore della parte civile (campione 5 sentenze): euro 19.060,00. Per completezza, meritano di evidenziarsi anche gli importi massimi delle condanne risarcitorie o sanzionatorie: - la condanna risarcitoria più elevata è stata di euro 295.500,00, resa a favore di 197 parti lese costituitesi collettivamente; si noti che la condanna più elevata a favore di una singola parte lesa è stata di euro 200.000,00 (si trattava di un politico straniero cui è stata falsamente attribuita una condotta gravissima); - la condanna sanzionatoria più elevata è stata di euro 20.000,00, resa a favore di 10 parti lese: la condanna più elevata a favore di una singola parte lesa è stata di euro 5.000,00; - la condanna provvisionale più elevata è stata di euro 45.000,00, resa a favore di 3 parti lese: la condanna più elevata a favore di una singola parte lesa è stata di euro 20.000,00. Abbiamo infine ritenuto opportuno predisporre anche un grafico idoneo a rappresentare il raffronto tra l’entità delle richieste di condanna della parte civile e l’entità delle condanne effettivamente comminate, per evidenziare la notevole disparità tra le pretese della parte civile e la misura del loro accoglimento effettivo da parte del giudice penale. Per completezza, viene in rilievo l’ulteriore dato relativo alla liquidazione delle spese legali a favore della parte civile in caso di accoglimento delle richieste risarcitorie. In media le spese legali liquidate a favore della parte civile ammontano a euro 5.781,94. Percentuali tipologia di condanna al risarcimento danni separata sede 21% patrimoniali 0% morali 79% Raffronto richieste / condanne civili richiesta 19.060,00 condanna provvisionale 119.425,80 7.116,67 sanzione civile 28.199,75 46.721,73 danni 351.033,420 4 14 Ricorso in appello Da ultimo si evidenzia che avverso le sentenze penali di merito rese dal Tribunale di Milano nel biennio 2003-2004 è stato proposto appello nel 66% dei casi. Percentuali sentenze appellate no 34% sì 66% 5 Considerazioni conclusive in diritto Come ultimo aspetto di questa relazione, ci preme illustrare - anche per una migliore comprensione dei dati sin qui esposti - le motivazioni in diritto elaborate nelle sentenze che abbiamo esaminato. Anzitutto, và detto che la diffamazione è un “reato a forma libera dove la condotta materiale si estrinseca nell’offesa all’onore e al decoro della persona” (Trib. Milano, 13.05.2004, n. 5487), che si consuma quando, e dove, è avvenuta la comunicazione offensiva della reputazione altrui, con la doverosa precisazione che per offesa non si deve intendere l’avvenuta lesione del bene giuridico, essendo sufficiente che esso venga aggredito e messo in pericolo con parole od atti offensivi che rendano probabile la causazione di una effettiva lesione (Trib. Milano, 26.04.2004, n. 4171). 15 L’art. 595 c.p., “tutela la reputazione, ovvero l’onore in senso oggettivo, inteso come opinione e valutazione dei consociati rispetto alla personalità morale e sociale di un individuo” (Trib. Milano, 08.04.2003, n. 1430). Ovviamente, la reputazione non si identifica con la “considerazione che ognuno ha di sé o con il semplice amor proprio, ma con il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico” (Trib. Milano, 13.05.2004, n. 5487). Inoltre, “in caso di offesa alla memoria di un defunto, sussiste il diritto dei prossimi congiunti a vedere tutelata la sua reputazione, ex art. 597 c.p., in quanto il pregiudizio si estende alla dignità di essi stessi, che subiscono un danno diretto ed immediato dal reato e sono, pertanto, titolari del diritto di querela” (Trib. Milano, 16.07.2003, n. 6415). A tale proposito merita di sottolinearsi che anche per una persona che ha già subito una condanna penale non può non risultare lesiva la notizia falsa che essa è stata condannata per altri gravi reati. Né può sostenersi che nel caso di soggetti già colti dallo stigma del disonore sociale può aversi diffamazione solo per quei settori morali della loro persona che siano rimasti immuni da elementi disonoranti: tale prospettazione sarebbe contraddittoria con la pienezza della tutela della dignità umana garantita dalla costituzione, che non può tollerare artificiose frammentazioni ed offese ingiustificate, come accadrebbe nel caso in cui si considerasse lecita un’offesa se riferita ad alcuni attribuiti della personalità morale ed illecita se riferita ad altri (Trib. Milano, 03.02.2004, n. 1079. In questo senso anche Trib. Milano, 17.03.2003, n. 2747, secondo cui “a nessuno può consentirsi di cagionare volontariamente il peggioramento della reputazione pur non buona di un soggetto, tanto più quando il peggioramento sia non solo quantitativo, cioè derivante dall’attribuzione di una condotta illecita ontologicamente non dissimile da altre realmente tenute, ma qualitativo, cioè riconducibile a pretese condotte sintomatiche di degrado etico, dimostrative di un grave tradimento dei propri ideali”). Per quanto concerne “l’elemento oggettivo del reato, si rileva che l’intento diffamatorio può essere raggiunto non solo con valutazioni o giudizi offensivi dell’altrui reputazione, ma anche con mezzi indiretti o con espressioni insinuanti e suggestionanti” (Trib. Milano, 18.12.2003, n. 12081). In ogni caso, “l’espressione utilizzata, da valutare dal giudice secondo l’opinione della generalità degli uomini in connessione ai tempi, luoghi, ambiente in cui il fatto si svolge ed alle persone coinvolte, ben può assumere, secondo le circostanze in cui è utilizzata, significato lesivo diverso” (Trib. Milano, 19.06.2003, n. 3261). Quanto, invece, all’elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico, “inteso come consapevolezza che le espressioni volontariamente utilizzate sono lesive dell’altrui reputazione o possono porla a rischio: non si richiede il dolo specifico, nel senso che non occorre l’animus nocendi” (Trib. Milano, 08.04.2003, n. 1430 e Trib. Milano, 26.04.2004, n. 4171). Conseguentemente, ad esempio, l’elemento doloso difetta quando la “discrasia tra scritto e pensato”, è spiegabile con il pessimo uso fatto dal giornalista “del principale strumento del suo lavoro, ovvero la lingua italiana” (nella fattispecie esaminata dal Tribunale, l’articolo risultava male costruito - ripeteva “due volte lo stesso concetto con parole diverse e, quindi, determinando un fraintendimento”): i “difetti di costruzione dell’articolo, di connessione sintattica e grammaticale, se integrano in modo evidente imperizia o negligenza e, quindi, uno stato colposo dell’autore, proprio perché tali escludono la consapevole offesa dell’altrui reputazione” (Trib. Milano, 19.06.2003, n. 3261). Sempre in via esemplificativa, vediamo che “quando il giornalista ometta il controllo delle fonti o ne compia uno di particolare superficialità, allora non potrà non rappresentarsi, senza poterla escludere, l’eventualità della discordanza tra fatto narrato e fatto storico accaduto, in tal modo rientrando il suo atteggiamento soggettivo nella figura del dolo eventuale”. Ne consegue che “il giornalista sarà in colpa con conseguente esclusione del reato - quando si sia rappresentato la possibile falsità della notizia, avendola però esclusa mediante un diligente (cioè conforme al comportamento che avrebbe tenuto nelle stesse circostanze il giornalista-tipo) vaglio delle fonti e dei riscontri; il giornalista verserà in dolo quando il dubbio sulla falsità non sia stato risolto o sia stato risolto mediante un procedimento che il giornalista sa essere insufficiente, negligente, difforme dalle regole deontologiche”. Sempre con riguardo all’onere di controllo fonti: "il giornalista non può esimersi dal vaglio della fonte solo e semplicemente citandola, poiché nel momento in cui diffonde l’informazione ricevuta, se ne fa - salvi casi particolari - in quanto propalatore, corresponsabile” (Trib. Milano, 08.04.2003, n. 1430). In ordine al soggetto leso, affinché possa ipotizzarsi la sussistenza “del delitto di diffamazione è necessario che l’aggressione alla reputazione sia effettuata nei confronti di un soggetto determinato nella sua individualità soggettiva: a questo fine è irrilevante l’indicazione nominativa del diffamato, ma occorre che il riferimento a questi sia deducibile dalla stessa prospettazione oggettiva dell’offesa, che deve contenere elementi tali da consentirne in modo diretto o indiretto, ma sempre con ragionevole certezza, l’identificazione agevole ed inequivoca anche per esclusione o in via deduttiva nell’ambito di una ristretta categoria di persone” (Trib. Milano, 17.03.2003, n. 2747, nonché, Trib. Milano, 26.03.2003, n. 1696 secondo cui “in mancanza di indicazione specifica (…) è sufficiente che l’offeso possa venire individuato per esclusione in via induttiva tra una categoria di persone, a nulla rilevando che in concreto l’offeso venga individuato da un ristretto gruppo di persone). Per tale ragione, “il criterio da seguire per l’individuazione della persona offesa dal reato deve essere quello «oggettivo» a nulla rilevando le intuizioni o le congetture che possono insorgere in chi si senta «soggettivamente» destinatario delle espressioni denigratorie (Trib. Milano, 28.08.2003, n. 7170). Sul punto, inoltre, è oramai pacifico che ben “possono essere considerate persone offese dal reato sia le persone giuridiche e gli enti collettivi in quanto tali, sia i singoli appartenenti all’ente o alla collettività quando attraverso riferimenti espliciti o mediante indiscriminato coinvolgimento nella riferibilità dell’accusa risultino danneggiati nella loro onorabilità individuale” (Trib. Milano, 28.08.2003, n. 7170). Da ultimo, in via generale si ricorda che per “determinare il momento consumativo dei reati connessi a mezzo stampa è sufficiente accertare il luogo ove è stata eseguita la stampa, in quanto in tale luogo avviene, una volta messo a disposizione lo stampato di una cerchia più o meno vasta di persone, la prima diffusione intesa in senso potenziale; del resto, uscito lo stampato dalla tipografia, esiste l’immediata possibilità che venga letto da persone diverse anche prima dell’effettiva distribuzione nelle edicole e di conseguenza il luogo di diffusione coincide con quello in cui avviene la stampa” (Trib. Milano, 08.07.2003, n. 7088). Con riferimento, invece alla prescrizione, tutte le volte in cui la “prescrizione dell’azione civile si adegua alla prescrizione penale, ai fini del termine si deve aver riguardo a quello previsto per il reato nella sua iniziale contestazione, senza tener conto delle diminuzioni di pena edittale che possono derivare dall’applicazione dell’art.62 bis c.p., essendo quest’ultima rimessa ad accertamenti compiuti dal giudice di cui il danneggiato non può preventivamente conoscere l’esito” (Trib. Milano, 17.03.2003, n. 2747). Tanto premesso, in tema di diffamazione a mezzo stampa e, più in generale, tramite mass-media, la giurisprudenza ha elaborato una serie di parametri al fine di valutare la sussistenza con portata scriminante del diritto di cronaca o critica. Questi parametri, come è noto, sono: verità della notizia (quantomeno sotto il profilo putativo), continenza espositiva, interesse pubblico. Ciò posto, riteniamo opportuno illustrare l’orientamento assunto dal Tribunale penale di Milano con riferimento all’interpretazione ed all’applicazione dei parametri di cui sopra. a) La verità della notizia 16 Quanto al primo e fondamentale requisito, “per verità deve intendersi la sostanziale corrispondenza (adaequatio) tra i fatti come sono accaduti (res gestae) e i fatti come sono narrati (historia rerum gestarum), perché solo la verità come correlazione rigorosa tra il fatto e la notizia soddisfa alle esigenze dell’informazione e riporta l’azione nel campo dell’operatività dell’art.51 c.p. rendendo non punibile - nel concorso dei requisiti della continenza e della pertinenza - l’eventuale lesione della reputazione altrui)” (Trib. Milano, 06.10.2003, n. 7148). In particolare il giudice ambrosiano condivide “l’impostazione rigorosa assunta dalla Cassazione, in forza del quale il comporta- mento negligente o imperito del giornalista che non svolge i dovuti controlli prima di diffondere una notizia (...), determina l’accettazione del rischio di pubblicare informazioni false e pertanto il suo comportamento (...) è connotato da dolo eventuale: diversamente giudicando si consentirebbe all’autore di informazioni destinate alla diffusione di non approfondire l’aspetto della veridicità delle medesime e si finirebbe per rendere lecita la diffamazione. Lo stesso ragionamento si applica anche nel caso di travisamento della fonte: se si chiede al giornalista un controllo sulla propria fonte mediante ulteriori accertamenti ricavabili aliunde sulla notizia da pubblicare (...), tanto più si deve pretendere che egli svolga quel controllo ben più modesto sulla corrispondenza di quanto dice alla sua fonte di informazione (...) questa è una richiesta minima alla quale il giornalista deve senz’altro adempiere” (Trib. Milano, 02.02.2004, n. 1018). Malgrado tale rigore il Tribunale di Milano ha comunque precisato che insistere sul punto della verità dei fatti narrati - intesa in senso assoluto - e sull’assoluta inesistenza di fonti privilegiate, nonché sulla “necessità che il giornalista compia tutti gli accertamenti più completi e penetranti per vagliare l’informazione che la fonte porta a sua conoscenza, significa fare incombere al giornalista un rischio penale altissimo, e non coerente alla natura dell’attività che istituzionalmente compie, o porlo nella condizione di rinunciare alla pubblicazione anche di notizie che godono comunque di un alto grado di probabilità di aderenza al fatto storico accaduto (Trib. Milano, 26.04.2004, n. 4171, il quale ha aggiunto che “quando attraverso fonti successive sia possibile ricostruire la realtà dei fatti in modo collimante con la ricostruzione giornalistica, non può e non deve essere preso in considerazione il problema dello stato psicologico del giornalista nel mentre scriveva l’articolo incriminato”). 17 La mera convinzione soggettiva del giornalista in ordine alla veridicità o verosimiglianza non può determinare ex sé la liceità della propalazione di notizie difformi dal reale accadimento dei fatti (Trib. Milano, 03.02.2004, n. 1079, in una fattispecie dove l’evidente difformità delle notizia pubblicata dalla verità storica dei fatti indiziava, con sufficiente gravità e precisione, la mancata esecuzione del controllo delle fonti). A ciò si aggiunga che - qualora il giornalista abbia coscientemente e volontariamente omesso di controllare la verità - non è una scusante la necessità di una assoluta tempestività nella pubblicazione della notizia e la difficoltà di compulsare fonti originarie, perché spetta comunque al cronista dare contezza della cura e della meticolosità con cui abbia indagato sulla genuinità delle sue informa- zioni - nel caso di specie il cronista non ha dato prova del meticoloso controllo delle fonti (cfr. Trib. Milano, 22.11.2004, n. 10942, secondo cui in questi casi, anche a voler adottare un’interpretazione più favorevole all’imputato questi non potrebbe sfuggire alla responsabilità sotto il profilo del dolo eventuale avendo scritto un articolo di sicura lesione della sfera dell’onore e del decoro della parte lesa senza essersi curato di accertarsi in modo rigoroso della verità dei fatti: in senso conforme anche Trib. Milano, 08.06.2004, n. 5787, in una fattispecie in cui tra i fatti vi era una circostanza rilevantissima che, pur a conoscenza del giornalista, non era stata riportata nell’articolo). Ovviamente, “è da escludersi che sussista a carico del giornalista, in via generale, un obbligo di sentire previamente il punto di vista della persona interessata dalla pubblicazione di una determinata notizia; semmai l’interpello dell’interessato può assumere rilievo come uno dei possibili canali attraverso cui può esplicarsi quell’attività di controllo della veridicità e della completezza della notizia, che il giornalista è tenuto ad effettuare con diligenza ed alla stregua di tutti gli strumenti utili a sua disposizione” (Trib. Milano, 11.03.2003, n. 1007, in questo caso, poiché la notizia è risultata vera e riguardava l’esito di un procedimento istruito già nel contraddittorio delle parti, il fatto che il querelante non fosse stato previamente interpellato dal giornalista risultava irrilevante ai fini del giudizio). La verità della notizia può venire in rilievo sotto l’aspetto della sua putatività, qualora il giornalista abbia svolto i necessari controlli e verifiche o nel caso in cui abbia fatto affidamento su una “particolare attendibilità della fonte da cui proviene la notizia”: difatti “una volta ricondotto il diritto di cronaca all’esercizio di un diritto ex art.51 cp non vi è ragione di escludere l’applicazione ad esso dell’art. 59 ultimo comma cp, secondo il quale, se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione delle pena, queste sono sempre valutate a suo favore” (Trib. Milano, 12.05.2003, n. 4153). Ad ogni modo, la scriminante della verità putativa non può trovare applicazione “quando l’autore dello scritto diffamante non abbia proceduto a verifica compulsando la fonte originaria” (Trib. Milano, 06.10.2003, n. 7148, il quale aggiunge che in “caso di impossibilità il giornalista assume il rischio della pubblicazione comunque avvenuta”: in questo senso anche Trib. Milano, 04.032004, n. 2276, in una fattispecie in cui le notizie erano prive di attinenza alla verità e non era stato assolto l’onere di verificare il nucleo essenziale del fatto specifico attribuito alla persona offesa, neppure in maniera da legittimarne una ricostruzione putativa, ancorché oggettivamente falsata). b) La continenza espressiva Quanto al requisito della continenza nella forma espressiva, il Tribunale di Milano anzitutto osserva che questa “non è un valore astratto e cristallizzato, ma deve essere valutato nel concreto ed è suscettibile di diversa estensione a seconda del tema trattato, dovendo in sostanza, risultare proporzionato e commisurato, nei toni e nella scelta delle espressioni usate, alla rilevanza dei comportamenti e dei fatti di cui si discute” (Trib. Milano, 28.10.2003, n. 8786). Difatti, in materia di diffamazione tramite mass-media “il significato delle parole dipende dall’uso che se ne fa e dal contesto comunicativo in cui si inseriscono: pertanto anche il riferimento ad indefinite «voci di corridoio» o l’uso del modo condizionale può essere idoneo a diffondere una falsa notizia” (Trib. Milano, 06.10.2003, n. 7148: in questo senso anche Trib. Milano, 21.04.2004, n. 4029, relativamente ad una fattispecie in cui l’articolo era stato più volte «vivacizzato» con una pluralità di riferimenti poco benevoli riferendo «voci» di malelingue). Così ad esempio il Tribunale di Milano ha ritenuto che • l’aver addebitato ad un soggetto di professione giornalista un atteggiamento omissivo è affermazione lesiva della sua dignità professionale, poiché lo indica come un manipolatore, di notizie e come dolosamente inadempiente al dovere professionale di fornire una informazione completa (Trib. Milano, 26.01.2004, n. 768, anche se nel caso di specie il comportamento risultava scriminato ex art. 599 c.p. costituendo l’articolo in questione una risposta agli attacchi pubblicati dal diffamato che si era riferito all’imputato con l’espressione «stampa tecnica prezzolata»); • per un accademico le pubblicazioni sono gli strumenti attraverso i quali far conoscere il proprio valore professionale alla comunità scientifica: su tale presupposto la definizione «pigro di penna» contenuta in un articolo, risulta idonea ad offuscarne l’immagine (Trib. Milano, 13.05.2004, n. 5487, in cui rilevava come tale frase inserita nel corpo dell’articolo dopo un breve curriculum dell’interessato la rendeva ancora più verosimile agli occhi del lettore); • non è consentito riferirsi ripetutamente ad una persona con l’appellativo spregiativo e denigratorio di «mariuolo» tentando di nascondere l’ingiuria sotto il gioco di parole riferito al nome del querelante (Trib. Milano, 22.11.2004, n. 10942, il quale ha rilevato come l’offesa fosse stata peraltro sottolineata in modo smaccato e manifesto per essere stata riportata sotto la fotografia del querelante). In ogni caso è ammesso l’uso di espressioni colorite ed allusive-caratteristiche del resto dello stile giornalistico-quando l’articolo si mantiene nell’ambito di un’esposizione civile, senza trasmodare in un linguaggio di per sé offensivo (Trib. Milano, 08.03.2004, n. 2472, in una fattispecie in cui l’attacco del pezzo che paragonava due fratelli a Caino e Abele, con ciò insinuando che il querelante fosse un omicida, in realtà veniva subito sminuito dal tenore complessivo della frase «una sorta di storia di Caino e Abele in tono decisamente minore»). c) Interesse pubblico 18 Con riferimento all’interesse pubblico, va in primo luogo evidenziato che questo non discende dalla mera notorietà dei personaggi coinvolti nelle vicende narrate, ma deve essere valutato con riguardo al contenuto della notizia, la quale deve essere di tale rilievo ed importanza per la generalità dei cittadini da prevalere sul diritto alla riservatezza ed alla onorabilità dei singoli. E così, ad esempio, il Tribunale di Milano ha escluso che un organo di stampa possa legittimamente proporsi come portavoce ed amplificatore di «esternazioni» (quali «cicisbeo» che «la induceva a bere e fare uso di stupefacenti»), estranee a i temi d’indagine, relative ad una sfera strettamente privata e, peraltro, di impatto potenzialmente dirompente per quanto attiene alla rete di relazioni del soggetto investito delle dichiarazioni pubblicate, che viene così messo rumorosamente alla berlina (Trib. Milano, 02.03.2004, n. 2256: in questo senso anche Trib. Milano, 07.02.2003, n. 1358, secondo cui, con riferimento a informazioni che attengono alla vita privata della vittima di un omicidio il suo “diritto alla riservatezza - tanto più se correlato ad attività moralmente riprovevole secondo il costume corrente - non viene meno per il solo fatto che un omicidio sia stato commesso e può legittimamente subire una compromissione solo a fronte di un’effettiva utilità della diffusione della notizia”). Sempre in via esemplificativa, vediamo che il Tribunale di Milano ha ritenuto sussistere l’interesse del pubblico alla conoscenza dei fatti: • nel caso di una società svolgente un ruolo altamente considerevole sul piano dell’economia nazionale, così da poterla qualificare come un soggetto dotato di un’ampia dimensione pubblica di vita, condizione che comporta inevitabilmente un altrettanto elevato livello di esposizio- ne alla attenzione e quindi alla critica del pubblico (Trib. Milano, 07.01.2004, n. 30); • nel caso di circostanze attinenti la solvibilità di una società che opera in un settore cruciale come le telecomunicazioni e che risultava titolare di licenze rilasciate dalle pubbliche autorità (Trib. Milano, 19.04.2004, n. 3861); • con riguardo a fatti inerenti “operazioni di economia finanziaria che rientrano per eccellenza tra gli argomenti sui quali i cittadini devono essere ed hanno diritto di essere informati” (Trib. Milano, 26.04.2004, n. 4171); • circa episodi relativi la missione ONU italiana in Somalia: in questo caso l’interesse pubblico è incontroverso e giustifica l’esercizio del diritto di informare e di essere informato, anche perché l’articolo affrontava la tematica dei diritti umani e del “ripudio della tortura quale strumento processuale per la ricerca della verità, che dall’Illuminismo in poi costituisce uno dei caratteri fondamentali degli ordinamenti liberali e democratici ed è stato trasfuso in fonti di diritto internazionale” (Trib. Milano, 15.04.2004, n. 3763). Non sussiste invece interesse pubblico alla conoscenza di fatti risalenti a dieci anni addietro e privi di attualità e rilevanza: dopo un certo numero di anni (e, osserva il Tribunale, sicuramente dieci lo sono), sul diritto di cronaca prevale il diritto all’oblio del soggetto che da tempo e con fatica cerca di ricostruire la propria vita (Trib. Milano, 22.11.2004, n. 10942; osserva altresì, il Tribunale che il termine cronaca significa «resoconto di fatti contemporanei al narratore» e con l’“adottare altre interpretazioni si giungerebbe alla vergognosa e illecita conseguenza di scriminare il comportamento di una qualsivoglia persona che, per occasione o per mestiere, possa scrivere su un giornale e tramite di esso mortificare moralmente ed additare alla pubblica vergogna per un tempo indefinito un soggetto che abbia una volta nel passato commesso uno o più sbagli, anche se pagati con la sanzione applicatagli dal Tribunale dello Stato”). d) Il diritto di cronaca, il diritto di critica e l’intervista Illustriamo di seguito come sono state modulate dal Tribunale di Milano le tre scriminanti sopra trattate con riferimento all’esercizio del diritto di cronaca, del diritto di critica e alla realizzazione di un’intervista. Il diritto di cronaca 19 Nelle decisioni esaminate il diritto di cronaca è venuto in rilievo soprattutto in fattispecie nelle quali sono stati riferiti fatti attinenti alla cronaca giudiziaria. In quest’ambito il Tribunale ha anzitutto ritenuto che il giornalista possa attingere le notizie dai dibattimenti penali, dagli organi di polizia giudiziaria (atti giudiziari, rapporti di polizia, conferenze stampa), ma non da fonti ufficiose o confidenziali (per esempio funzionari di polizia che non osservino il dovere di riservatezza ovvero da voci correnti), né da altri giornali od agenzie di stampa e reti televisive, senza verificarne la fondatezza (Trib. Milano, 07.02.2003, n. 1358, il quale precisa che non può “attribuirsi efficacia sotto il profilo dell’esercizio putativo del diritto di cronaca a notizie ufficiose rivelate da organi di polizia in violazione dell’obbligo i riservatezza a cui sono tenuti”). In altre parole, con riferimento a “notizie apprese da agenti o da rapporti di polizia al di fuori dei canali ufficiali di comunicazione”, il Tribunale di Milano, sul presupposto “che per gli organi di stato esistono precise forme di pubblicità del loro operato”, ha ritenuto che “al di fuori di queste non esiste alcuna ufficialità riconoscibile e tale per cui il giornalista che pubblica notizie apprese informalmente da organi della P.G. può essere esentato da responsabilità solo con la dimostrazione di avere svolto il controllo e non già per l’affidamento riposto in buona fede sulla fonte, per quanto possa trattarsi di un organo dello Stato” (Trib. Milano, 15.10.2004, n. 9459). Conseguentemente “sussistono i presupposti di applicazione della scriminante del diritto di cronaca, quando la notizia riportata nell’articolo incriminato sia stata seriamente accertata e corrisponde alla verità dei fatti - sia pure correlativamente alla fonte e nell’attualità del preciso riferimento storico dell’epoca della pubblicazione - senza alterazioni o travisamenti del contenuto dei provvedimenti giudiziari da cui è stata mutuata” (Trib. Milano, 06.03.2003, n. 2526). Da ultimo, nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca il giudice ambrosiano ha altresì precisato che il “criterio della verità dell’informazione comporta l’obbligo per il giornalista di aggiornare la notizia, completandola con tutti i dati conosciuti nel momento storico in cui viene diffusa” (Trib. Milano, 15.10.2004, n. 9459). Il diritto di critica Il diritto di critica “rientra tra i diritti pubblici soggettivi inerenti alla libertà di pensiero e di stampa” (Trib. Milano, 26.03.2003, n. 1696) e si estrinseca nella “libertà di esprimere opinioni e valutazioni su fatti e situazioni nonché dissensi o consensi rispetto ad opinioni altrui” (Trib. Milano, 08.04.2003, n. 1430). La critica deve dunque “consistere in un dissenso motivato, espresso in termini corretti e misurati e non deve assumere toni gravemente lesivi dell’altrui dignità morale e professionale. Il limite dell’esercizio di tale diritto deve per ciò intendersi superato quanto l’agente trascenda in attacchi personali diretti a colpire, su un piano individuale, senza alcuna finalità di pubblico interesse la figura morale del soggetto criticato giacché in tal caso l’esercizio del diritto, lungi dal rimanere nell’ambito di una critica misurata ed obiettiva, trascende nel campo dell’aggressione alla sfera morale altrui, penalmente protetta” (Trib. Milano, 26.03.2003, n. 1696). In altre parole mentre il diritto di cronaca è il “diritto di informare”; il diritto di critica è la “libertà di esprimere valutazioni, dissensi o consensi rispetto alle opinioni altrui, come attività di analisi di eventi, condotte, fenomeni, come espressione di giudizi su accadimenti, fatti o circostanze dei più vasti settori della vita” (Trib. Milano, 28.02.2003, n. 1805). Quanto al requisito della verità, “è necessario sia vero il fatto su cui la critica viene esercitata, mentre ne rimane libera la valutazione” (Trib. Milano, 08.04.2003, n. 1430). Difatti la critica si “sostanzia nella manifestazione di un giudizio che non può pretendersi rigorosamente obiettivo (Trib. Milano, 28.10.2003, n. 8786); ne segue che “il giornalista può esercitare il proprio diritto di critica senza incorrere in censure purché (…) la sua valutazione sia tenuta distinta dalla notizia in sé, risulti pertinente ai fatti riferiti e non sia gratuitamente lesiva della reputazione altrui” (Trib. Milano, 28.10.2003, n. 8786). 20 Si può così affermare che “la critica è sicuramente soggetta ai due parametri della rilevanza sociale dell’argomento e della correttezza dell’espressione, ma non può essere assoggettata in relazione al terzo parametro, la verità dei fatti, in maniera così rigorosa come nel diritto di cronaca. Tuttavia la stessa non può essere fantasiosa o astrattamente speculativa, svincolata cioè da qualsivoglia profilo di verità e porsi quindi come strumentale pretesto per l’aggressione dell’altrui reputazione” (Trib. Milano, 12.12.2003, n. 11882, nonché Trib. Milano, 28.10.2003, n. 8786, per il quale “è pacifico che la critica possa essere anche particolarmente penetrante ed aspra e che il giornalista possa fare uso di toni oggettivamente polemici ed incisivi, quando il suo giudizio abbia ad oggetto argomenti di grave interesse pubblico”). Fatte queste premesse di ordine generale, vediamo di seguito alcuni casi concreti esaminati dal Tribunale di Milano: - in una fattispecie erano stati riferiti fedelmente dei fatti storici salienti in materia di mafia, sui quali i giornalisti autori del pezzo avevano espresso delle loro conclusioni frutto di un’opinione personale: in questo caso il Tribunale ha ritenuto che la vicenda fosse stata affrontata nel rispetto del diritto di cronaca e, per la parte in cui venivano esplicitate le considerazioni personali, nel rispetto del diritto di critica (Trib. Milano, 11.01.2004, n. 1419, il quale ha osservato come il diritto di critica fosse stato esplicitato con fermezza, ma, al contempo, con assoluto rispetto della civiltà delle forme); - in un altro caso, in cui vi era un nucleo sostanzialmente veritiero dei fatti assunti a base delle opinioni e delle valutazioni espresse, gli stessi, tuttavia, si risolvevano, per il lessico impiegato, per l’uso strumentale degli apprezzamenti («personaggi squallidi e intriganti»), per la sostanza e la forma dei giudizi formulati, in un attacco personale e gratuito non rispondente a un particolare interesse sociale (Trib. Milano, 03.03.2004, n. 2203); - il riferimento alla vita privata del diffamato come «inquietante», è stato giudicato lesivo del suo onore trattandosi di un “giudizio oscuro e allusivo (che pare evocare qualcosa di non detto che se rivelato potrebbe colpire duramente la querelante), francamente incivile come mezzo di attacco personale”: il Tribunale ha altresì osservato come l’articolo incriminato non enunciasse, neppure per sottointesi, quali sarebbero stati gli aspetti inquietanti ai quali si voleva alludere, con la conseguenza che ne emergeva un’accusa del tutto gratuita e fortemente lesiva dell’onore personale della persona coinvolta in quanto evocativa di comportamenti riprorevoli sul piano morale (Trib. Milano, 28.04.2004, n. 4298, il quale osservava anche che l’articolo appariva costruito su “semplici sospetti, voci ed illazioni e che il giornalista avrebbe potuto correttamente indicarli come tali indicando la fonte e proponendo delle ipotesi, senza darli per assodati così da trasformare una mera voce in verità”); - infine, quando il soggetto leso è un personaggio pubblico noto alle cronache giornalistiche per i suoi meriti scientifici e la sua personalità eccentrica, lo stesso non può dolersi se diviene oggetto di critica anche aspra, in quanto rientra nella normale dialettica affidata ai mezzi di pubblicazione (Trib. Milano, 13.05.2004, n. 5487): se poi si tratta di una critica rivolta all’operato di un magistrato, il Tribunale di Milano, sul presupposto che “ogni Giudice è chiamato a porre in essere quanto possibile, per garantire il soddisfacimento dell’esigenza di imparzialità della propria jurisdictio”, ha ritenuto fosse di “pubblico interesse conoscere le modalità di esercizio della jurisdictio” rientrando quindi nel diritto di cronaca e di critica riferire tali avvenimenti, nel momento in cui gli stessi sono veri e nulla si può imputare al giornalista per averli riferiti con una vis ironica, ma non contumeliosa (Trib. Milano, 29.10.2004, n. 10062). dichiarazioni espresse da un personaggio noto che abbiano contenuto diffamatorio nei confronti di terzi prescindendo dalla veridicità del suo contenuto deve essere sicuro della posizione di alto rilievo dell’intervistato e dell’interesse della collettività ad essere informata del suo pensiero sull’argomento che forma oggetto dell’intervista medesima” (Trib. Milano, 24.03.2003, n. 1380). Quanto a particolari forme di critica come quella politica o sindacale, si ammette un l’utilizzo di un linguaggio più vivace e polemico, purché lo stesso non si risolva in un attacco gratuitamente offensivo sul piano personale (Trib. Milano, 07.07.2003, n. 6666 e Trib. Milano, 15.07.2004, n. 7285, il quale ritiene che il diritto di critica ben può esprimersi, nella fisiologica conflittualità che caratterizza la dialettica sindacale, anche con linguaggio assai vivace, senza per questo che si debba intendere superato il profilo della mera polemica). La particolare disciplina dell’intervista, trova dunque applicazione quando questa sia “rilasciata da un soggetto che ricopra una posizione di rilievo all’interno di questo o quel settore della vita pubblica, in quanto in casi del genere la notizia è rappresentata proprio dal contenuto dell’intervista in quanto sussiste un interesse sociale alla conoscenza del pensiero di determinati personaggi di spicco. Inoltre il giornalista deve sempre mantenere una posizione neutra e imparziale perché diversamente risponde a titolo di concorso nel reato di diffamazione: in altri termini il giornalista deve assumere la prospettiva del terzo osservatore dei fatti, agendo per conto dei suoi lettori mentre commetterà reato se sia solo un dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria” (Trib. Milano, 26.03.2003, n. 1696; nonché Trib. Milano, 15.04.2004, n. 3763, in una fattispecie in cui il soggetto intervistato - un generale - essendo una persona qualificata ad esprimere un’opinione sui fatti narrati per le funzioni ricoperte e le attività svolte, rappresentava, dunque, una fonte lecita, selezionata e intrinsecamente attendibile). In applicazione di tali principi il Tribunale di Milano ha ritenuto che nell’esercizio della sua attività il giornalista, pur in presenza di accusa di indubbio contenuto diffamatorio, mosse con toni molto duri verso alcuni magistrati, avesse assunto quella posizione di imparzialità che è condizione per la sussistenza della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca. In questa fattispecie il giornalista non aveva assecondato i toni usati dall’intervistato, ma si era posto - vista la delicatezza della situazione - quale contraltare dell’intervistato, rammentandogli le opinioni dei magistrati o rappresentandogli la gravità delle accuse lanciate agli stessi (nella sentenza resa dal Trib. Milano, 18.05.2004, n. 5139, si precisa che in questa fattispecie, non vi era alcun dubbio che il fatto in sé dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti - parlamentari e magistrati - alla materia in discussione e al più generale contesto dell’intervista stessa - accuse connesse a presunte attività mafiose del parlamentare intervistato a cui questi reagisce attaccando l’inchiesta e i magistrati - presentasse quel profilo di interesse pubblico all’informazione, tale da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo: per tali motivi il Tribunale di Milano L’intervista 21 In materia di intervista, si segnala una pronunzia del Tribunale di Milano che ha dato conto dell’evoluzione giurisprudenziale in materia. In particolare vediamo che secondo “un primo orientamento della Suprema Corte si ritiene che il giornalista risponda del reato di diffamazione commesso dal terzo intervistato qualora non ricorrano i requisiti della pertinenza, della verità dei fatti narrati e della continenza verbale (...) poiché chi da diffusione alla dichiarazione di altri commette diffamazione a sua volta (cfr. Cass. 17.03.1980, n.516): nel corso degli ultimi anni, però, si è andato creando un diverso e ben più liberale orientamento secondo il quale è stata riconosciuta una vera e propria esimente da intervista (...) in quanto è configurabile l’esimente putativa dell’esercizio del diritto nei confronti del giornalista tutte le volte in cui la notizia è costituita non solo e non tanto dal contenuto delle dichiarazioni (di pubblico interesse) rese dall’intervistato, quanto dalle caratteristiche del soggetto che rilascia l’intervista idonea a creare particolare affidamento sulla veridicità delle sue affermazioni (cfr. Cass. 16.01.1995, Bardi)”. Il contrasto tra i diversi orientamenti “è stato risolto con la sentenza n. 37140/2001 delle Sezioni Unite, secondo cui il primo e più restrittivo orientamento non può ritenersi suscettibile di una generalizzata applicazione (...), mentre il limite del secondo orientamento è costituito dal fatto che l’utilizzazione della cassa di risonanza rappresentata dalla stampa può dare adito ad abusi e palesi violazioni del diritto all’integrità morale di cittadini. In presenza, dunque, di un interesse del pubblico all’informazione il giornalista che pubblichi ha ritenuto che ricorressero le condizioni per ritenere scriminato il giornalista anche se aveva riportato le espressioni offensive pronunciate dall’intervistato, dato che, le rilevanti cariche pubbliche ricoperte dai soggetti coinvolti nella vicenda e la loro indiscussa notorietà, facevano si che fosse l’intervista in sé ad assumere il carattere di un evento di pubblico interesse, come tale non suscettibile di censura alcuna da parte dell’intervistatore). In termini analoghi il medesimo Tribunale si è espresso in un’altra fattispecie in cui il giornalista aveva riferito le dichiarazioni rese dall’intervistato (un’assessore) che erano un riassunto semplificato ad uso divulgativo di espressioni tecnico-giuridiche di una delibera adottata dal Comune: la verifica del giornalista sulla veridicità delle affermazioni dell’intervistato effettuata sulla base della semplice lettura delle delibere lo esimeva da ogni ulteriore onere di accertamento sulla rispondenza delle notizie diffuse (Trib. Milano, 23.02.2004, n. 1854, il quale ha osservato come il giornalista si fosse limitato a rendere pubblico il contenuto di atti amministrativi - che per loro natura sono destinati ad essere conosciuti dai cittadini - e non era certo suo obbligo sindacarne la correttezza amministrativa e giuridica). In definitiva in materia di intervista assume particolare rilievo il criterio della continenza al fine di verificare “se il giornalista abbia assunto la posizione di terzo osservatore dei fatti o non abbia piuttosto, provocato o sollecitato le dichiarazioni diffamatorie” (Trib. Milano, 24.03.2003, n. 1380). e) Titolo e fotografie Il titolo di un articolo deve riassumere l’essenza della notizia cercando, nel contempo, di catturare l’attenzione del lettore: difatti, il redattore del titolo (o colui che come il direttore ne è responsabile) deve concentrarvi i punti salienti della notizia affinché il lettore di media diligenza, nel leggere il titolo e dando una semplice scorsa al testo dell’articolo possa ugualmente apprendere il fatto nella sua completezza (Trib. Milano, 11.03.2003, n. 1007). Può così accadere che un titolo, inidoneo a far comprendere che riferisce di una mera prospettazione di parte ed anzi, al contrario, sembra espressione di un dato oggettivo, può ugualmente essere diffamatorio, anche se la lettura dell’articolo chiarisce che si tratta, invece, del contrario, poiché in un articolo di stampa vi sono vari livelli di lettura, ivi compresa anche quella distratta e non approfondita (possibile per chiunque in situazioni di tempo particolari) con la quale un qualsiasi lettore si sarebbe (falsamente) convinto della verità del fatto prospettato dal titolo (Trib. Milano, 02.07.2003, n. 6605). In ogni caso, non è compito del titolista verificare se la notizia sia vera o inventata, perché il suo compito è solo quello di controllare che il titolo corrisponda al contenuto dell’articolo (Trib. Milano, 23.02.2004, n. 1854, in una fattispecie in cui non si è ritenuto diffamatorio il titolo «strade sporche salta la ditta», giacché “il termine «strade sporche» era l’anticipazione, pur in termini enfatizzati, del contenuto dell’articolo, mentre il termine «salta», pur nella sua asprezza e laconicità traduceva in linguaggio comune il concetto giuridico di risoluzione del contratto di per sé non propinabile al lettore digiuno di studi giuridici). Si segnala altresì una pronunzia del Tribunale di Milano, cha ha reputato diffamatoria l’attribuzione ad un soggetto della appartenenza ad un gruppo di persone imputate di comportamenti criminosi “attraverso la pubblicazione di una sua immagine fotografica perfettamente riconoscibile” (Trib. Milano, 17.03.2003, n. 2180). f) Il Direttore responsabile 22 Il direttore responsabile risponde ai sensi dell’art. 57 c.p. del reato di omesso controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi dei reati. Tale reato è punito a “titolo di colpa con ciò dovendosi intendere (...) che tale responsabilità ha natura colposa, fondata sulla posizione di preminenza del direttore che si estrinseca nell’obbligo di controllo, nel potere di censura e nella facoltà di sostituzione” (Trib. Milano, 16.07.2003, n. 6415; nonché Trib. Milano, 22.11.2004, n. 10942, secondo cui la prestigiosa posizione di direzione di un quotidiano, insieme a vari importanti poteri correlativi alla sua carica, comporta una serie di doveri tra cui quello di impedire che tramite i suoi stampati siano lesi i diritti garantiti dalla legge). In particolare, “nella fattispecie criminosa prevista dall’art.57 c.p., il reato che, con il mezzo della pubblicazione, viene commesso dall’autore dell’articolo pubblicato, si configura come un evento del reato colposo addebitato al direttore del giornale, cosicché tale ultimo reato non può configurarsi ove venga accertato che nessun reato è stato commesso dall’autore dell’articolo” (Trib. Milano, 13.11.2003, n. 10712). La colpa di cui è chiamato a rispondere il direttore “non è ravvisabile genericamente nella negligenza o imprudenza, ma è espressamente individuata dalla legge nella inosservanza di una specifica norma cautelare: la regola di condotta contenuta a contrario nell’art.57 c.p.: la condotta omissiva può essere indifferentemente volontaria o colposa e in tal caso costituiranno ipotesi equivalenti di condotta contraria al precetto l’omissione colposa di controllo tout court, la negligenza nella sua esecuzione, l’inadeguata valutazione della liceità penale dell’articolo” (Trib. Milano, 16.07.2003, n. 6415). La prova della colpa del direttore, “si identifica con la prova stessa dell’omissione, cosciente e volontaria, da parte del colpevole di detto controllo, senza che sia necessario accertare se la omissione abbia avuto luogo per colpa” (Trib. Milano, 23.05.2003, n. 3887). Il dovere di controllo del direttore si “estende all’intero contenuto della pubblicazione” (Trib. Milano, 16.07.2003, n. 6415, il quale incidentalmente osservava altresì come non sussistesse una qualunque idonea delega ad una figura professionale sott’ordinata”). Tuttavia, al fine di evitare che “la responsabilità del direttore si risolva in una responsabilità automatica («di posizione») e pertanto si ponga al di fuori dei canoni costituzionali che reggono la materia, tale obbligo di controllo va pur sempre parametrato alle circostanze del caso di specie”. Difatti, atteso che il “direttore debba risalire alla fonte della notizia solo nei casi dubbi”, in una fattispecie in cui il fatto narrato dal giornalista non presentava alcun allarme, il Tribunale ha ritenuto che al direttore non si potesse muovere alcun addebito, in assenza di elementi sintomatici tali da indurre a ritenere che il giornalista avesse adottato una procedura metodologicamente scorretta con la necessità di attivare un controllo maggiormente pervasivo di quello ordinario (Trib. Milano, 03.02.2004, n. 1079, diversamente opinando, ad avviso del Tribunale, si imporrebbe uno standard di diligenza così elevato da risultare paralizzante per l’ordinario svolgimento dell’attività giornalistica e surrettiziamente anticostituzionale in quanto risolventesi in una forma larvata di responsabilità oggettiva). 23 Ciò posto vediamo che il Tribunale di Milano ha affermato la responsabilità del direttore ex art. 57 c.p., in tutti i casi in cui: - il direttore aveva colposamente omesso di controllare la veridicità e la correttezza di quanto affermato nella lettera pubblicata ed a lui espressamente indirizzata (Trib. Milano, 03.03.2004, n. 2203); - il direttore, nonostante la gravità di affermazioni altamente diffamatorie nell’ambito di una vicenda di grande risonanza, non risultava che avesse richiesto al giornalista spiegazioni e chiarimenti (Trib. Milano, 13.04.2004, n. 3673, il quale ha peraltro osservato che nella fattispecie concreta non era neppure possibile sostenere che l’articolo fosse su argomenti di secondo piano o che lo stesso fosse di taglio contenuto e che quindi potesse sfuggire all’attenzione di una persona altamente qualificata dal punto di vista professionale qual’è il direttore: secondo il Tribunale, inoltre, trattandosi di un periodico a cadenza settimanale, il direttore aveva tutto il tempo di prendere visione dell’articolo, informarsi e, all’esito, adottare i provvedimenti di competenza per evitare che con la pubblicazione venisse commesso il reato di diffamazione - in senso conforme anche Trib. Milano, 08.06.2004, n. 5787, in una fattispecie in cui era emerso che il direttore che aveva altresì tutto il tempo di prendere visione dell’articolo, informarsi e, all’esito, adottare i provvedimenti di competenza per evitare che con la pubblicazione dello stesso venisse commesso il reato di diffamazione); - risultava evidente l’omissione di controllo che il direttore avrebbe dovuto esercitare, perché il titolo ed il sottotitolo dell’articolo, nonché la posizione di evidenza all’interno della pagina non potevano sfuggire al suo controllo, come non poteva sfuggire il carattere sarcastico e diffamatorio dello stesso (Trib. Milano, 13.05.2004, n. 5487). Per contro il direttore è stato mandato esente da responsabilità in una fattispecie in cui, con riguardo ad una fotografia acquisita presso un’agenzia fotografica di provata affidabilità e nell’ambito di un rapporto fiduciario ultradecennale, si è ritenuto che il controllo del direttore del giornale non dovesse estendersi fino alla consultazione del fotografo che scattò la foto, in assenza di elementi di sospetto, conosciuti e riconoscibili dal direttore, tali da imporgli un accertamento ulteriore rispetto a quello ordinario, relativo alla diretta fonte di approvvigionamento del materiale fotografico” (Trib. Milano, 17.03.2003, n. 2180). Da ultimo sull’argomento, si ricorda che la l’art.1 L.47/48 dispone testualmente che «sono da considerare stampa o stampati ai fini di questa legge tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisicochimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione»: il riferimento normativo limita l’ambito di applicabilità della disciplina a forme espressive che siano dunque attuate con il supporto di materiale cartaceo, idonee ad essere percepite con immediatezza da una pluralità di soggetti. Per tali ragioni nel caso di diffamazione consumata attraverso internet, la suindicata definizione a proposito di stampato appare “incompatibile con le modalità di diffusione delle pubblicazioni mediante internet, che avvengono attraverso la collocazione di dati ed informazioni trasmessi per via telematica tramite l’utilizzo di rete telefonica al server di un c.d. provider o webmaster, accessibile a migliaia di utenti contemporaneamente presso il quale le informazioni restano a disposizione dei diversi siti in modo tale che ciascun interessato può leggerle e conservarle mediante il proprio computer; ne consegue che non potendosi applicare analogicamente o estensivamente la definizione di stampa richiamata dell’art. 57 cp alle condotte diffamatorie commesse mediante internet il direttore responsabile deve essere assolto perché il fatto non sussiste” (Trib. Milano, 12.05.2003, n. 4153). g) Danno e rettifica Con riferimento ai danni risarcibili è noto che questi possono consistere nei danni patrimoniali ed in quelli morali (oltre che all’applicazione della sanzione pecuniaria ex art. 12 L. 47/1948 ed alla pubblicazione della sentenza di condanna). Al fine della determinazione del danno rileva se sia stato, o meno, “dato ampio spazio alle argomentazioni difensive della parte offesa” (Trib. Milano, 14.05.2003, n. 4451). Inoltre, sul presupposto che l’opinione pubblica rimane colpita dalle prime notizie ricevute, soprattutto se relative a presunte responsabilità di un soggetto e non si curi poi di eventuali pubblicazioni di rettifica o riparatorie, vista anche la loro costante inadeguatezza e la minima rilevanza che viene data sui giornali, alle stesse non viene solitamente attribuita capacità di annullare i danni, ma, semmai, di ridurne l’ampiezza (Trib. Milano, 22.11.2004, n. 10942). Ne consegue che nella determinazione del quantum “non può obliterarsi la condotta del denunciante che non ha prontamente richiesto la rettifica (...) in accordo con la giurisprudenza di legittimità che esclude che il danneggiato debba porre in essere comportamenti eccessivamente gravosi al fine di limitare le conseguenze dell’evento dannoso (Trib. Milano, 03.02.2004, n. 1079, il quale però precisa come non possa tuttavia considerarsi la richiesta di rettifica un comportamento implicante un sacrificio apprezzabile ed esorbitante l’ordinaria diligenza). h) Provocazione Da ultimo va detto che, in ambito penale può venire in considerazione in alcuni casi anche l’esimente della provocazione, per la sussistenza della quale “è necessario che l’agente abbia commesso il fatto di diffamazione nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso” (Trib. Milano, 26.03.2003, n. 1696). Nella diffamazione, tale esimente può essere validamente invocata solo se la reazione si sia manifestata nello stato d’ira immediatamente seguito al fatto ingiusto altrui, a nulla rilevando la mancanza in quel momento di disponibilità dello strumento attraverso il quale si sarebbe dovuta attuare la reazione (Trib. Milano, 03.03.2004, n. 2203, nonché Trib. Milano, 24 23.07.2003, n. 6249, secondo cui ai “fini della tempestività della reazione si deve considerare che gli articoli con cui si è realizzata la polemica sono stati pubblicati a distanza di soli sette giorni l’uno dall’altro; l’intonazione dell’articolo in cui comparivano le accuse formulate dall’imputato era proprio quella di una esplicita risposta alle (precedenti) accuse del querelante”). Essa inoltre può configurarsi anche “sotto il profilo della putatività, ai sensi dell’art.59 c.p. qualora ricorra una ragionevole, anche se erronea, opinione dell’illiceità del fatto altrui, ma in tal caso richiede che l’errore sia plausibile, ragionevole e logicamente apprezzabile” (Trib. Milano, 26.03.2003, n. 1696).