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Diffamazione a mezzo stampa

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Diffamazione a mezzo stampa
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Dicembre 2005
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Relazione sulle sentenze emesse
dal Tribunale penale di Milano nel biennio 2003-2004
Diffamazione
a mezzo stampa
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A cura di Sabrina Peron ed Emilio Galbiati
avvocati in Milano
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TRIBUNALE PENALE DI MILANO - Diffamazione tramite
mass-media. Esaminate 116 sentenze del periodo 2003/2004
Giornalisti alla sbarra: condanne
motivate (nella maggior parte dei casi)
“per difetto del requisito di verità”
La metà dei procedimenti penali instaurati si sono conclusi con una
remissione di querela (45,5%) o con una pronunzia di intervenuta
prescrizione (4,5%). Nella quasi totalità dei casi (94%) in cui gli
imputati sono stati riconosciuti colpevoli sono stati condannati solo
al pagamento di una multa (il cui importo massimo comminato è
stato di euro 1.500). La condanna alla reclusione è stata disposta
solo nel 6% dei casi (nella misura massima di 4 mesi) ed in
nessun caso ha trovato applicazione la condanna congiunta a
reclusione e multa. Sono stati riconosciuti e liquidati danni morali
in misura, in media, pari ad euro 46.721,73 (contro delle richieste
risarcitorie, in media, pari ad euro 351.033,42).
Con riferimento a questi dati si precisa che la condanna risarcitoria
più elevata è stata di euro 295.500,00, resa a favore di 197 parti
lese costituitesi collettivamente
Milano, 20 novembre 2005.
Dopo l’analogo lavoro svolto sulle sentenze emesse in sede civile, nel numero
12/2005 di “Tabloid” verranno pubblicati
i risultati della ricerca effettuata, dagli
avvocati Sabrina Peron ed Emilio
Galbiati, sulle sentenze emesse dal
Tribunale di Milano, sezioni penali, nel
biennio 2003-2004.
Tale ricerca è stata autorizzata dal Presidente del Tribunale di Milano che ha
demandato alle competenti Cancellerie il
rilascio di copie delle sentenze nel rispetto della normativa in materia di privacy.
I dati più significativi emersi con riferimento alle 116 sentenze penali di primo
grado emesse nel biennio 2003-2004,
sono i seguenti:
durata del procedimento: la durata del
procedimento penale, dalla data del rinvio
a giudizio a quella del deposito della
sentenza di primo grado, è in media
leggermente inferiore ai due anni (666
giorni). Mentre tra la data di pubblicazione del pezzo incriminato alla data di
pubblicazione della sentenza trascorrono
in media poco più di quattro anni (1.546
giorni);
• tipologia di testata: i procedimenti per diffamazione a mezzo stampa hanno interessato le seguenti tipologie di testate:
- quotidiani nazionali 50%
- quotidiani locali 7%
- settimanali 25%
- periodici 9%
- reti televisive 8%
- agenzie di stampa 1%
3
TRIBUNALE PENALE DI MILANO
Diffamazione tramite mass-media.
Esaminate 116 sentenze del periodo 2003/2004
• tipologia articoli diffamatori: i più colpiti da querela per
diffamazione sono gli articoli di cronaca (nel 46% dei
casi) quindi le interviste (31%) e per finire gli articoli di
critica (23%);
• professione delle parti offese: tra le persone offese
sono principalmente emerse le seguenti categorie professionali:
- 21% privati
- 18% magistrati
- 14% amministratori di persone giuridiche
- 9% politici
• remissione di querela/prescrizione: ben la metà dei
procedimenti penali instaurati si sono conclusi con una
remissione di querela (45,5%) o con una pronunzia di
intervenuta prescrizione (4,5%);
• percentuali accoglimento/rigetto: sul rimanente 50%
dei casi giunti a dibattimento, il Tribunale ha pronunziato
condanna per diffamazione nel 55% dei casi;
• scriminanti assenti in caso di condanna: nella maggior
parte dei casi la condanna è motivata, in via principale,
per difetto del requisito di verità, anche sotto il profilo della
putatività (90%), seguono i casi in cui sono risultati predominanti le violazioni del limite della continenza (7%) e la
carenza di interesse pubblico (3%);
• condanna penale: nella quasi totalità dei casi (94%) gli
imputati riconosciuti colpevoli sono stati condannati solo
al pagamento di una multa (il cui importo massimo
comminato è stato di euro 1.500). La condanna alla reclusione è stata comminata solo nel 6% dei casi (nella
4
misura massima di 4 mesi) ed in nessun caso ha trovato
applicazione la condanna congiunta a reclusione e multa;
• condanna risarcitoria: in caso di condanna a favore
della parte civile costituitasi in giudizio:
- sono stati riconosciuti e liquidati danni morali in misura,
in media, pari ad euro 46.721,73 (contro delle richieste
risarcitorie, in media, pari ad euro 351.033,42). Con riferimento a questi dati si precisa che la condanna risarcitoria più elevata è stata di euro 295.500,00, resa a favore di 197 parti lese costituitesi collettivamente;
- la sanzione civile è stata applicata in misura, in media,
pari ad euro 7.116,67 (contro delle richieste di condanna, in media, pari ad euro 28.199,75). Anche con riferimento a questi dati si precisa che la condanna sanzionatoria più elevata è stata di euro 20.000,00, resa a
favore di 10 parti lese;
- la condanna in via provvisionale è stata disposta in
misura, in media, pari ad euro 19.060,00 (contro delle
richieste di condanna in via provvisionale, in media, pari
ad euro 119.425,80) ed anche qui si precisa che la
condanna provvisionale più elevata è stata di euro
45.000,00, resa a favore di 3 parti lese.
- spese legali: infine, la media liquidata dal Tribunale di
Milano a carico della parte soccombente ammonta ad
euro 5.781,94.
• impugnazione: avverso le sentenze penali è stato proposto appello nel 66% dei casi.
5
1
Il quadro
della situazione
a) Tempistica
Anzitutto abbiamo ritenuto opportuno verificare la
durata media del processo di primo grado.
Premesso che la data del rinvio a giudizio è stata
riportata solo su un campione ristretto di 57 sentenze, è comunque emerso che tra tale data ed il deposito della sentenza di primo grado trascorrono in
media meno di 2 anni (e, più precisamente, 666
giorni).
Abbiamo ritenuto interessante calcolare anche l’arco temporale medio che intercorre tra la data di
pubblicazione del “pezzo” incriminato e quella di
deposito della sentenza di primo grado. Si è potuto
rilevare che le sentenze di primo grado sono rese
disponibili, in media, poco più di 4 anni dopo la
pubblicazione o la diffusione della notizia incriminata (e, più precisamente, dopo 1.546 giorni).
I procedimenti penali di diffamazione a mezzo
stampa nel 90% dei casi hanno riguardato testate
giornalistiche. Nei casi residui la fattispecie asseritamente diffamatoria si è realizzata attraverso la
diffusione di volantini/affissioni (2%), libri (2%),
lettere/relazioni (2%), siti internet (2%), programmi
TV non giornalistici (2%).
Nell’ambito delle testate giornalistiche sono state
interessate diverse tipologie di pubblicazione
secondo le seguenti percentuali:
• i quotidiani nazionali per il 50%
• i quotidiani locali per il 7%
• i settimanali per il 25%
• i periodici per il 9%
• le reti televisive per l’8%
• le agenzie di stampa per l’1%
b) Testate
Percentuali testate / volantini / libri / lettere
siti internet / programmi TV
testate giornalistiche
90%
Tipologia di testate
reti televisive
8%
agenzie di stampa
1%
quotidiani nazionali
50%
periodici
9%
programmi TV
(non giornalistici)
2%
libri
2%
lettere / relazioni
2%
volantini / affissioni
2%
siti internet
2%
settimanali
25%
Percentuali testate
Altre testate (1)
20%
Telelombardia
1,75%
Corriere della Sera
23%
Il Giorno
15%
Panorama
13,5%
Repubblica
1,75%
Prima pagina
1,75%
Il Mondo
1,75%
Cronaca Vera Giornale
1,75%
di Vimercate
Giornale di Lecco
1,75%
1,75%
In particolare, nel biennio 2003-2004, i procedimenti di diffamazione a mezzo stampa hanno riguardato
gli articoli diffusi dalle seguenti testate:
Corriere della Sera (23%), Il Giorno (15%), Panorama (13,5%), Oggi (3,5%) RAI (2,5%), Gazzetta dello
Sport (2,5%), La Stampa (2,5%), Antenna 3 (1,75%),
Bergamo Sette (1,75%), Cronaca Vera (1,75%),
Giornale di Lecco (1,75%), Giornale di Vimercate
(1,75%), Il Mondo (1,75%), L’Unità (1,75%),
Oggi
3,5%
Rai
L’Unità
1,75%
quotidiani locali
7%
Gazzetta dello Sport
2,5%
Antenna 3
1,75%
La Stampa
2,5%
Bergamo Sette
1,75%
Prima pagina (1,75%), Repubblica (1,75%), Telelombardia (1,75%), altre testate con un caso per
ciascuna (20%).
Di seguito riportiamo i grafici inerenti al numero ed
alla percentuale dei procedimenti relativi alle singole testate.
Testate
30
(1) Amica; ANSA;
Brescia Oggi;
Cronaca Proibita;
Cuore; Gazzetta di Lecco;
Giornale di Brescia;
Grand Hotel; Il Giornale;
Il Secolo XIX;
Il Sole 24 Ore; Italia Oggi;
La Provincia di Sondrio;
La Voce; La7;
Lavaggio Industriale;
L’Opera; L’Operese; M.F.;
R.T.I.; Terzo Millennio;
Tribuna di Treviso; Visto.
26
23
25
20
17
15
15
10
4
5
3
3
3
2
2
2
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2
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c) Professione parte offesa dal reato di diffamazione a mezzo stampa
In via preliminare, deve sottolinearsi che la persona
offesa dal reato di diffamazione, dopo aver sporto
querela, si costituisce parte civile nel relativo
processo penale solo nell’80% dei casi.
Ciò premesso, la diffamazione a mezzo stampa è
un reato che può colpire soggetti appartenenti alle
più varie categorie professionali e ciò anche a
seconda dei temi di maggior attualità giornalistica in
un particolare momento storico.
Abbiamo pertanto ritenuto interessante enucleare il
dato relativo alle diverse attività professionali delle
persone offese:
Professione parte offesa
35
32
30
25
29
22
20
15
15
12
10
9
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Percentuali professione parte offesa
privato
21%
impiegato
1%
magistrato
18%
altri (3)
2%
amministratore
persone
giuridiche
14%
giornalista
2%
artista
2%
sportivo
2%
imprenditore
2%
sindacalista
3%
7
politico
9%
militare
3%
medico /
infermiere
4%
avvocato
4%
persona
giuridica
6%
pubblico
dipendente (2)
7%
3
3
2
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1
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• 18% magistrati;
• 14% amministratori di persone giuridiche;
• 9% politici;
• 7% pubblici dipendenti (2);
• 6% persone giuridiche;
• 4% avvocati;
• 4% medici / infermieri;
• 3% militari;
• 3% sindacalisti;
• 2% imprenditori;
• 2% sportivi;
• 2% artisti;
• 2% giornalisti;
• 1% impiegati;
• 2% altri (con un caso ciascuno) (3);
• 21% soggetti privati (in cui la fattispecie diffamatoria
non ha investito o interessato l’attività professionale).
(2) si precisa che, a fini statistici, è stato conteggiato come un’unica parte offesa la situazione giuridica di 197 pubblici dipendenti
appartenenti ad una categoria asseritamente diffamata nel suo
complesso e che avevano presentato un’unica querela.
(3) diplomatico; ente pubblico; notaio; professore universitario.
d) Tipologia articoli e/o servizi diffamatori
Attraverso l’analisi delle singole fattispecie si è potuta verificare la tipologia degli articoli e/o servizi diffamatori: sul campione di 111 sentenze portanti il riferimento specifico al contenuto del pezzo incriminato, nel 46% dei casi si trattava di cronaca dei fatti, il
23% riguardava espressioni di critica e il 31%
concerneva interviste.
Percentuali tipologia articoli diffamatori
cronaca
46%
intervista
31%
critica
23%
2
Le richieste del P.M.
e della Parte civile
a) Le richieste del P.M
Meritano di essere specificamente analizzate le richieste processuali avanzate dalla Pubblica Accusa
(con riguardo alle istanze di natura penale) e dalla Parte Civile (con riguardo alle domande civili avanzate in sede penale).
8
Va precisato anzitutto che non sempre da parte
del P.M. è stata richiesta la condanna degli imputati. Più precisamente, il P.M. ha richiesto la
condanna solo nel 34% dei casi giunti a dibattimento; nel restante 66% dei casi il P.M. ha chiesto l’assoluzione dell’imputato (anche nella
forma della richiesta di non doversi procedere
per intervenuti fatti estintivi del reato quali la
remissione di querela o la prescrizione).
Con particolare riferimento alla tipologia delle
richieste di condanna avanzate dalla Pubblica
Accusa si deve ricordare che:
• in caso di diffamazione a mezzo stampa, ai
sensi dell’art. 595, 3° comma, c.p., è prevista
la pena edittale della reclusione da sei mesi a
tre anni o, in alternativa, della multa non inferiore a euro 516,46;
• qualora la diffamazione a mezzo stampa si
realizzi nella attribuzione di un fatto determinato, ai sensi dell’art. 13 L. 08.02.1948, n. 47
(come richiamato anche dall’art. 30 L.
06.08.1990, n. 223, sul sistema radiotelevisivo), si applica la pena aggravata della reclusione da uno a sei anni unitamente alla multa
non inferiore a euro 258,23.
Inoltre, ai sensi del combinato disposto degli articoli 595 e 57 c.p. possono essere imputati del
reato di diffamazione a mezzo stampa non solo
Percentuali richieste P.M.
assoluzioni
66%
condanne
34%
l’autore della pubblicazione (ed eventualmente il
soggetto che abbia rilasciato un’intervista), ma
anche il direttore responsabile che abbia
omesso il controllo sulla pubblicazione: quest’ultimo, può essere punito con la pena prevista
come sopra, diminuita in misura non eccedente
un terzo (v. art. 57 c.p.).
Dalla disamina delle richieste di condanna avanzate dal P.M., sono stati ricavati i seguenti dati:
- solo nel 10% dei casi il P.M. ha fatto richiesta
di condanna congiunta sia alla reclusione sia
alla multa;
- solo nel 7% dei casi il P.M. ha fatto richiesta di
condanna alla sola pena della reclusione;
- nell’83% dei casi il P.M. ha fatto richiesta di
condanna alla sola pena della multa.
Più dettagliatamente, la richiesta di condanna
alla reclusione viene avanzata dal P.M. nelle
seguenti misure:
• 17% dei casi fino a sei mesi;
• 83% dei casi da sei mesi a dodici mesi (la
richiesta più elevata è stata di condanna a 12
mesi di reclusione);
mentre la richiesta di condanna alla multa viene
avanzata dal P.M. nei seguenti termini:
• 89% fino a euro 1.000,00;
• 11% oltre euro 1.000,00 (la richiesta più elevata è stata di condanna alla multa di euro
2.000,00).
Percentuali richiesta reclusione P.M.
oltre 12 mesi
0%
reclusione + multa
10%
multa
83%
reclusione
7%
Percentuali richiesta multa P.M.
fino a 6 mesi
17%
da 6 a 12 mesi
83%
oltre 1.000,00 euro
11%
fino a 1.000,00 euro
89%
Ciò premesso, deve rimarcarsi il dato relativo
alla dialettica processuale, intesa quale rapporto
tra le richieste avanzate dalla Pubblica Accusa e
le determinazioni adottate dal Tribunale all’esito
del procedimento di primo grado.
Si è potuto rilevare che il Giudice di primo grado
ha integralmente rigettato le richieste del P.M.
nel 17% dei casi. Il dato generale è di per sé
significativo, ma per apprezzarne la reale portata riteniamo opportuno scorporare i dati specifici
relativi a: casi di rigetto integrale di domande di
assoluzione degli imputati: 5%; casi di rigetto
integrale di domande di condanna degli imputati: 38%.
Percentuali rigetto / accoglimento
richieste assoluzione P.M.
Percentuali rigetto / accoglimento
richieste condanna P.M.
rigetto
5%
accoglimento
62%
accoglimento
95%
9
Percentuali tipologia richiesta condanna P.M.
rigetto
38%
b) Le richieste della Parte civile
10
Il reato di diffamazione comporta, quale evento
lesivo, una violazione del diritto costituzionalmente garantito all’onore ed alla reputazione del
soggetto diffamato.
La persona offesa da reato di diffamazione ha
quindi diritto - ai sensi del combinato disposto
degli artt. 185 c.p. e 2043, 2059 c.c. - a conseguire il risarcimento dei danni subiti per la
lesione al proprio diritto.
Inoltre l’art. 186 c.p. prevede (fatto salvo quanto
sancito in altre disposizioni di legge, come ad
esempio nell’art. 9 L. 08.02.1948, n. 47) che il
giudice possa ordinare anche la pubblicazione
della sentenza di condanna qualora questa
costituisca un mezzo specifico per riparare il
danno non patrimoniale cagionato dal reato. Da
ultimo ai sensi dell’art. 12 L. 08.02.1948, n. 47,
la persona offesa può chiedere, oltre al risarcimento dei danni, una ulteriore somma a titolo di
riparazione pecuniaria (c.d. sanzione civile)
determinata dal giudice in relazione alla gravità
dell’offesa ed alla diffusione dello stampato.
Per completezza deve aggiungersi che, ai sensi
dell’art. 539 c.p.p., qualora le prove acquisite
non consentano la liquidazione del danno, il
giudice può pronunciare condanna generica
rimettendo le parti innanzi al giudice civile: in tal
caso a richiesta della parte civile, il giudice penale può comunque condannare gli imputati al
pagamento di una provvisionale, nei limiti del
danno per cui si ritiene già raggiunta la prova.
Si noti che, in questo caso, nel successivo giudizio avanti il giudice civile, possono essere
convenuti, in solido con l’autore ed il direttore
responsabile della pubblicazione, anche il
proprietario e l’editore della testata, civilmente
responsabili in via solidale ai sensi dell’art. 11 L.
08.02.1948, n.47. Venendo alla disamina delle
specifiche richieste processuali avanzate dalla
parte civile nelle pronunzie analizzate, è necessario svolgere una premessa di metodo.
Va infatti precisato:
- che come già in precedenza osservato al paragrafo 3, la persona offesa si costituisce parte
civile nell’80% dei casi: pertanto sono state
avanzate richieste di condanna civile in sede
penale, solo in 93 sentenze su 116;
- che in ben 54 casi, a seguito di presumibili
accordi extragiudiziali, la parte civile ha provveduto, prima che la causa venisse introdotta
in decisione, a rimettere la querela proposta:
pertanto solo in 39 casi la parte civile ha
presentato le proprie conclusioni risarcitorie;
- che infine in 11 casi le richieste della parte civile sono state formalizzate in una nota allegata
agli atti, il cui contenuto non è stato però riportato espressamente in sentenza.
In definitiva quindi, i dati relativi alle richieste
della parte civile sono stati ricavati da un
campione di 28 sentenze.
Con riguardo al campione di cui sopra può
osservarsi quanto segue:
• la richiesta di risarcimento dei danni civili è
stata avanzata dalla parte civile in tutti i procedimenti esaminati (100%);
• le richiesta di condanna alla pubblicazione - a
titolo risarcitorio - della sentenza di condanna
è stata formulata in 5 casi su 28 (18%);
• la sanzione civile è stata domandata in 6 casi
su 28 (21%);
• la provvisionale è stata richiesta in 20 casi su
28 (71%).
Quanto alla tipologia delle richieste di risarcimento dei danni civili, si è potuto rilevare che nel
61% dei casi sono stati lamentati sia danni patrimoniali sia danni morali, nel 7% dei casi solo
danni morali, mentre per il restante 32% è stata
formulata richiesta di condanna in separata sede
civile (in nessun caso è stata richiesta la condanna al risarcimento di soli danni patrimoniali).
Percentuali richiesta condanna parte civile
solo danni
patrimoniali
0%
solo danni morali
7%
liquidazione in
separata sede
32%
danni patrimoniali
+ morali
61%
Al di fuori dei casi in cui è stata richiesta la liquidazione dei danni civili in separata sede, abbiamo
constatato che le richieste risarcitorie sono state
formulate in via equitativa solo nel 4% dei casi ed
in misura determinata nel restante 96% dei casi.
Percentuali richiesta danni
in misura determinata / in via equitativa
in via equitativa
4%
in misura determinata
96%
Infine, laddove le domande sono state formulate
in misura determinata, abbiamo potuto calcolare
il dato relativo all’entità media delle diverse
richieste avanzate dalla parte civile:
• media delle richieste di risarcimento danni
(morali e patrimoniali) per la parte civile
(campione 18 sentenze): euro 351.033,42 (la
richiesta più elevata è stata pari a euro
3.000.000,00);
• media delle richieste di sanzione civile da liquidarsi a favore della parte civile (campione 4
sentenze): euro 28.199,75 (la richiesta più
elevata è stata pari a euro 61.976,00);
• media delle richieste di condanna in via di provvisionale per la parte civile (campione 18
sentenze): euro 119.425,80 (la richiesta più
elevata è stata pari a euro 551.645,69).
3
Esito del processo
Con riferimento all’esito dei procedimenti penali per
diffamazione tramite mass-media, il primo dato che
abbiamo raccolto riguarda la percentuale di assoluzioni e di condanne nel biennio 2003-2004.
Per chiarezza, merita anzitutto di sottolinearsi che il
50% dei giudizi penali oggetto di esame si sono
conclusi con una pronunzia in cui il Tribunale ha
dato atto di non dover procedere per avvenuta
remissione di querela o per intervenuta prescrizione del reato nel corso del processo.
In particolare, è avvenuta remissione di querela nel
45,5% dei casi ed è intervenuta prescrizione del
reato nel corso del processo nel 4,5% dei casi.
Per completezza si aggiunga che in 3 casi (pari
statisticamente al 2,5%) il Tribunale ha definito il
procedimento pronunziando su questioni di natura
meramente processuale.
Critica: percentuali assoluzioni / condanne
condanne
54%
assoluzioni
46%
Intervista: percentuali assoluzioni / condanne
assoluzioni
57%
Con riferimento alle pronunzie (47,5%) vertenti sul
merito delle fattispecie al vaglio del Tribunale, si è
potuta rilevare una leggera prevalenza delle
sentenze di condanna (55%) rispetto a quelle di
assoluzione (45%).
Percentuali assoluzioni / condanne
assoluzioni
45%
condanne
43%
Abbiamo ritenuto di esaminare nelle motivazioni
delle sentenze l’accertamento dell’assenza delle tre
scriminanti elaborate dalla giurisprudenza: la verità
della notizia, la continenza espositiva e l’interesse
pubblico alla diffusione della notizia.
I risultati dell’indagine possono essere così sintetizzati: nella maggior parte dei casi la condanna è
motivata in via principale per difetto del requisito di
verità, anche sotto il profilo della putatività (90%)
seguono i casi in cui sono risultati predominanti le
violazioni del limite della continenza (7%) e la
carenza di interesse pubblico (3%).
condanne
55%
Le percentuali di cui sopra subiscono lievi ma significative variazioni a seconda della tipologia degli
articoli e/o dei servizi diffamatori. E difatti, le
condanne sono pari al 61% per i “pezzi” di cronaca,
al 54% per articoli di critica e solo al 43% per le
interviste.
Percentuali scriminanti assenti
interesse pubblico
3%
continenza
7%
verità
90%
Cronaca: percentuali assoluzioni / condanne
condanne
61%
11
assoluzioni
39%
Anche a tale proposito le percentuali di cui sopra
variano a seconda della tipologia degli articoli e/o
dei servizi diffamatori.
Con riguardo ad articoli di cronaca, nel 100% dei
casi la condanna è stata pronunziata a seguito
dell’accertato difetto di verità. Per “pezzi” di critica o interviste invece, è accaduto che in qualche
caso - secondo le percentuali illustrate dai relativi
grafici - la principale scriminante assente sia risultata essere la continenza o l’interesse pubblico.
Critica: percentuali scriminanti assenti
continenza
14%
interesse pubblico
0%
verità
86%
Intervista: percentuali scriminanti assenti
interesse pubblico
17%
vertità
66%
Privati: percentuali assoluzioni / condanne
condanna
58%
assoluzione
42%
Magistrati: percentuali assoluzioni condanne
condanna
43%
assoluzione
57%
continenza
17%
Per completezza, abbiamo ritenuto interessante
enucleare anche il dato relativo al rapporto percentuale tra assoluzioni e condanne in funzione della
professione della persona offesa dal reato di diffamazione contestato, con particolare riferimento alle
categorie maggiormente interessate secondo quanto rilevato al paragrafo 3 che precede (vale a dire
magistrati, amministratori di persone giuridiche /
imprenditori, politici ed infine privati).
I risultati emersi - per certi versi sorprendenti possono sintetizzarsi come segue:
• privati: la percentuale di sentenze di condanna
per diffamazione, nel caso in cui la persona offesa
sia un privato, è pari al 58%;
• magistrati: la percentuale di sentenze di condanna è pari al 43%;
• amministratori di persone giuridiche / imprenditori: la percentuale di sentenze di condanna è
pari al 75%;
• politici: la percentuale di sentenze di condanna è
pari al 67%.
Amministratori persone giurudiche /
imprenditori: percentuali assoluzioni / condanne
condanna
75%
assoluzione
25%
Politici: percentuali assoluzioni / condanne
condanna
67%
assoluzione
33%
a) Condanne penali
12
In via preliminare meritano di sottolinearsi alcune
fattispecie particolari:
- in ben quattro casi il Tribunale di Milano, pur ritenendo realizzata una fattispecie diffamatoria, ha
pronunziato sentenza di condanna solo nei
confronti del soggetto intervistato, assolvendo
invece il giornalista che aveva raccolto le dichiarazioni lesive ed il direttore che aveva consentito la
pubblicazione, per avere questi ultimi rispettato i
criteri che contraddistinguono l’esercizio del diritto
di cronaca;
- in ben tre casi il Tribunale di Milano, pur ritenen-
do realizzata una fattispecie diffamatoria, ha
pronunziato sentenza di condanna solo nei
confronti del soggetto autore di una lettera al
direttore, pubblicata nella relativa rubrica.
Ciò posto, si osserva che, per le residue sentenze
di condanna, nel 61% dei casi la pena viene comminata - anche se non in misura paritetica - sia all’autore del pezzo, sia al direttore responsabile (di
regola per omesso controllo sul contenuto della
pubblicazione ai sensi dell’art. 57 c.p.), mentre nel
30% dei casi la condanna investe solo il direttore
responsabile e nel restante 9% solo il giornalista.
Percentuali condanne giornalista / direttore
solo direttore
30%
giornalista + direttore
61%
Inoltre, in ordine all’entità delle pene comminate, è
emerso quanto segue:
• la condanna alla reclusione non è mai superiore
ai 6 mesi e addirittura la misura massima comminata è stata di 4 mesi.
• la multa di cui viene ingiunto il pagamento, nel
46% dei casi è inferiore ad euro 500,00, nel 52%
dei casi oscilla tra euro 500,00 ed euro 1.000,00
e solo nel 2% dei casi supera il valore di euro
1.000,00 (l’importo massimo comminato è stato di
euro 1.500,00).
Percentuali condanna alla multa
solo giornalista
9%
da euro 500,00
a euro 1.00,00
52%
oltre euro 1.00,00
2%
fino a euro 500,00
46%
Premesso quanto sopra deve prendersi in considerazione la tipologia delle condanne comminate in
concreto.
Nella quasi totalità dei casi (94%) gli imputati riconosciuti colpevoli vengono condannati solo al
pagamento di una multa, mentre la condanna alla
reclusione viene comminata solo nel 6% dei casi.
Si noti che in nessun caso ha trovato applicazione
la condanna congiunta a reclusione e multa secondo quanto disposto dall’art.13 L.47/1948.
Percentuali tipologia di condanna
reclusione
6%
multa + reclusione
0%
multa
94%
In definitiva, secondo i dati raccolti può ritenersi
confermata la tendenza manifestatasi nella pratica,
alla applicazione quasi esclusiva delle pena della
multa: la reclusione, ove comminata, è disposta in
misura tale da consentire la sospensione condizionale della pena.
Fermo restando il condivisibile principio secondo cui
sarebbe opportuno escludere la pena della reclusione per i reati di opinione, la portata pratica del
progetto di riforma legislativa allo studio in tal senso
risulta minima (gravi invece, secondo molti
commentatori, appaiono i rischi derivanti dalla
“bagatellizzazione” del reato prevista dal medesimo
progetto).
b) Condanne civili in sede penale
Venendo alla disamina delle pronunce di condanna civile in sede penale deve svolgersi anche in
questo caso una premessa di metodo: su un totale di 116 sentenze esaminate la condanna civile è
stata comminata in 28 casi.
Con riguardo al campione di cui sopra può osservarsi quanto segue:
• la condanna al risarcimento dei danni civili è
stata accolta in tutti i 28 casi (100%);
• la condanna alla pubblicazione - a titolo risarcitorio - della sentenza è stata disposta in 10 casi
su 28 (36%);
• la sanzione civile è stata comminata in 6 casi su
28 (21%);
• la provvisionale in attesa di liquidazione definitiva, è stata riconosciuta in 5 casi su 28 (18%).
13
Quanto alla tipologia delle condanne di risarcimento dei danni civili, si è potuto rilevare che:
• nel 79% dei casi sono stati riconosciuti e liquidati solo danni morali;
• per il restante 21% è stata disposta condanna
con riserva di liquidazione in separata sede civile;
• in nessun caso è stata pronunciata condanna al
risarcimento di danni patrimoniali.
Infine, laddove le condanne sono state disposte in
misura determinata, abbiamo potuto calcolare il
dato relativo alla media dell’entità delle condanne:
• media delle condanne di risarcimento danni
morali a favore della parte civile (campione 22
sentenze): euro 46.721,73;
• media delle condanne al pagamento della
sanzione civile a favore della parte civile
(campione 6 sentenze): euro 7.116,67;
• media delle condanne in via di provvisionale a
favore della parte civile (campione 5 sentenze):
euro 19.060,00.
Per completezza, meritano di evidenziarsi anche
gli importi massimi delle condanne risarcitorie o
sanzionatorie:
- la condanna risarcitoria più elevata è stata di
euro 295.500,00, resa a favore di 197 parti lese
costituitesi collettivamente; si noti che la
condanna più elevata a favore di una singola
parte lesa è stata di euro 200.000,00 (si trattava
di un politico straniero cui è stata falsamente
attribuita una condotta gravissima);
- la condanna sanzionatoria più elevata è stata di
euro 20.000,00, resa a favore di 10 parti lese: la
condanna più elevata a favore di una singola
parte lesa è stata di euro 5.000,00;
- la condanna provvisionale più elevata è stata di
euro 45.000,00, resa a favore di 3 parti lese: la
condanna più elevata a favore di una singola
parte lesa è stata di euro 20.000,00.
Abbiamo infine ritenuto opportuno predisporre
anche un grafico idoneo a rappresentare il raffronto tra l’entità delle richieste di condanna della
parte civile e l’entità delle condanne effettivamente comminate, per evidenziare la notevole disparità tra le pretese della parte civile e la misura del
loro accoglimento effettivo da parte del giudice
penale.
Per completezza, viene in rilievo l’ulteriore dato
relativo alla liquidazione delle spese legali a favore della parte civile in caso di accoglimento delle
richieste risarcitorie.
In media le spese legali liquidate a favore della
parte civile ammontano a euro 5.781,94.
Percentuali tipologia di condanna
al risarcimento danni
separata sede
21%
patrimoniali
0%
morali
79%
Raffronto richieste / condanne civili
richiesta
19.060,00
condanna
provvisionale
119.425,80
7.116,67
sanzione civile
28.199,75
46.721,73
danni
351.033,420
4
14
Ricorso in appello
Da ultimo si evidenzia che avverso le sentenze
penali di merito rese dal Tribunale di Milano nel
biennio 2003-2004 è stato proposto appello nel
66% dei casi.
Percentuali sentenze appellate
no
34%
sì
66%
5
Considerazioni
conclusive in diritto
Come ultimo aspetto di questa relazione, ci
preme illustrare - anche per una migliore
comprensione dei dati sin qui esposti - le
motivazioni in diritto elaborate nelle sentenze che abbiamo esaminato.
Anzitutto, và detto che la diffamazione è un
“reato a forma libera dove la condotta materiale si estrinseca nell’offesa all’onore e al
decoro della persona” (Trib. Milano,
13.05.2004, n. 5487), che si consuma quando, e dove, è avvenuta la comunicazione
offensiva della reputazione altrui, con la
doverosa precisazione che per offesa non si
deve intendere l’avvenuta lesione del bene
giuridico, essendo sufficiente che esso
venga aggredito e messo in pericolo con
parole od atti offensivi che rendano probabile la causazione di una effettiva lesione (Trib.
Milano, 26.04.2004, n. 4171).
15
L’art. 595 c.p., “tutela la reputazione, ovvero
l’onore in senso oggettivo, inteso come
opinione e valutazione dei consociati rispetto alla personalità morale e sociale di un individuo” (Trib. Milano, 08.04.2003, n. 1430).
Ovviamente, la reputazione non si identifica
con la “considerazione che ognuno ha di sé
o con il semplice amor proprio, ma con il
senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale,
secondo il particolare contesto storico” (Trib.
Milano, 13.05.2004, n. 5487).
Inoltre, “in caso di offesa alla memoria di un
defunto, sussiste il diritto dei prossimi
congiunti a vedere tutelata la sua reputazione, ex art. 597 c.p., in quanto il pregiudizio si
estende alla dignità di essi stessi, che
subiscono un danno diretto ed immediato dal
reato e sono, pertanto, titolari del diritto di
querela” (Trib. Milano, 16.07.2003, n. 6415).
A tale proposito merita di sottolinearsi che
anche per una persona che ha già subito
una condanna penale non può non risultare
lesiva la notizia falsa che essa è stata
condannata per altri gravi reati. Né può
sostenersi che nel caso di soggetti già colti
dallo stigma del disonore sociale può aversi
diffamazione solo per quei settori morali
della loro persona che siano rimasti immuni
da elementi disonoranti: tale prospettazione
sarebbe contraddittoria con la pienezza della
tutela della dignità umana garantita dalla
costituzione, che non può tollerare artificiose frammentazioni ed offese ingiustificate,
come accadrebbe nel caso in cui si considerasse lecita un’offesa se riferita ad alcuni
attribuiti della personalità morale ed illecita
se riferita ad altri (Trib. Milano, 03.02.2004,
n. 1079. In questo senso anche Trib. Milano,
17.03.2003, n. 2747, secondo cui “a nessuno può consentirsi di cagionare volontariamente il peggioramento della reputazione pur
non buona di un soggetto, tanto più quando
il peggioramento sia non solo quantitativo,
cioè derivante dall’attribuzione di una condotta illecita ontologicamente non dissimile da
altre realmente tenute, ma qualitativo, cioè
riconducibile a pretese condotte sintomatiche
di degrado etico, dimostrative di un grave
tradimento dei propri ideali”).
Per quanto concerne “l’elemento oggettivo
del reato, si rileva che l’intento diffamatorio
può essere raggiunto non solo con valutazioni o giudizi offensivi dell’altrui reputazione,
ma anche con mezzi indiretti o con espressioni insinuanti e suggestionanti” (Trib. Milano, 18.12.2003, n. 12081). In ogni caso,
“l’espressione utilizzata, da valutare dal
giudice secondo l’opinione della generalità
degli uomini in connessione ai tempi, luoghi,
ambiente in cui il fatto si svolge ed alle persone coinvolte, ben può assumere, secondo le
circostanze in cui è utilizzata, significato lesivo diverso” (Trib. Milano, 19.06.2003, n.
3261).
Quanto, invece, all’elemento soggettivo, è
sufficiente il dolo generico, “inteso come
consapevolezza che le espressioni volontariamente utilizzate sono lesive dell’altrui
reputazione o possono porla a rischio: non si
richiede il dolo specifico, nel senso che non
occorre l’animus nocendi” (Trib. Milano,
08.04.2003, n. 1430 e Trib. Milano,
26.04.2004, n. 4171).
Conseguentemente, ad esempio, l’elemento
doloso difetta quando la “discrasia tra scritto
e pensato”, è spiegabile con il pessimo uso
fatto dal giornalista “del principale strumento
del suo lavoro, ovvero la lingua italiana”
(nella fattispecie esaminata dal Tribunale,
l’articolo risultava male costruito - ripeteva
“due volte lo stesso concetto con parole
diverse e, quindi, determinando un fraintendimento”): i “difetti di costruzione dell’articolo, di connessione sintattica e grammaticale,
se integrano in modo evidente imperizia o
negligenza e, quindi, uno stato colposo
dell’autore, proprio perché tali escludono la
consapevole offesa dell’altrui reputazione”
(Trib. Milano, 19.06.2003, n. 3261).
Sempre in via esemplificativa, vediamo che
“quando il giornalista ometta il controllo delle
fonti o ne compia uno di particolare superficialità, allora non potrà non rappresentarsi,
senza poterla escludere, l’eventualità della
discordanza tra fatto narrato e fatto storico
accaduto, in tal modo rientrando il suo atteggiamento soggettivo nella figura del dolo
eventuale”.
Ne consegue che “il giornalista sarà in colpa con conseguente esclusione del reato - quando si sia rappresentato la possibile falsità della
notizia, avendola però esclusa mediante un
diligente (cioè conforme al comportamento
che avrebbe tenuto nelle stesse circostanze il
giornalista-tipo) vaglio delle fonti e dei riscontri; il giornalista verserà in dolo quando il
dubbio sulla falsità non sia stato risolto o sia
stato risolto mediante un procedimento che il
giornalista sa essere insufficiente, negligente,
difforme dalle regole deontologiche”. Sempre
con riguardo all’onere di controllo fonti: "il giornalista non può esimersi dal vaglio della fonte
solo e semplicemente citandola, poiché nel
momento in cui diffonde l’informazione ricevuta, se ne fa - salvi casi particolari - in quanto
propalatore, corresponsabile” (Trib. Milano,
08.04.2003, n. 1430).
In ordine al soggetto leso, affinché possa
ipotizzarsi la sussistenza “del delitto di diffamazione è necessario che l’aggressione alla
reputazione sia effettuata nei confronti di un
soggetto determinato nella sua individualità
soggettiva: a questo fine è irrilevante l’indicazione nominativa del diffamato, ma occorre
che il riferimento a questi sia deducibile dalla
stessa prospettazione oggettiva dell’offesa,
che deve contenere elementi tali da consentirne in modo diretto o indiretto, ma sempre con
ragionevole certezza, l’identificazione agevole ed inequivoca anche per esclusione o in
via deduttiva nell’ambito di una ristretta categoria di persone” (Trib. Milano, 17.03.2003, n.
2747, nonché, Trib. Milano, 26.03.2003, n.
1696 secondo cui “in mancanza di indicazione
specifica (…) è sufficiente che l’offeso possa
venire individuato per esclusione in via induttiva tra una categoria di persone, a nulla rilevando che in concreto l’offeso venga individuato da un ristretto gruppo di persone). Per
tale ragione, “il criterio da seguire per l’individuazione della persona offesa dal reato deve
essere quello «oggettivo» a nulla rilevando le
intuizioni o le congetture che possono insorgere in chi si senta «soggettivamente» destinatario delle espressioni denigratorie (Trib. Milano,
28.08.2003, n. 7170). Sul punto, inoltre, è
oramai pacifico che ben “possono essere
considerate persone offese dal reato sia le
persone giuridiche e gli enti collettivi in
quanto tali, sia i singoli appartenenti all’ente
o alla collettività quando attraverso riferimenti
espliciti o mediante indiscriminato coinvolgimento nella riferibilità dell’accusa risultino
danneggiati nella loro onorabilità individuale”
(Trib. Milano, 28.08.2003, n. 7170).
Da ultimo, in via generale si ricorda che per
“determinare il momento consumativo dei
reati connessi a mezzo stampa è sufficiente
accertare il luogo ove è stata eseguita la stampa, in quanto in tale luogo avviene, una volta
messo a disposizione lo stampato di una
cerchia più o meno vasta di persone, la prima
diffusione intesa in senso potenziale; del resto,
uscito lo stampato dalla tipografia, esiste l’immediata possibilità che venga letto da persone
diverse anche prima dell’effettiva distribuzione
nelle edicole e di conseguenza il luogo di diffusione coincide con quello in cui avviene la
stampa” (Trib. Milano, 08.07.2003, n. 7088).
Con riferimento, invece alla prescrizione, tutte
le volte in cui la “prescrizione dell’azione civile
si adegua alla prescrizione penale, ai fini del
termine si deve aver riguardo a quello previsto
per il reato nella sua iniziale contestazione,
senza tener conto delle diminuzioni di pena
edittale che possono derivare dall’applicazione
dell’art.62 bis c.p., essendo quest’ultima rimessa ad accertamenti compiuti dal giudice di cui
il danneggiato non può preventivamente conoscere l’esito” (Trib. Milano, 17.03.2003, n.
2747). Tanto premesso, in tema di diffamazione a mezzo stampa e, più in generale, tramite
mass-media, la giurisprudenza ha elaborato
una serie di parametri al fine di valutare la
sussistenza con portata scriminante del diritto
di cronaca o critica. Questi parametri, come è
noto, sono: verità della notizia (quantomeno
sotto il profilo putativo), continenza espositiva,
interesse pubblico. Ciò posto, riteniamo opportuno illustrare l’orientamento assunto dal Tribunale penale di Milano con riferimento all’interpretazione ed all’applicazione dei parametri di
cui sopra.
a) La verità della notizia
16
Quanto al primo e fondamentale requisito,
“per verità deve intendersi la sostanziale
corrispondenza (adaequatio) tra i fatti come
sono accaduti (res gestae) e i fatti come sono
narrati (historia rerum gestarum), perché solo
la verità come correlazione rigorosa tra il
fatto e la notizia soddisfa alle esigenze
dell’informazione e riporta l’azione nel
campo dell’operatività dell’art.51 c.p. rendendo non punibile - nel concorso dei requisiti
della continenza e della pertinenza - l’eventuale lesione della reputazione altrui)” (Trib.
Milano, 06.10.2003, n. 7148).
In particolare il giudice ambrosiano condivide “l’impostazione rigorosa assunta dalla
Cassazione, in forza del quale il comporta-
mento negligente o imperito del giornalista
che non svolge i dovuti controlli prima di
diffondere una notizia (...), determina l’accettazione del rischio di pubblicare informazioni
false e pertanto il suo comportamento (...) è
connotato da dolo eventuale: diversamente
giudicando si consentirebbe all’autore di
informazioni destinate alla diffusione di non
approfondire l’aspetto della veridicità delle
medesime e si finirebbe per rendere lecita la
diffamazione.
Lo stesso ragionamento si applica anche nel
caso di travisamento della fonte: se si chiede al giornalista un controllo sulla propria
fonte mediante ulteriori accertamenti ricavabili aliunde sulla notizia da pubblicare (...),
tanto più si deve pretendere che egli svolga
quel controllo ben più modesto sulla corrispondenza di quanto dice alla sua fonte di
informazione (...) questa è una richiesta
minima alla quale il giornalista deve senz’altro adempiere” (Trib. Milano, 02.02.2004, n.
1018). Malgrado tale rigore il Tribunale di
Milano ha comunque precisato che insistere
sul punto della verità dei fatti narrati - intesa
in senso assoluto - e sull’assoluta inesistenza di fonti privilegiate, nonché sulla “necessità che il giornalista compia tutti gli accertamenti più completi e penetranti per vagliare
l’informazione che la fonte porta a sua conoscenza, significa fare incombere al giornalista un rischio penale altissimo, e non
coerente alla natura dell’attività che istituzionalmente compie, o porlo nella condizione di
rinunciare alla pubblicazione anche di notizie che godono comunque di un alto grado
di probabilità di aderenza al fatto storico
accaduto (Trib. Milano, 26.04.2004, n. 4171,
il quale ha aggiunto che “quando attraverso
fonti successive sia possibile ricostruire la
realtà dei fatti in modo collimante con la ricostruzione giornalistica, non può e non deve
essere preso in considerazione il problema
dello stato psicologico del giornalista nel
mentre scriveva l’articolo incriminato”).
17
La mera convinzione soggettiva del giornalista in ordine alla veridicità o verosimiglianza non può determinare ex sé la liceità
della propalazione di notizie difformi dal
reale accadimento dei fatti (Trib. Milano,
03.02.2004, n. 1079, in una fattispecie dove
l’evidente difformità delle notizia pubblicata
dalla verità storica dei fatti indiziava, con
sufficiente gravità e precisione, la mancata
esecuzione del controllo delle fonti). A ciò si
aggiunga che - qualora il giornalista abbia
coscientemente e volontariamente omesso
di controllare la verità - non è una scusante
la necessità di una assoluta tempestività
nella pubblicazione della notizia e la difficoltà di compulsare fonti originarie, perché
spetta comunque al cronista dare contezza
della cura e della meticolosità con cui abbia
indagato sulla genuinità delle sue informa-
zioni - nel caso di specie il cronista non ha
dato prova del meticoloso controllo delle
fonti (cfr. Trib. Milano, 22.11.2004, n. 10942,
secondo cui in questi casi, anche a voler
adottare un’interpretazione più favorevole
all’imputato questi non potrebbe sfuggire
alla responsabilità sotto il profilo del dolo
eventuale avendo scritto un articolo di sicura lesione della sfera dell’onore e del decoro della parte lesa senza essersi curato di
accertarsi in modo rigoroso della verità dei
fatti: in senso conforme anche Trib. Milano,
08.06.2004, n. 5787, in una fattispecie in cui
tra i fatti vi era una circostanza rilevantissima che, pur a conoscenza del giornalista,
non era stata riportata nell’articolo). Ovviamente, “è da escludersi che sussista a carico del giornalista, in via generale, un obbligo di sentire previamente il punto di vista
della persona interessata dalla pubblicazione di una determinata notizia; semmai l’interpello dell’interessato può assumere rilievo come uno dei possibili canali attraverso
cui può esplicarsi quell’attività di controllo
della veridicità e della completezza della
notizia, che il giornalista è tenuto ad effettuare con diligenza ed alla stregua di tutti gli
strumenti utili a sua disposizione” (Trib.
Milano, 11.03.2003, n. 1007, in questo caso,
poiché la notizia è risultata vera e riguardava l’esito di un procedimento istruito già nel
contraddittorio delle parti, il fatto che il
querelante non fosse stato previamente
interpellato dal giornalista risultava irrilevante ai fini del giudizio).
La verità della notizia può venire in rilievo
sotto l’aspetto della sua putatività, qualora
il giornalista abbia svolto i necessari controlli e verifiche o nel caso in cui abbia fatto affidamento su una “particolare attendibilità
della fonte da cui proviene la notizia”: difatti
“una volta ricondotto il diritto di cronaca
all’esercizio di un diritto ex art.51 cp non vi
è ragione di escludere l’applicazione ad
esso dell’art. 59 ultimo comma cp, secondo
il quale, se l’agente ritiene per errore che
esistano circostanze di esclusione delle
pena, queste sono sempre valutate a suo
favore” (Trib. Milano, 12.05.2003, n. 4153).
Ad ogni modo, la scriminante della verità
putativa non può trovare applicazione
“quando l’autore dello scritto diffamante non
abbia proceduto a verifica compulsando la
fonte originaria” (Trib. Milano, 06.10.2003,
n. 7148, il quale aggiunge che in “caso di
impossibilità il giornalista assume il rischio
della pubblicazione comunque avvenuta”: in
questo senso anche Trib. Milano,
04.032004, n. 2276, in una fattispecie in cui
le notizie erano prive di attinenza alla verità
e non era stato assolto l’onere di verificare il
nucleo essenziale del fatto specifico attribuito alla persona offesa, neppure in maniera
da legittimarne una ricostruzione putativa,
ancorché oggettivamente falsata).
b) La continenza espressiva
Quanto al requisito della continenza nella
forma espressiva, il Tribunale di Milano anzitutto osserva che questa “non è un valore
astratto e cristallizzato, ma deve essere valutato nel concreto ed è suscettibile di diversa
estensione a seconda del tema trattato,
dovendo in sostanza, risultare proporzionato
e commisurato, nei toni e nella scelta delle
espressioni usate, alla rilevanza dei comportamenti e dei fatti di cui si discute” (Trib. Milano, 28.10.2003, n. 8786). Difatti, in materia di
diffamazione tramite mass-media “il significato delle parole dipende dall’uso che se ne fa e
dal contesto comunicativo in cui si inseriscono: pertanto anche il riferimento ad indefinite
«voci di corridoio» o l’uso del modo condizionale può essere idoneo a diffondere una falsa
notizia” (Trib. Milano, 06.10.2003, n. 7148: in
questo senso anche Trib. Milano, 21.04.2004,
n. 4029, relativamente ad una fattispecie in
cui l’articolo era stato più volte «vivacizzato»
con una pluralità di riferimenti poco benevoli
riferendo «voci» di malelingue).
Così ad esempio il Tribunale di Milano
ha ritenuto che
• l’aver addebitato ad un soggetto di professione giornalista un atteggiamento omissivo è affermazione lesiva della sua dignità
professionale, poiché lo indica come un
manipolatore, di notizie e come dolosamente inadempiente al dovere professionale di fornire una informazione completa
(Trib. Milano, 26.01.2004, n. 768, anche se
nel caso di specie il comportamento risultava scriminato ex art. 599 c.p. costituendo
l’articolo in questione una risposta agli
attacchi pubblicati dal diffamato che si era
riferito all’imputato con l’espressione
«stampa tecnica prezzolata»);
• per un accademico le pubblicazioni sono gli
strumenti attraverso i quali far conoscere il
proprio valore professionale alla comunità
scientifica: su tale presupposto la definizione «pigro di penna» contenuta in un articolo, risulta idonea ad offuscarne l’immagine
(Trib. Milano, 13.05.2004, n. 5487, in cui
rilevava come tale frase inserita nel corpo
dell’articolo dopo un breve curriculum
dell’interessato la rendeva ancora più verosimile agli occhi del lettore);
• non è consentito riferirsi ripetutamente ad
una persona con l’appellativo spregiativo e
denigratorio di «mariuolo» tentando di
nascondere l’ingiuria sotto il gioco di parole riferito al nome del querelante (Trib. Milano, 22.11.2004, n. 10942, il quale ha rilevato come l’offesa fosse stata peraltro
sottolineata in modo smaccato e manifesto
per essere stata riportata sotto la fotografia
del querelante).
In ogni caso è ammesso l’uso di espressioni
colorite ed allusive-caratteristiche del resto
dello stile giornalistico-quando l’articolo si
mantiene nell’ambito di un’esposizione civile, senza trasmodare in un linguaggio di per
sé offensivo (Trib. Milano, 08.03.2004, n.
2472, in una fattispecie in cui l’attacco del
pezzo che paragonava due fratelli a Caino e
Abele, con ciò insinuando che il querelante
fosse un omicida, in realtà veniva subito
sminuito dal tenore complessivo della frase
«una sorta di storia di Caino e Abele in tono
decisamente minore»).
c) Interesse pubblico
18
Con riferimento all’interesse pubblico, va
in primo luogo evidenziato che questo non
discende dalla mera notorietà dei personaggi coinvolti nelle vicende narrate, ma
deve essere valutato con riguardo al contenuto della notizia, la quale deve essere di
tale rilievo ed importanza per la generalità dei cittadini da prevalere sul diritto alla
riservatezza ed alla onorabilità dei singoli.
E così, ad esempio, il Tribunale di Milano
ha escluso che un organo di stampa possa
legittimamente proporsi come portavoce ed
amplificatore di «esternazioni» (quali «cicisbeo» che «la induceva a bere e fare uso
di stupefacenti»), estranee a i temi d’indagine, relative ad una sfera strettamente
privata e, peraltro, di impatto potenzialmente dirompente per quanto attiene alla rete
di relazioni del soggetto investito delle
dichiarazioni pubblicate, che viene così
messo rumorosamente alla berlina (Trib.
Milano, 02.03.2004, n. 2256: in questo
senso anche Trib. Milano, 07.02.2003, n.
1358, secondo cui, con riferimento a informazioni che attengono alla vita privata
della vittima di un omicidio il suo “diritto alla
riservatezza - tanto più se correlato ad attività moralmente riprovevole secondo il
costume corrente - non viene meno per il
solo fatto che un omicidio sia stato
commesso e può legittimamente subire
una compromissione solo a fronte di un’effettiva utilità della diffusione della notizia”).
Sempre in via esemplificativa, vediamo che
il Tribunale di Milano ha ritenuto sussistere
l’interesse del pubblico alla conoscenza dei
fatti:
• nel caso di una società svolgente un
ruolo altamente considerevole sul piano
dell’economia nazionale, così da poterla
qualificare come un soggetto dotato di
un’ampia dimensione pubblica di vita,
condizione che comporta inevitabilmente
un altrettanto elevato livello di esposizio-
ne alla attenzione e quindi alla critica del
pubblico (Trib. Milano, 07.01.2004, n.
30);
• nel caso di circostanze attinenti la solvibilità di una società che opera in un settore
cruciale come le telecomunicazioni e che
risultava titolare di licenze rilasciate dalle
pubbliche
autorità
(Trib.
Milano,
19.04.2004, n. 3861);
• con riguardo a fatti inerenti “operazioni di
economia finanziaria che rientrano per
eccellenza tra gli argomenti sui quali i cittadini devono essere ed hanno diritto di
essere
informati”
(Trib.
Milano,
26.04.2004, n. 4171);
• circa episodi relativi la missione ONU
italiana in Somalia: in questo caso l’interesse pubblico è incontroverso e giustifica
l’esercizio del diritto di informare e di essere informato, anche perché l’articolo
affrontava la tematica dei diritti umani e del
“ripudio della tortura quale strumento
processuale per la ricerca della verità, che
dall’Illuminismo in poi costituisce uno dei
caratteri fondamentali degli ordinamenti
liberali e democratici ed è stato trasfuso in
fonti di diritto internazionale” (Trib. Milano,
15.04.2004, n. 3763).
Non sussiste invece interesse pubblico alla
conoscenza di fatti risalenti a dieci anni
addietro e privi di attualità e rilevanza: dopo
un certo numero di anni (e, osserva il Tribunale, sicuramente dieci lo sono), sul diritto di
cronaca prevale il diritto all’oblio del soggetto che da tempo e con fatica cerca di ricostruire la propria vita (Trib. Milano,
22.11.2004, n. 10942; osserva altresì, il
Tribunale che il termine cronaca significa
«resoconto di fatti contemporanei al narratore» e con l’“adottare altre interpretazioni si
giungerebbe alla vergognosa e illecita
conseguenza di scriminare il comportamento di una qualsivoglia persona che, per occasione o per mestiere, possa scrivere su un
giornale e tramite di esso mortificare moralmente ed additare alla pubblica vergogna
per un tempo indefinito un soggetto che
abbia una volta nel passato commesso uno
o più sbagli, anche se pagati con la sanzione applicatagli dal Tribunale dello Stato”).
d) Il diritto di cronaca, il diritto di critica e l’intervista
Illustriamo di seguito come sono state modulate dal Tribunale di Milano le tre scriminanti
sopra trattate con riferimento all’esercizio del
diritto di cronaca, del diritto di critica e alla
realizzazione di un’intervista.
Il diritto di cronaca
19
Nelle decisioni esaminate il diritto di cronaca
è venuto in rilievo soprattutto in fattispecie
nelle quali sono stati riferiti fatti attinenti alla
cronaca giudiziaria. In quest’ambito il Tribunale ha anzitutto ritenuto che il giornalista
possa attingere le notizie dai dibattimenti
penali, dagli organi di polizia giudiziaria (atti
giudiziari, rapporti di polizia, conferenze
stampa), ma non da fonti ufficiose o confidenziali (per esempio funzionari di polizia
che non osservino il dovere di riservatezza
ovvero da voci correnti), né da altri giornali
od agenzie di stampa e reti televisive, senza
verificarne la fondatezza (Trib. Milano,
07.02.2003, n. 1358, il quale precisa che non
può “attribuirsi efficacia sotto il profilo dell’esercizio putativo del diritto di cronaca a notizie ufficiose rivelate da organi di polizia in
violazione dell’obbligo i riservatezza a cui
sono tenuti”). In altre parole, con riferimento
a “notizie apprese da agenti o da rapporti di
polizia al di fuori dei canali ufficiali di comunicazione”, il Tribunale di Milano, sul presupposto “che per gli organi di stato esistono
precise forme di pubblicità del loro operato”,
ha ritenuto che “al di fuori di queste non
esiste alcuna ufficialità riconoscibile e tale
per cui il giornalista che pubblica notizie
apprese informalmente da organi della P.G.
può essere esentato da responsabilità solo
con la dimostrazione di avere svolto il
controllo e non già per l’affidamento riposto
in buona fede sulla fonte, per quanto possa
trattarsi di un organo dello Stato” (Trib. Milano, 15.10.2004, n. 9459). Conseguentemente “sussistono i presupposti di applicazione
della scriminante del diritto di cronaca, quando la notizia riportata nell’articolo incriminato
sia stata seriamente accertata e corrisponde
alla verità dei fatti - sia pure correlativamente alla fonte e nell’attualità del preciso riferimento storico dell’epoca della pubblicazione
- senza alterazioni o travisamenti del contenuto dei provvedimenti giudiziari da cui è
stata mutuata” (Trib. Milano, 06.03.2003, n.
2526).
Da ultimo, nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca il giudice ambrosiano ha altresì
precisato che il “criterio della verità dell’informazione comporta l’obbligo per il giornalista
di aggiornare la notizia, completandola con
tutti i dati conosciuti nel momento storico in
cui viene diffusa” (Trib. Milano, 15.10.2004,
n. 9459).
Il diritto di critica
Il diritto di critica “rientra tra i diritti pubblici
soggettivi inerenti alla libertà di pensiero e di
stampa” (Trib. Milano, 26.03.2003, n. 1696)
e si estrinseca nella “libertà di esprimere
opinioni e valutazioni su fatti e situazioni
nonché dissensi o consensi rispetto ad
opinioni altrui” (Trib. Milano, 08.04.2003, n.
1430). La critica deve dunque “consistere in
un dissenso motivato, espresso in termini
corretti e misurati e non deve assumere toni
gravemente lesivi dell’altrui dignità morale e
professionale. Il limite dell’esercizio di tale
diritto deve per ciò intendersi superato quanto l’agente trascenda in attacchi personali
diretti a colpire, su un piano individuale,
senza alcuna finalità di pubblico interesse la
figura morale del soggetto criticato giacché
in tal caso l’esercizio del diritto, lungi dal
rimanere nell’ambito di una critica misurata
ed obiettiva, trascende nel campo dell’aggressione alla sfera morale altrui, penalmente protetta” (Trib. Milano, 26.03.2003, n.
1696). In altre parole mentre il diritto di
cronaca è il “diritto di informare”; il diritto di
critica è la “libertà di esprimere valutazioni,
dissensi o consensi rispetto alle opinioni
altrui, come attività di analisi di eventi,
condotte, fenomeni, come espressione di
giudizi su accadimenti, fatti o circostanze dei
più vasti settori della vita” (Trib. Milano,
28.02.2003, n. 1805).
Quanto al requisito della verità, “è necessario sia vero il fatto su cui la critica viene esercitata, mentre ne rimane libera la valutazione” (Trib. Milano, 08.04.2003, n. 1430). Difatti la critica si “sostanzia nella manifestazione
di un giudizio che non può pretendersi rigorosamente
obiettivo
(Trib.
Milano,
28.10.2003, n. 8786); ne segue che “il giornalista può esercitare il proprio diritto di critica senza incorrere in censure purché (…) la
sua valutazione sia tenuta distinta dalla notizia in sé, risulti pertinente ai fatti riferiti e non
sia gratuitamente lesiva della reputazione
altrui” (Trib. Milano, 28.10.2003, n. 8786).
20
Si può così affermare che “la critica è sicuramente soggetta ai due parametri della rilevanza sociale dell’argomento e della correttezza dell’espressione, ma non può essere
assoggettata in relazione al terzo parametro, la verità dei fatti, in maniera così rigorosa come nel diritto di cronaca. Tuttavia la
stessa non può essere fantasiosa o astrattamente speculativa, svincolata cioè da
qualsivoglia profilo di verità e porsi quindi
come strumentale pretesto per l’aggressione dell’altrui reputazione” (Trib. Milano,
12.12.2003, n. 11882, nonché Trib. Milano,
28.10.2003, n. 8786, per il quale “è pacifico
che la critica possa essere anche particolarmente penetrante ed aspra e che il giornalista possa fare uso di toni oggettivamente
polemici ed incisivi, quando il suo giudizio
abbia ad oggetto argomenti di grave interesse pubblico”).
Fatte queste premesse di ordine generale,
vediamo di seguito alcuni casi concreti
esaminati dal Tribunale di Milano:
- in una fattispecie erano stati riferiti fedelmente dei fatti storici salienti in materia di
mafia, sui quali i giornalisti autori del pezzo
avevano espresso delle loro conclusioni
frutto di un’opinione personale: in questo
caso il Tribunale ha ritenuto che la vicenda
fosse stata affrontata nel rispetto del diritto
di cronaca e, per la parte in cui venivano
esplicitate le considerazioni personali, nel
rispetto del diritto di critica (Trib. Milano,
11.01.2004, n. 1419, il quale ha osservato
come il diritto di critica fosse stato esplicitato con fermezza, ma, al contempo, con
assoluto rispetto della civiltà delle forme);
- in un altro caso, in cui vi era un nucleo
sostanzialmente veritiero dei fatti assunti a
base delle opinioni e delle valutazioni
espresse, gli stessi, tuttavia, si risolvevano,
per il lessico impiegato, per l’uso strumentale degli apprezzamenti («personaggi
squallidi e intriganti»), per la sostanza e la
forma dei giudizi formulati, in un attacco
personale e gratuito non rispondente a un
particolare interesse sociale (Trib. Milano,
03.03.2004, n. 2203);
- il riferimento alla vita privata del diffamato
come «inquietante», è stato giudicato lesivo
del suo onore trattandosi di un “giudizio
oscuro e allusivo (che pare evocare qualcosa di non detto che se rivelato potrebbe
colpire duramente la querelante), francamente incivile come mezzo di attacco
personale”: il Tribunale ha altresì osservato
come l’articolo incriminato non enunciasse,
neppure per sottointesi, quali sarebbero
stati gli aspetti inquietanti ai quali si voleva
alludere, con la conseguenza che ne emergeva un’accusa del tutto gratuita e fortemente lesiva dell’onore personale della
persona coinvolta in quanto evocativa di
comportamenti riprorevoli sul piano morale
(Trib. Milano, 28.04.2004, n. 4298, il quale
osservava anche che l’articolo appariva
costruito su “semplici sospetti, voci ed illazioni e che il giornalista avrebbe potuto
correttamente indicarli come tali indicando
la fonte e proponendo delle ipotesi, senza
darli per assodati così da trasformare una
mera voce in verità”);
- infine, quando il soggetto leso è un personaggio pubblico noto alle cronache giornalistiche per i suoi meriti scientifici e la sua
personalità eccentrica, lo stesso non può
dolersi se diviene oggetto di critica anche
aspra, in quanto rientra nella normale
dialettica affidata ai mezzi di pubblicazione
(Trib. Milano, 13.05.2004, n. 5487): se poi
si tratta di una critica rivolta all’operato di
un magistrato, il Tribunale di Milano, sul
presupposto che “ogni Giudice è chiamato
a porre in essere quanto possibile, per
garantire il soddisfacimento dell’esigenza di
imparzialità della propria jurisdictio”, ha ritenuto fosse di “pubblico interesse conoscere le modalità di esercizio della jurisdictio”
rientrando quindi nel diritto di cronaca e di
critica riferire tali avvenimenti, nel momento in cui gli stessi sono veri e nulla si può
imputare al giornalista per averli riferiti con
una vis ironica, ma non contumeliosa (Trib.
Milano, 29.10.2004, n. 10062).
dichiarazioni espresse da un personaggio
noto che abbiano contenuto diffamatorio nei
confronti di terzi prescindendo dalla veridicità
del suo contenuto deve essere sicuro della
posizione di alto rilievo dell’intervistato e
dell’interesse della collettività ad essere informata del suo pensiero sull’argomento che
forma oggetto dell’intervista medesima” (Trib.
Milano, 24.03.2003, n. 1380).
Quanto a particolari forme di critica come
quella politica o sindacale, si ammette un
l’utilizzo di un linguaggio più vivace e polemico, purché lo stesso non si risolva in un
attacco gratuitamente offensivo sul piano
personale (Trib. Milano, 07.07.2003, n. 6666
e Trib. Milano, 15.07.2004, n. 7285, il quale
ritiene che il diritto di critica ben può esprimersi, nella fisiologica conflittualità che
caratterizza la dialettica sindacale, anche
con linguaggio assai vivace, senza per
questo che si debba intendere superato il
profilo della mera polemica).
La particolare disciplina dell’intervista, trova
dunque applicazione quando questa sia
“rilasciata da un soggetto che ricopra una
posizione di rilievo all’interno di questo o
quel settore della vita pubblica, in quanto in
casi del genere la notizia è rappresentata
proprio dal contenuto dell’intervista in quanto sussiste un interesse sociale alla conoscenza del pensiero di determinati personaggi di spicco. Inoltre il giornalista deve
sempre mantenere una posizione neutra e
imparziale perché diversamente risponde a
titolo di concorso nel reato di diffamazione:
in altri termini il giornalista deve assumere
la prospettiva del terzo osservatore dei fatti,
agendo per conto dei suoi lettori mentre
commetterà reato se sia solo un dissimulato
coautore della dichiarazione diffamatoria”
(Trib. Milano, 26.03.2003, n. 1696; nonché
Trib. Milano, 15.04.2004, n. 3763, in una
fattispecie in cui il soggetto intervistato - un
generale - essendo una persona qualificata
ad esprimere un’opinione sui fatti narrati per
le funzioni ricoperte e le attività svolte,
rappresentava, dunque, una fonte lecita,
selezionata e intrinsecamente attendibile).
In applicazione di tali principi il Tribunale di
Milano ha ritenuto che nell’esercizio della
sua attività il giornalista, pur in presenza di
accusa di indubbio contenuto diffamatorio,
mosse con toni molto duri verso alcuni magistrati, avesse assunto quella posizione di
imparzialità che è condizione per la sussistenza della scriminante dell’esercizio del
diritto di cronaca. In questa fattispecie il giornalista non aveva assecondato i toni usati
dall’intervistato, ma si era posto - vista la
delicatezza della situazione - quale contraltare dell’intervistato, rammentandogli le
opinioni dei magistrati o rappresentandogli
la gravità delle accuse lanciate agli stessi
(nella sentenza resa dal Trib. Milano,
18.05.2004, n. 5139, si precisa che in
questa fattispecie, non vi era alcun dubbio
che il fatto in sé dell’intervista, in relazione
alla qualità dei soggetti coinvolti - parlamentari e magistrati - alla materia in discussione
e al più generale contesto dell’intervista
stessa - accuse connesse a presunte attività
mafiose del parlamentare intervistato a cui
questi reagisce attaccando l’inchiesta e i
magistrati - presentasse quel profilo di interesse pubblico all’informazione, tale da
prevalere sulla posizione soggettiva del
singolo: per tali motivi il Tribunale di Milano
L’intervista
21
In materia di intervista, si segnala una
pronunzia del Tribunale di Milano che ha
dato conto dell’evoluzione giurisprudenziale
in materia.
In particolare vediamo che secondo “un
primo orientamento della Suprema Corte si
ritiene che il giornalista risponda del reato di
diffamazione commesso dal terzo intervistato qualora non ricorrano i requisiti della pertinenza, della verità dei fatti narrati e della
continenza verbale (...) poiché chi da diffusione alla dichiarazione di altri commette
diffamazione a sua volta (cfr. Cass.
17.03.1980, n.516): nel corso degli ultimi
anni, però, si è andato creando un diverso e
ben più liberale orientamento secondo il
quale è stata riconosciuta una vera e propria
esimente da intervista (...) in quanto è configurabile l’esimente putativa dell’esercizio del
diritto nei confronti del giornalista tutte le
volte in cui la notizia è costituita non solo e
non tanto dal contenuto delle dichiarazioni (di
pubblico interesse) rese dall’intervistato,
quanto dalle caratteristiche del soggetto che
rilascia l’intervista idonea a creare particolare
affidamento sulla veridicità delle sue affermazioni (cfr. Cass. 16.01.1995, Bardi)”.
Il contrasto tra i diversi orientamenti “è stato
risolto con la sentenza n. 37140/2001 delle
Sezioni Unite, secondo cui il primo e più
restrittivo orientamento non può ritenersi
suscettibile di una generalizzata applicazione
(...), mentre il limite del secondo orientamento
è costituito dal fatto che l’utilizzazione della
cassa di risonanza rappresentata dalla stampa può dare adito ad abusi e palesi violazioni
del diritto all’integrità morale di cittadini. In
presenza, dunque, di un interesse del pubblico all’informazione il giornalista che pubblichi
ha ritenuto che ricorressero le condizioni per
ritenere scriminato il giornalista anche se
aveva riportato le espressioni offensive
pronunciate dall’intervistato, dato che, le
rilevanti cariche pubbliche ricoperte dai
soggetti coinvolti nella vicenda e la loro indiscussa notorietà, facevano si che fosse l’intervista in sé ad assumere il carattere di un
evento di pubblico interesse, come tale non
suscettibile di censura alcuna da parte
dell’intervistatore). In termini analoghi il
medesimo Tribunale si è espresso in un’altra fattispecie in cui il giornalista aveva riferito le dichiarazioni rese dall’intervistato
(un’assessore) che erano un riassunto
semplificato ad uso divulgativo di espressioni tecnico-giuridiche di una delibera adottata
dal Comune: la verifica del giornalista sulla
veridicità delle affermazioni dell’intervistato
effettuata sulla base della semplice lettura
delle delibere lo esimeva da ogni ulteriore
onere di accertamento sulla rispondenza
delle notizie diffuse (Trib. Milano,
23.02.2004, n. 1854, il quale ha osservato
come il giornalista si fosse limitato a rendere pubblico il contenuto di atti amministrativi
- che per loro natura sono destinati ad essere conosciuti dai cittadini - e non era certo
suo obbligo sindacarne la correttezza amministrativa e giuridica).
In definitiva in materia di intervista assume
particolare rilievo il criterio della continenza
al fine di verificare “se il giornalista abbia
assunto la posizione di terzo osservatore dei
fatti o non abbia piuttosto, provocato o sollecitato le dichiarazioni diffamatorie” (Trib.
Milano, 24.03.2003, n. 1380).
e) Titolo e fotografie
Il titolo di un articolo deve riassumere l’essenza della notizia cercando, nel contempo, di
catturare l’attenzione del lettore: difatti, il
redattore del titolo (o colui che come il direttore ne è responsabile) deve concentrarvi i punti
salienti della notizia affinché il lettore di media
diligenza, nel leggere il titolo e dando una
semplice scorsa al testo dell’articolo possa
ugualmente apprendere il fatto nella sua
completezza (Trib. Milano, 11.03.2003, n.
1007).
Può così accadere che un titolo, inidoneo a
far comprendere che riferisce di una mera
prospettazione di parte ed anzi, al contrario,
sembra espressione di un dato oggettivo, può
ugualmente essere diffamatorio, anche se la
lettura dell’articolo chiarisce che si tratta, invece, del contrario, poiché in un articolo di stampa vi sono vari livelli di lettura, ivi compresa
anche quella distratta e non approfondita
(possibile per chiunque in situazioni di tempo
particolari) con la quale un qualsiasi lettore si
sarebbe (falsamente) convinto della verità del
fatto prospettato dal titolo (Trib. Milano,
02.07.2003, n. 6605). In ogni caso, non è
compito del titolista verificare se la notizia sia
vera o inventata, perché il suo compito è solo
quello di controllare che il titolo corrisponda al
contenuto
dell’articolo
(Trib.
Milano,
23.02.2004, n. 1854, in una fattispecie in cui
non si è ritenuto diffamatorio il titolo «strade
sporche salta la ditta», giacché “il termine
«strade sporche» era l’anticipazione, pur in
termini enfatizzati, del contenuto dell’articolo,
mentre il termine «salta», pur nella sua
asprezza e laconicità traduceva in linguaggio
comune il concetto giuridico di risoluzione del
contratto di per sé non propinabile al lettore
digiuno di studi giuridici).
Si segnala altresì una pronunzia del Tribunale di Milano, cha ha reputato diffamatoria
l’attribuzione ad un soggetto della appartenenza ad un gruppo di persone imputate di
comportamenti criminosi “attraverso la
pubblicazione di una sua immagine fotografica perfettamente riconoscibile” (Trib. Milano, 17.03.2003, n. 2180).
f) Il Direttore responsabile
22
Il direttore responsabile risponde ai sensi
dell’art. 57 c.p. del reato di omesso
controllo necessario ad impedire che col
mezzo della pubblicazione siano commessi
dei reati. Tale reato è punito a “titolo di
colpa con ciò dovendosi intendere (...) che
tale responsabilità ha natura colposa,
fondata sulla posizione di preminenza del
direttore che si estrinseca nell’obbligo di
controllo, nel potere di censura e nella
facoltà di sostituzione” (Trib. Milano,
16.07.2003, n. 6415; nonché Trib. Milano,
22.11.2004, n. 10942, secondo cui la
prestigiosa posizione di direzione di un
quotidiano, insieme a vari importanti poteri
correlativi alla sua carica, comporta una
serie di doveri tra cui quello di impedire che
tramite i suoi stampati siano lesi i diritti
garantiti dalla legge). In particolare, “nella
fattispecie criminosa prevista dall’art.57
c.p., il reato che, con il mezzo della pubblicazione, viene commesso dall’autore
dell’articolo pubblicato, si configura come
un evento del reato colposo addebitato al
direttore del giornale, cosicché tale ultimo
reato non può configurarsi ove venga
accertato che nessun reato è stato
commesso dall’autore dell’articolo” (Trib.
Milano, 13.11.2003, n. 10712). La colpa di
cui è chiamato a rispondere il direttore “non
è ravvisabile genericamente nella negligenza o imprudenza, ma è espressamente
individuata dalla legge nella inosservanza
di una specifica norma cautelare: la regola
di condotta contenuta a contrario nell’art.57
c.p.: la condotta omissiva può essere indifferentemente volontaria o colposa e in tal
caso costituiranno ipotesi equivalenti di
condotta contraria al precetto l’omissione
colposa di controllo tout court, la negligenza nella sua esecuzione, l’inadeguata valutazione della liceità penale dell’articolo”
(Trib. Milano, 16.07.2003, n. 6415). La
prova della colpa del direttore, “si identifica
con la prova stessa dell’omissione,
cosciente e volontaria, da parte del colpevole di detto controllo, senza che sia
necessario accertare se la omissione abbia
avuto luogo per colpa” (Trib. Milano,
23.05.2003, n. 3887).
Il dovere di controllo del direttore si “estende
all’intero contenuto della pubblicazione”
(Trib. Milano, 16.07.2003, n. 6415, il quale
incidentalmente osservava altresì come non
sussistesse una qualunque idonea delega
ad una figura professionale sott’ordinata”).
Tuttavia, al fine di evitare che “la responsabilità del direttore si risolva in una responsabilità automatica («di posizione») e pertanto
si ponga al di fuori dei canoni costituzionali
che reggono la materia, tale obbligo di
controllo va pur sempre parametrato alle
circostanze del caso di specie”. Difatti, atteso che il “direttore debba risalire alla fonte
della notizia solo nei casi dubbi”, in una fattispecie in cui il fatto narrato dal giornalista
non presentava alcun allarme, il Tribunale ha
ritenuto che al direttore non si potesse
muovere alcun addebito, in assenza di
elementi sintomatici tali da indurre a ritenere
che il giornalista avesse adottato una procedura metodologicamente scorretta con la
necessità di attivare un controllo maggiormente pervasivo di quello ordinario (Trib.
Milano, 03.02.2004, n. 1079, diversamente
opinando, ad avviso del Tribunale, si imporrebbe uno standard di diligenza così elevato
da risultare paralizzante per l’ordinario svolgimento dell’attività giornalistica e surrettiziamente anticostituzionale in quanto risolventesi in una forma larvata di responsabilità
oggettiva).
23
Ciò posto vediamo che il Tribunale di Milano
ha affermato la responsabilità del direttore
ex art. 57 c.p., in tutti i casi in cui:
- il direttore aveva colposamente omesso di
controllare la veridicità e la correttezza di
quanto affermato nella lettera pubblicata ed
a lui espressamente indirizzata (Trib. Milano, 03.03.2004, n. 2203);
- il direttore, nonostante la gravità di affermazioni altamente diffamatorie nell’ambito di
una vicenda di grande risonanza, non risultava che avesse richiesto al giornalista
spiegazioni e chiarimenti (Trib. Milano,
13.04.2004, n. 3673, il quale ha peraltro
osservato che nella fattispecie concreta
non era neppure possibile sostenere che
l’articolo fosse su argomenti di secondo
piano o che lo stesso fosse di taglio contenuto e che quindi potesse sfuggire all’attenzione di una persona altamente qualificata
dal punto di vista professionale qual’è il
direttore: secondo il Tribunale, inoltre, trattandosi di un periodico a cadenza settimanale, il direttore aveva tutto il tempo di
prendere visione dell’articolo, informarsi e,
all’esito, adottare i provvedimenti di competenza per evitare che con la pubblicazione
venisse commesso il reato di diffamazione
- in senso conforme anche Trib. Milano,
08.06.2004, n. 5787, in una fattispecie in
cui era emerso che il direttore che aveva
altresì tutto il tempo di prendere visione
dell’articolo, informarsi e, all’esito, adottare
i provvedimenti di competenza per evitare
che con la pubblicazione dello stesso
venisse commesso il reato di diffamazione);
- risultava evidente l’omissione di controllo
che il direttore avrebbe dovuto esercitare,
perché il titolo ed il sottotitolo dell’articolo,
nonché la posizione di evidenza all’interno
della pagina non potevano sfuggire al suo
controllo, come non poteva sfuggire il carattere sarcastico e diffamatorio dello stesso
(Trib. Milano, 13.05.2004, n. 5487).
Per contro il direttore è stato mandato esente da responsabilità in una fattispecie in cui,
con riguardo ad una fotografia acquisita
presso un’agenzia fotografica di provata affidabilità e nell’ambito di un rapporto fiduciario
ultradecennale, si è ritenuto che il controllo
del direttore del giornale non dovesse estendersi fino alla consultazione del fotografo
che scattò la foto, in assenza di elementi di
sospetto, conosciuti e riconoscibili dal direttore, tali da imporgli un accertamento ulteriore rispetto a quello ordinario, relativo alla
diretta fonte di approvvigionamento del
materiale
fotografico”
(Trib.
Milano,
17.03.2003, n. 2180).
Da ultimo sull’argomento, si ricorda che la
l’art.1 L.47/48 dispone testualmente che
«sono da considerare stampa o stampati ai
fini di questa legge tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi
meccanici o fisicochimici, in qualsiasi modo
destinate alla pubblicazione»: il riferimento
normativo limita l’ambito di applicabilità della
disciplina a forme espressive che siano
dunque attuate con il supporto di materiale
cartaceo, idonee ad essere percepite con
immediatezza da una pluralità di soggetti.
Per tali ragioni nel caso di diffamazione
consumata attraverso internet, la suindicata definizione a proposito di stampato
appare “incompatibile con le modalità di
diffusione delle pubblicazioni mediante internet, che avvengono attraverso la collocazione di dati ed informazioni trasmessi per via
telematica tramite l’utilizzo di rete telefonica
al server di un c.d. provider o webmaster,
accessibile a migliaia di utenti contemporaneamente presso il quale le informazioni
restano a disposizione dei diversi siti in modo
tale che ciascun interessato può leggerle e
conservarle mediante il proprio computer; ne
consegue che non potendosi applicare
analogicamente o estensivamente la definizione di stampa richiamata dell’art. 57 cp alle
condotte diffamatorie commesse mediante
internet il direttore responsabile deve essere
assolto perché il fatto non sussiste” (Trib.
Milano, 12.05.2003, n. 4153).
g) Danno e rettifica
Con riferimento ai danni risarcibili è noto che
questi possono consistere nei danni patrimoniali ed in quelli morali (oltre che all’applicazione della sanzione pecuniaria ex art. 12 L.
47/1948 ed alla pubblicazione della sentenza
di condanna). Al fine della determinazione del
danno rileva se sia stato, o meno, “dato ampio
spazio alle argomentazioni difensive della
parte offesa” (Trib. Milano, 14.05.2003, n.
4451).
Inoltre, sul presupposto che l’opinione
pubblica rimane colpita dalle prime notizie
ricevute, soprattutto se relative a presunte
responsabilità di un soggetto e non si curi poi
di eventuali pubblicazioni di rettifica o riparatorie, vista anche la loro costante inadeguatezza e la minima rilevanza che viene data
sui giornali, alle stesse non viene solitamente attribuita capacità di annullare i danni, ma,
semmai, di ridurne l’ampiezza (Trib. Milano,
22.11.2004, n. 10942). Ne consegue che
nella determinazione del quantum “non può
obliterarsi la condotta del denunciante che
non ha prontamente richiesto la rettifica (...)
in accordo con la giurisprudenza di legittimità che esclude che il danneggiato debba
porre in essere comportamenti eccessivamente gravosi al fine di limitare le conseguenze dell’evento dannoso (Trib. Milano,
03.02.2004, n. 1079, il quale però precisa
come non possa tuttavia considerarsi la
richiesta di rettifica un comportamento implicante un sacrificio apprezzabile ed esorbitante l’ordinaria diligenza).
h) Provocazione
Da ultimo va detto che, in ambito penale può
venire in considerazione in alcuni casi anche
l’esimente della provocazione, per la sussistenza della quale “è necessario che l’agente abbia commesso il fatto di diffamazione
nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso” (Trib. Milano, 26.03.2003, n. 1696). Nella diffamazione, tale esimente può essere validamente
invocata solo se la reazione si sia manifestata nello stato d’ira immediatamente seguito
al fatto ingiusto altrui, a nulla rilevando la
mancanza in quel momento di disponibilità
dello strumento attraverso il quale si sarebbe dovuta attuare la reazione (Trib. Milano,
03.03.2004, n. 2203, nonché Trib. Milano,
24
23.07.2003, n. 6249, secondo cui ai “fini della
tempestività della reazione si deve considerare che gli articoli con cui si è realizzata la
polemica sono stati pubblicati a distanza di
soli sette giorni l’uno dall’altro; l’intonazione
dell’articolo in cui comparivano le accuse
formulate dall’imputato era proprio quella di
una esplicita risposta alle (precedenti) accuse del querelante”). Essa inoltre può configurarsi anche “sotto il profilo della putatività, ai
sensi dell’art.59 c.p. qualora ricorra una
ragionevole, anche se erronea, opinione
dell’illiceità del fatto altrui, ma in tal caso
richiede che l’errore sia plausibile, ragionevole e logicamente apprezzabile” (Trib. Milano, 26.03.2003, n. 1696).
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