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La maledizione della parola - Università degli Studi di Palermo

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La maledizione della parola - Università degli Studi di Palermo
Aesthetica Preprint
Supplementa
La maledizione della parola
di Fritz Mauthner
Centro Internazionale Studi di Estetica
©
Aesthetica Preprint
Supplementa
è la collana editoriale pubblicata dal Centro Internazionale Studi di Estetica a integrazione del periodico Aesthetica Preprint©. Viene inviata agli studiosi im­pegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori bibliografici, alle
maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere.
Il Centro Internazionale Studi di Estetica
è un Istituto di Alta Cultura costituito nel novembre del 1980 da un gruppo
di studiosi di Estetica. Con d.p.r. del 7 gennaio 1990 è stato riconosciuto Ente
Morale. Attivo nei campi della ricerca scientifica e della promozione culturale,
organizza regolarmente Convegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavole
rotonde, Conferenze; cura la collana editoriale Aesthetica© e pubblica il periodico Aesthetica Preprint© con i suoi Supplementa. Ha sede presso l’Università
degli Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.
Aesthetica Preprint
Supplementa
22
Settembre 2008
Centro Internazionale Studi di Estetica
Fritz Mauthner, 1849-1923
Fritz Mauthner
La maledizione della parola
Testi di critica del linguaggio
a cura di Luisa Bertolini
Il presente volume viene pubblicato col contributo del Miur (prin 2006, responsabile scientifico prof. Gianna Gigliotti) – Università degli Studi di Roma “Tor
Vergata”, Dipartimento di Ricerche Filosofiche.
Indice
Presentazione: Fritz Mauthner e la maledizione della parola
di Luisa Bertolini
1. Linguaggio e metafora in Fritz Mauthner
2. Il linguaggio come metafora
3. Metafora e rappresentazione
4. La teoria della metafora
Bibliografia
7
13
23
34
59
La maledizione della parola: Testi di critica del linguaggio
di Fritz Mauthner
Critica del linguaggio
Prefazione
Introduzione
L’essenza del linguaggio
Linguaggio e socialismo
La superstizione della parola
Pensare e parlare
Anima e sensi
L’arte della parola
La metafora
77
78
79
90
93
96
100
102
104
Dizionario di Filosofia
Significato (Bedeutung)
Coscienza (Bewusstsein)
Cosa (Ding)
Unità (Einheit)
Conoscere (Erkennen)
Umorismo (Humor)
Ridere (Lachen)
Bello (Schön)
Verità (Wahrheit)
Mondo aggettivo
Mondo sostantivo
Mondo verbale
117
120
121
123
129
132
140
140
148
152
154
155
Le tre immagini del mondo
Le tre nuove categorie
Dappertutto tre mondi. L’attore
Epilogo
161
166
166
Indice dei nomi
169
Presentazione
Fritz Mauthner e la maledizione della parola
di Luisa Bertolini
1. Linguaggio e metafora in Fritz Mauthner
«Mauthner è del tutto Mauthner, vorrei dire è più di quanto lo sia.
È un uomo intelligente e pieno di spirito, ma c’è una stoffa di seta
che credo si chiami cangiante. Si presenta molto bene, ma non si sa
se sia verde, rossa oppure marrone; Mauthner evoca sempre qualcosa,
quando però si vuol dire: “mi permetta”, è già andato via – Mauthner
è l’ospite più splendido, ma insieme anche il cameriere più ordinario,
quello che ti porta via il piatto proprio quando stai per cominciare».
Così lo scrittore berlinese Theodor Fontane ci presenta Fritz Mauthner,
cogliendo in pochi tratti il carattere dell’uomo e del pensatore 1: il contributo di questo filosofo – per lunghi anni dimenticato e in Italia poco
conosciuto 2 – si può riassumere infatti nel lavoro critico contro ogni
ovvietà e pregiudizio filosofico e nell’individuazione dell’analisi del linguaggio come terreno fondamentale per questa operazione. L’approdo è
una posizione radicalmente scettica e nominalistica che sembra esaurirsi
nell’osservazione arguta e brillante che svuota ogni cosa di senso e lascia
il lettore a mani vuote. Da una più attenta considerazione del percorso
intellettuale di questo autore emergono però alcuni nuclei tematici che
rivelano maturità teoretica e ritornano nella filosofia contemporanea,
mostrando una sua fortuna, per così dire, sotterranea.
Mauthner indica come compito di tutta la sua produzione intellettuale la critica del linguaggio e nella ricostruzione posteriore delle sue
Erinnerungen 3 afferma di esservi stato in un certo modo predestinato
in quanto ebreo nato in una provincia slava dell’Impero austro-ungarico, dove il tedesco era la lingua degli impiegati, della formazione,
della poesia e dei parenti; il ceco la lingua dei contadini e delle donne
di servizio, ma anche la lingua storica del regno di Boemia; l’ebraico,
la lingua sacra dell’Antico testamento, divenuta il Mauscheldeutsch dei
rigattieri ebrei, ma anche talora degli eleganti uomini di commercio 4.
In un altro passo lo scrittore attribuisce però il fallimento della scrittura poetica proprio a questo, al cattivo tedesco di Praga, il «tedesco
cartaceo» 5, troppo artificiale, imposto dal padre, oppure il cosiddetto
Kleinseitner Deutsch, il tedesco con influenze austriache, parlato nel
suo quartiere, oppure ancora il misto di tedesco e ceco, definito con
7
spregio Kuchelbömisch, il ceco della servitù; di qui il rancore, che durerà per tutta la vita, per l’assenza di una lingua madre e di un dialetto,
mescolato al risentimento per la mancanza di un’educazione religiosa 6. Orgoglio e rancore insieme caratterizzano del resto tutte le svolte
principali della sua vita intellettuale: l’abbandono degli studi per la
poesia, la scelta della carriera giornalistica a Berlino, la svolta filosofica
e il primo allontanamento dalla città nel quartiere di Grünewald, la
fuga da Berlino e gli studi filosofici e scientifici a Freiburg e, infine, la
scelta dell’isolamento a Meersburg, sul lago di Costanza.
Mauthner era nato il 22 novembre del 1849 a Horschitz (Hořice),
una piccola cittadina della Boemia orientale, vicino a Königgrätz e
Sadowa, come egli ricorda con una punta di orgoglio nazionalistico tedesco 7, da padre ebreo «non religioso» e da madre «antireligiosa», in
una famiglia borghese completamente assimilata che pochi anni dopo,
nel 1855, si era trasferita a Praga per dare ai figli un’istruzione adeguata. Lo scrittore ricostruisce con astio il periodo della sua formazione e
del suo insuccesso scolastico: dalla scuola privata elementare ebraica,
la Klippschule (scuola dell’abbiccì), al Piaristengymnasium, scuola cattolica, dove metà degli studenti erano ebrei e non mancava qualche
protestante, e infine nel Kleinseitner Gymnasium 8, liceo di lingua tedesca. Alle lamentele contro l’astrattezza e la meccanicità degli studi
si accompagna l’insofferenza per la preparazione superficiale in tutte e
tre le lingue della sua formazione, il tedesco, il ceco e l’ebraico. Il 1866
segna una svolta politica: la vittoria prussiana nella guerra contro l’Austria con la battaglia di Sadowa e l’occupazione di Praga provocano nel
giovane Mauthner il passaggio da un coscienza genericamente austriaca
(«non eravamo per la grande Germania» 9; «noi austriaci dovevamo rimanere i signori della Germania (credevamo di esserlo), per poter poi,
in casa, farla finita con i cechi» 10) a un nazionalismo grande-tedesco
con tratti talora fanatici e deciso odio anticeco 11. L’acutizzarsi del conflitto etnico, la progressiva diminuzione della componente tedesca nella
Praga della seconda metà dell’Ottocento 12, la rovina finanziaria del
padre che muore nel 1874, costituiscono lo sfondo del periodo degli
studi universitari in giurisprudenza e del loro abbandono, anche in seguito a un attacco di emottisi, a favore della poesia. Queste premesse,
a cui si aggiunge lo scarso successo letterario, rendono comprensibile
la scelta, nel 1876, del trasferimento a Berlino.
Mauthner sceglie Berlino e non Vienna, la città più veloce del mondo contro la capitale della lentezza: Berlino «la sola capitale tedesca del
futuro» 13, centro oltre che della politica e dell’economia, della scienza
e della cultura, del giornalismo, delle riviste culturali, della produzione libraria e della critica teatrale. Qui si rivolge a Arthur Levysohn,
direttore di uno dei giornali più importanti della città, il “Berliner Tageblatt” dell’editore Rudolf Mosse 14. Non trova immediatamente una
collocazione fissa, ma dalla metà del 1877 collabora regolarmente per
8
sette anni al settimanale “Deutsches Montags-Blatt”, dello stesso editore, come scrittore satirico e critico teatrale. La fama improvvisa gli
deriva dalle parodie pubblicate su questo giornale a partire dall’inizio
di giugno del 1878, raccolte l’anno dopo in un libro con il titolo Nach
berühmte Muster 15, al quale fanno seguito anche alcuni romanzi.
Nell’ambiente culturale berlinese questo signore altissimo e magro,
con naso adunco e una lunga barba che lo fa assomigliare a un antico profeta 16, sembra a suo agio. La sua figura di intellettuale ebreo
assimilato 17 si colloca al centro della vita culturale della capitale 18.
Molto ampio è anche lo spettro delle sue conoscenze personali: comprende nomi come Lou Andreas-Salomé, Else Lasker-Schüler, Oskar
Maria Graf, Richard Beer-Hofman, Kurt Hiller, Hermann Hesse, Erich
Mühsam, Theodor Fontane, Maximilian Harden, Gerhard Hauptmann,
Theodor Mommsen, Walter Rathenau e Franz Oppenheimer 19. Anche
sul piano personale questo momento appare sereno, segnato dal matrimonio con Jenny Ehrenberg e dalla nascita dell’unica figlia Grete.
Mauthner non è però soddisfatto di un successo che gli pare troppo
effimero e mondano, si lamenta di aver speso tanti anni in un lavoro
maledetto e di esserne a ragione stanco. Ma già dal 1891 egli aveva
iniziato, la notte, quasi in segreto, un nuovo e imponente lavoro filosofico di analisi e di critica del linguaggio. Le radici psicologiche di
questa scelta risalgono ancora più indietro (un primo abbozzo, gettato
nel fuoco, nel 1873, poi la ripresa segreta del tema e ventisette anni di
preparazione, come ci dice Mauthner nella prefazione); decisivo sembra
però l’incontro con il giovane scrittore anarchico Gustav Landauer.
Nonostante la diversità del carattere e delle opinioni politiche, per molti
versi contrapposte 20, Landauer è di stimolo e di concreto aiuto nella
stesura dell’opera, soprattutto dopo la morte della moglie di Mauthner
nel gennaio del 1896 e l’insorgere di una grave malattia agli occhi. I tre
grossi volumi dei Beiträge zu einer Kritik der Sprache verranno pubblicati tra il 1901 e il 1902 dall’editore Cotta e ottengono una risonanza
maggiore di quanto l’autore lamenti 21, non paragonabile però al suo
successo come scrittore satirico.
Per altri versi la critica del linguaggio ha origine proprio nell’attività
giornalistica, nell’atto di mimesi dello scrittore di parodie che si nasconde dietro la maschera del linguaggio altrui, per forzarne i momenti
più deboli e rivelarne il pregiudizio; nasce dall’avventarsi contro il linguaggio che egli usa quotidianamente con successo, dal voler scavare
da autodidatta nella cultura filosofica e scientifica del suo tempo alla
ricerca della superstizione della parola, oscillando, come rivela nella
prefazione, tra momenti di presunzione e momenti di abbattimento e
mortificazione 22.
Il primo volume dei Beiträge prende avvio dall’impossibilità di definire l’essenza del linguaggio che immediatamente si declina nelle diverse lingue, nei dialetti, nelle lingue particolari, nelle lingue individuali,
9
spesso diverse nelle diverse fasi della vita, presente solo nel suono
pronunciato che svanisce nell’attimo. Alla mancanza di una definizione
analitica suppliscono allora le metafore che si accumulano una sull’altra
e che si esauriscono nell’affermazione pragmatica che il linguaggio non
è altro che l’uso del linguaggio. Con la metafora eraclitea che raffigura
l’incessante mutamento del significato delle parole nell’immagine delle
gocce d’acqua della corrente di un fiume Mauthner inizia la dissoluzione di qualsiasi fondamento che assicuri al mondo e al soggetto
conoscente una qualsiasi continuità e solidità. Come per il seguace di
Eraclito del Teeteto platonico le sostanze si sgretolano nel mutamento
e le qualità si presentano solo negli attributi sensibili, nella consapevolezza che il compito critico esigerebbe, come pretendeva Socrate 23, un
nuovo linguaggio e che il linguaggio a nostra disposizione è appunto
il nostro linguaggio.
Il problema diventa ancor più evidente per il linguaggio della psicologia cui Mauthner addebita di aver prodotto la duplicazione del
mondo in interno ed esterno, linguaggio e pensiero, memoria e coscienza, e di aver applicato al mondo interno il linguaggio del mondo
esterno. Mauthner vi trova tuttavia alcune indicazioni importanti che
si concludono nella teoria, se così si può chiamare, dei Zufallssinne,
in gran parte ripresa dalla concezione di Ernst Mach, con qualche
suggestione ricavata da Schopenhauer e Nietzsche. La tesi consiste
nell’affermazione che i nostri organi di senso, costituitisi nel corso di
una evoluzione biologica che ha seguito vie traverse e casuali in una
storia senza leggi, sono simili a filtri che lasciano passare solo una
minima parte delle caratteristiche delle cose, che sono quindi inadatti a cogliere l’infinita complessità del reale e sufficienti soltanto allo
scopo di orientarsi nel mondo, di sopravvivere e di comunicare. Le
rappresentazioni, le immagini che ci facciamo delle cose, si modificano
continuamente come in un caleidoscopio e il concetto contenuto nella
parola, cerniera provvisoria per un complesso di sensazioni, sorge dalla
stratificazione di rappresentazioni simili, ma non identiche, che scivolano l’una sull’altra senza potersi mai sovrapporre in modo esatto. Mauthner è però consapevole della provvisorietà di una simile definizione,
sa che in questa enunciazione vi sono aspetti metaforici, immagini che
inducono all’inganno, come il concetto di immagine, appunto.
Nella disamina delle teorie del linguaggio contemporanee, contenuta nel secondo e nel terzo volume, Mauthner accoglie sostanzialmente la teoria dei neogrammatici e in particolare di Hermann Paul che
aveva accentuato la dissoluzione dell’apriori di una lingua presupposta
come unitaria nella comunità dei parlanti che raccontano storie comuni. Nonostante alcune critiche che rimangono alla superficie, Mauthner
condivide con Paul l’impostazione della ricerca delle condizioni di
possibilità dell’accordo linguistico, l’accento posto sull’uso individuale
della lingua, sulla discrepanza tra l’utilizzazione della parola da parte
10
dell’individuo e quella sancita dall’uso, l’affermazione dell’impossibilità di comunicare il contenuto rappresentativo mediante la parola, il
ricoscimento del carattere polisemico del linguaggio e dell’inevitabilità
del malinteso. La classificazione dei mutamenti linguistici costituisce
poi la premessa della teoria della parola come metafora che Mauthner
elabora aggiungendovi altre suggestioni provenienti dalla filosofia del
linguaggio e dall’estetica.
La pubblicazione dei Beiträge avviene in un periodo della vita di
Mauthner di difficoltà e di depressione; nell’ottobre del 1905 si trasferisce a Freiburg con l’intenzione di dedicarsi agli studi, lontano dai rumori della grande città e dall’attività giornalistica. «A dicembre – scrive
Kühn – segue il cane» 24, e nelle lettere agli amici Mauthner riferisce
di lunghe passeggiate con il cane nella solitudine e nel dubbio di non
riuscire più a vivere. Riprende però lentamente gli studi, frequenta
l’università seguendo corsi di matematica e di discipline scientifiche,
conosce Hans Vaihinger e per suo tramite entra nella società kantiana,
incontra Martin Buber, per il quale scrive la breve monografia divulgativa Die Sprache. Ma la novità principale è la frequentazione di Hedwig
Straub, scrittrice ebrea e tedesca 25, che aveva studiato filosofia a Zurigo
con Avenarius, il teorico relativista dell’esperienza pura 26, e medicina a
Parigi e che aveva poi lavorato come medico per dieci anni tra i beduini nel deserto del Sahara. Con l’aiuto della Straub, che diverrà la sua
seconda moglie, Mauthner affronta un lavoro nuovo e impegnativo, la
stesura di un dizionario dei principali termini filosofici.
Das Wörterbuch der Philosophie, questo Mauthner voleva come titolo, non per vanità, scrive nell’introduzione, ma perché con l’articolo
determinativo egli non intendeva il dizionario come unico o migliore,
ma il dizionario dei termini che la filosofia ha usato, il dizionario della
nostra filosofia. La filosofia, a sua volta, è teoria del conoscere e la
teoria del conoscere è critica del linguaggio, rassegnazione scettica di
fronte all’impossibilità di conoscere il mondo, che non vuole presentarsi come pura negazione, ma come il nostro miglior sapere. Nel circolo
di memoria, pensiero e linguaggio – termini che si sovrappongono e
spesso vengono identificati – le parole sono soltanto «i segni per ricordare o i nomi per le esperienze senza nome, numerose, troppe per
essere senza parole e senza nome» 27. Nel corso di una storia priva di
leggi e di direzione le parole migrano assieme agli uomini e alle cose
che essi portano con sé e con esse migrano anche i concetti astratti.
Egli sceglie allora poco più di duecento parole della filosofia, delle
quali non ricostruisce l’etimo alla ricerca di un significato originario,
ma ne segue le migrazioni (Wortwanderungen) attraverso le derivazioni, i prestiti (Entlehnungen) e i calchi (Lehnübersetzungen). Non
quindi un catalogo del mondo, ma un insieme di piccole monografie
dei concetti astratti, di concetti morti e di concetti apparenti (Scheinbegriffe), ai quali nulla corrisponde nella nostra esperienza. Mauthner li
11
chiama concetti «sostantivi», ipostatizzazioni arbitrarie del linguaggio,
capaci tuttavia di dare vita a rappresentazioni che diventano motivo
dell’agire, pregiudizi in grado di provocare una guerra di religione o
la caccia alle streghe. La decostruzione critica assume così anche una
dimensione pratica nella consapevolezza della potenza psicologica di
tali concetti, delle loro radici nell’essenza stessa del linguaggio: «i concetti della filosofia – dato che la filosofia inizia là dove finisce il sapere
dell’esperienza – rimangono sospesi nelle più alte regioni tra il pericolo
dell’apparenza e il pericolo dell’antica mistica» 28.
La critica del linguaggio della filosofia si esprime già nell’impostazione enciclopedica che rifiuta l’ordinamento gerarchico per sostituirlo
con il «criterio infantile» dell’ordine alfabetico 29, prende di mira le parole più usate, trasforma la domanda sull’essenza nell’indagine sull’uso
del nome. Ne risulta una disamina dei problemi più importanti della
storia del pensiero che rivela conoscenze amplissime, ma anche conclusioni affrettate e soggettive. In ogni caso la materia è più ordinata, le
conoscenze scientifiche si sono ampliate anche alle discipline matematiche e fisiche, il tono – a parte qualche caso anche clamoroso 30 – più
pacato. A questo non è certo estranea la presenza della Straub con la
sua personalità delicata e tenace, con le sue conoscenze linguistiche e
scientifiche.
Con Hedwig, che sposerà l’anno seguente, si trasferisce nel 1909 a
Meersburg sul lago di Costanza in una casa di vetro, la Glaserhäusle,
dove trascorre gli ultimi anni dedicandosi a un componimento poetico
sulla figura del Buddha, alla mistica e ai quattro volumi dell’opera Der
Atheismus und seine Geschichte im Abendlande, pubblicata nel 1920.
Anche questo lavoro è concepito come critica del linguaggio e parte
dalla disamina dei concetti di Dio, eresia, superstizione, ateismo e di
altri termini legati alla storia delle religioni, in particolare della religione cristiana. La ricostruzione della «liberazione dal concetto di Dio» 31
prende in considerazione allora anche le critiche filosofiche, le soluzioni
eretiche, le lotte contro il potere della Chiesa. La scepsi conoscitiva e
linguistica impedisce una soluzione materialistica e trasforma l’ateismo
in una mistica senza Dio, nella quale non vi è nome per un Dio, come
non vi sono nomi adeguati per le cose del mondo 32. Ma l’idillio del
“Buddha di Meersburg” era già stato avvelenato da alcune polemiche
politiche e religiose, ma soprattutto dallo scontro con Landauer per gli
articoli nazionalistici che Mauthner aveva scritto all’inizio della guerra
mondiale e per il suo giudizio negativo sulla partecipazione dell’amico
alla Repubblica dei consigli di Monaco, nella repressione della quale
Landauer aveva trovato la morte, assassinato in prigione.
Nel suo ultimo anno di vita Mauthner riassume le sue tesi filosofiche nello scritto Die drei Bilder der Welt, interrotto dalla morte, il 29
giugno del 1923.
12
2. Il linguaggio come metafora
La filosofia di Mauthner non ha propriamente un inizio, e non vorrebbe averlo, eppure la sua critica del linguaggio prende avvio proprio
nel modo più classico, con la citazione dal Vangelo di Giovanni: «in
principio era la parola» 33. Con la parola – continua però – gli uomini
sono al principio del conoscere e rimangono fermi se restano presso la
parola; chi voglia procedere oltre, deve liberarsi dalla parola e dalla superstizione della parola, riscattare il mondo dalla tirannia del linguaggio 34. Sembra un punto di partenza, ma l’autore ci avverte subito che
l’espressione «in principio» muta il suo senso appena procediamo oltre
nel pronunciare le cinque parole della proposizione «in principio era
la parola». Subito dopo, la metafora della scala accresce il disagio del
lettore disorientato. I suoi gradini ci incatenano al linguaggio dell’attimo, di quel determinato gradino che abbiamo toccato anche solo di
sfuggita e solo con le punte dei piedi, anche se ci siamo costruiti da
noi i gradini per quell’attimo. Del resto non troviamo la scala, perché
Mauthner – come farà Wittgenstein – l’ha distrutta: «devo annientare
il linguaggio passo dopo passo dietro di me e davanti a me e dentro
di me, devo distruggere ogni piolo della scala mentre salgo. Chi vuole
seguire, ricostruisca i pioli per poi distruggerli di nuovo» 35.
La circolarità di questo inizio si manifesta nella struttura delle prime pagine. In effetti non è questo l’inizio: come ha notato Elisabeth
Bredeck, le prime pagine del testo presentano una successione apparentemente scoordinata di citazioni e annotazioni: prima l’epistola dedicatoria di Descartes dei Principia, a cui seguono, nella seconda edizione,
la prefazione con il programma di critica del linguaggio e l’indice, poi
le citazioni di Locke, Vico, Hamann, Jacobi e Kleist 36. L’invocazione
dello spirito cartesiano si accosta al richiamo all’empirismo e alla tradizione asistematica. L’approccio al tema è già decostruzione.
Lo stile della scrittura riflette questa tensione: Mauthner non vuole
procedere verso la verità, il linguaggio diventa un mezzo di sperimentazione, viene piegato e rotto, alla ricerca di una formulazione libera da
norme e pregiudizi 37. È uno stile espressionistico, capace di far sentire
davvero la lingua, provocatorio nell’uso compiaciuto degli ossimori 38,
scandito dagli scarti e dagli slittamenti improvvisi verso il basso, nella
sciatteria ostentata della lingua da mercato. Non sempre il risultato è
felice: talora l’autore risolve con arguzia ebraica un intreccio complesso, altrove si perde in lunghe divagazioni che gli prendono la mano.
Rimane l’obiettivo di presentare lo scetticismo linguistico nell’andamento stesso della lingua nella quale il significato della parola ripetuta
slitta, viene trasposto, diventa ostensione della metafora.
Forse è questa la ragione della sua fortuna tra i letterati e della
sfortuna presso i filosofi. Dalle lettere che Mauthner scrive a Hugo
von Hofmannsthal, dopo la pubblicazione della Chandos-Brief 39, tra13
spare l’orgoglio di ritrovare nelle riflessioni del protagonista, lo scrittore
classico che si commiata dalla parola, l’eco di molti passaggi della sua
critica del linguaggio 40 e l’imbarazzata richiesta di un adeguato riconoscimento. Nonostante la reticenza del poeta ad ammettere di aver
trovato esclusiva ispirazione dalle tesi del filosofo 41 su una problematica
d’altronde molto presente nella letteratura austriaca del tempo, sappiamo che nella sua biblioteca sono presenti il primo e il terzo volume dei
Beiträge e che nei fogli del Nachlass Mauthner viene citato più volte 42.
Christian Morgenstern, il poeta del grottesco e dell’assurdo, si dichiara
invece esplicitamente seguace di Mauthner e attribuisce alla lettura della
Kritik der Sprache l’essere venuto in chiaro sull’essenza del linguaggio,
giustificazione teorica del suo gioco poetico con la parola 43.
Mauthner è letto anche da Samuel Beckett e James Joyce, quando,
tra il 1929 e il ’30 a Parigi, Joyce sta lavorando alla contaminazione
linguistica di Finnegans Wake e Beckett cerca nei Beiträge qualcosa che
possa servire alla scrittura di Joyce; ne copia su un quaderno – come
riferisce a Linda Ben-Zvi – anche un lungo passo sul nominalismo e
sulla sua indimostrabilità, sull’inutilità della parola 44. Sempre nell’ambito della sperimentazione linguistica, ma in un diverso contesto, negli
anni sessanta, il viennese Oswald Wiener, nel suo romanzo di decostruzione, die verbesserung von mitteleuropa, lo cita come provvisorio riferimento per una scelta ancor più radicale di rinuncia al linguaggio 45.
Infine Jorge Luis Borges afferma di consultare spesso il Wörterbuch der
Philosophie di Mauthner e a lui si ispira in alcuni racconti 46.
La diffidenza dell’accademia si conferma invece con il passare degli
anni; nonostante l’opinione di Ernst Mach che prevedeva un riconoscimento, lento ma certo 47, la letteratura critica tarda a prenderlo in
considerazione e il suo nome rimane legato alla proposizione 4.0031 del
Tractatus logico-philosophicus, nella quale Wittgenstein afferma: «tutta
la filosofia è “critica del linguaggio”. Ma non nel senso di Mauthner».
Solo a partire dal saggio di Gershon Weiler del 1958 è iniziato uno studio più attento del suo pensiero; eppure ancora Hans Kühn, il critico
che gli dedica il testo analitico più completo, corredato dall’intera bibliografia dei suoi scritti, lo intitola Gescheiterte Sprachkritik, il naufragio della critica del linguaggio. Gli studi successivi, che prenderemo in
considerazione in relazione a problemi specifici, hanno certamente un
approccio più cauto, eppure affiora spesso l’idea che Mauthner non sia
proprio un filosofo. In un certo senso non lo è, e non ha voluto esserlo.
Egli rimane ai margini della tradizione filosofica, scarta problemi, che a
noi continuano a parere importanti, con battute di spirito che ci lasciano stupefatti per la superficialità; in qualche altro passo sembra voler
cancellare con un solo gesto di insofferenza l’intero impianto dei temi
della Critica della ragion pura e di un secolo successivo di interpretazioni. A tutto questo si aggiungono le querimonie sull’accademia che sanno più di risentimento che di consapevolezza. Mauthner propone però
14
un cambiamento del punto di vista che richiede un’attenzione inedita
alla dimensione empirica del linguaggio. Per questo la sua riduzione
della filosofia a critica del linguaggio mantiene una dimensione filosofica
e permette di tornare ai temi di prima con uno sguardo diverso: «dopo
si ascolta, si pensa, si parla diversamente» 48. Del resto la filosofia non
ha mai preteso di fare di più e lo stesso Wittgenstein finirà per fare una
critica del linguaggio proprio nel senso di Mauthner 49.
Partiamo allora dall’indicazione di Elisabeth Bredeck che, nel saggio sulle metafore del conoscere in Mauthner, suggerisce una lettura,
per così dire, non letterale dell’opera: dopo un iniziale approccio analitico che cercava nel testo la contraddizione e l’incoerenza, concede
una valutazione più indulgente che ci presenta l’unica possibilità di
approccio all’opera di Mauthner, la lettura delle sue metafore. Il lavoro
della studiosa americana parte dall’analisi della circolarità dell’inizio e
finisce con la citazione dantesca dei primi versi del ii canto del Paradiso che chiude i Beiträge 50: un nuovo gioco sull’inizio e la fine: Dante
all’inizio del suo percorso verso la verità garantita da Dio 51, Mauthner
davvero alla fine e con il sorriso beffardo di chi dice al lettore che il
suo suggerimento a non seguirlo arriva troppo tardi.
La conclusione non è del tutto una sorpresa perché lo stile argomentativo di Mauthner procede fin dalle prime pagine nel continuo
spostamento del piano del discorso, nella posizione di sempre nuove
domande metafisiche che riguardano l’essenza del linguaggio e nello
svuotamento delle stesse domande. Così nella prefazione alla seconda
edizione dei Beiträge Mauthner definisce come obiettivo principale del
suo lavoro filosofico l’indagine sull’«essenza del linguaggio», ma suggerisce immediatamente l’impossibilità di una definizione: il linguaggio
è un termine generale, astratto, inafferrabile, perché è costituito dalla
«massa enorme di tutti i suoni umani [...] detti o scritti dagli uomini
per comprendersi in un qualche luogo della terra» 52 e, nello stesso
tempo, si presenta soltanto nella singola parola, nel singolo suono che
svanisce appena lo si è pronunciato; il linguaggio – concluderà poco
più avanti – propriamente non esiste, preso in sé è una «non-cosa senza
essenza (ein wesenloses Unding)» 53.
Eppure l’intenzione di lavorare sull’essenza del linguaggio non sembra un semplice espediente, perché la critica del linguaggio viene definita come un compito inevitabile. Ma se non è possibile un approccio
analitico l’unica strada sembra la metafora e la prima metafora che
Mauthner usa nei Beiträge per descrivere il linguaggio è eraclitea: la
corrente del fiume rende in immagine il carattere instabile dei significati; il fiume, paragonato alla singola lingua, muta a sua volta il suo
corso con l’andare del tempo. Non soddisfatto del fluire dell’acqua,
l’autore accenna alla possibilità di paragonare la lingua a una corrente
d’aria e al letto di questa corrente. Ma l’immagine del fiume suggerisce anche l’inutilità – al fine di coglierne l’essenza – dello studio
15
geografico-scientifico che ne ricostruisca il percorso o la costituzione
fisico-chimica e richiama la mitologia delle divinità fluviali che regolano il flusso dell’acqua. La trinità di pensiero, logica e grammatica,
alla quale attribuiamo un valore normativo ed esterno al linguaggio,
si nasconde piuttosto dentro di esso 54.
L’impossibilità di definire il linguaggio se non mediante metafore,
conduce Mauthner alla tesi che il linguaggio è semplicemente e pragmaticamente l’uso del linguaggio. L’uso suggerisce una nuova metafora:
il linguaggio è un gioco di società le cui regole diventano più cogenti
quanti più giocatori vi partecipano 55, ma anche la bella immagine del
linguaggio come città del socialismo realizzato, nelle condutture della
quale scorrono luce e veleno, acqua e sporcizia 56. Di qui si moltiplicano le metafore della maledizione: il linguaggio è l’ostetrica dalle dita
sporche che uccidono la partoriente 57, è la sferza con la quale ognuno
è guardiano e schiavo dell’altro, è la scimmia addomesticata del circo
che si crede un artista, è la diavolessa che ha promesso all’uomo i frutti
dell’albero della conoscenza e in cambio gli ha dato un frutto cancerogeno, parole per cose, etichette per bottiglie vuote 58; il linguaggio è il
vecchio frac del signore di Gerlach, rammendato fino a non essere più
lo stesso 59, è l’aringa immersa nella soluzione salata del pensiero 60, è il
veleno prodotto dall’uomo che gli antichi chiamavano antropotoxina 61.
L’accumulo di metafore vecchie e nuove modifica il significato di quelle
tradizionali e rivela non solo che il linguaggio non è un catalogo del
mondo, ma che alla sua essenza appartiene il malinteso, l’incomprensione, la sinonimia (in senso aristotelico, per cui il bue e l’uomo, in
quanto animali, sono sinonimi) e i più gravi malintesi si manifestano
nella morale, nella politica, nel diritto, nella cultura, dove «le parole
ridono come a casa propria» 62.
Il crescendo delle metafore ha però anche un senso teoretico, vuole
condurci alla tesi che la parola in quanto tale è metafora; essa non ha
a che vedere né con il mondo esterno, né con quello interno, è carica
solo della sua storia, non evoca immagini, ma «immagini di immagini
di immagini» in uno sviluppo senza fine di metafora in metafora 63.
Questa autoreferenzialità della parola ha senso soltanto nella poesia,
dove la maledizione diventa magia e le parole, che conservano la ricchezza della metafora originaria, hanno peso – scrive Mauthner citando
Maeterlink – grazie al silenzio in cui sono immerse 64. Il silenzio di una
mistica senza Dio, che si pone con il sentimento di fronte a una realtà
inafferrabile al pensiero, è l’altro esito dello scetticismo linguistico di
Mauthner. L’invocazione del silenzio, apparentemente in contraddizione
con la scrittura di migliaia e migliaia di pagine, rimane un avvertimento
critico: guardando al passato – egli scrive – la critica del linguaggio è
scetticismo, guardando al futuro è misticismo 65. La nostra analisi si
limita allo sguardo verso il passato.
L’esposizione della tesi che la parola è metafora si trova circa a
16
metà del secondo volume dei Beiträge e si colloca dopo la critica alla
questione dell’origine del linguaggio. Rovesciando il rapporto trascendentale tra Ursprung ed Entstehung, Mauthner rifiuta con decisione la
questione delle origini del linguaggio e preferisce parlare di evoluzione
della lingua, proponendoci di provare di nuovo con una metafora che
prende il concetto nel senso più ovvio e comune e finisce con una
nuova domanda su questo senso. La domanda è posta volontariamente
in modo banale: qual è il nutrimento che fa crescere il linguaggio?
La metafora dell’organismo, già criticata altrove 66, introduce la tesi
centrale: il linguaggio, che forse deriva dalle espressioni primordiali
dello stupore, della gioia e del dolore, si sviluppa – e questa è per
il nostro autore una vera e propria ipotesi – attraverso la metafora:
«il linguaggio – scrive – è cresciuto e ancor oggi cresce a partire dalla memoria umana (e memoria umana è a sua volta solo linguaggio)
soltanto mediante la trasposizione (Übertragung, metafeJrein) di una
parola definita (fertig) su un’impressione indefinita, mediante confronto
dunque, mediante questo atto eterno del à-peu-près, mediante questo
infinito circoscrivere e parlar figurato, che costituisce la forza artistica
e la debolezza logica del linguaggio» 67.
L’idea del carattere essenzialmente metaforico del linguaggio non è
certo una concezione originale di Mauthner; se ne potrebbero cercare
le tracce in innumerevoli fili che annodano la storia della filosofia con
la rinascita della retorica, con le teorie del conoscere, con le ricerche
psicologiche e la nascita della semantica. Le tracce lontane vengono
cercate da Mauthner nell’analisi gnoseologica del rapporto tra la parola e la cosa degli empiristi inglesi e nella riflessione sul linguaggio
di Vico, Hamann e von Humboldt; gli influssi più diretti si possono
individuare invece nel dibattito psicologico e linguistico della fine Ottocento. Del resto il carattere originale della posizione di Mauthner
non consiste tanto nella elaborazione di una nuova teoria, dato che
tutti gli elementi che ne fanno parte si possono rintracciare nei suoi
predecessori, ma – come ha notato Weiler – nel sottomettere questi
elementi all’idea dominante della critica del linguaggio 68. Questa impostazione richiede che anche la nostra ricerca debba considerare le
tesi dell’autore in continuo dialogo con le posizioni teoriche che egli
riprende, critica e decostruisce.
La prima fonte citata dal nostro autore è Locke e più volte egli si
ripromette di dedicare un’analisi adeguata al suo libro sul linguaggio, il
terzo del Saggio sull’intelligenza umana. Il pensatore inglese non considera però la metafora come uno strumento per comprendere la natura
del linguaggio in generale; quando parla della metafora, la considera
come un vero e proprio inganno nel suo alludere a incerte somiglianze più che analizzare e distinguere 69. Mauthner è interessato però a
questo elemento di ambiguità che egli ritrova nel rapporto stabilito
da Locke tra parola e idea, nell’affermazione che le parole sono segni
17
sensibili per le idee; il che stava a significare che esse non sono segni
delle cose e nemmeno delle idee che stanno nella mente dell’altro,
che il loro contenuto rappresentativo è del tutto privato: l’esempio di
Locke è quello dell’oro, nel quale il bambino vede solo il colore brillante, mentre altri possono aggiungervi il peso, la malleabilità e altre
caratteristiche. Ma la soggettività della rappresentazione viene arginata da Locke con la distinzione tra vari tipi di idee; le idee semplici,
corrispondenti alle qualità sensibili, resistono all’albero di Porfirio e
alla definizione per via della differenza specifica (non c’è nulla che
posso tralasciare dall’idea di bianco e di rosso per farle concordare
nel genere “colore”), e in questa loro originarietà possono essere in
qualche modo esibite e riprodotte. Nei modi misti invece, come nel
caso di “giustizia” o “beatitudine”, abbiamo a che fare con concetti
astratti e combinati in modo del tutto arbitrario; nel caso poi delle
sostanze egli sembra propenso a considerarle come una collazione di
caratteristiche da enumerare 70, difficilmente risolvibile in una chiara
determinazione del significato. Nella definizione dell’oro allora l’enumerazione aggiungerà al colore giallo la duttilità, la fusibilità, la fissità
e così via senza pretendere di penetrare nella sua essenza reale che ci
rimane sconosciuta. Questa cautela critica è alla base dell’acuta analisi
dell’ambiguità e delle oscurità del linguaggio che si accompagna alla
consapevolezza della difficoltà di questo compito: «tanto è difficile illustrare il vario significato e le molteplici imperfezioni delle parole,
quando non abbiamo altro che parole per farlo», una frase che, abbiamo visto, compare tra le citazioni che introducono la trattazione
dell’essenza del linguaggio nel primo volume dei Beiträge 71. In Locke
Mauthner trova quindi l’attenzione posta sulla funzione del linguaggio
nel processo stesso della conoscenza, l’idea della discrepanza tra contenuto rappresentativo e parola e quindi la necessità, nella formazione
dei concetti astratti, di far uso di parole provenienti dalle operazioni
su cose sensibili trasferendole ai processi del pensiero 72.
Per l’affermazione dell’origine metaforica del linguaggio è poi ancor
più pertinente il riferimento a Vico, che egli cita subito dopo 73. Nel
pensatore napoletano Mauthner trova prima di tutto un’attenzione alla
lingua come documento della storia dell’umanità e al suo legame con
la “storia delle cose”, in una prospettiva antirazionalistica, come dimostra l’altra citazione posta all’inizio dei Beiträge, accanto a quella di
Locke: «homo non intelligendo fit omnia». Questa impostazione trova
conferma nel racconto metaforico delle origini della storia ideale eterna
che fa precedere geneticamente il parlar figurato all’uso dei termini
propri: la metafora allora, come «accorciata Favoletta», condensa in un
universale fantastico – phantastische Gattungsbegriff, traduce Mauthner
– gli eventi della natura e del cielo e li attribuisce all’immagine di una
divinità, il nome della quale prende forma dal grido della paura. Tutte
le lingue procedono quindi nel dare alle cose inanimate «trasporti del
18
corpo animato, e delle sue parti, e degli humani sensi e umane passioni»,
il che corrisponde a una delle definizioni di Quintiliano 74. Vico procede oltre nell’esame della metonimia, che veste concetti astratti con
l’effetto al posto della causa (la morte pallida), e della sineddocche che
trasporta la parte al tutto, mentre assegna la figura dell’ironia a tempi
più tardi, quelli della riflessione 75.
Mauthner scrive però di essere arrivato a Vico solo in un secondo
momento, dopo aver elaborato la propria teoria e attraverso una suggestione di Goethe 76; lo considera più un precursore della critica del
linguaggio che uno stimolo diretto al proprio lavoro. Del resto l’attenzione alla funzione della metafora non solo in ambito retorico e poetico,
ma come strumento teorico in grado di spiegare aspetti fondamentali
dell’evoluzione del linguaggio in generale, era elemento acquisito nella filosofia e nella linguistica dell’Ottocento tedesco. Mauthner stesso
traccia un filo che collega Vico, Hamann e Herder 77 e, nonostante
sia decisamente dalla parte di Herder nel negare l’origine divina del
linguaggio 78, rivela una maggiore affinità e simpatia per le affermazioni
oracolari del Mago del Nord che aveva letto nelle figure della Bibbia la
traduzione del dialetto di Dio nel linguaggio dell’uomo.
Hamann è fonte di ispirazione in primo luogo per lo stile, per il
suo lento prendere avvio nel groviglio dei titoli, delle dediche spesso
occasionali e incomprensibili, dei motti duplici e triplici 79, per la sua
sensibilità per la lingua che accosta la profezia a intermezzi scurrili,
per la sua predilezione per la maschera, la parodia e, non ultimo, la
metafora. E le metafore che scorrono una sull’altra nell’Aesthetica in
nuce dipanano la tesi sull’origine del linguaggio dalla poesia, «lingua
materna del genere umano» 80, nel ventaglio delle immagini che dalla prima parola di Dio, “sia la luce”, alla creazione dell’uomo a sua
immagine, proseguono in un crescendo di citazioni che devono essere state modello al lavoro di Mauthner. La trasposizione che avviene
nel processo metaforico viene spiegata da Hamann con una ulteriore
metafora: «pensare è tradurre: da un linguaggio di angeli in un linguaggio di uomini, ossia pensieri in parole, fatti in nomi, immagini in
segni, che possono essere poetici o kyriologici, storici, o simbolici o
geroglifici… e filosofici o caratteristici» 81 e questa stessa esigenza di
rendere in immagine, di mettere «mani, piedi, ali» 82 alle astrazioni e
alle ipotesi è alla base della metacritica alla Critica della ragion pura
dell’amico Kant, che Mauthner cita a più riprese. In questo breve testo
Hamann aveva richiamato la tesi di Berkeley, ripresa da Hume, che
tutte le idee generali non sono altro che idee particolari congiunte a
una certa parola che dà loro un significato più esteso e fa sì, all’occorrenza, che ne richiamino altre individuali simili a loro. Il linguaggio
diventava così, come sottolinea Mauthner, primo e ultimo organo e
criterio della ragione, senza altra garanzia all’infuori dell’uso e della
tradizione 83. Contro l’idolo della pura ragione Hamann richiama la
19
priorità genealogica del linguaggio: suoni e lettere sono le pure forme
a priori, dalle quali sorge la lingua più antica della musica, come dal
ritmo del polso e del respiro la prima misura del tempo e dalle figure del disegno e della pittura la determinazione dello spazio 84. Non
idee innate, dice, ma certo matrici che vanno a ricomporre la frattura
kantiana tra sensibilità e intelletto, facendo scorrere tra l’una e l’altro
schiere di intuizioni e di concetti.
Si può quindi considerare Mauthner come il continuatore di questa
metacritica della ragione ed egli stesso ha la pretesa di presentare le
proprie ricerche come continuazione e completamento dell’impresa
del filosofo di Königsberg, come critica della ragione impura – Kritik
der unreinen Vernunft, scrive Lüktenhaus a proposito, usando però
un’espressione di Gerber 85 – come trasformazione della critica della
ragione in critica del linguaggio. Il primo passo in questa direzione è
stato fatto, secondo Mauthner, proprio da Kant nella Kritik der Urteilskraft, da intendersi come una critica dei concetti e delle parole
nell’ambito del bello; «sarebbe stato meglio – scrive – che fosse stato
così anche per la ragion pura: avremmo la critica del linguaggio» 86.
Certamente la disamina kantiana della forma soggettiva del giudizio
estetico, della funzione dell’immaginazione, dell’analogia e delle ipotiposi simboliche nella terza critica doveva essere importante per Mauthner, ma egli non entra nel merito.
Le metacritiche di Hamann e Herder costituiscono poi solo una
prima tappa di un processo di relativizzazione e di storicizzazione dell’apriori che prosegue nel corso dell’Ottocento con la «trasposizione del
trascendentale dal pensiero al linguaggio» attuata da von Humboldt 87,
con la dialettica tra a priori e a posteriori nello spirito dei popoli della
Völkerpsychologie di Steinthal e si conclude nell’estrema dinamicizzazione
delle analisi dei neogrammatici sull’uso della lingua e lo scarto individuale 88. Mauthner trae le conseguenze di questo percorso e in questo
senso lo si può senz’altro considerare, come scrive Lia Formigari,
partecipe di un approccio “attualistico” al tema del linguaggio che ha
il suo lontano ascendente nel concetto di ejnevrgeia di von Humboldt
e nello stesso tempo «il punto di non ritorno» di quella tradizione 89.
La ripresa della visione della lingua come «qualcosa di continuamente,
in ogni attimo, transeunte», non opera (e[rgon), ma attività (ejnevrgeia),
secondo la famosa definizione di von Humboldt 90, avviene infatti solo dal
lato della definizione dell’atto individuale del parlare, mentre l’accento
posto sulla produttività conoscitiva, sulla creazione della soggettività e la
fiducia nella corrispondenza tra rappresentazioni proprie e altrui, fondata
sul riferimento alla totalità della lingua, vengono lasciate cadere nella
critica antimetafisica. Nello stesso tempo la frattura che si è aperta tra
contenuto rappresentativo e parola pronunciata, teorizzata dal principale
esponente dei neogrammatici, Hermann Paul, e ripresa da Mauthner,
rappresenta davvero un «punto di non ritorno».
20
Nella ricostruzione storica delle teorie sul linguaggio del secondo
volume dei Beiträge von Humboldt rimane un riferimento molto importante e l’ammirazione per la sua presa di posizione politica autenticamente liberale e contraria a ogni dispotismo si mescola al consenso
per la tesi che le lingue in ultima analisi – con una leggera forzatura di
Mauthner – rimangono creazioni dell’individuo 91. A Mauthner piace
il carattere asistematico di un pensiero che non perviene a definizioni
conclusive, e non tanto perché le consideri ovvie, ma proprio perché
non ne viene davvero a capo, forse per il carattere circolare di ogni
discorso sul linguaggio. Queste osservazioni rimandano all’impossibilità
di cogliere l’essenza del linguaggio se non per mezzo di metafore, alla
considerazione della lingua come un tessuto, una «rete di analogie»
in cui si è cristallizzata una visione del mondo 92, come un cerchio dal
quale è possibile uscire solo passando in un’altra lingua – metafora
questa che ritorna nei Beiträge – ma in una visione unitaria, a sua volta
resa in metafora con l’immagine del prisma 93.
Mauthner passa invece subito alla critica delle formulazioni, a suo
parere oscillanti e contraddittorie, sullo spirito che creerebbe la lingua
e sulla lingua che creerebbe lo spirito; ripete l’accusa di Steinthal nei
confronti del maestro, di voler cioè dedurre il linguaggio dal pensiero, mentre sarebbe più semplice ricavare dal linguaggio le leggi del
pensiero. In particolare il nostro autore riprende il concetto di innere
Sprachform, che von Humboldt aveva posto a fondamento della diversa
attenzione delle lingue ai diversi aspetti delle cose, del prevalere della componente intellettiva oppure di quella sintetica, e gli conferisce
un senso del tutto diverso ed empirico. Ritiene che questo concetto
sia finalistico e contraddittorio, perché assegna una forma a qualcosa
di interiore che non può aver forma, indicando talora l’insieme delle
idee che fanno riferimento alla lingua, talora l’uso del linguaggio 94. In
concreto però il filosofo illuminista, come Mauthner non si fa scrupolo
di definire von Humboldt 95, intenderebbe per forma interiore della
lingua una cosa diversa a ogni paragrafo: la logica del pensiero come
essa si esprime nella grammatica oppure la grammatica astratta come
si esprime nelle singole forme linguistiche e qualche volta persino il
tertium comparationis che compare alla fantasia nella formazione di
nuove parole 96. Non dobbiamo allora prenderlo alla lettera, la forma
interna è soltanto la nostra sensibilità (Gefühl) linguistica per la nostra
madrelingua che ci fa intendere una parola inesistente come “flierbte”
come un imperfetto del verbo altrettanto inesistente “flierben”.
Per dimostrare la sua tesi della parola come metafora, Mauthner attinge però al bagaglio delle argomentazioni e degli esempi degli studi di
semantica, che non solo avevano individuato nella creazione dell’espressione figurata uno dei principali processi che accompagnano il mutamento semantico, ma ne avevano fornito anche una trattazione analitica.
Mauthner conosce e cita numerosi studi di semasiologia, il filone di
21
ricerca che nella Germania dell’Ottocento costituisce la premessa della
nascita della semantica, disciplina inaugurata dalla pubblicazione, nel
1897 a Parigi, del testo di Michel Bréal Essai de sémantique. Science des
significations. Di Bréal cita il detto: «noi siamo, più o meno, dei dizionari
viventi della lingua francese» 97, invero per criticarlo subito dopo per la
mancanza di un approfondimento psicologico. Ma l’approccio semantico
dello studioso francese era vicino alla critica del linguaggio per il concetto non normativo delle leggi linguistiche che si limitano a rilevare delle
regolarità, per la concezione del rapporto tra le parole e le cose e per
l’importanza centrale della metafora. La logica del linguaggio è per Bréal
una logica di tipo particolare, avanza per tappe, devia, sosta e riparte,
procede per analogie e contiene continui riferimenti soggettivi. Bréal
dedica poi una particolare attenzione alla metafora, affermando come
sia spesso difficile riconoscere le metafore più antiche, ormai scolorite;
esse poi non rimangono legate alla lingua in cui nascono, ma viaggiano
da un idioma a un altro. Questo contribuisce a dare alla parola un
carattere polisemico: il linguaggio designa le cose, ma in modo incompleto e inesatto; i sostantivi racchiudono solo quella parte di verità che
può essere racchiusa da un nome e che è necessariamente più piccola
quanto maggiore è il grado di realtà posseduto dall’oggetto 98. «Il linguaggio – conclude con una tesi che Mauthner ripete più volte – può
solo restituirci l’eco del nostro stesso pensiero» 99.
Il linguista più vicino a Mauthner è però Hermann Paul: egli lo
cita spesso, anche se talora in maniera polemica 100. L’esponente principale del movimento dei neogrammatici, influenzato dal darwinismo
di Spencer, aveva proposto un approccio radicalmente empiristico alla
scienza del linguaggio, considerata come disciplina storica, disamina
delle espressioni degli uomini nel loro operare concreto. Mauthner indica il passo in avanti compiuto da Paul rispetto alla Völkerspychologie
nel focalizzare l’interesse sull’individuo, sull’uso linguistico del parlante
e sulle condizioni di possibilità di comprensione da parte dell’interlocutore, e di giungere così all’idea fondamentale che ogni innovazione
fonetica e semantica sia opera dell’individuo 101. Nei Prinzipien der
Sprachgeschichte Mauthner poteva trovare un’impostazione psicologica
di stampo herbartiano, centrata sul meccanismo, conscio e inconscio,
di aggregazione delle rappresentazioni nella mente dell’individuo, e
un’indagine sul rapporto tra questo piano, privato e incomunicabile, e
l’uso linguistico. La spiegazione storico-genetica dei mutamenti fonetici
e semantici, fondata sulla dialettica di significato usuale di un termine e
di significato occasionale 102, era basata sul riconoscimento del carattere
polisemico di molte parole in uso e sulla necessità quindi di rendere
tale significato univoco e concreto allo scopo della comprensione tra
parlanti. Queste deviazioni dall’uso comune venivano classificate da Paul
secondo gli opposti principî della specializzazione 103 e dell’ampliamento
del significato 104, principî ai quali egli aveva aggiunto il trasferimento
22
a quanto collegato nello spazio, nel tempo e per causa 105. La metafora
diventava allora uno dei mezzi più importanti per la creazione di nomi
per complessi rappresentativi per i quali non esistono ancora parole
che li designino, ma anche per quelli che già possedevano un nome,
costituendo un complesso di immagini sedimentate che caratterizza le
differenze di interesse degli individui e dei popoli.
La rassegna dei tipi di metafora di Paul non rappresenta però soltanto un fondo di «idee ed esempi» a cui attingere 106: il nuovo rapporto stabilito dall’analisi dei neogrammatici tra linguistica e psicologia
e il riferimento a Herbart impegnano Mauthner a fare i conti con la
tradizione degli studi di psicologia 107, aprendo un altro ventaglio di
prospettive che richiedono una sintesi.
3. Metafora e rappresentazione
In un primo momento sembra senz’altro di poter definire la concezione mauthneriana della metafora con il cattivo attributo di “psicologica”, riconducendola alla categoria peggiorativa di “psicologismo”,
se intendiamo con questo termine la dissoluzione dell’apriori e la sua
spiegazione in termini genetici. Lo stesso Mauthner ribadisce più volte
di voler ridurre la filosofia a psicologia e per la linguistica afferma che
essa costituisce soltanto un capitolo della psicologia 108. Nello stesso
tempo però il nostro filosofo afferma che lo psicologismo «sarebbe la
verità, se la nostra psiche non dovesse parlare» 109, se la parola potesse,
per così dire, assomigliare alla rappresentazione. Ma l’idea della parola
come metafora è collegata al suo carattere polisemico, ambiguo, non
riconducibile a un concetto definito, ma a una pluralità di rappresentazioni; in ogni momento – egli scrive – sono presenti una quantità di
rappresentazioni individuali che stanno pronte fuori della «cruna della
nostra coscienza» 110 e che passiamo velocemente in rassegna. Alla parola corrisponde la sedimentazione di rappresentazioni simili, mai eguali
però, che fluttuano una sull’altra, senza poter combaciare in modo esatto. Più avanti l’autore tornerà a riflettere sul termine “rappresentazione”
che già indicherebbe un’attività spirituale complessa, richiedendo a sua
volta la mediazione del linguaggio 111: provvisoriamente possiamo dire
allora che la parola evoca un mondo di associazioni, un complesso di
sensazioni e di percezioni sensibili. Gli organi di senso a loro volta non
sono poi certamente lo specchio del mondo, essi hanno avuto un’evoluzione casuale, orientata dai criteri dell’economia e del bisogno, costituiscono quindi dei filtri, dei setacci, che lasciano passare soltanto una
minima parte delle caratteristiche delle cose 112. Questa selezione è stata
essenziale per la vita quotidiana, perché una configurazione più precisa
degli organi di senso che ci facesse percepire differenze microscopiche,
come ad esempio l’intera variazione delle oscillazioni ondulatorie stu23
diate dalla fisica nel campo dei suoni e dei colori, non avrebbe reso
possibile l’orientamento dell’uomo nel mondo.
Sul piano gnoseologico una conoscenza trasparente del mondo rimane impossibile: intelletto e mondo non combaciano, non si adattano l’un
l’altro come un guanto alla mano o la mano al guanto (e con questo rovesciamento allude alla rivoluzione copernicana di Kant, e – stando alla
metafora – non ci è nemmeno dato sapere se nel guanto vi sia davvero
una mano 113); il mondo svanisce nell’illusione, dissolto nelle ombre del
mito della caverna di Platone e coperto dal velo di Maya delle antiche
dottrine dei Veda interpretate da Schopenhauer, coinvolgendo anche
il soggetto nel mistero dell’inconoscibile. Ma lo scetticismo radicale,
applicato all’ambito del soggetto del conoscere, apre un nuovo piano
di indagine per la critica del linguaggio e la seconda parte del primo
volume dei Beiträge si presenta come un’acuta disamina delle teorie
psicologiche del tempo che ne individua alcune importanti aporie. La
duplicazione del mondo attuata dal materialismo, dallo spiritualismo, ma
anche dal parallelismo psico-fisico ha, secondo Mauthner, come immediata conseguenza l’applicazione al mondo interno dei concetti elaborati
per il mondo esterno, con il risultato di costruire enigmi senza soluzione
sul rapporto tra anima e corpo e problemi senza senso, come il tentativo
di individuare la collocazione dell’anima o la diatriba sull’anima degli
animali 114. Allo stesso modo la psicologia fisiologica, che scopre nel
cervello i correlati fisici delle associazioni psichiche, non farebbe altro
che raddoppiare l’enigma 115, e Fechner, che chiama parallele due cose
che invero coincidono, risolverebbe il problema del rapporto tra fisico
e psichico soltanto a parole: i pesci – commenta Mauthner con una
metafora – vedono la superficie del mare da sotto, gli uccelli dall’alto
e in psicologia noi ci troviamo nell’imbarazzante situazione di un uomo
che possa guardare solo da un lato lo specchio del mare 116. Anima e
corpo sono quindi solo parole, metafore appunto; l’io, con i suoi confini incerti e incostanti, illusione delle illusioni 117, la coscienza «vuoto
pleonasmo» 118: lo specchio del nostro cervello riflette di volta in volta
quello che gli è davanti, ma non si può guardarvi dentro come in uno
specchio oculare 119.
Mauthner afferma di aver maturato queste sue convinzioni nel suo
periodo di formazione a Praga; fa risalire l’idea della povertà dei nostri
cinque sensi, della struttura contingente della sensibilità, alla lettura di
Nietzsche (ma su questo più avanti) e sostiene di essere stato stimolato
alla critica del linguaggio da una conferenza sul principio di conservazione del lavoro che Ernst Mach aveva tenuto a Praga nel 1872. Si
tratta invero di una ricostruzione a posteriori 120, ma questo non toglie
che si possano rintracciare nelle pagine dei Beiträge molte suggestioni
che derivano con evidenza dalla rilettura del lavoro di Mach.
Il testo della prolusione contiene una disamina critica dei concetti
fondamentali della fisica considerati secondo il motto «la storia ha fatto
24
tutto, la storia può mutare tutto» 121. I concetti, sostiene Mach, sono
astrazioni che debbono essere sempre riconducibili ai fenomeni sussunti; per alcuni concetti abbiamo scordato il percorso compiuto per
raggiungerli e li chiamiamo metafisici 122. La scienza si deve limitare alla
connessione più ampia possibile dei fatti, senza cercare di immaginare
qualcosa dietro i fenomeni, e deve essere consapevole che quello che
li tiene insieme è sempre una forma arbitraria, che varia con il nostro punto di vista culturale 123. Universalizzare questo punto di vista,
come tenta di fare la concezione meccanica del mondo, significa, per
Mach, ritornare alla metafisica; la conclusione è kantiana: se il mondo
è una macchina, in cui il movimento di certe parti è determinato dal
movimento di altre, nulla è però determinato per l’intera macchina 124.
Accanto poi al procedimento che collega i fenomeni, la scienza ha
anche il compito di scomporre i fatti complessi in fatti più semplici,
non ulteriormente scomponibili: questi fatti-base, come egli li chiama,
non sono altro che incomprensibilità non abituali ridotte a incomprensibilità abituali e la scelta di questi fatti-base «è questione di comodità,
storia e abitudine» 125. In breve, la conferenza di Praga conteneva tutti
i presupposti per una critica del linguaggio della metafisica nella scienza, come Mauthner riconosce più volte.
La critica al meccanicismo veniva poi confermata dalle ricerche
successive dello scienziato sullo spazio e sul tempo della percezione,
sui suoni e sui colori, esposte nel libro Die Analyse der Empfindungen, la cui prima edizione è del 1886. Nelle Osservazioni preliminari
antimetafisiche, che introducono le ricerche fisiologiche, il punto di
partenza del nostro conoscere viene descritto fenomenologicamente:
«colori, suoni, calore, pressioni, spazi, tempi ecc. sono connessi fra
loro in modo molteplice e ad essi sono legati disposizioni, sentimenti e
volizioni. Da questo tessuto emerge ciò che è relativamente più stabile
e durevole, imprimendosi nella memoria ed esprimendosi nella parola.
Come relativamente più durevoli si segnalano innanzitutto complessi
coordinati (funzionalmente) nello spazio e nel tempo di colori, suoni,
pressioni ecc., i quali proprio perciò assumono nomi specifici e vengono indicato come corpi (Körper). Tali complessi non sono affatto
persistenti in senso assoluto» 126. In questa formulazione Mach evita
l’espressione “complessi di sensazioni”: gli elementi sono sensazioni al
livello dell’astrazione, dell’idealizzazione, cioè dell’ordinamento di una
serie che permette di renderli oggetto di esperimento 127; essi – scrive
Mach – sono sensazioni soltanto sotto un certo rispetto: un colore è
un oggetto fisico in relazione alla sorgente di luce, è una sensazione
in relazione alla retina 128. I complessi di elementi si compongono poi
variamente e possono esigere una descrizione fisica o fisiologica oppure
psicologica: in relazione all’elemento ordinatore si danno diverse immagini del mondo, come dirà Mauthner, oppure reti a diverse maglie,
come dirà Wittgenstein.
25
Questo approccio permetteva a Mach di sfuggire alla duplicazione
metafisica di soggetto e oggetto, di fenomeno e cosa in sé, di illusione
e realtà: la matita immersa nell’acqua, emblema dell’illusione dei sensi,
risulta otticamente spezzata, ma tattilmente e metricamente diritta. I
complessi, ordinati herbartianamente in modo seriale (ordinamento
spaziale e temporale, serie cromatica o tonale), sono poi scomponibili
senza il residuo di una cosa in sé: la sostanza, al contrario, non è altro
che l’ipostatizzazione di un’entità che viene staccata dalla serie delle
sensazioni in base a un’istanza di totalità.
E semplice complesso di elementi risultava anche l’altro polo del
conoscere, l’io, che perdeva così la sua identità definita. Mach sancisce
in questo modo la fine dell’io, fonte, a suo dire, di tutte le assurdità metafisiche, e indica come premessa di questa concezione un’osservazione
di Lichtenberg sulla difficoltà di tracciare una netta linea di demarcazione tra le rappresentazioni che dipendono da noi e quelle che non
ne dipendono. Lichtenberg osservava che non si dovrebbe dire “ich
denke”, ma piuttosto “es denkt”, allo stesso modo in cui si dice “es
blitzt” 129. Riassumendo con un appunto di Mach: «Mondo e io sono
più o meno soltanto sintesi (Zusammenfassungen) arbitrarie» 130.
Mach offriva così alla cultura del suo tempo un approccio ai concetti di io, cosa, spazio, tempo e causa, che costituì un punto di riferimento non solo per scienziati, ma anche per scrittori e letterati: la
sua critica al feticismo del linguaggio, alla «superstizione della parola»
– come egli si esprime in Erkenntnis und Irrtum, citando l’antropologo
Tylor 131 – ritorna in espressioni e in immagini, spesso con richiami
espliciti, in tutta la riflessione sulla crisi della parola, sul divario, ormai
riconosciuto, tra le parole e le cose, nella dissoluzione e nelle estreme
difese dell’io nella letteratura della Vienna dell’inizio del Novecento
(basti citare Musil, Hofmannsthal e Weininger). Non stupisce quindi
che Mauthner nel periodo della stesura dei Beiträge torni a quella
lontana suggestione, legga i libri di Mach e cerchi anche di stabilire
un contatto personale con il pensatore moravo 132.
La definizione del rapporto tra fisico e psichico come semplice
diversità di rapporti tra elementi che possono essere oggetto di descrizione da parte della fisica, della fisiologia oppure della psicologia,
l’inutilità di riferirsi a una componente ulteriore che faccia da sostrato
ai due ambiti – come ancora il parallelismo tendeva a fare – ritorna
nelle analisi gnoseologiche e antropologiche di Mauthner, nell’affermazione della diversità solo di grado tra il pensiero animale e quello
dell’uomo, nella definizione dell’intelletto come capacità intuitiva che si
sviluppa per necessità di sopravvivenza biologica, nella considerazione
della memoria non solo come sedimentazione psichica, ma anche materiale delle esperienze in tutte le vie sensibili e motorie 133. Quando
Mach paragona l’attività della memoria all’uso di vecchi violini ben
suonati e Mauthner si meraviglia di quante tracce mnemoniche debba
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contenere l’ala di un uccello, non si tratta di banali osservazioni materialistiche, ma della considerazione della natura in una prospettiva
storica e dell’uomo come parte di essa. Nell’analisi del linguaggio questo significa di nuovo partire dalla sua dimensione naturale: Mauthner,
come Mach, afferma che si impara a parlare come si impara a respirare
e a camminare 134.
Katherine Arens, che ha ampiamente analizzato il debito intellettuale di Mauthner nei confronti di Mach, lo riassume nel paradigma
del «funzionalismo», nell’affermazione cioè del valore contingente dei
modelli teorici che, di volta in volta, si presentano come sistemazioni parziali dei dati empirici in funzione di determinati problemi da
risolvere 135. Questa impostazione del problema del conoscere non
approdava però in Mach a un esito scettico, non alla rassegnazione,
alla rinuncia compiaciuta e malinconica dell’Ignorabimus di du BoisReymond (e che in alcuni momenti ritroviamo anche in Mauthner),
né si presentava come un’incursione dello scienziato nel campo della
filosofia che si ripromettesse di risolverne gli enigmi; in Erkenntnis
und Irrtum egli si definirà un cacciatore domenicale della filosofia 136:
un cacciatore, possiamo dire, capace di muoversi senza assunzioni preconcette e di colpire nel segno i preconcetti di un’intera tradizione
del pensiero.
Anche Mauthner, quando si interroga sulla possibilità di fare della
linguistica una scienza, si paragona al viaggiatore che può solo descrivere i costumi di un popolo, ma egli espande il modello funzionalistico di
Mach nella direzione dello scetticismo: il mondo è immagine soggettiva
dei nostri Zufallssinne, la scienza non ha alcun fondamento possibile, la
logica è vuota tautologia, il soggetto metafisico è ridotto all’io empirico,
a sua volta frantumato nell’indeterminatezza dei suoi confini. A questo
proposito con un’osservazione simile a quella di Mach e di Lichtenberg,
Mauthner sostiene: la mia sensazione “verde”, grün, significa originariamente che io vengo begrünt, il prato mi verdeggia, begrünt mich 137.
Limitarsi alla descrizione fenomenologica farebbe quindi saltare le categorie della grammatica; l’autocritica del linguaggio diviene il suicidio
del linguaggio.
Il confronto con Mach si fa poi più serrato a partire dal periodo
nel quale Mauthner sta ultimando il secondo volume dei Beiträge e
appare ancora più chiaramente nel terzo. Oltre alla lettura dell’Analisis,
delle Vorlesungen e della Mechanik, Mauthner ha affrontato anche la
Wärmelehre (uscita nel 1896) che nell’ultima parte tratta con ampiezza
il linguaggio della scienza. L’applicazione del modello biologico darwiniano allo sviluppo delle idee scientifiche in termini di trasformazione e
di adattamento permette a Mach l’approfondimento di alcune riflessioni
sulla teoria del conoscere. Si tratta in primo luogo del processo psicologico dell’associazione, della comparazione come base dell’astrazione:
così, ad esempio, i termini indicanti colore, forse nati dall’arte del ta27
tuaggio che riproduce le tinte dei fiori e dei frutti, divengono autonomi,
astratti, vengono intesi senza pensare al loro primitivo riferimento. La
formazione del concetto deriva allora dall’individuazione dell’uguaglianza di una parte di un complesso di sensazioni con una parte di
un altro complesso, che permette l’associazione per somiglianza. Ma
il passaggio più interessante di questa trattazione, almeno dal punto
di vista di Mauthner, è il rapporto che Mach stabilisce tra concetto e
intuizione. Il concetto – afferma Mach– è enigmatico: se lo consideriamo dal punto di vista logico, lo vediamo come il prodotto psichico più
preciso e determinato, se ne cerchiamo il contenuto intuitivo, reperiamo
soltanto un’immagine confusa. Il procedimento di formazione delle idee
viene paragonato alla composizione delle figure della pittura dell’antico
Egitto, che non corrispondono a un’unica percezione visiva, ma sono
composte di percezioni diverse: la testa e il capo sono rappresentati
di profilo, ma la copertura del capo e il petto si vedono di fronte; si
tratta di una sorta di percezione intermedia che appunta l’attenzione
su alcuni aspetti e ne trascura altri. Nella stessa nota, che rimanda a
questa osservazione contenuta in una conferenza, Mach cita Paul Carus
che definisce il concetto in analogia alle somiglianze di famiglia che il
suocero Hegeler aveva osservato in alcune foto composte da Galton 138.
L’immagine è individuale, come le foto dei singoli componenti della
famiglia, il concetto non sta in rapporto con una immagine definita,
con una rappresentazione finita (fertig), è piuttosto un’indicazione a
esaminare alcune caratteristiche della rappresentazione, a individuare
le somiglianze di famiglia. Acquisire un concetto significa allora avviare un sistema di operazioni che si può apprendere solo nella prassi,
nell’esercizio, come ci si deve esercitare per imparare la matematica o
una lingua straniera. La definizione del concetto in Mauthner riprende allora questa impostazione nell’affermare che il concetto non è in
relazione con una determinata rappresentazione, ma con «una catena
o un tessuto, una rete o ancor più esattamente un piccolo mondo, un
microcosmo di associazioni di idee», un microcosmo «che non è unidimensionale come una catena, non bidimensionale come un tessuto
o una rete, ma tridimensionale o, in relazione al tempo, quadridimensionale come un mondo» 139.
Nel capitolo sul linguaggio della Wärmelehre Mach, riprendendo
l’idea del carattere operativo dell’acquisizione del concetto, sostiene che
i segni sonori hanno preso senso e significato alla presenza di osservatori
comuni e di una comune attività, citando Geiger 140 e Noiré 141, ma questi riferimenti non sembrano a Mauthner sufficienti, egli pensa di essere
andato più avanti di questi autori nella critica del linguaggio 142.
Nel Wörterbuch der Philosophie (1910) Mauthner continua a fare riferimento al pensiero di Mach in numerose voci e con molte citazioni,
lo considera anche una fonte per la sua teoria delle tre immagini del
mondo. Ora ha anche a disposizione Erkenntnis und Irrtum (1905), il
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testo epistemologico che riassume e approfondisce i risultati di tutta la
riflessione di Mach sulla formazione dei concetti scientifici, sulla loro
radice nel precategoriale e nel linguaggio ordinario. La parola viene
definita come centro di associazioni, viene indagata nel sua dimensione
magica e superstiziosa, nella sua funzione nel processo di astrazione,
nei suoi significati mutevoli e nei suoi trasferimenti e, in una nota,
troviamo anche il riconoscimento dello stimolo ricevuto dalla lettura
degli scritti di Mauthner. In particolare vanno poi segnalate le pagine in cui Mach tratta il concetto di analogia e afferma l’importanza
dell’uso euristico delle immagini nella scienza 143.
Mauthner si propone per la filosofia un compito analogo a quello
che Mach ha svolto nei confronti dei principali concetti della scienza,
ma il diverso punto di vista e la differenza dell’oggetto in questione
svelano la dimensione scettica e radicale del progetto del filosofo. L’ordinamento alfabetico, «triviale» (termine dal paradossale doppio senso:
volgare o riferito alla cultura del trivio medievale), «brutale» e «infantile», si adatta perfettamente alla dimensione circolare del suo pensiero,
alla condensazione in nuclei decentrati dell’argomentazione; non solo,
esso rappresenta l’unico ordine possibile che permette i rimandi da un
qualsivoglia punto ad un altro e una consultazione semplice. L’enciclopedia filosofica che espone lo stato della filosofia sancisce nel contempo la mancanza del suo fondamento, l’impossibilità di individuare un
criterio gerarchico nel nostro conoscere, di mettere ordine nel sapere; e nell’etimo del termine (e[gkuklo") Mauthner non vuole cogliere
l’idea di completezza, ma del girare in cerchio, del mordersi la coda 144.
Nella rassegna dei tentativi storici di sistemazione enciclopedica, oltre
all’apprezzamento per il dizionario storico e critico di Bayle, «lessico
di conversazione di tutti gli spiriti scettici» 145, troviamo una citazione
di Stumpf a conferma della provvisorietà e della circolarità del sistema
delle scienze: «gli oggetti delle scienze non sono disposti come cerchi
concentrici intorno a un unico punto centrale, ma formano parecchie
ondate, che si incrociano partendo da punti centrali autonomi» 146.
Al posto di concetti puri, ai quali siano state strappate, derubate
per via di astrazione (un calco coniato da Boezio del greco ejx ajfairevsew", usato da Aristotele e tradotto in un altro contesto da Cicerone
con detractio) tutte le caratteristiche concrete, troviamo soltanto le parole in uso nella filosofia, parole che sono migrate, sono state trasferite,
traslate, assieme alle cose e ai popoli, portando con sé, nelle derivazioni,
nei prestiti, nelle traduzioni e nei calchi, molteplici sfumature di senso.
Mauthner non crede quindi alla possibilità di una definizione rigorosa
dei singoli termini, afferma che una definizione «pulita» sarebbe tautologica, illusoria, come la pretesa di calmare la fame con un menù che
pone accanto ai nomi francesi la loro traduzione in tedesco 147.
Questo non vale solo per le parole della filosofia, ma in genere per
tutte le nostre parole. Possiamo dire che una parola ha significato allo
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stesso modo in cui possiamo dire che una cosa ha delle proprietà,
anche se non c’è una cosa al di fuori e accanto alle sue proprietà. Il
significato appartiene alla parola, non c’è un significato in sé, un significato «obiettivo-ideale» – e qui Mauthner scrive frettolosamente, tra
parentesi: Husserl; lo possiamo indicare solo pressappoco, ricostruendo
la storia della parola, criticando il significato momentaneo, riportando
la discussione su quel significato.
L’indeterminatezza dei concetti e delle parole viene descritta con
l’aiuto del termine “fringe”, che forse possiamo rendere con “margine”
(Saum), “alone” (Hof), e che viene utilizzata da William James per
indicare l’imprecisione dei confini della rappresentazione. Mauthner
se ne serve indifferentemente per la rappresentazione e per la parola e
riprende l’immagine fluida della mente dello psicologo americano che
deriva l’orlo sfrangiato delle rappresentazioni dalla successione delle
onde delle impressioni che parzialmente si sovrappongono, accostandola alla teoria delle onde del linguista Johannes Schmidt.
Per altri versi le parole, tutte le parole, sono già da sempre concetti,
a diversi gradi di astrazione, e indicano già da subito di aver perso il riferimento all’intuizione immediata; esse si formano attraverso il processo
dell’associazione che non è affatto governato da leggi stabili, sistemate
nei paragrafi della teoria psicologica, ma da regolarità (Gesetzmässigkeit
e non Notwendigkeit) che mutano da una lingua all’altra dando vita
a sfere associative diverse, condizionate dall’uso linguistico. Mauthner
non nega che vi siano innumerevoli similarità nelle associazioni, come
vi è una sorta di imprecisa comprensione nella prassi del linguaggio; si
tratta però di somiglianze, affinità, parentele (ma non di sangue), analogie che escludono l’identificazione completa 148. Analogia è addirittura
un errore logico che inferisce da proprietà simili conosciute proprietà
simili sconosciute, esigenza psicologica di generalizzazione, semplice
comparazione che non può essere scambiata con la conclusione logica
della proporzione matematica 149. L’applicazione di conclusioni analogiche inconsce è colpevole della creazione del linguaggio «metaforico,
improprio, non scientifico» che abbiamo usato per descrivere in immagini l’intera nostra vita interiore e abbiamo poi riportato all’esterno, per
penetrare nell’interno delle cose, per spiegarne la loro natura 150.
Viene così ribadita la disgregazione del soggetto e dell’oggetto del
conoscere, dell’io e della cosa. Ciò che comunemente chiamiamo cosa
(Ding, Sache) non è quindi altro che il machiano complesso di sensazioni, e questa cosa è soltanto una rappresentazione astratta (Gedankending), una cosa del pensiero. Mauthner precisa che con questo
non intende un concetto inventato, uno Scheinbegriff, come potrebbe
essere ad esempio l’idea di strega, né un fenomeno o un’apparenza
(Erscheinung) nel senso di Berkeley e Kant, e nemmeno una cosa in sé,
come continuano a sostenere i neokantiani, ma semplicemente la causa
(Ursache) delle sensazioni, aggiungendo subito dopo che lo stesso con30
cetto di causa è un enigma 151. Se poi una cosa isolata propriamente
non esiste, come afferma il nostro autore citando di nuovo Erkenntnis
und Irrtum, non esiste nemmeno un io isolato, esso non è che la catena
dei vissuti: cosa e io, insomma, sono finzioni provvisorie 152.
Mauthner cerca però di procedere oltre. Mentre Mach in Erkenntnis und Irrtum articola la sua disamina critica degli strumenti concettuali legati alla ricerca scientifica mantenendo le distinzioni e la fiducia
nel loro valore conoscitivo, anche se provvisorio, Mauthner opera una
riduzione del pensiero a linguaggio, del concetto a parola, della parola
a immagine, dell’immagine a immagine di immagine. L’identificazione
delle funzioni del pensare e del parlare invero non è completa, perché
anche in questo caso si tratta, possiamo dire, di diversi giochi linguistici, e dipende dall’estensione che attribuiamo ai due concetti 153, ma
questa cautela non viene sempre rispettata e spesso Mauthner ribadisce
l’identità di pensiero e linguaggio, la valenza di mera parola del concetto, la natura metaforica del concetto stesso.
I diversi punti di vista da cui guardare il mondo – che Mach aveva
connesso alla possibilità di combinare in modo diverso il complesso di
elementi, ma che aveva sempre ricondotto alla descrizione scientifica
– diventano in Mauthner tre categorie grammaticali che egli chiama le
tre immagini del mondo. Egli mantiene il termine greco di “categoria”,
svuotandone il senso logico e conoscitivo, sulla scia dell’interpretazione
grammaticale delle categorie aristoteliche di Trendelenburg: kathgorei'n
– scrive – significa semplicemente “asserire”; forse allora sarebbe meglio usare il termine Aussaglichkeit, o Aussagenmöglichkeit, possibilità
di asserire, ma Mauthner si accontenta del linguaggio in uso, consapevole di dover lavorare sullo slittamento del significato. Le categorie
della grammatica sono dunque: l’aggettivo, il sostantivo e il verbo, ma
anche qui non nel senso delle forme grammaticali tradizionali. Si tratta
di vere e proprie categorie della grammatica che trasferiscono dalla
scienza alla filosofia la concezione machiana dei punti di vista.
Il mondo aggettivo è il mondo delle impressioni sensoriali, dell’esperienza immediata, del dato; si presenta frantumato, pointilliert, come
un quadro dipinto dai divisionisti, descritto da parole come “blu”, “rumoroso”, “dolce”, “duro”, ma anche “giusto”, “bello”, che «infilzano
l’impressione con la punta dell’ago dell’attimo» 154. Esso ci consegna le
proprietà delle cose, senza permetterci di interrogarci su cosa esse siano
al di là delle loro proprietà; il suo linguaggio, per essere coerente, dovrebbe essere costituito appunto di soli aggettivi, come nella grammatica dell’emisfero boreale del mondo immaginario di Uqbar nel racconto
di Borges, che non dice “luna”, ma una serie di aggettivi accostati.
Il mondo sostantivo dà il nome alla sostanza, integra questo linguaggio sensistico con concetti mitologici, inventando gli dei, gli spiriti,
le forze, le cause, ma anche le cose, le singole cose, che sono tutte ipostatizzazioni. Il mondo delle idee platoniche, immagini originarie delle
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cose, smascherate nel loro carattere apparente, irreale, è il paradigma
filosofico di questo bisogno umano. L’errore di Platone è allora nella
pretesa di farlo valere come l’unica immagine possibile del mondo;
esso è invece pura parvenza.
Il mondo verbale congiunge le sensazioni mediante l’attività della
memoria e le trasforma nel mondo del divenire, nel mondo fluente di
Eraclito, descritto dalle parole come “passare”, “morire”, “godere”,
“soffrire”, “causare”, “obbedire”. Nei Beiträge Mauthner aveva assegnato a questa categoria il carattere della finalità e dello scopo, nel
Wörterbuch limita questa dimensione a una parte dei verbi allo scopo
di inserirvi anche quelli che designano mutamenti nella natura. Da notare poi che non tutti i verbi appartegono al mondo verbale; l’esempio
più pregnante è il caso del verbo essere (sein) che, secondo Mauthner,
appartiene evidentemente al mondo sostantivo 155.
Egli conclude poi l’esposizione della voce “verbale Welt”, ultima
delle tre nell’ordine alfabetico e nell’ordine della scrittura, assegnando
all’estensione dell’aggettivo l’approccio artistico al mondo, all’estensione
del sostantivo il mistico, all’estensione del verbale la scienza. Preoccupato che questa partizione potesse apparire come una trinità di mondi
accostati l’uno all’altro, Mauthner ribadisce che il mondo ci è dato una
volta soltanto, ma che questo unico mondo può essere visto come una
somma di impressioni sensoriali oppure come un ordinamento di cose
oppure come una serie di mutamenti e – così conclude nel suo ultimo
scritto Die drei Bilder der Welt – ciascuno di questi mondi costituisce
una cosa in sé per gli altri due 156, senza che sia possibile tradurre i tre
linguaggi l’uno nell’altro o sovrapporre queste immagini per raggiungere una concezione unitaria del mondo.
Nella voce “Als ob” della seconda edizione del dizionario il nome
di Mach ricompare tra gli esponenti di quella che egli chiama Philosophie der Fiktion, che possiamo tradurre con una leggera forzatura
con “filosofia della finzione”, tenendo presente che il ricorso a questo
termine con etimo latino indica il carattere creativo e inventivo del
conoscere, piuttosto che il travisamento di una verità, peraltro dichiarata inesistente. La denuncia dell’inganno del linguaggio, che si articola
nell’affermazione del carattere illusorio del conoscere e nella negazione
dell’esistenza di una cosa in sé che ci assicuri l’omogeneità dei fenomeni, la conseguente impossibilità di fondare i valori e la radicalità di una
religione senza dio sembrano legare insieme i nomi che egli cita: oltre
a Mach, Steinthal, Lange, Laas, Vaihinger, Forberg e Nietzsche.
Nel caso di Vaihinger si tratta piuttosto di una conferma che di
una fonte 157. Lo studioso di Kant aveva elaborato una filosofia che
ha molti punti di contatto con quella del nostro autore: il pensiero
umano viene trattato alla stregua dei processi biologici naturali come
un insieme di azioni e reazioni dell’animo a carattere finalistico e soggette all’evoluzione: il nostro organismo, immerso in un complesso di
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sensazioni contraddittorie e soffocato dalle spire di un mondo esterno
a esso ostile, produce e inventa, per sopravvivere, artifici del pensiero
che danno vita, accanto all’arte della logica pura, a forme indirette,
meno nitide e rigorose, spesso contraddittorie rispetto al dato e in sé
stesse, ma di innegabile valore euristico. La scala dell’artificiosità va,
come scrive anche Mauthner, dalle finzioni massime della morale alle
finzioni minime della scienza, ma l’intero mondo delle nostre rappresentazioni è affetto dalla soggettività e non è certo destinato a diventare
un’immagine immediata dell’essere.
Particolare interesse è dato alle finzioni simboliche o analogiche,
che vengono analizzate con argomenti molto simili alla teoria della metafora di Mauthner. In modo affine alla creazione poetica e mitica il
procedimento analogico si costituisce nell’appercezione di una nuova
intuizione da parte di una funzione rappresentativa nella quale esiste
una relazione simile, una proporzione analoga a quella della serie già
osservata delle sensazioni 158. Il pensiero elabora cioè simboli o immagini che non intendono riprodurre la realtà al modo di uno specchio, ma
introduce in essa forme di comparazione e connessioni che ne intessono
i fili dispersi 159.
Vaihinger si rivela vicino a Mauthner anche nell’uso delle metafore
che descrivono la funzione provvisoria dei concetti-finzione (non la loro
falsità che sarebbe espressa da immagini come gli occhiali colorati o
lo specchio deformante, immagine quest’ultima che troviamo invece in
Mauthner). Egli sostiene che tutto ciò che incontriamo nella vita quotidiana e nella scienza e che va sotto il nome di conoscenza è un insieme
di gusci vuoti; rovescia così il senso della critica di Herbart all’apriori
kantiano come guscio vuoto e afferma la validità puramente strumentale di tali gusci, che si rompono quando non servono più, quando il
fine viene raggiunto 160. Definisce i concetti anche come «cerniere» che
chiudono provvisoriamente la combinazione delle sensazioni 161, oppure
come «pezzi di ricambio» del meccanismo del pensiero 162. Un’altra
metafora suggerisce l’idea che tra mondo interno e mondo esterno vi
sia una zona di permutazione, dove i valori dei due mondi sono illusoriamente assimilati gli uni a quelli dell’altro, «dove è reso possibile
un vivo scambio fra i due e dove la sottile carta-moneta dei pensieri è
scambiata nelle pesanti monete della realtà, dove, viceversa, il metallo
della realtà viene dato in cambio di quella merce leggera, che ha reso
possibile lo scambio. […] Poiché si è posseduta molta carta-moneta
falsa, si sono introdotte furtivamente molte idee false, che non possono essere trasformate in valori materiali; non è senz’altro sufficiente
tener conto del valore nominale della carta, ma si deve far riferimento
all’aggio sull’oro, che essa può fare» 163.
Nonostante quindi le vie del conoscere e quelle dell’essere siano
eterogenee, si possono ottenere risultati che permettono di orientarci 164. A questo proposito sono interessanti alcune note di Vaihinger
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sul fatto che nel flusso della percezione ricorrano determinate forme
strutturali che hanno «una certa, precisa coloritura» che ci permette di
fissare gli oggetti come sostanze, come cose con delle proprietà. Non vi
sono cose senza proprietà né proprietà senza cose: il concetto di zucchero è una finzione, il concetto di bianco è altrettanto una finzione,
ma “lo zucchero è bianco” è un fatto. Il complesso qui ricomposto
permette in qualche modo il passaggio dal pensiero che sembra operare per perifrasi alla prassi della comunicazione che richiede la finzione,
l’errore della sostanza. Mauthner preferisce un esempio diverso: “lo
zucchero è dolce”; con questo risulta forse più chiara la distinzione
tra il riferimento alla sensazione di dolce e la «regola del gioco» del
linguaggio che chiama dolce e la sensazione e lo zucchero, mentre nella
nostra coscienza non troviamo altro che la sensazione di dolce 165. La
conclusione del nostro autore assume anche in questo caso una coloritura più scettica, che nega non solo la possibilità della comprensione
del mondo, ma anche la sua conoscenza.
4. La teoria della metafora
Nella critica del linguaggio non poteva mancare la disamina della
tesi di Aristotele, che Mauthner presenta con l’accusa di voler spiegare
il linguaggio figurato della poesia dal punto di vista logico, risolvendo
ogni metafora nella proporzione matematica, completa o incompleta.
La seduzione poetica consisterebbe allora nel lasciar indovinare uno
o due membri, e qui l’autore accenna agli esiti barocchi di questa impostazione e non risparmia dell’ironia a proposito dell’esempio della
coppa come scudo di Dioniso 166. A differenza però di tutti gli altri
luoghi nei quali il nostro autore accenna o tratta del filosofo greco e,
nonostante la conoscenza superficiale dei suoi testi e della letteratura
critica, che gli verrà rimproverata dai recensori del libriccino polemico
su Aristotele del 1904 167, qui il nominalista si sofferma sulla teoria
aristotelica e prende sul serio la sua analisi concettuale.
Non solo il problema gli appare cruciale per l’esito della sua analisi
critica, ma egli ha anche a disposizione una serie di studi filologici e
filosofici, apparsi in quegli anni in Germania, che convergono nella tesi
del carattere essenzialmente metaforico della parola proprio a partire dalla disamina della tesi dello stagirita. Nella lettura di Aristotele
Mauthner utilizza ampiamente il testo di Alfred Biese, Die Philosophie
des Metaphorischen, che era stato pubblicato nel 1893, e la sua bibliografia che comprende il lavoro di Kurt Bruchmann, Psychologischen
Studien zur Sprachgeschichte (1888), e l’importante libro sui tropi di
Gustav Gerber, Die Sprache als Kunst (1871, seconda edizione 1884),
che il nostro autore invero non cita mai, anche se rivela sorprendenti
analogie con le sue conclusioni.
34
La prima mossa del nostro autore consiste nel sottolineare in Aristotele l’uso del termine “metafora” come titolo generale dei tropi.
Anche Biese aveva ravvisato in questo un merito del filosofo greco,
nell’aver riconosciuto cioè anche nella metonimia e nella sineddocche il
momento della Übertragung, del trasferimento. Su questo Mauthner è
decisamente d’accordo: Aristotele – scrive – parla greco e per metafora
intende “traslato”, non un termine tecnico secondo la classificazione
della retorica latina. Il problema è solo apparentemente una questione
di termini ed è stato più volte rilevato nella storia della teoria della
metafora: l’ambiguità dell’uso aristotelico che chiama “metafora” sia
la figura come tale, il tropo, la trasposizione di un termine, sia la metafora in senso stretto, la figura retorica della somiglianza, rivela un
interesse per il processo stesso della trasposizione e estende l’indagine
dal nome a tutte le entità del linguaggio portatrici di senso 168. Tale
ampliamento permette di individuare nella teoria aristotelica qualcosa
di più dell’analisi di un semplice meccanismo di sostituzione, che è
alla base della concezione della metafora come ornamento retorico
o poetico, e di coglierne invece una dimensione gnoseologica, di stabilirne il valore semantico. Naturalmente le riflessioni novecentesche
sulla metafora approfondiranno questo approccio facendo ricorso agli
sviluppi della logica e della linguistica, ma molte intuizioni e riflessioni
erano già state formulate in queste letture di fine Ottocento. Questa
prima affermazione di Mauthner sembra quindi cogliere bene lo spirito
dell’indagine di Aristotetele, ponendosi immediatamente sul piano del
lovgo" semantico o linguistico 169.
Il punto di partenza di Aristotele era, quindi, la definizione della
metafora come ejpiforav, come trasferimento dal linguaggio ordinario,
normale, consueto (parola come kuvrion) a un uso sempre più alterato
(Morpurgo-Tagliabue scrive: al limite). La traduzione di kuvrion è stata
a lungo discussa nella storia dell’interpretazione e la resa con “termine
proprio” aveva accentuato l’opposizione con “figurato”, ma nel contesto
di una teoria che tende a escludere qualsiasi termine “proprio” il problema di cosa intendesse il filosofo su questo punto non viene nemmeno
affrontato. A Mauthner interessa invece il processo di associazione che
sta alla base del traslato.
Nella Poetica, però, il criterio della classificazione è, almeno all’inizio, quello della sostituzione: l’uso più ordinario è quello di ricorrere
a un termine generico per un fatto specifico o di impiegare termini di
specie per concetti di genere. Nonostante compaia già qui un processo
di confronto logico-intuitivo 170, questo diviene più esplicito con la
metafora da specie a specie, come esempio della quale Aristotele cita
due versi di Empedocle: «con la spada di bronzo avendogli attinta la
vita» (come si attinge da una fonte con una tazza), e «con la tazza di
indistruttibile bronzo avendo reciso l’acqua» (come con una spada) 171.
Infine la metafora per analogia: si chiamerà perciò la coppa “scudo di
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Dioniso” e lo scudo “coppa di Ares”, oppure: la vecchiezza “sera della
vita”; secondo la proporzione tra due rapporti. Questo accostamento è
importante – spiega Mauthner – per chiarire la differenza tra la metafora che pone il rapporto in modo immediato e la similitudine che si
esplicita nel “come”. Vi sono similitudini complesse – continua – che
diventano sprone per una fantasia poetica, come quella omerica, che
dimenticano il paragone di partenza e procedono oltre, e similitudini
in senso stretto; esse si basano su tre termini, come nel caso di “capelli
neri come il carbone”, che egli chiama “regola del tre”. Il tertium
comparationis è ancora un’altra cosa e si riferisce a un concetto più
generale, al colore, nel caso dei capelli e del carbone, all’attributo, nel
caso della coppa di Dioniso e dello scudo di Ares.
La metafora quindi, a differenza della similitudine, è un paragone
di due rapporti, nel qual viene tralasciato il concetto più comune.
Nell’esempio di Mauthner “la prudenza è la madre della saggezza”, la
saggezza si rapporta alla prudenza, come la figlia alla madre; il tertium
comparationis è che la madre abbia procreato la figlia. Si potrebbe
anche pensare che la figlia sia simile alla madre oppure che sia obbediente, ma noi non lo pensiamo. L’autore individua qui un punto essenziale della teoria aristotelica: la cogenza dell’immagine. Anche Biese
sottolinea questo momento dell’immagine e afferma esplicitamente che
Aristotele ha riconosciuto l’essenza del metaforico nell’analogia, nella
proporzione, nella relazione tra due rapporti offerta all’intuizione e
chiama Veranschaulichung questa visualizzazione che egli, come vedremo, estenderà a tutti i processi dello spirito umano.
Questa impostazione va quindi molto oltre il criterio della sostituzione, della cui insufficienza lo stesso Aristotele si era già reso conto
nella Poetica, quando aveva aggiunto una metafora più poetica (detto
del sole: «seminando la divina fiamma») e la possibilità di negazione
di una proprietà della parola estranea: lo scudo come coppa senza
vino (estraneo ad Ares). Ma ciò che più importa è che la posizione di
Aristotele si approfondisce nella Retorica, dove l’accento è spostato –
seguo la lettura di Morpurgo-Tagliabue – sulla densità del significato,
sull’icasticità, sull’evidenza. Ad Aristotele non interessa l’uso ordinario
del nome, la catacresi; egli non indaga l’origine del linguaggio nel senso
che sarà di Mauthner, ma approfondisce la metafora come ajstei'on,
come eloquio eminente, urbano, vivace e arguto. Le metafore sono
allora «tanti piccoli veloci sillogismi» 172, sillogismi retorici che egli
chiama entimemi 173; nella trattazione della metafora però l’accento è
posto non tanto sul contenuto, ma sull’operazione stessa, sulla necessità
di una comprensione immediata, facile e veloce 174. L’ordine della nuova classificazione dei tipi di metafora risulta allora rovesciato rispetto
alla Poetica e il criterio diverso: «le metafore ajstei'a non vengono più
presentate come processi sostitutivi di generi e specie, ma come processi associativi: di concetti, di immagini, di parole» 175. Ne risulta in
36
primo luogo la maggior efficacia rispetto alla similitudine che esplicita
nel “come” la relazione tra i termini e si prolunga nel paragone. Nella nuova rassegna la “metafora-concetto” – corrispondente al quarto
tipo della Poetica, l’analogia o proporzione, strutturata per corrispondenze e antitesi – viene poi distinta da una metafora «più semplice
e tuttavia assai felice» 176, la “metafora-immagine”, che naturalmente
può addizionarsi alla prima. In questo caso non avviene una semplice
sostituzione, e nemmeno si tratta di una similarità indefinita: vengono
accostati a sorpresa alcuni aspetti dell’attributo. Essa consiste quindi
nel mettere sotto gli occhi (pro; ojmmavtwn poiei'n) le cose in atto, il che
può voler dire che esse devono essere viste come presenti o in procinto
di accadere, ma può anche significare che esse sono animate, e[myuca,
personificate.
A questa estensione del significato corrisponde in Biese l’importanza data alla dimensione del processo metaforico, inteso come «la
sintesi dell’interno e dell’esterno, l’interiorizzazione dell’esterno e l’incarnazione dello spirituale», non solo nel linguaggio, ma in genere in
tutta l’attività simbolica 177. La Veranschaulichung diventa presentazione
di qualcosa di vivente (o di morto) in atto, animazione dell’inanimato,
analogia tra interno ed esterno che ci costringe a trasformare il movimento esterno in un supposto movimento interno allo spirito e a
trasferirlo poi alle cose, dando vita alla materia inerte. Sarebbe allora
implicita nella teoria aristotelica la possibilità di intendere la metafora come un processo essenziale e necessario dello spirito umano che
trasforma la realtà secondo le proprie leggi, facendo principio del cosmo l’unità di psichico e fisico che sente in sé stesso e che trasferisce
dall’interno all’esterno, dall’animato al corporeo, dal microcosmo al
macrocosmo 178. Così l’assunto di fondo dell’estetica di Vischer che il
vedere – qui, il vedere con gli occhi dell’artista – non possa essere separato dall’animare, che tutti i mezzi della visualizzazione portino alla
personificazione, diviene un criterio generale per affermare il carattere
antropomorfico del linguaggio.
Alla base di questa concezione del mondo sta l’idea che il linguaggio
sia interamente simbolico: «la parola – scrive Biese – è immagine sensibile della vita interiore, copia di ciò che viene sentito, immagine sonora (Lautbild) dell’immagine della rappresentazione» 179. Subito dopo
cita Gerber: «tutte le parole sono immagini sonore (Lautbilder) e sono
rispetto al loro significato in sé e dall’inizio dei tropi» 180. Avviene in
questo modo un doppio allontanamento dalla cosa: la sensazione non
accoglie la cosa, anche se la determinatezza dello stimolo è in contatto
con essa, ne è soltanto l’immagine; il suono pronunciato, a sua volta,
è immagine sonora della rappresentazione, e un’immagine non è un
raddoppiamento dell’originale, ne riproduce solo i tratti essenziali.
Mauthner parla a sua volta della parola come immagine di immagine,
come metafora che può condurre solo ad altre metafore. Rimaniamo
37
imprigionati all’interno dell’immagine; ciò che noi sappiamo del mondo
esterno – scrive Mauthner altrove – è sempre un simbolo, una metafora
che non può raggiungere il tertium comparationis, come in un ballo in
maschera in una città sconosciuta, riconosciamo di avere davanti delle
maschere, ma non chi le indossi (aggiunge: e dobbiamo far attenzione
qui anche al significato di “riconoscere”) 181. Nel prendere le distanze
dagli altri autori che elaborano un’interpretazione molto vicina alla sua,
Mauthner accentua così il carattere scettico della sua posizione. Egli non
condivide i presupposti psicologici di Biese che, a suo dire, rimangono
legati alla teoria delle facoltà dell’anima, né i suoi esiti ontologici. Non
cita però Gerber: forse non coglie nemmeno questo riferimento di Biese,
forse non accetta la classificazione dei tropi di Gerber 182, certo non può
aderire alla sua concezione schopenhaueriana ed estetica del linguaggio
come arte 183. Cita però curiosamente un’affermazione di Kurt Bruchmann che, dopo il riferimento alla metafora per analogia in Aristotele,
conclude: «allora quasi tutto il linguaggio sarebbe analogia o metafora»;
Bruchmann aggiunge però: «quest’ultima tesi la sostiene G. Gerber» 184.
Mauthner sorvola su quest’ultimo riferimento e, pur apprezzando la
spiegazione psicologica di Bruchmann, protesta contro il “quasi”: la
reticenza di Bruchmann a considerare il linguaggio come essenzialmente
metaforico deriverebbe dal residuo metafisico e teleologico contenuto
nel principio di minima misura della forza del suo maestro Avenarius
che farebbe ancora uso dei concetti di forza e di intenzione.
La posizione di Mauthner appare più chiara se si considera l’atteggiamento che egli assume nei confronti di Friedrich Nietzsche, lettore
di Gerber, del quale ripete, in Wahrheit und Lüge, con parole identiche e con gli stessi esempi, la teoria della parola come metafora 185.
Mauthner sembra non conoscere questo saggio apparso nel 1896; nei
Beiträge le sue citazioni sono tratte quasi tutte dal volume xii delle
opere curate da Koegel. Egli però riconosce più volte l’importanza di
Nietzsche nella sua formazione in relazione alla concezione evolutiva
degli organi di senso, all’idea di una selezione arbitraria dei dati da
parte dei sensi, al concetto di caso nello sviluppo della storia e cita un
passo di Menschliches, Allzumenschliches, l’aforisma 11, “il linguaggio
come presunta scienza”, che – egli afferma – esprime «quasi» un suo
pensiero di fondo 186: l’idea di porre con il linguaggio un mondo accanto al mondo, l’illusione di avere nel linguaggio la conoscenza del
mondo, la fede nella verità trovata, la credenza nell’assolutezza della
logica e nella precisione della matematica. Solo oggi – scriveva Nietzsche – comincia a balenare il dubbio che con la fede nel linguaggio
si sia propagato un mostruoso errore, «fortunatamente è troppo tardi
perché ciò possa far tornare indietro lo sviluppo della ragione, che
poggia su quella fede» 187. Mauthner commenta con un gioco di parole:
Nietzsche riveste le parole del linguaggio con i segni della regalità, ma
pone nuda sul trono la cosiddetta ragione, cioè il linguaggio stesso 188;
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prosegue poi rimproverando a Nietzsche, troppo pensatore e troppo
poeta, di aver limitato la critica del linguaggio all’ambito morale, di non
averla estesa al linguaggio come strumento di conoscenza e, infine, di
essersi limitato a lamentarne l’inefficacia espressiva, vale a dire l’unica
cosa che il linguaggio, a suo dire, sa fare. L’accusa potrebbe apparire
ingiustificata anche soltanto alla lettura dei testi citati da Mauthner,
dove l’uso «strategico» della metafora rivela l’intenzione decostruttiva
della scrittura nella moltiplicazione dei punti di vista, addirittura paradossale se si ripercorre, sotto la guida della lettura di Sara Kofman, il
crescendo delle metafore di Wahrheit und Lüge 189. Mauthner si rende
conto che la sua tesi fondamentale deve molto a Nietzsche, ma nell’affermare la necessità di tenere rigorosamente distinti il linguaggio come
strumento di conoscenza dal linguaggio come strumento artistico 190,
il lavoro filosofico dalla poesia, formula un appunto critico importante
(un timore che egli nutre forse anche per la propria opera) ricordando
come Nietzsche rimanga ingabbiato nell’incantamento del linguaggio.
Mauthner non si è accorto che in Aristotele avrebbe potuto trovare
anche qualcosa d’altro. Nei capitoli x e xi della Retorica, alle prese
con la classificazione degli ajstei'a, Aristotele aveva individuato infatti,
accanto alla metafora concettuale per analogia e alla metafora eidetica,
un terzo gruppo di metafore che Morpurgo-Tagliabue chiama “metafore verbali”: «un mero scambio di termini, un gioco di parole, che crea
sensi e non sensi e provoca sorpresa» 191. La proprietà di questo tipo
di metafore è di essere elocuzioni a effetto (ejudokimou'nta) e la capacità di sorprendere, implicita in ogni tipo di metafora, prende forma
dall’«inganno spiritoso» 192, dall’ajpavth, che non è precisamente una
falsità, e implica – come già aveva notato Untersteiner 193 – un piacere,
un compiacimento da parte di chi si lascia ingannare. La seduzione
deriva dall’equivoco, dal paradosso, dal doppio senso, dall’aforisma,
in breve: dal gioco del linguaggio con sé stesso. Morpurgo-Tagliabue
ne indica il principio nell’ambiguità verbale, origine di una tradizione
estetica e poetica che, attraverso gli asiani, i provenzali, i barocchi,
giunge alle poetiche odierne e arriva fino a Finnegans Wake 194.
Mauthner, senza riferirsi alla fonte greca, fa della metafora verbale il
perno della sua analisi della parola 195, affermando che alla base di ogni
cambiamento di significato sta il Witz, il motto di spirito, l’arguzia 196.
L’indicazione della sua pretesa conoscitiva viene giustificata etimologicamente: Witz – scrive – deriva da wissen e nel medio alto tedesco ha
l’esclusivo significato di Verstand e alcune parole composte ne conservano ancora il significato: Muttertwitz (senso comune), Aberwitz (follia,
mancanza di buon senso), Wahnwitz (follia, assurdità), Vorwitz (saccenteria). Lutero lo intende così e questa accezione si trova ancora in
Lessing e Goethe; solo nel corso del Settecento la parola ha assunto il
significato del francese esprit e designa un’attitudine umoristica oppure
le sue singole espressioni e nella lingua studentesca si è degradata fino
39
a significare “barzelletta” 197. Mauthner ne spiega il significato come
capacità di cogliere nessi inediti: «ogni metafora è arguta (witzig). La
lingua attualmente parlata da un popolo è la somma di milioni di Witze, è la raccolta delle pointe di milioni di aneddoti, la storia dei quali è
andata perduta» 198. Più avanti usa il termine Wippchen, scherzo, sberleffo, che accentua la mancanza di senso. Se le parole tengono ferme
le somiglianze vicine, il mutamento semantico consiste nell’estensione
del concetto, metaforica o witzig, alle somiglianze più lontane. E queste
somiglianze sono più evidenti a chi ne è estraneo piuttosto che a un
conoscitore: per gli europei – commenta – i Cinesi sono tutti uguali,
per il cittadino tutte le mucche, per lo straniero tutti i membri di una
famiglia 199.
Con questo l’autore non vuole certo darci una legge assoluta e
precisa, né sostenere che in tutti i mutamenti semantici sia presente
un Witz oppure una componente iperbolica ed esagerata, legata alla
trasposizione del concetto e condensata nell’esempio curioso: “wenn
Blaubeeren grün sind, sind sie rot” 200. Egli anzi sostiene che il linguaggio prende spesso vie secondarie o scorciatoie, che ci fanno continuamente oscillare tra la presenza e l’oblio del significato metaforico:
«dietro di noi rovine, davanti a noi costruzioni nuove, con noi la casa in
cui dimoriamo; dietro di noi una lingua morta, davanti a noi il sentore
di nuovi concetti, con noi un ondeggiare e un intrecciarsi (ein Wogen
und Weben) di metafore, che stanno per diventare parole senza senso
e quindi utilizzabili» 201.
Nel delineare il processo di progressivo oblio del valore metaforico
delle parole Mauthner fa spesso riferimento ai paragrafi sul Witz della
Vorschule der Aesthetik di Jean Paul Richter e cita più volte l’affermazione che «ciascuna lingua, sotto l’aspetto delle relazioni intellettuali, è
un vocabolario di metafore sbiadite» 202. Ma nel nono programma della
Vorschule Mauthner ha potuto trovare ancora molto altro: in primo
luogo un fondo di idee e di immagini, un’affinità di stile nel pensiero
asistematico e nella scrittura che procede senza un preciso ordine di
inventario, con giochi di prestigio, ritorni rapsodici e riferimenti a
volte oscuri, fitta di dettagli minimi e di giochi linguistici. Ladislao
Mittner racconta del suo scrivere a getto continuo, del riempire migliaia di schede su tutto quanto riuscisse a leggere da autodidatta, nel
tentativo di prendere possesso di ogni sfumatura del reale, ma la sua
scrittura ci fornisce, al posto di un catalogo del mondo, uno schedario
impossibile da consultare. In questo specchio frantumato dell’estetica
romantica, che affida alle metafore dell’umorismo e del Witz il compito
di un’improbabile sintesi, il filosofo della parodia ha reperito gli spunti
principali della sua concezione del linguaggio.
Richter parte dalla premessa che definisce l’arguzia nel senso più
ampio come «l’arte in sé del paragonare (Vergleichen)» 203: il primo e
più facile paragone tra due rappresentazioni è già arguzia, parto mi40
racoloso (Wunderbegurt) del nostro io creatore, invenzione senza mediazioni, genialità frammentaria, come aveva scritto Schlegel; scopre
rapporti di somiglianza tra grandezze incommensurabili, somiglianze
tra il mondo dei corpi e il mondo degli spiriti, l’equazione tra sé e
il mondo esterno, pertanto tra due intuizioni. In questo contesto già
Richter aveva indicato la parentela tra Witz e wissen, il significato di
Witz come genio e aveva elencato i sinonimi nelle diverse lingue: Geist,
esprit, spirit, ingeniosus, legando in maniera molto stretta facoltà conoscitiva ed espressione linguistica 204.
Invero Jean Paul inizia l’esposizione del Witz citando l’antica definizione aristotelica secondo la quale l’arguzia sarebbe il potere di
trovare somiglianze lontane e la critica come generica e contradditoria
in quanto suppone una somiglianza dissimile. L’argomento non sembra
peraltro convincente e lascia intravedere una sorta di puntiglio lessicale, ma egli procede subito oltre; la natura decostruttiva del suo stile
argomentativo gli impedisce di riposare in una determinazione precisa,
gli fa pensare subito alla possibilità di un motto di spirito nel quale
la somiglianza diventa eguaglianza e l’eguaglianza diventa eguale a sé
stessa nel circolo arguto (esempio: limare la lima del critico). Torna poi
di nuovo al concetto, riconosce che l’arguzia sa scovare somiglianze
che si celano dietro alle dissimiglianze e risolve la definizione con la famosa metafora: l’arguzia in senso stretto è il «prete travestito che sposa
tutte le coppie» 205. Non coppie qualsiasi perché la componente estetica non si presenta in ogni accostamento casuale, essa nasce «grazie
alla rapidità dei giochi di prestigio e di parole esibita dal linguaggio,
il quale è così abile da riuscire a spacciare somiglianze d’un mezzo,
un terzo, un quarto, per vere e proprie eguaglianze grazie a un solo
segno e predicato comune» 206. Questa posizione di eguaglianza prende il genere per la specie, il tutto per la parte, la causa per l’effetto e
viceversa, è – scrive – «una truffa (Volteschlagen) del linguaggio» 207,
l’inganno del tropo.
Fin qui eravamo però nell’ambito della trattazione del Witz non
figurato (unbildlich), che accosta quindi senza somiglianza di immagine
(un esempio dello stesso autore è: “le donne e gli elefanti hanno paura
dei topi”), ma in questo capitolo Richter inserisce anche la trattazione
della metafora, che egli intende come Witz figurato (bildlich), dove la
fantasia ha un ruolo preponderante rispetto all’intelletto, e alla truffa
subentra la magia. È stato notato che il passaggio dal motto di spirito
alla metafora o addirittura la loro coincidenza non sono spiegati in
modo persuasivo, ma è proprio questo scarto argomentativo che serve
a Mauthner per connettere metafora e Witz, per riproporre a un nuovo
livello l’enigma del linguaggio sospeso tra maledizione e magia. Secondo Jean Paul le metafore si avvalgono dello stesso potere misterioso
che fonde l’anima e il corpo e che permette di riconoscere nei tratti di
un volto l’espressione di un sentimento spirituale; egli le chiama «in41
carnazioni della lingua (Sprachmenschwerdungen)» che in tutti i popoli
si corrispondono: «e non vi è nessuno tra essi che chiami l’errore luce
e la verità tenebre» 208. Certo, aggiunge, non vi sono segni assoluti,
perché ogni segno è a sua volta una cosa e ogni cosa ha un significato
e una valenza denotativa, ma l’argomento si conclude in un salto logico
con l’immagine dell’isola degli spiriti circondata da un mare straniero
che allude all’indicibile.
Accostata a Dio, la metafora viene definita da un crescendo di immagini: «cintura di Venere», cordone ombelicale che lega lo spirito alla
natura, «piccolo fiore poetico», espressione questa che dà origine a una
divagazione sul profumo dei fiori, sull’olfatto e il gusto, e si conclude
con «un’operazione di cambio»: «com’è bello scoprire dunque che le
metafore, queste transustanziazioni dello spirito, sono eguali ai fiori, i
quali regalano al corpo una grazia così pittorica, ma anche allo spirito,
quasi come colori spirituali, come spiriti in fiore» 209. La metafora è
un doppio tropo 210 che può animare il corpo o incarnare lo spirito, è
allora la parola primitiva che univa l’io e il mondo, precedente l’espressione propria.
La collocazione centrale del Witz nel programma poetologico di
Jean Paul e la considerazione della metafora sotto il titolo di bildliche
Witz capovolge il rapporto stabilito dalla tradizione tra i due concetti
(Kant nell’Anthropologie lo aveva considerato semplice condimento e
lo aveva contrapposto alla serietà del giudizio 211), conferisce al Witz la
capacità estetica, ma anche cognitiva – che collega acume (Scharfsinn)
e profondità di pensiero (Tiefsinn) – di cogliere nella trama del sensibile, negli infiniti accostamenti possibili, l’immagine pertinente, il colore
giusto: «di solito – scrive – è attraverso la metafora che si trova la via
del paragone» 212. La magia della metafora rimanda all’unità originaria
di materia e pensiero che perpetua nel linguaggio l’eco delle cose; la
sua potenza non deriva da un mondo di idee sovrapposto all’io, «quasi
un secondo mondo al di là del primo», un mondo dato «una seconda volta» (un’espressione che abbiamo trovato anche in Mauthner).
La «monade della metafora», come ha scritto Eugenio Spedicato che
sottolinea questo riferimento leibniziano 213, esclude materialismo e
idealismo, esterno ed interno; le sue capacità combinatorie considerano reale ogni pensiero e fantasia, così come – afferma Jean Paul – un
arcobaleno.
Un’ulteriore conseguenza della trattazione della metafora-Witz in
questa parte del Proscholium, è l’accostamento al comico romantico,
all’umorismo, definito come sublime alla rovescia, intuizione geniale
che avvia nella teoria estetica la riflessione sui modi disarmonici del
bello, incapace ormai di trascendersi nel sublime, poiché il sublime
stesso non ne rappresenta che un momento, che immediatamente si
rovescia nel suo contrario, senza possibilità né di anelito verso l’infinito, né di mediazione 214. In questo modo però la riflessione estetica
42
di Jean Paul assume un significato metafisico e teologico, come appare
dall’affermazione secondo cui, per ogni angelo che ride dell’uomo,
c’è un arcangelo che ride di lui, e sopra tutti vi è un Dio che ride di
tutto. La poesia deforma il mondo sensibile nello specchio concavo
che essa rivolge verso l’idea, lo rende angoloso, allungato e sfilacciato,
dipingendolo con i colori della fantasia e dell’arguzia, ma anche la
filosofia mescola ragione e follia e il suo emblema è Diogene, che gli
antichi chiamavano un Socrate forsennato 215. L’accostamento di ragione e passione serve a Richter per scoprire l’essenza dell’umorismo
nella sua maschera tragica, che – scrive – egli porta «se non sul volto,
nella mano» 216.
Mauthner, che considera Jean Paul più fine come critico che come
scrittore di romanzi, riprende la teoria del Witz e dell’umorismo nelle
voci del Wörterbuch che trattano questo tema. In particolare nella voce
“Humor”, dopo aver ricostruito le «doglie del parto» della parola tedesca, la storia della traduzione dell’inglese Humour con Laune da parte
di Lessing e la successiva correzione, entra nel merito della distinzione
di Richter tra umorismo e ironia. Contro la concezione romantica che
confondeva i due termini e finiva col ridurre l’umorismo alla semplice figura retorica dell’ironia, che finge di affermare quello che nega,
Mauthner afferma, sulla scia di Jean Paul, la centralità di questo tema
nella filosofia e il suo legame con il tragico. Non risparmia poi alcune
critiche all’autore della Clavis fichtiana per esser rimasto troppo legato
ai giochi romantici dell’ironia; lo stesso Goethe, che con la figura di
Mefistofele si è molto avvicinato all’umorismo, non ha compreso che
«la proprietà dell’umorismo, il riso dell'umorismo, lo può possedere
soltanto un uomo; e Mefistofele non è un uomo» 217.
I temi di Jean Paul vengono trattati da Mauthner anche attraverso
la lettura più sistematica che ne aveva fatto «l’estetico tedesco per eccellenza» 218, Friedrich Theodor Vischer. La sua indagine sul bello 219
si presenta da subito come teoria del sublime e del comico, modi disarmonici del bello che ne evidenziano la frattura e la sproporzione.
L’impossibilità di trovare una qualsiasi figura genuinamente sublime
che non si dissolva nel nulla, intaccata dal comico nelle sue diverse
forme del comico ingenuo, del comico dell’intelletto, del Witz, e del
comico della ragione, dell’umorismo, viene introdotta dalle metafore
dello sgambetto, del naufragio, della bolla di sapone che scoppia. Il
procedere hegeliano per triadi è un ordine apparente che nasconde
una raffinata sensibilità estetica e una «disperazione speculativa» 220.
Invero, per quanto riguarda il tema della metafora come Witz, Vischer
rimette in ordine la partizione dell’estetica, sottolineando il carattere
di inadeguatezza dell’immagine nel Witz e spostando la disamina della
metafora nel capitolo sulla poesia. Quando però delinea i momenti del
comico e afferma che l’umorismo giunge al cuore del mondo, cita le
metafore di Richter che compendiano la descrizione del sublime rove43
sciato nelle immagini di Merope, l’uccello che sale in cielo dalla parte
della coda, e del saltimbanco che danza sulla testa e beve il nettare dal
basso verso l’alto. L’umorismo dissolve allora nella derisione cosmica
(un termine di Jean Paul) la stoltezza e la follia del mondo impersonata
dalla figura di Don Chisciotte 221.
Mauthner, che apprezza più Vischer per il suo romanzo umoristico
Auch Einer che per le sue partizioni sistematiche, traduce nel suo linguaggio i tre livelli del comico: il primo gradino, quello dell’umorismo
ingenuo, non è – secondo lui – nemmeno umoristico; il secondo è quello che possiamo gustare in Shakespeare, Swift, un po’ meno in Sterne,
e anche in Jean Paul e Vischer; il terzo «non è altro che la concezione
del mondo del tutto libera della mente veramente filosofica, il sacro
riso del filosofo, la superiorità rispetto a tutto l’affannarsi e il pensare
dell’uomo, la rassegnazione di un grande cuore» 222.
L’umorismo resiste alla definizione: ci sono figure umoristiche, non
l’umorismo 223; lo stesso Vischer – scrive Mauthner – che afferma come
necessario il concetto di umorismo, riconosce che la sua realizzazione
rimane un compito, che esso è soltanto «un postulato della teoria» 224.
Rimane in ogni caso un termine della modernità: forse lo possedeva
Socrate, ma i Greci non conoscevano l’umorismo e uccisero il loro
unico umorista 225.
Da questo punto di vista non stupisce che Mauthner non potesse
accettare la teoria del riso di Bergson, al quale dedica una specifica
voce del Wörterbuch. Si tratta di un articolo nazionalistico e sciovinista,
abbozzato nell’aprile e scritto nell’agosto del 1914, all’inizio della grande guerra, nel quale Mauthner chiama il filosofo francese – che aveva
definito barbari i tedeschi – «sartino volenteroso della moda filosofica
parigina» 226, giocoliere dei concetti, esempio della capacità francese
(di alcuni francesi, invero: salva Poincaré, Voltaire e Anatole France)
di intrattenere senza dire nulla. Ma è il saggio sul riso che più lo indispone, forse per la spiegazione del riso come gesto sociale che reprime
le eccentricità, certamente per la sua riduzione al piano dell’intelletto,
a meccanizzazione della vita, a resistenza della materia nei confronti
dello slancio vitale, tutti concetti metafisici, secondo il nostro, che non
gli fanno cogliere il tragico nel comico e gli fanno attribuire il comico
nel don Chisciotte alla sbadataggine 227.
E il riso del filosofo supera poi, secondo Mauthner, anche l’umorismo tragico del cavaliere dalla trista figura: il filosofo scettico ride di
tutto ciò che vi è di sacro nella vita di tutti giorni, ma sa di appartenere a questa quotidianità priva di eroi; si allontana dal mondo, ma non
diventa un Übermensch 228, si accontenta di indicare il carattere witzig
nel nostro linguaggio quotidiano. Lessing aveva usato per definire il
Witz la metafora della stoffa cangiante: «una stoffa di cui non si può
dire se sia azzurra o rossa, verde o gialla; che è tutte e due, che da
questo lato appare così, dall’altro appare in modo diverso; un gioco
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della moda, un divertimento per bambini». Esattamente la stessa metafora che Fontane ha usato per descrivere Mauthner 229.
Questo lavoro è stato svolto nell’ambito della Scuola superiore di studi di
filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata”, dell’Università dell’Aquila e
dell’Università della Tuscia-Viterbo.
Ringrazio il prof. Luigi Russo per aver accolto questo studio nella collana
da lui diretta.
Ringrazio inoltre la prof. Gianna Gigliotti che ha seguito con rigore e delicatezza lo svolgersi della ricerca. Un grazie anche al prof. Luigi Perissinotto
per avermi suggerito il tema, alla prof. Lia Formigari per alcune importanti
indicazioni teoriche sui temi dello psicologismo e della linguistica, al prof. Elio
Franzini per i consigli sul taglio della ricerca, al prof. Luigi Ambrosiani per la
revisione della traduzione.
Ringrazio infine il prof. Alessandro Cavagna per i suggerimenti sullo stile
dati con autorevole leggerezza. Un grazie infine a mia figlia Maddalena.
Dedico questo studio al mio amico Ugo Ischia perché, credo, gli sarebbe
piaciuto, e ne avrebbe riso.
Lettera a Otto Brahm, 3 dicembre 1893, in Fontane 1910, pp. 312-13.
Pochi sono gli studi dedicati a questo autore in Italia: Albertazzi 1986 e Mastroddi
2002. Alcuni passi dei Beiträge sono stati tradotti in italiano da Michela Mastroddi nel sito
di “Dialegesthai”. Recentemente sono stati tradotti da Luciano Franceschetti anche i primi
due volumi dell’Ateismo e la sua storia in Occidente per il sito dell’Unione degli Atei e degli
Agnostici Razionalisti.
3 Un’analisi dettagliata dell’attendibilità della ricostruzione autobiografica degli anni
praghesi nelle Erinnerungen – iniziate nel 1913, ma pubblicate dopo la guerra, nel 1918 – si
trova in Kühn 1975 che percorre analiticamente tutte le fasi della vita e del lavoro letterario
e filosofico di Mauthner. Per il periodo di Praga cfr. anche Ravy 2004.
4
Mauthner 1918, pp. 32-33. Mauschel significa ebreo, giudeo in senso spregiativo.
5 Mauthner 1918, p. 49.
6 Ritchie Robertson attribuisce a Mauthner l’origine del “mito” del cattivo tedesco di
Praga; lo spiega come purismo linguistico oscurantista che si collega all’esaltazione dei dialetti
tedeschi del mondo contadino e alla polemica contro il linguaggio del giornalismo, espressione
della modernità giudaica; cfr. Robertson 2004.
7 Per un approfondimento del contrasto tra l’origine ebraica e la scelta nazionalistica cfr.
Goldwasser 2004 e Robertson 2004.
8 Kleinseite è il nome tedesco di Mala Strana.
9 Mauthner 1918, p. 72.
10
Ivi, p. 73.
11 L’uso del termine “ceco” anziché “boemo” ha una connotazione storico-politica: “boemo”
comprende il riferimento alle due lingue, “ceco” ha una connotazione esclusivamente etnicolinguistica; cfr. Ravy 2004, n. 20, p. 27.
12 Nel 1857 la popolazione della capitale boema era: 33,37% tedeschi, 55,92% boemi; nel
1869, 17,91% tedeschi, 81,50% boemi, nel 1900 la percentuale dei tedeschi scende a 7,46;
cfr. Ravy 2004, p. 38, n. 45. Sugli ebrei a Praga nella seconda metà dell’Ottocento cfr. anche
Le Rider 1994: all’inizio dell’Ottocento Praga sembra una città tedesca, parlano ceco solo
i domestici e gli artigiani. Un secolo più tardi la parte tedesca è in netta diminuzione e nel
1900 il 40% della popolazione tedesca, ridotta al 7,5%, è costituita in gran parte da ebrei.
Un numero crescente di ebrei si dichiara di lingua ceca, anche se continua a mandare i figli
alla scuola tedesca. Anche la vita culturale vede ora una forte presenza ceca.
1
2
45
13
Così si esprime Mauthner in un articolo di giornale del 1878, citato in Thunecke
2004, p. 83.
14 In un manoscritto datato 9 novembre 1922 (Zu Lebenserinnerungen ii) Mauthner ricorda il redattore capo e il suo editore con giudizi taglienti sulla loro preparazione culturale;
cfr. Betz - Thunecke 1984.
15 Il primo volume, con 17 parodie di scrittori e autori noti, raggiunge la diciottesima
edizione già nel 1879, il secondo, scritto sull’onda del successo, arriva alla tredicesima edizio�������
ne dopo tre anni, nel 1902 esce il volume che contiene tutte le 22 satire. Nel 1923, anno della
morte dell’autore, le edizioni sono circa cinquanta, cfr. Schneider 2004, pp. 105-06.
16 Bab, citato in Kühn 1975, n. 213, p. 175.
17 Il conflitto tra il sentimento di identità ebraica e identità culturale tedesca è analizzato in
Weiler 1963 e Goldwasser 2004. Mauthner non nega la sua identità ebraica, la riconosce anzi
come «ein Duktus im Gehirn», un ductus nel suo cervello (lettera a Landauer del 10 ottobre
1913), non tanto eredità biologica, ma caratteristica dello stile e richiamo alla tradizione intellettuale ebraica scettica ed eretica, costituisce insomma «un pezzo della sua critica» (Goldwasser 2004, p. 61). In un articolo, apparso postumo sul “Menorah Journal” nel febbraio del 1924,
Mauthner si esprime però cautamente sulla connessione tra scetticismo e tradizione ebraica;
richiama Spinoza, critico invero, ma non scettico, e Maimon, troppo minuzioso però e microscopico nell’argomentare; riconosce che forse vi è qualcosa di comune tra l’ebreo e la scepsi:
forse proprio questa passione per l’argomentare atomistico che si arresta di fronte al sistema
ma – conclude – tutto questo è comune anche a Nietzsche, più scettico di qualsiasi ebreo, e
allo «scaldo» Ibsen che predica la menzogna (il testo si trova in Betz-Thunecke 1989).
18 Collabora anche con “Allgemeine Zeitung”, “Kölnische Zeitung”, “Schorer’s �������
Familienblatt” e “Die Nation”, dirige dall’ottobre del 1889 la rivista “Deutschland” che confluirà
(finisce per essere scritta quasi interamente da lui) alla fine dell’anno successivo nel “Magazin
für Literatur”; cfr. Betz-Thunecke 1984-1985.
19 Cfr. Deft 1994 e Arens 2001. Per ricostruire il periodo berlinese sono particolarmente
interessanti le lettere di Fontane: possediamo solo le lettere di Fontane a Mauthner, quasi
nessuna di Mauthner a Fontane; datano dal 20 dicembre 1888 al 6 dicembre 1898 e riguardano le reciproche recensioni e la collaborazione alla rivista “Deutschland”. Gli argomenti
del confronto sono i temi principali della cultura e della politica, le pubblicazioni, il teatro,
le dimissioni di Bismarck, le critiche di Harden a Guglielmo ii, la riflessione insomma sul
linguaggio della letteratura e della critica (un esempio interessante sono le considerazioni
di Fontane sui discorsi del Kaiser come manipolazioni del linguaggio e della logica; cfr.
Betz-Thunecke 1985, n. 293, p. 23). Emerge un giudizio accorto di Fontane sulla scrittura
letteraria dell’amico, del quale apprezza lo stile scoppiettante e la forza satirica (in particolare
in Xanthippe), ma ne rileva il pericolo di innescare una bomba che poi viene scagliata nella
direzione sbagliata (lettera n. 9). Positive sono anche le recensioni da parte di Mauthner che
pubblica l’anteprima di Stine di Fontane sulla rivista, ma le osservazioni critiche, spesso su
elementi secondari (ad esempio l’uso dei nomi veri delle ditte berlinesi), sembrano celare un
certo rancore che si esprimerà più esplicito nei ricordi più tardi. Le ultime lettere accennano
ai mali del vecchio letterato e alla malattia agli occhi di Mauthner che ormai ha deciso di
abbandonare l’impegno letterario e dedicarsi alla filosofia: «Ja die Philosophie!», commenta
Fontane, e spera non si tratti di etica (che gli ebrei – come egli scrive altrove – sanno ben
trattare solo per secondi fini, lettera n. 60 e note); cfr. Betz - Thunecke 1984-1985.
20 Hanna Deft suggerisce che il ricorso all’epistolario (anche nei periodi in cui i due non
erano lontani e le lettere erano premessa dei colloqui diretti) fosse anche la condizione – per
la mediazione della scrittura che evitava il confronto verbale e diretto – di questa lunga
amicizia tra personalità così diverse: lo scettico melanconico e il visionario passionale, il
sostenitore di Bismarck e l’anarchico, il fautore dell’assimilazione ebraica e il sionista della
cultura, lo storico dell’ateismo e il rivoluzionario; cfr. Deft 1994, p. xiv.
21 Cfr. Kühn 1975, pp. 323-24.
22 B i, p. xv. Le abbreviazioni usate indicano: B – Beiträge zu einer Kritik der Sprache,
Mauthner 1999; W – Wörterbuch der Philosophie: Neue Beiträge zu einer Kritik der Sprache,
Mauthner 1997; 3BW – Die drei Bilder der Welt: Ein Sprachkritischer Versuch, Mauthner 1925;
tra parentesi è indicato il numero della pagina della traduzione italiana.
23 Platone, Teeteto, 183b.
24
Kühn 1975, p. 230.
25 Maria Hedwig Luitgardis Straub (Emmendingen nel Baden-Würtenberg 1872 - Meersburg 1945); pseudonimo: Harriet Straub, scrittrice e giornalista.
46
26
Richard Avenarius (Parigi 1843 - Zurigo 1896) è, con Mach, un esponente dell’empiriocriticismo; è un filosofo relativista e radicale, che elabora una concezione funzionalistica
di un sapere senza fondamenti. A Hedwig Straub e a Mauthner doveva senz’altro piacere la
proposta di Avenarius di attenersi al punto di vista del filosofo greco che si reca al mercato
non per vendere o per comperare, ma per contemplarne l’andirivieni. Ma non solo questo:
Avenarius prendeva le mosse dall’assunzione del concetto di esperienza in senso molto largo,
come l’insieme di asserzioni (Aussagen) degli individui sul loro ambiente, per poi procedere a
una critica analitica; cfr. Avenarius 2004, pp. 3-5 (pp. 7-8). L’intendere l’esperienza in senso lato
come “esperienza asserita” poneva sullo stesso piano la credenza superstiziosa, l’osservazione
scientifica e la teoria filosofica, rivelando la relatività di molti concetti. Il procedimento di
purificazione dell’esperienza doveva allora ricomporre una visione del mondo antecedente
alle partizioni speculative che separano psichico e fisico. Mauthner nei Beiträge lo aveva citato
più volte accanto a Mach e aveva notato il carattere passionale che sottendeva all’esposizione
troppo astratta della sua teoria del conoscere; cfr. B I, p. 338.
27 W i, p. xvi.
28 Ivi, p. cxxx.
29 Ivi, p. 386.
30 Un esempio la voce, piena di offese scioviniste, dedicata a Bergson, W i, p. 162 ss.
31 Mauthner 1989, p. v (p. i).
32 Cfr. Spörl 1997, p. 50 e Kühn 1975, p. 251 e p. 91 ss.
33 L’eco del Faust di Goethe che protesta contro la sterilità della parola lascia intendere
il primato conferito all’azione: «im Anfang war die Tat», aveva concluso il mago, stanco delle
astrattezze della cultura, ma in Mauthner si conclude ancora più radicalmente: «in principio
era la parola, e Dio era una parola (Im Anfang war das Wort, und Gott war ein Wort)» (W
ii, p. 19); per una bella analisi delle numerose ricorrenze di questa citazione in Mauthner e
per un confronto con la concezione del linguaggio di Goethe cfr. Lüktenhaus 2004.
34 B i, p. 1 (p. 78).
35 Ivi, pp. 1-2 (pp. 78-79) .
36 Nella lettera a Elisabetta del Palatinato, in apertura dei Principia, Descartes accosta
al proposito di un filosofare con discorsi semplici e chiari, di dire solo ciò che è certo per
esperienza o per ragione, una nota di leggerezza, dato che il libro non dovrà essere letto e
compreso da un qualche vecchio gimnosofista, ma da una giovane e bella principessa (Weiler
pensa si tratti di una dedica a Clara Levysohn); Locke: «tanto è difficile illustrare il vario
significato e le molteplici imperfezioni delle parole, quando non abbiamo che parole per
farlo»; Vico: «homo non intelligendo fit omnia»; Hamann a Jacobi: «capisci allora il mio
principio del linguaggio della ragione, che cerco cioè di trasformare, con Lutero, tutta la
filosofia in una grammatica?»; nella successiva lunga citazione di Jacobi la storia della filosofia viene descritta come un dramma nel quale ragione e linguaggio giocano il ruolo dei due
Menecmi di Plauto e, uscita dalla catastrofe con Kant, non è ancora critica del linguaggio;
Kleist: «l’idea viene nel parlare».
37 Katherine Arens, con queste stesse motivazioni, definisce lo stile di Mauthner “impressionistico”, pittura delle sensazioni soggettive che mutano a ogni nuovo punto di vista e
distruggono la consistenza della cosa in sé. In questo senso la definizione di ‘espressionismo’
non mi sembra contrapposta; cfr. Arens 1984, cap. i.
38 Per fare soltanto un esempio, Mauthner definisce la sua concezione con le parole seguenti: un misticismo saldo e vicino alla terra insieme a una scepsi distaccata e serenamente
celeste (B I, p. XV).
39
I primi contatti tra Mauthner e Hugo von Hofmannsthal (Vienna 1874 - Rodaun 1929)
risalgono al 1892, ma lo scambio epistolare inizia dopo l’ottobre del 1902, dopo la pubblicazione della Lettera, e si conclude nel 1912 per una serie di incomprensioni.
40 Hugo von Hofmannsthal 1980; cfr. il capitolo “La ruggine dei segni. Hofmannsthal e
la Lettera di Lord Chandos” in Magris 1984.
41 Il poeta aveva risposto: «i miei pensieri hanno preso una strada simile, talvolta entusiasmati, altre volte angosciati dalla metaforicità del linguaggio», lettera a Mauthner del 3
novembre 1902 (Stern 1978).
42
Al di là dell’inutile questione della priorità, altri passi del Nachlass, riportati da Stern,
mostrano espliciti riferimenti di Hofmannsthal alla critica del linguaggio di Mauthner; un
esempio soltanto: «il libro di Mauthner è ora qui come un grido… moriamo e non arriviamo
ad alcun risultato» (non datato).
43 Christian Morgenstern (Monaco di Baviera 1871 - Merano 1914) ottenne la fama con
47
i Galgenlieder (Canti patibolari), pubblicati nel 1905. Al cinquantasettesimo compleanno di
Mauthner, il 22 novembre del 1907, gli dedica questo breve scherzo: «Aus dem Anzeigenteil
einer Tageszeitung des Jahres 2407 | Vorankündigung | 22. November Fritzmauthnertag 22.
November | Spectaculum grande | Großes Wörterschießen! Preise bis zu 1000 M! | Mittelpunkt der Veranstaltung | Zehnmaliges Erschießen des Wortes | “Weltgeschichte” | Durch
je zehn Scarfschützen | Zehn deutscher Stämme. | Erinnerungszeichen! | Kaltes Buffet! |
Schießplatz Neu-Kaputt. Vis à vis dem Luftschiffhafen | Das Festkomité | Der Vereinigung
zur ordnungsmässigen Erschießung | verurteilter Wörter». (Dagli annunci di un quotidiano
dell’anno 2407 | preavviso | 22 novembre giornata di Fritz Mauthner 22 novembre | Spectaculum grande | grande esercitazione di tiro alle parole! | prezzi fino a 1000 marchi | centro della
manifestazione: | fucilazione per dieci volte della parola | Weltgeschichte (storia del mondo)
| da parte di ben dieci tiratori scelti | di dieci stirpi germaniche. | Cotillons! | Buffet freddo!
| Piazza del tiro Nuovo kaputt. Vis à vis all’aeroporto. | Il comitato per i festeggiamenti |
dell’unione per la fucilazione regolare delle parole condannate); Wiener 1972, p. cxxiii.
44 Sono le pp. 617-18, B iii, cf. Ben-Zvi 1980, Ben-Zvi 1984, pp. 65-88. Lernout riferisce
del diverso approccio di Joyce e di Beckett al testo di Mauthner: Joyce legge il primo volume
dei Beiträge, o almeno le prime cento pagine, allo scopo di ricavarne espressioni e intuizioni
da riutilizzare; Beckett è più interessato all’impianto teorico complessivo della critica del linguaggio e alla sua coerenza; cfr. Lernout 1994, p. 26. Rimane però importante la consonanza
di alcuni motivi in Joyce e in Beckett e sono i temi che Umberto Eco individua nella sua
interpretazione di Finnegans Wake: la forzatura dei limiti del linguaggio nelle metamorfosi
continue che dissolvono la fissità delle parole, il richiamo agli archetipi e al ritmo ciclico
della storia di Vico, il gioco del calembour che si sostituisce all’ordine categoriale; cfr. Eco
1966, cap. iii. Beckett riassume questi temi nel saggio Dante… Bruno. Vico... Joyce cogliendo
l’elemento centrale della poetica del Work in progress: «la scrittura di Joyce non è su qualcosa: è quel qualcosa», «quando il senso è sonno, le parole vanno a dormire, […] quando il
senso sta danzando le parole danzano» (Beckett 1929). Per il richiamo di Beckett ai temi dei
Beiträge cfr. anche Skerl 1974.
45 Oswald Wiener (Vienna 1935), cibernetico, matematico, filosofo e letterato, scrive:
«guardai verso l’alto e vidi una nuvola innaturale fatta di parole nella quale stava scritto a
lettere di fiamma: fmauthner beiträge 3auflage p176ff bis seite 232 erster band! Ho
sentito subito da dove provenisse il vento….» (le pagine citate indicano il capitolo “Denken
un Sprechen”; Wiener 1985).
46 In Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (Finzioni) Borges, spiato da uno specchio, racconta di una
teoria degli specchi intesi come oggetti abominevoli, al pari della copula, perché moltiplicano
il numero degli uomini. La ricerca della fonte della bizzarra tesi riconduce a una fantastica
dottrina gnostica riportata da una sola copia di un’enciclopedia nell’articolo dedicato all’immaginario paese asiatico di Uqbar e confermata dal ritrovamento fortuito dell’undicesimo
volume della storia di quella civiltà. La cultura di questo pianeta si rivela berkeleyana: l’essere
del mondo viene identificato con il percipi, esso non è un insieme di oggetti nello spazio,
ma una serie eterogenea di atti indipendenti collocati nel tempo. Gli idiomi della regione
australe rimandano a una congetturale Ursprache, nella quale non esistono sostantivi, ma
solo forme verbali (non c’è luna, ma lunare, luneggiare); in quella dell’emisfero boreale vi
sono solo aggettivi e il sostantivo si forma per accumulazione di aggettivi (luna diventa, ad
esempio, aereo-chiaro sopra scuro-rotondo). In questo caso si tratta di un oggetto reale, ma
la letteratura è piena di oggetti ideali alla Meinong e vi sono poemi costituiti di una sola
parola, corrispondente a un solo oggetto, l’oggetto poetico creato dall’autore. La scienza
fondamentale è naturalmente la psicologia che studia il meccanismo delle rappresentazioni
che dissolve il perdurare delle sostanze nel tempo e la connessione causale degli eventi: «la
percezione di una fumata all’orizzonte, e poi del campo incendiato, e poi della sigaretta mal
spenta che provocò l’incendio, è considerato come un esempio di associazione di idee». La
conseguenza è l’invalidazione delle scienze e il moltiplicarsi di sistemi che non cercano la
verità, ma la sorpresa, dato che la filosofia può essere solo gioco dialettico, filosofia della finzione, Philosophie des Als Ob. La relatività dei sistemi si basa sull’impossibilità di identificare
con un nome il sussistere di una cosa: ogni sostantivo ha solo carattere metaforico e la storia
delle nove monete perdute e ritrovate diventa simile al caso di nove uomini che in nove notti
successive dovrebbero provare il medesimo dolore. Il processo di generalizzazione rivela più
somiglianze che identità e moltiplica gli oggetti reali fino alla scoperta di oggetti secondari,
gli «hrönir», duplicazioni all’infinito delle cose primitive. Un solo esempio, ma si potrebbero
analizzare anche altri racconti; cfr. Dapía 1993.
48
Lettera di Mach a Mauthner del 24 dicembre 1901, in Haller-Stadler 1988, p. 235.
Weiler 1986, p. xvi.
49 Nella letteratura critica il riferimento di Wittgenstein a Mauther è stato già ampiamente
analizzato (cfr. in particolare Weiler 1970 e Leinfellner 1969). Accomuna i due autori (mi
riferisco soprattutto al secondo Wittgenstein) la concezione immanente del linguaggio secondo
la quale esso non è governato da strutture formali esterne e precostituite: grammatica e logica
si nascondono nel linguaggio; non vi è in esso un’essenza che ne costituisca propriamente
il mistero; non vi è un’immagine mentale specchio di un oggetto, il mondo non è dato due
volte; nemmeno si tratta di dubitare seriamente dell’esistenza degli oggetti del mondo; non
vi è un esterno e un interno; rimanere dentro il linguaggio non significa impossibilità di
parlare delle sensazioni e dei sentimenti, significa invece saper distinguere dentro il linguaggio, far vedere dove non funziona; il linguaggio è semplicemente il suo uso, è una forma di
vita; la sua indagine impone un approccio asistematico, il vagare di un viandante, l’album di
schizzi; bisogna sempre tenersi liberi dalla filosofia, saper smettere di fare filosofia e, infine,
riconoscere l’indicibile, il mistico. Spesso simili sono anche le metafore e qualche volta si
avverte in Wittgenstein l’eco di qualche espressione, del tono di Mauthner.
50 Bredeck 1992, p. 126.
51 «O voi che siete in piccioletta barca, | desiderosi d’ascoltar, seguiti | dietro al mio legno
che cantando varca, | tornate a riveder li vostri liti: | non vi mettete in pelago, ché forse, |
perdendo me, rimarreste smarriti. | L’acqua ch’io prendo già mai non si scorse.»
52 B i, p. 5 (p. 81).
53 Ivi, p. 181 (p. 99).
54 Ivi, p. 11 (p. 85).
55 Ivi, p. 26 (p. 91).
56 Ivi, p. 27 (p. 93).
57 Ivi, p. 28.
58 Ivi, pp. 86-87.
59 Ivi, pp. 53-54: si riferisce a un racconto di Wilhelm von Merckels.
60 Ivi, p. 176 (p. 96).
61 Ibidem.
62 Ivi, p. 66.
63 Ivi, p. 115 (p. 104).
64 Ivi, p. 119.
65 A iv, p. 447; cfr. Bredeck 1992, p. 117.
66 B i, p. 28.
67 B ii, p. 451 (p. 105).
68
Weiler 1970, p. 1.
69 Locke 2007, L II, cap. xi, § 2; L iii, cap. x, § 34.
70 Locke 2007, L iii, cap. xi, § 22.
71
Ivi, L iii, cap. vi, § 19.
72 Ivi, L iii, cap. i, § 5.
73
Aveva a disposizione la traduzione della Scienza Nuova di Wilhelm Ernst Weber del
1822.
74 Inst. viii, VI, 9.
75
Vico 2004, pp. 155-56
76 Nel diario del 5 marzo 1787 del Viaggio in Italia Goethe annota di aver ricevuto da
Filangieri la Scienza nuova come se fosse una reliquia: ne dà una rapida scorsa e velocemente
ne deduce che Vico potesse essere una sorta di patriarca per gli italiani alla maniera di Hamann per i tedeschi; cfr. Goethe 1993, pp. 207-08 (pp. 212-13).
77
B ii, p. 480: sicuramente Hamann ha letto Vico, forse anche Herder lo ha letto – sostiene Mauthner. In effetti, nelle lettere a Herder, Hamann scrive di aver iniziato a fatica la
lettura della Scienza Nuova e accenna alla dipintura, cfr. Marienberg 2006, p. 7s.
78 Mauthner rimprovera a Herder di aver successivamente abbandonato questa tesi, esposta nella Abhandlung über den Ursprung der Sprache del 1772, e afferma che quanto Herder
scrive di importante nella Metakritik contro Kant deriva in realtà da Hamann; cfr. B ii, pp.
45-47. La Metacritica di Herder rappresentava però, in un certo senso, un rovesciamento
della tesi di Hamann: come spiega Ilaria Tani, la radice ultima dell’unificazione tra sensibilità e intelletto rimandava in Hamann al linguaggio come emanazione della parola creatrice
di Dio, mentre il carattere impuro e storicamente condizionato della ragione di Herder si
fondava sull’autonoma capacità degli organi di senso di procedere a un’unificazione sintetica
47
48
49
(senza ricorso all’apriori) che lasciava nella parola un residuo iconico, garanzia del legame
con l’esperienza; cfr. Tani 1993.
79 Mittner 1964, i, p. 302.
80
Hamann 1952, p. 197 (p. 113).
81 Ivi, p. 199 (p. 115).
82 Ivi, p. 208 (p. 126).
83 Ivi, p. 283; B I, p. 334.
84 Ivi, p. 286.
85 Lüktenhaus 1999, p. x; Gerber 1961, Vorwort alla seconda edizione del 1884.
86 B i, p. 32.
87 Formigari 1988, p. 63.
88 Anna Morpurgo Davies accenna a questo filo che collega Hermann Paul a Steinthal e
Humboldt; cfr. Morpurgo Davies 1996, p. 336.
89 Formigari 2001, p. 238.
90 Humboldt 1960, § 8.
91 B ii, p. 56.
92 Cfr. Di Cesare 2000, pp. li ss.
93 Di Cesare spiega la metafora del prisma come capacità di dare valore alla diversità
senza perdere il riferimento unitario: «per Locke – osserva – il linguaggio è un mezzo ottico
che falsifica gli oggetti, per Leibniz è lo specchio meraviglioso dello spirito umano, per
Humboldt è un prisma capace di rifrangere il mondo con angolazioni sempre nuove»; segue
la citazione dall’Essai sur les langues du nouveau Continent del 1812: «le lingue assomigliano
nel loro insieme a un prisma di cui ogni faccia mostra l’universo sotto un colore diversamente
sfumato» (Di Cesare 2000, p. xlviii).
94 B ii, p. 59.
95 Sulla collocazione storica di von Humboldt tra Settecento e Ottocento, tra illuminismo
e idealismo tedesco, sull’eredità che riceve dal passato e sulla sua influenza nell’Ottocento e
nel Novecento e sulle diverse e opposte risposte, cfr. Morpurgo Davies 1996, pp. 147-48.
96 Cfr. B ii, p. 59.
97 Ivi, p. 67.
98 Bréal 1897, cap. xviii.
99 Ibidem.
100 Mauthner osserva che in un passaggio Paul sembra pensare alla possibilità di comunicare il contenuto delle rappresentazioni mediante la trasformazione di associazioni rappresentative indirette in dirette: con queste parole, scrive Mauthner, non riesco a pensare a nulla;
cfr. B ii, p. 73. Nonostante questa critica, peraltro forzata, Paul rimane il punto di riferimento
di Mauthner, mentre gli altri esponenti del movimento dei neogrammatici vengono liquidati
velocemente con l’accusa di voler stabilire delle precise leggi fonetiche per puro fanatismo
scientista e gusto per lo specialismo.
101
Cfr. B ii, p. 73.
102 «Intenderemo dunque con significato usuale l’intero contenuto rappresentativo che
per i membri di una comunità linguistica si lega a una parola, con significato occasionale quel
contenuto rappresentativo che il parlante lega alla parola nel pronunciarla e che si aspetta
che anche l’ascoltatore vi leghi»; Paul 1960, p. 75 (p. 61).
103
Esempio: Schirm (= che ripara) diventa “parapioggia”, “parasole”; Paul 1960, pp.
87-88 (p. 74).
104
Esempio: fertig (= pronto per il viaggio) diventa “pronto”, “finito”; Paul 1960, p.
91 (p. 79).
105 Paul analizza le metafore basate sulla somiglianza dell’aspetto esteriore (esempio: Kopf,
detto dell’insalata), sull’identità della funzione (Haupt = capo, capo di una famiglia, di una
stirpe, di una congiura; anche nei composti: Hauptsache..), sul trasferimento delle espressioni
spaziali alla dimensione temporale (lang), a quella psichica (non-spaziale; ein Gedanke geht
mir im Kopfe herum), da un senso all’altro (süss, anche per l’olfatto e per l’udito) e sull’abitudine a intendere i processi delle realtà inanimate in analogia con i processi della propria
attività (schreiende Farben); Paul 1960, p. 95 ss. (p. 84 ss.).
106 B ii, p. 260: «Hermann Paul, der mir Idee und Beispiele bietet». Per altri versi il
linguista non considera la metafora come titolo generale per tutti i tropi della retorica antica
e rimane lontano dall’esito scettico del nostro autore.
107 Per la particolare collocazione della psicologia in Hermann Paul cfr. Morpurgo Davies
1996. L’autrice spiega la posizione di Delbrück, indifferente nell’adottare la teoria psicologica
50
di Steinthal e di Wundt, e quella di Paul, per il quale l’adozione di un modello psicologico
fu motivo di ripensamenti profondi. Paul si riferisce, attraverso Steinthal, all’associazionismo
di Herbart, ma l’impossibilità di comunicare il contenuto delle rappresentazioni in quanto
tale richiede, a suo parere, un atto di ricreazione nell’ascoltatore. Se quindi la psicologia è
scienza che analizza il meccanismo delle rappresentazioni, la linguistica dovrà tener conto
dell’elemento storico, culturale e sociale (non semplicemente diacronico). «L’assunto implicito
– conclude Anna Morpurgo Davies – è, ancora una volta, che la scienza del linguaggio non è
semplicemente una parte della psicologia» (p. 340). Cfr. anche Graffi 1991, pp. 56 ss.
108 B ii, p. 8.
109 W iii, p. 169.
110 B i, p. 113 (p. 103).
111 B iii, pp. 263 ss.
112 Cfr. B i, p. 343: la metafora del setaccio prevede anche la possibilità di invertire l’oro
con la sabbia: dipende dal valore che attribuiamo all’oro.
113 Ivi, p. 327 (pp. 100-01).
114 Cfr. ivi, pp. 262 ss.
115 Cfr. ivi, p. 238.
116 Cfr. ivi, pp. 250-51.
117 Cfr. ivi, p. 277.
118 B i, p. 666.
119 Cfr. ivi, p. 668.
120 In un articolo nel “Zukunft” del 2 aprile 1904 Mauthner aveva indicato Otto Ludwig,
Nietzsche e Bismarck come le tre figure più importanti per l’origine delle sue riflessioni
critiche sul linguaggio, ma nelle Erinnerungen afferma di voler aggiungere il nome di Mach,
il cui influsso, anche se dimenticato, deve essere stato importante. È – a suo dire – lo stesso
Mach (attorno al 1895) a ricordare il giovane Mauthner che, dopo una conferenza sulla fisica
a Praga nel 1872, gli chiede di potergli presentare alcune riflessioni scritte e che gli fa leggere
Die Geschichte und die Würzel des Satzes der Erhaltung der Arbeit (Mauthner 1918, p. 210).
La memoria (Mach 1872) è riprodotta in Mach 1969; si tratta di un discorso tenuto il 15
novembre 1871 alla Società reale boema e pubblicato nel 1872. In quel periodo (dal 1867 al
1895) Mach insegnava fisica sperimentale nella capitale boema.
121 Mach 1872, p. 3 (p. 49). Lo scienziato formula qui una critica esplicita alla concezione
meccanicistica, riproposta da Helmholtz nel 1847 nell’autorevole memoria Über die Erhaltung
der Kraft. Alla concezione dello scienziato prussiano, che riconduceva le leggi empiriche,
scoperte per i fenomeni elettrici, magnetici e termici, al principio di conservazione della forza
e alle formule di Lagrange, rinnovando il principîo seicentesco della riduzione della fisica alla
meccanica, Mach opponeva una distinzione analitica tra la formulazione matematica e l’idea
dell’impossibilità del perpetuum mobile (impossibilità di creare lavoro dal nulla). Il principio,
nella seconda formulazione, non sarebbe allora così nuovo, come vorrebbe Helmholtz, ma
starebbe alla base di qualsiasi ricerca scientifica e, in particolare, dello straordinario sviluppo
della meccanica nel Seicento. L’estensione del principio meccanico della conservazione della
forza a principio generale della scienza e la sua identificazione con l’esclusione del perpetuum
mobile avrebbero allora solo il valore di un’estensione analogica. Mach, consapevole della
provvisorietà dei concetti scientifici, ridefinisce spazio, tempo e causa in termini funzionali e
relativi l’uno all’altro. Cfr. Gargani 1982, p. xv ss.
122 Cfr. Mach 1872, p. 2 (p. 48).
123
Ivi, p. 26 (p. 76).
124 Ivi, p. 36 (p. 87).
125 Ivi, p. 33 (p. 83).
126
Mach 1991a, pp. 1-2 (pp. 37-38).
127 Cfr. D’Elia 1977, p. 13.
128
Cfr. Mach 1991a, p. 13 (p. 47).
129 Lichtenberg 1907, p. 232, Mach 1991a, p. 23 (p. 56).
130 Notizbuch 23, 26 gennaio 1881, in Haller-Stadler 1988, p. 178: «Die ganze Welt ist nur
ein Ding. Welt und Ich sind nur mehr oder weniger willkürliche Zusammenfassungen».
131 Mach 1917, p. 90 (p. 90, ma ho modificato lievemente la traduzione).
132
L’epistolario pubblicato contiene una missiva di Mach del 1889 che declina l’invito
a collaborare alla rivista “Deutschland” e uno scambio di lettere e di libri nel 1895: Mach
spedisce il testo della conferenza Die Geschichte und die Wurzel des Satzes von der Erhaltung
der Arbeit e Die Mechanik in ihrer Entwickelung historisch-kritisch dargestellt, Mauthner ri-
51
cambia con Lügenohr, Fabeln und Gedichte in Prosa. Uno scambio più intenso di lettere e
di testi data dal dicembre del 1901 e prosegue fino alla malattia di Mach, testimoniando di
almeno due incontri. Lo scienziato moravo apprezza non solo la critica del linguaggio di
Mauthner, ma anche la sua vena satirica: a proposito dei Totengespräche dice addirittura di
essersi divertito più che con Luciano, Voltaire e Heine, cfr. la lettera di Mach del 16 marzo
1906, in Haller-Stadler 1988, p. 240.
133 È un concetto che Mach riprende da Hering, cfr. B i, p. 453.
134 Mach 1917, p. 132 (p. 130) e B i, p. 15. Lo ripete anche Wittgenstein nelle Philosophische Untersuchungen nell’osservazione 25. Aldo Gargani ha ricondotto l’idea del linguaggio
come forma di vita di Wittgenstein a questa concezione del carattere naturale del linguaggio
di Mach, sottolineandone il carattere antirazionalistico. In questo contesto riporta anche la tesi
di Mauthner sull’apriorità relativa dei nostri concetti e sulla mancanza di un loro fondamento
teorico in quanto fenomeni della vita; egli accenna anche alla funzione del caso nella selezione
dei dati empirici da parte dei Zufallssinne; cfr. Gargani 1992, p. 107 ss.
135 Mach avrebbe applicato alle idee della scienza i concetti evoluzionistici di adattamento
e di analogia che i linguisti – i neogrammatici, in particolare, secondo la Arens – avevano
elaborato per spiegare l’evoluzione della lingua come rapporto tra norma e innovazione; cfr.
Arens 1984, cap. iii
136 Mach 1917, p. 7 (p. xxxvi).
137 B i, p. 299.
138 Mach 1896a, p. 419.
139 B iii, p. 263.
140 Mach, 1896a, pp. 411-12. Lazarus Geiger (Frankfurt a. M. 1829-1870) in Ursprung
und Entwickelung der menschlichen Sprache und Vernunft (il primo volume era stato pubblicato nel 1868; il secondo è frammentario e postumo) definisce la sua ricerca come «critica
empirica della ragione umana» (p. 101). Il carattere empirico consiste nella ricerca etimologica
sulle parole che, come fossili, ci rivelano la relatività del sistema dei concetti del mondo primitivo (esempio la mancanza del blu nel mondo greco), nella radicale convinzione dell’identità
di linguaggio e pensiero; cfr. Geiger 1868. Mauthner, che spesso sorvola sulla differenza tra
linguaggio e pensiero, precisa qui che questa identità non è assoluta; essa somiglia piuttosto
ai differenti punti di vista che producono le due immagini dello stereoscopio; Geiger avrebbe
anche un’eccessiva venerazione per la ragione che, nella sua teoria, emerge dal linguaggio
come una potenza di più alto grado; cfr. B ii, 661.
141 Ludwig Noiré (Mainz 1829-1889) in Logos. Ursprung und Wesen der Begriffe (1885) ha
elaborato una concezione del linguaggio a partire da una lettura trascendentalista della volontà di Schopenhauer (cfr. Cloeren 1988, cap. xv). Ne risulta il carattere intenzionale dell’atto
linguistico e la centralità della metafora: «tutto il linguaggio è metafora» (p. 274), esso nasce
dalla metafora originaria che trasferisce il gesto in suono, individuando l’agire umano comune
come presupposto del linguaggio. In questo testo Mach ha trovato conferma della sua idea
di relatività di tutti i concetti e del carattere metaforico di molti concetti della scienza (cfr.
Noiré, p. 287), oltre a rinvenire alcune osservazioni particolari come l’idea dell’origine dei
nomi dei colori dalla pratica del tatuaggio (ivi, p. 260). Mauthner lo accusa invece di essere
wortgläubig, di credere alle parole, come dire: sulla parola.
142 Cfr. lettera a Mach del 14 febbraio 1902, in Haller - Stadler 1988, p. 237.
143
Mach 1917, p. 220 ss. (p. 216 ss.).
144 W i, p. 380.
145
Ivi, p. 382.
146 Ivi, pp. 391-92, Stumpf 1907, p. 88 (p. 205); per altri versi Stumpf ha una concezione
molto diversa del concetto e dell’astrazione, contro Mach.
147
Ivi, p. 266.
148 Cfr. le voci Ähnlichkeit, Affinität e Analogie in W i.
149
Cfr. W i, p. 45.
150 Cfr. ivi, pp. 47-48.
151 Cfr. ivi, p. 296 (p. 122).
152 Cfr. ivi, p. 299 (p. 123). La voce cogito sviluppa di nuovo questa tesi nella critica all’ego
cartesiano con il richiamo a Lichtenberg.
153
Cfr. B i, p. 220.
154 W i, p. 18.
155 Cfr. W iii, p. 361.
156
3BW, p. 136.
52
157
Mauthner conosce personalmente Hans Vaihinger nel 1905, quando, appena dopo il
trasferimento a Freiburg, entra a far parte della Kantgesellschaft e viene appunto in contatto
con il suo fondatore, con il quale intrattiene una corrispondenza che si infittisce attorno al
1911, anno della pubblicazione della Philosophie des Als ob. Kühn suggerisce che forse proprio l’uscita del Wörterbuch abbia incoraggiato Vaihinger alla pubblicazione del suo scritto
giovanile. In ogni caso il nostro autore recensisce nel 1913 il testo dello studioso di Kant,
inserisce nella seconda edizione del dizionario la voce “als ob” e richiama più volte la disamina dell’amico sui concetti-finzione nelle scienze, nell’etica e nella religione. A differenza di
Mauthner però, Vaihinger prende le mosse da una conoscenza profonda dei testi kantiani; egli
è infatti più conosciuto per i due volumi del Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft,
pubblicati nel 1881 e nel 1892, e per essere stato editore dal 1896 della rivista “Kant-Studien”.
Il commentario si ferma all’Estetica trascendentale (della quale disseziona ogni passo senza
sorvolare su nessuna delle difficoltà interpretative), forse perché il passaggio alla Logica e, in
particolare alla Dialettica, alla logica dell’illusione (des Scheins), l’incontro con l’espressione
kantiana del “come se”, aveva ricondotto il filologo ai temi studiati negli anni della tesi con
Laas, a quesiti più urgenti dal punto di vista teoretico, alla concezione cioè delle idee della
ragione come semplici «finzioni euristiche».
158 Vaihinger 1986, p. 40.
159 In questo capitolo Vaihinger fa rientrare anche le categorie, estendendo l’affermazione
kantiana dell’assoluta inconcepibilità e conoscibilità del mondo dalla dialettica all’analitica,
dalla pretesa di totalità all’applicazione della singola categoria. L’intero sistema kantiano degli
apriori viene così interpretato come un insieme di finzioni, che vanno dallo spazio, concetto
non solo soggettivo, ma pieno di contraddizioni, alla sostanza e alla causa, fino alla cosa in
sé. La divisione tra cose in sé, cioè oggetti, e altre cose in sé, cioè soggetti, è una finzione
originaria: dal punto di vista di Vaihinger, non vi è alcun assoluto, alcuna cosa in sé, alcun
soggetto, alcun oggetto. L’errore di Kant consiste nel non essersi attenuto alla convinzione,
espressa più chiaramente nella prima edizione della Critica, che la cosa in sé fosse una «mera
idea», un concetto limite, esattamente nel senso in cui si parla di limiti nella matematica, un
concetto immaginario, un simbolo necessario per il calcolo, come già Maimon aveva notato.
Finzione e non ipotesi, vero e proprio concetto contraddittorio, supposto nella piena coscienza
della sua impossibilità, la cosa in sé è un concetto necessario alla filosofia, come l’immaginario
alla matematica; dobbiamo considerare l’essere reale come se vi fossero delle cose in sé che
hanno effetto su di noi e che si perturbano reciprocamente.
160 Vaihinger 1986, p. 52 (pp. 48-49).
161 Ivi, p. 176 (p. 106).
162 Ivi, p. 179 (p. 110).
163
Ivi, p. 291 (p. 149). L’analisi linguistica della finzione rivela poi la differenza del “come
se” dalla semplice comparazione: il “come” è modificato dal “se”, dal “quando” (ob nell’alto
medioevo equivale a wenn); non si tratta nemmeno di un’analogia reale: nel “quando” vi è
la supposizione di una condizione e, più precisamente, di una condizione considerata impossibile. Gli esempi sono i seguenti: quando vi fossero gli infinitesimali, allora la linea curva
sarebbe composta da essi; quando vi fossero gli atomi, allora la materia sarebbe formata da
loro; quando l’egoismo fosse l’unica motivazione della condotta umana, allora se ne potrebbero dedurre i rapporti sociali. Nella proposizione condizionale è qui espresso un irreale o
impossibile; ciò nondimeno si possono dedurre delle conseguenze e la supposizione viene
mantenuta come formalmente valida. Ma ancora di più, tra il “come” e il “se”, tra il “come”
e il “quando”, vi è un’ulteriore proposizione sottintesa, come si può vedere dall’esempio: la
materia data a noi empiricamente deve essere considerata come sarebbe da trattare qualora
constasse di infinitesimi. In tal modo è espressa chiaramente la necessità (o la possibilità o la
realtà) di una sussunzione sotto una supposizione impossibile o irreale. Insomma la formula
grammaticale della finzione è la stessa per l’errore e può essere la stessa per l’ipotesi; essa
rivela una fondamentale equivocità del linguaggio.
164 Per Vaihinger il mondo non è il fine del pensiero, il fine è la condotta etica che si
ispira all’imperativo categorico, inteso a sua volta alla luce della finzione: ci si deve comportare, come se la legge morale fosse data all’uomo da un legislatore divino e non perché vi è
un dio che legifera, cfr. Vaihinger 1986, parte terza, A, cap. v.
165
B i, p. 35 ss.
166 B ii, p. 457 (p. 108).
167 Cfr. Kühn 1975, pp. 232-33. Mauthner ha una pessima opinione di Aristotele: gli dedica un libriccino, pubblicato nel 1904 nella collana “Die Literatur”, edita da Georg Brandes.
53
La presentazione tipografica di gusto liberty, le illustrazioni di animali immaginari, a indicare
il carattere fantastico della classificazione aristotelica della natura e due riproduzioni di Aristoteles und Phyllis di Hans Baldung Grien, nelle quali Fillide, l’amica di Alessandro, munita
di frusta sta a cavalcioni sulla schiena del filosofo innamorato, rispecchiano lo stile leggero
e polemico dell’esposizione. In questo testo Mauthner non salva quasi nulla del pensiero
aristotelico, lo considera una testa mediocre, schiavo di un linguaggio che insieme dovrebbe
assicurare la verità della logica e la menzogna del disputare sofistico, che procede come un
gioco di parole (wortspielerisch), fondato su sottigliezze orientali, talmudiche (p. 53), amante
della classificazione libresca, bibliofilo, senza occhio per la natura che osserva «come un pescatore, un cacciatore, un indovino» (p. 16). Da notare: si tratta dell’unico libro di Mauthner
tradotto in inglese.
168 Lo nota, tra gli altri, Ricoeur 1975, cap. i.
169 In questo senso la disamina del linguaggio, esposta nella Poetica e nella Retorica, si
distingue dalle osservazioni contenute nel De interpretazione, che si incentrano sul carattere
apofantico, assertivo del logos (a differenza dell’approccio apodittico, che si basa sul presupposto dell’essere reale, l’apofantico si applicava all’analisi del vero e del falso senza far
riferimento all’essere reale), per l’individuazione di un nuovo piano dell’analisi che MorpurgoTagliabue ha definito come propriamente semantico. Esso individua un nuovo punto di vista
che consiste «nell’esibire ogni contenuto di coscienza, prescindendo dalle modalità della loro
presentazione» (Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 102). Non vi sarebbe allora contrapposizione
tra discorso apofantico e discorso semantico, ma individuazione di due diversi piani del
logos: il discorso semantico riguarda sia l’apofantico delle asserzioni, sia il non-apofantico.
Detto altrimenti anche la preghiera, ad esempio, può essere considerata dal punto di vista
semantico; cfr. Morpurgo-Tagliabue 1967, cap. iii, § 9.
170 Galvano Della Volpe esamina attentamente anche il primo tipo di metafora (la sostituzione di un termine specifico con uno generico) come possibile metafora viva, derivata da
un confronto logico-intuitivo. L’esempio è il “ristare” della nave al posto di “ormeggiare”,
paragonato al “ristare del carro” sulle ruote e al “ristare dell’uomo” sulle gambe; il che metterebbe a confronto altre specie del genere “ristare” e fornirebbe una sorta di definizione
«concretissima». L’autore individua anche nell’esempio aristotelico del secondo tipo (che
sostituisce la specie al genere) la presenza dell’immagine: al posto di “molte” Omero scrive
“mille e mille” e rimanda al gesto del contare. Questa attenzione deriva dalla concezione
più generale di Della Volpe che individua nella metafora un elemento conoscitivo, mentra
gli autori che la considerano soltanto dal punto di vista icastico e intuitivo tendono a non
prendere in considerazione i primi due tipi della classificazione aristotelica che, a parer loro,
producono soltanto metafore spente. Cfr. Della Volpe 1954, p. 132 ss.
171
Aristotele, Poetica, 1457b. La traduzione è di Morpurgo-Tagliabue.
172 Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 244.
173 Nella letteratura critica il procedimento dell’entimema è stato definito come «sillogismo imperfetto», sillogismo imperfetto nell’espressione, «incidente di linguaggio», «scarto», ragionamento tronco che lascia al pubblico il gusto del completamento, facendo leva
sull’emozione con il ricorso all’armamentario dei luoghi comuni della topica retorica e dei
luoghi specifici della disciplina in questione. Invero Aristotele all’inizio della Retorica aveva
ricondotto il procedimento dell’entimema alla stessa facoltà che presiede all’elaborazione dei
sillogismi logici con la consapevolezza che nel primo caso le premesse non possono essere
necessarie, data la materia deliberativa, epidittica e giudiziaria dell’argomentare: «è funzione
della stessa facoltà scorgere il vero e ciò che è simile al vero, e nel contempo gli uomini
hanno una sufficiente disposizione naturale per il vero e nella maggior parte dei casi colgono
la verità. Pertanto, un’abile disposizione a mirare al probabile è propria di una persona che
è altrettanto abile nel mirare alla verità», Aristotele, Retorica, 1354b.
174 Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 244.
175
Ivi, p. 249.
176 Ivi, p. 252.
177 Biese 1893, p. 3.
178 Cfr. Biese 1893, p. 6.
179 Biese 1893, p. 22.
180
Gerber 1961, p. 309.
181 B i, p. 339.
182 La sineddocche si colloca sul piano dei concetti sensibili, la metafora tra il sensibile e non sensibile, la metonimia nell’ambito del sovrasensibile, cfr. Gerber 1961, p. 355.
54
183
Lo sappiamo bene dal suo paragone con la città: il linguaggio – egli scrive – non è
un’opera d’arte, non solo perché non è opera di un singolo, ma perché è cresciuto in modo
convulso, «il linguaggio è cresciuto come una grande città. Camera su camera, finestra su
finestra, abitazione su abitazione, casa su casa, strada su strada, quartiere su quartiere, e tutto
è inscatolato in qualcos’altro, legato all’altro, spalmato sull’altro, attraverso tubi e fossi»; segue
subito dopo la metafora della maledizione sui tubi del gas, B i, p. 27 (p. 92).
184 Bruchmann 1888, p. 187.
185 Cfr. Meijers-Stingelin 1988, un articolo che riporta tutti i passi ricopiati o ripresi quasi
alla lettera da Nietzsche.
186 B i, p. 367.
187 Nietzsche 2004a, p. 453 (p. 21).
188 B i, p. 368.
189 Nietzsche 2004b. La Kofman invero ritiene che l’uso della metafora e la riflessione
sulla metafora nei primi scritti di Nietzsche siano ancora legati a una concezione metafisica
che rimanda a un’essenza del linguaggio, a un possibile linguaggio proprio, mentre negli
scritti successivi a Wahrheit und Lüge il termine “metafora” verrà sostituito con quello di
interpretazione. Questa tesi non impedisce alla Kofman di leggere in modo magistrale le metafore architettoniche dell’alveare, della torre, della piramide, del colombario romano e della
tela di ragno, rivelandone la molteplicità di sensi; cfr. Kofman 1972. Per quanto riguarda la
riflessione di Nietzsche sulla metafora, abbiamo oggi a disposizione anche le note di Nietzsche
sul linguaggio e sulla retorica degli anni 1872-1874, vale a dire i corsi sulla grammatica latina,
sull’eloquenza greca e sulla retorica antica, vero e proprio laboratorio di riflessione sullo
stile. Nelle Vorlesungen über lateinische Grammatik (1869-1870) si occupa anche dell’origine
del linguaggio ripercorrendo le principali teorie filosofiche e sottolineando l’importanza di
Kant, il quale riconosce che le più profonde conoscenze filosofiche giacciono già pronte nel
linguaggio («ein großer Teil, viell. der größte Teil von dem Geschäfte der Vernunft besteht
in Zergliederungen der Begriffe die er schon in sich vorfindet»; Nietzsche 1993, p. 185). A
Kant si richiama anche nel sostenere che il linguaggio è prodotto dell’istinto: non nel senso
di un meccanismo esteriore, ma del nocciolo interno dell’essere, conforme a leggi, ma senza
coscienza. Nella Geschichte der griechische Beredsamkeit (1872-1873) il filo della ricostruzione
storica è, invece, nella contrapposizione tra il fascino dei discorsi istrionici e drammatici degli
oratori come Gorgia e Crizia e la correttezza spenta dei discorsi scritti condotti con acribia;
cfr. Nietzsche 1995, pp. 367ss. Dei discorsi scritti si occupa nella Darstellung der antike
Rhetorik (1874) e, in un passo sul rapporto del retorico con il linguaggio, scrive: retorico è
un attore, un libro, uno stile con cosciente uso dei mezzi tecnici. Non naturale quindi: ma
– si chiede – cosa significa naturale? Noi lavoriamo sullo scritto, ma è chiaro che la retorica
sviluppa mezzi che sono insiti nel linguaggio. Non esiste un “naturale” non retorico del
linguaggio. L’uomo che forma il linguaggio non afferra le cose, ma stimoli, non riproduce
sensazioni, ma riproduzioni (Abbildungen) di sensazioni, immagini. Come si può rappresentare un atto spirituale con un’immagine sonora (Tonbild)? Non sono le cose a entrare nella
coscienza, ma il modo in cui noi ci rapportiamo ad esse, il piqanovn. La sensazione coglie
un aspetto. La lingua è retorica, vuole la dovxa, non l’ejpisthvmh. Tutte le parole – conclude
– sono tropi: sinneddoche, metafora e metonimia. Gli esempi sono quelli di Gerber, citato
esplicitamente. Non c’è un proprio del linguaggio, ciò che decide è l’uso. Cita anche Jean
Paul sul linguaggio come raccolta di metafore scolorite; cfr. Nietzsche 1995, p. 425 ss. A
questo periodo risale anche la traduzione della Retorica di Aristotele. Nietzsche traduce quasi
interamente il primo libro (capp. 1-13 su 15), poi passa al terzo (capp. 1-4, fino al capitolo
sulla metafora). In particolare colpisce in quest’ultima l’aderenza al testo e la scelta delle
parole più semplici e appropriate etimologicamente. Per fare solo un esempio, l’incipit: «Die
Kunst zu reden läuft der Kunst zu unterreden zur Seite» (l’arte del parlare corre parallela
all’arte di dialogare; Nietzsche 1995, p. 533).
190
B i, p. 367.
191 Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 287.
192 Ivi, p. 288.
193 Untersteiner 1996, p. 172 s.
194 Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 318.
195
Il Witz è il filo conduttore del suo percorso intellettuale dalla parodia alla filosofia.
Kühn e Spörl hanno richiamato l’attenzione anche su una serie di articoli apparsi anonimi
tra il 1893 e il 1897 nella rivista berlinese “Das Magazin für Literatur” sotto il titolo Aus der
Mappe eines lachenden Philosophen senza attribuirli con sicurezza al nostro, ma indicandone
55
molte affinità teoriche. Forse – scrive Spörl – si tratta di una prova generale prima della
pubblicazione dei Beiträge: il “filosofo che ride” vede nel dubbio l’inizio di tutta la filosofia,
in particolare nel dubbio sul linguaggio; cfr. Spörl 1997, p. 50 ss., e Kühn 1975, p. 91 ss.
196
In un saggio sulla teoria del Witz in Jean Paul Richter, Fabrizio Cambi scrive a questo
proposito: «è opportuno rilevare preliminarmente la difficoltà di tradurre con una chiave
univoca il termine Witz sia perché radicato in un esteso arco temporale con un vastissimo
ed eterogeneo ventaglio di posizioni e di proposte interpretative, sia perché si rivela di problematica definizione nel pur circoscritto impianto teorico jeanpauliano. Nella Vorschule col
termine Witz Jean Paul intende una tecnica e un gioco linguistici che sul piano lessicale e
retorico si traducono nel motto di spirito, nella battuta satirica, nell’enunciato epigrammatico, espressione della facoltà razionale e al tempo stesso creativa dell’arguzia (Witz=Geist);
Cambi 1993, p. 6.
197 W i, p. 574.
198 B ii, p. 487.
199 Ivi, p. 488.
200 Ivi, p. 492.
201 Ivi, p. 495.
202 «Daher ist die Sprache in Rücksicht geistiger Beziehungen ein Wörtebuch erblasster
Metapher»; Richter 1963, p. 184 (p. 183). Cambi traduce in modo più letterale: «per questo
ogni linguaggio riguardo a relazioni spirituali è un dizionario di metafore impallidite»; Cambi
1993, n. 30, p. 23.
203 Richter 1963, p. 171 (p. 170).
204 Fabrizio Cambi nota che Jean Paul propone qui in rapida sequenza l’etimologia del
termine Witz, sorvolando sulla radice indogermanica vid, sul sanscrito veda, da cui in greco
(v)idea e in latino videre; si limita a far risalire l’etimo all’antico alto tedesco wizzi con cui
già si indicava un Wissen (ingenium). In questo modo passa sotto silenzio il mutamento di
significato in “idea spiritosa”, determinatosi in area inglese, e accentua il legame tra il Witz
come facoltà razionale e geniale e la sua espressione letteraria e comunicativa. La componente pragmatica recupera, secondo Cambi, anche l’inglese wit e la tradizione erasmiana;
cfr. Cambi 1993, p. 9 ss.
205 Richter 1963, p. 173 (p. 172).
206 Ivi, p. 174 (p. 173).
207 Ivi, p. 179 (p.178). Volteschlagen letteralmente indica, tra l’altro, la mossa con una
carta truccata.
208 Ivi, p. 182 (p. 181).
209 Ivi, p. 184 (p. 182).
210 Cambi 1993, p. 23.
211
Kant 1917, pp. 221-23 (pp. 109-111: nella traduzione italiana Witz viene reso con
“ingegno”, “spirito”). Mentre in Kant il Witz è capacità dell’intelletto, in Schlegel e Jean Paul
discende dalla facoltà dell’immaginazione e diventa prerogativa del genio, cfr. Cambi 1993.
212 Richter 1963, p. 186 (p. 184).
213 Spedicato 1994, p. 90.
214
Gianni Carchia, nei capitoli sull’umorismo di Retorica del sublime, ha delineato questo processo di secolarizzazione del sublime in Hegel, Jean Paul, Vischer e Pirandello, cfr.
Carchia 1990.
215 Richter 1963, p. 140 (p. 145).
216 Ivi, p. 129 (p. 136).
217
W ii, p. 115 (p. 139).
218 Definizione ironica di Benedetto Croce, Croce 1965, p. 374.
219 Interessanti sono anche le osservazioni di Vischer sul linguaggio: per questo autore la
parola è generalizzazione, non presenta l’individuale, dimenticando l’originario carattere di
immagine. Il linguaggio usa le parole come concetti, ma l’astrazione delle parole non è qualcosa di assoluto; la Einbildungskraft la accompagna e l’immagine del genere oscilla intorno
al concetto (umschwebt), Vischer 1996, p. 8.
220 Cfr. Tavani 2000, p. 13.
221
Vischer 1967, p. 209 (p. 150).
222 W ii, p. 110 (p. 136).
223
Lo dirà anche Croce, riprendendo Baldensperger, un seguace di Bergson. Ma l’impossibilità della definizione ha in Croce un senso diverso e si ricollega al suo tentativo di ricondurre tutti i concetti dell’estetica a quello di “espressione”. Cfr. Pirandello 1986, p. 131 ss.
56
224
225
226
227
228
229
W ii, p. 111 (p. 137).
Ibidem.
W i, p. 162.
Ivi, p. 170.
W ii, p. 113 (p. 138).
Lessing 1985, p. 330.
57
Bibliografia
Testi di Mauthner
Gli scritti di Mauthner sono in gran parte disponibili in rete. In austrian
literature online, oltre a testi letterari, si trova l’edizione dei Beiträge del 19011902, in textlog.de (Historische Texte & Wörterbücher) la seconda edizione
degli anni 1906-1913, in zeno.org il Wörterbuch del 1923. Altri testi letterari
sono reperibili in Projekt Gutenberg-DE.
(1879) Nach berühmten Mustern: Parodistische Studien, Spemann,
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(1880) Nach berühmten Mustern: Parodistische Studien; Neue Folge,
Frobeen, Bern - Leipzig.
(1880) Von armen Franischko: kleine Abenteur eines Kesselflickers,
Frobeen, Bern - Leipzig.
(1882) Der neue Ahasver: Roman aus Jung-Berlin, Minden, Dresden - Leipzig.
(1884) Xanthippe, Minden, Dresden - Leipzig.
(1886-1890) Berlin W., Bd. 1-3, Minden, Dresden - Leipzig.
(1887) Der letzte Deutsche von Blatna: Erzählung aus Böhmen, Minden, Dresden - Leipzig.
(1887) Von Keller zu Zola: Kritische Aufsätze, Heine, Berlin.
(1888) Schmock oder die litterarische Karriere der Gegenwart: Satire,
Lehmann, Berlin.
(1892) Lügenohr: Fabel und Gedichte in Prosa, Cotta, Stuttgart.
(1892) Hypatia: Roman aus dem Altertum, Cotta, Stuttgart.
(1901-1902) Beiträge zu einer Kritik der Sprache, Bd. 1-3, Cotta,
Stuttgart - Berlin.
(1904) Aristoteles: ein unhistorischer Essay, Bard und Marquardt,
Berlin.
(1906) Spinoza, Schuster, Berlin.
(1906) Totengespräche, Schnabel, Belirn.
(1906) Die Sprache, Rütten und Löning, Frankfurt am Main.
(1906-1913) Beiträge zu einer Kritik der Sprache, Bd. 1-3, Cotta,
Stuttgart - Berlin (2. Aufl.).
(1910) Wörterbuch der Philosophie: Neue Beiträge zu einer Kritik
der Sprache, Bd. 1-3, G. Müller, München - Leipzig.
(1912) Jacobis Spinoza-Büchlein: Nebst Replik und Duplik (Hg.), G.
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(1912-1913) Agrippa v. Nettesheim, Die Eitelkeit und Unsicherheit
der Wissenschaften und die Verteidigungsschrift (Hg.), Bd. 1-2, A. Langen und G. Müller, München - Wien.
(1913) Der letzte Tod des Gautama Buddha, G. Müller, München
- Leipzig.
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(1914) Gespräche im Himmel und andere Ketzereien, G. Müller,
München - Leipzig.
(1914) O. F. Gruppe, Philosophische Werke I: Antäus (Hg.), G. Müller, München.
(1918) Erinnerungen I: Prager Jugenjahre, G. Müller, München.
(1920) Muttersprache und Vaterland, Dürr und Weber, Leipzig.
(1920-1923) Der Atheismus und seine Geschichte im Abendlande,
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(1923) Beiträge zu einer Kritik der Sprache, Bd. 1-3, Meiner, Leipzig
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(1923-1924) Wörterbuch der Philosophie: Neue Beiträge zu einer
Kritik der Sprache, Bd. 1-3, Meiner, Leipzig (2. Aufl.).
(1925) Gottlose Mystik, hg. von Hedwig Mauthner, Reissner, Dresden.
(1925) Die drei Bilder der Welt: Ein Sprachkritischer Versuch, hg.
von Monty Jacobs, Verlag der Philosophischen Akademie, Erlangen.
(1963) Der Atheismus und seine Geschichte im Abendlande, Bd. 1-4,
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(1967-1969) Beiträge zu einer Kritik der Sprache, Bd. 1-3, Georg
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(1980) Wörterbuch der Philosophie: Neue Beiträge zu einer Kritik
der Sprache, Bd. 1-3, Diogenes, Zürich [Abdr. von Mauthner 19101911].
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74
La maledizione della parola
Testi di critica del linguaggio
di Fritz Mauthner
La traduzione che segue è una scelta antologica di testi di Mauthner che
affrontano i temi della critica del linguaggio, della teoria della parola come metafora e delle “tre immagini del mondo”. I passi sono tratti dai Beiträge zu einer
Kritik der Sprache del 1906-1913 (B), dal Wörterbuch der Philosophie: Neue
Beiträge zu einer Kritik der Sprache del 1923-1924 (W) e da Die drei Bilder der
Welt: Ein Sprachkritischer Versuch (3BW), edito da Monty Jacobs nel 1925.
La maledizione della parola, Der Fluch der Sprache, è il titolo di un paragrafo
dei Beiträge (B i, p. 86).
All’inizio di ogni sezione è stato indicato il volume dell’opera, mentre nel
testo i numeri tra parentesi tonde indicano la pagina dell’edizione tedesca. È
stato uniformato l’uso del corsivo per i termini stranieri e per alcune parole che
sono oggetto di analisi; sono state lasciate nel testo le citazioni fatte dall’autore, completandole in nota dove è stato possibile, segnalando il testo al quale
Mauthner ha fatto riferimento o, in assenza di indicazioni, facendo riferimento
a testi reperibili oppure a edizioni critiche. Il termine Sprache è stato tradotto
con lingua o con linguaggio secondo il contesto. [NdC]
Critica del linguaggio
(dai Beiträge zu einer Kritik der Sprache)
Prefazione [alla seconda edizione]
(B i, x) Certo non sono un esperto nelle molte scienze alle quali devo ricorrere per fondare ed esemplificare i miei pensieri. Non
sono un esperto in tutti questi ambiti: logica, matematica, meccanica,
acustica, ottica, astronomia, biologia delle piante, fisiologia animale,
storia, psicologia, grammatica, indianistica, romanistica, germanistica,
slavistica, ecc. ecc. Molti anni fa ho fatto un calcolo approssimativo.
Per il mio lavoro avrei avuto bisogno di conoscenze tratte da 50-60
discipline, nelle quali è attualmente spezzettata la conoscenza del mondo. Per ciascuna di queste discipline una mente capace ha bisogno di
almeno 5 anni anche solo per impadronirsi delle linee di fondo del
sapere specialistico. Avrei dovuto allora lavorare senza sosta per circa
300 anni, prima di poter iniziare a mettere per iscritto le mie proprie
idee, poiché i miei pensieri hanno la scomodità di non trattare la conoscenza del mondo attraverso il microscopio delle singole discipline.
Non sono pigro. Ci avrei messo volentieri i 300 anni, visto che non si
usa tener conto della misura della vita umana in un compito di tale
grandezza. Però mi son detto: è il destino delle discipline scientifiche
– eccetto poche – che persino i loro principî e verità non arrivino ai
300 anni, che quindi dopo un lavoro di 300 anni sarei stato esperto
solo nella disciplina studiata da ultimo, un dilettante nelle discipline
nelle quali lo studio era rimasto indietro di 10 o 20 anni, un ignorante
in tutte le altre. Così dovetti decidermi a rinunciare alla specializzazione in tutte le scienze che potevano aiutare il mio lavoro; mi dovetti
accontentare in tre volte nove 1 pesanti anni di impadronirmi solo di
quante nozioni, in tutte queste discipline ausiliarie, mi sembrassero
necessarie all’adempimento del mio compito.
(xi) Il mio compito. Ne avevo uno. Io non sono uno specialista. Un
compito grande e nuovo, che si è posto da sé: la critica del linguaggio.
E nella mia risposta 2 salgo di nuovo un po’ più in alto e voglio essere
del tutto serio. Se volevo sviluppare ed esporre la mia idea che la conoscenza del mondo attraverso il linguaggio fosse impossibile, che non
vi fosse una scienza del mondo, che il linguaggio fosse uno strumento
inservibile per la conoscenza, – se volevo sviluppare ed esporre questi
77
pensieri in modo creativo e convincente, chiaro e vivo, libero dalla
logica e dai giochi di parole, allora dovevo, come critico del linguaggio, conoscere proprio questo linguaggio nei suoi alti e bassi, essere
in grado di stare a sentire quello che dice il popolo 3 e poter seguire
i ricercatori nelle loro lotte sui concetti scientifici. In tutti i campi del
lavoro scientifico dovetti imparare a capire i principî del lavoro, del
metodo, la logica specifica o il linguaggio. E forse nessuno dei piccoli
carrettieri di un qualsiasi ambito di lavoro specifico, nella sua sensazione di essere simile a Dio, ha provato così forte come me la sensazione
che i principî e il linguaggio specifico di ogni disciplina non si possano
comprendere del tutto senza dissodare l’intero campo di lavoro, che è
un campo di detriti. Senza più ridere, nella rassegnazione più amara, mi
dovevo dire ogni giorno che non stavo fermo volentieri ai principî, che
volentieri sarei stato costretto ad andare oltre, a fare qualcosa di più
di una semplice passeggiata tra le scienze. Ma non potevo indugiare,
se volevo compiere il mio lavoro. Non potevo indugiare da specialista
in nessuna disciplina. Non devo render conto se questo mi sia riuscito
semplice o difficile.
Introduzione
(1) “In principio era la parola”. Con la parola gli uomini sono al
principio della conoscenza del mondo e rimangono fermi se restano
presso la parola. Chi vuole procedere oltre, anche di un solo minuscolo passo, per il quale può portare avanti il lavoro intellettuale di tutta
una vita, deve liberarsi dalla parola e dalla superstizione della parola,
deve tentare di riscattare il suo mondo dalla tirannia del linguaggio.
Qui nessuna prospettiva è d’aiuto, nessun ateismo critico-linguistico.
Nell’aria non c’è nessun appiglio. Si deve salire per gradini e ogni gradino è un nuovo inganno, perché esso non si libra liberamente. Anche
se ogni gradino fosse così basso e chi salisse vi si arrestasse solo di
sfuggita, lo toccasse solo con le punte dei piedi: nell’attimo del contatto
anch’egli non si librerebbe liberamente, resterebbe incatenato al linguaggio di questo attimo, di questo gradino. Anche se si fosse costruito
da sé gradino e linguaggio per quest’attimo.
Nel corso del lavoro durato anni è stato ogni volta vittima di un
autoinganno chi si è voluto far carico della liberazione dal linguaggio,
sperando di portare a termine un’opera regolare e graduale. Non è un
uomo libero colui che ancora si definisce ateo, oppositore di colui che
egli nega. Non può compiere l’opera della liberazione dal linguaggio chi
inizia a scrivere un libro con fame, con amore e con vanità della parola
nella lingua di ieri, di oggi o di domani, nella lingua irrigidita di un determinato fisso gradino. Se voglio salire nella critica del linguaggio, che
è l’occupazione più importante dell’umanità pensante, devo annientare
78
il linguaggio passo dopo passo dietro di me e (2) davanti a me e dentro
di me, devo distruggere ogni piolo della scala mentre salgo. Chi vuole
seguire, ricostruisca i pioli per poi distruggerli di nuovo.
La rinuncia all’autoiganno sta nella prospettiva di scrivere un libro
contro il linguaggio in un linguaggo irrigidito. Perché il linguaggio è
vivo e non rimane immutato dall’inizio di una frase fino alla sua fine.
“In principio era la parola”; qui, nel pronunciare la quinta parola, la
prima parola “in principio” muta già il suo senso.
Così deve maturare la decisione o di pubblicare questo frammento
come frammento o di consegnare il tutto al redentore più radicale, il
fuoco. Il fuoco avrebbe portato la quiete. L’uomo tuttavia, finché vive,
è come il linguaggio vivente e, perché parla, crede di avere qualcosa
da dire.
Quello che uccide le cimici, uccide anche il pope. […]
L’essenza del linguaggio
(3) Nell’accingermi a dare una critica del linguaggio umano – proprio perché l’oggetto della mia ricerca è designato con lo strumento
della ricerca stessa, cioè con la parola “linguaggio” – devo vagliare i
concetti con maggior precisione di quanto accada altrove. Sul concetto
di “critica” non devo certo fermarmi a lungo. Critica significa fin dai
tempi antichi l’attività dell’intelletto umano di dividere o di distinguere; l’osservazione attenta di due fatti simili deve di necessità condurre a
prestare attenzione alle loro caratteristiche distintive, se la differenza è
abbastanza grande per i nostri organi; poiché non ci sono fatti identici.
Chi promette allora la critica di un fenomeno, non promette niente di
più e niente di meno di un’osservazione scrupolosa o di un’indagine
di questo fenomeno. Questo lo può fare ciascuno in buona coscienza,
e il risultato della sua ricerca non dipende poi dalla sua volontà, ma
dalla realtà osservata e dalla acutezza dei suoi organi di senso.
“Il” linguaggio – Ma che cos’è il linguaggio che mi sono proposto
di esaminare attentamente e che ho promesso ai lettori? Non voglio
prestare attenzione, come il compilatore di un vocabolario, alle singole
parole di una determinata lingua; non voglio, come un grammatico,
raggruppare le differenti forme di una singola lingua; non voglio nemmeno scrivere la storia di una singola lingua e tantomeno la storia di
una famiglia linguistica, come si è posta come compito inattuabile la
linguistica comparata prima per la nostra “famiglia linguistica” e poi
per tutte le lingue della terra. Io voglio indagare chiaramente ciò che
è comune alle lingue degli uomini, ciò che si potrebbe graziosamente
chiamare in modo astratto l’essenza del linguaggio. (4) È subito evidente che “linguaggio” in questo senso significa qualcosa di totalmente
79
diverso da “una lingua” o “le lingue”, per cui si potrebbe pur sempre
all’occorrenza pensare a qualcosa di reale, anche se questo reale, poiché è un suono fugace, possa a stento essere annoverato tra le cose
materiali. Ma quale reale sarebbe infine qualcosa di più che una forma
fugace? Su questo punto non mi lascio andare a nessuna sofisticheria.
Se si sono definiti i monumenti architettonici e i resti pietrificati del
mondo originario come un linguaggio con il quale la preistoria della cultura o della natura parla a noi, in questo caso si tratta solo di
un’espressione metaforica. Se richiamiamo alla memoria i geroglifici e
i caratteri cuneiformi, con i quali un qualche antico popolo cerca di
parlare con noi solo attraverso segni scritti, quindi soltanto mediante
segni visibili, allora alla base di ognuna di queste lingue, nel caso in cui
esse venissero effettivamente decifrate, vi sarebbe una lingua parlata.
Anche il linguaggio visibile delle dita dei nostri sordomuti è ben solo
una fissazione, resa visibile e adattata alle relazioni, di un linguaggio
del popolo e rimanda a una lingua parlata al modo stesso della nostra
abituale scrittura. Altra è l’idea - cosa che non esclude certo l’affinità
dei fatti - che noi, uomini che viviamo tra i libri, possiamo andare
tanto avanti nell’esercizio incessante della lettura fino a escludere la
lingua parlata dalla nostra coscienza; anche nella lettura degli uomini
che vivono tra i libri lavora tuttavia in modo inconscio il cosiddetto
centro del linguaggio sonoro.
Le singole lingue sono dunque raggruppamenti eccezionalmente
complicati di suoni mediante i quali i gruppi umani si comprendono.
Ma cos’è “il linguaggio” con cui ho a che fare? Qual è l’essenza del
linguaggio? In che rapporto è “il linguaggio” con le lingue?
La risposta più semplice sarebbe: “il linguaggio” non esiste; la parola è un’astrazione così pallida che difficilmente gli corrisponde ormai
qualcosa di reale. E se il linguaggio umano fosse affidabile come “strumento” del conoscere, se lo fosse in particolare anche la mia madrelingua, (5) dovrei rinunciare fin dall’inizio al tentativo di questa critica,
perché allora l’oggetto della ricerca sarebbe un astratto, un concetto
irreale e inafferrabile. Con ciò mi trovo davanti al primo spiacevole
dilemma. Solo se il linguaggio umano e in particolare la mia madrelingua non sono né affidabili né logici, solo allora potrò scoprire dietro
l’estremo astratto “il linguaggio” ancora qualcosa di reale; allora però,
per l’inaffidabilità dello strumento, non potrò eseguire la ricerca così
a fondo come vorrei. In ogni caso, poiché di fatto non scrivo queste
frasi introduttive all’inizio delle mie osservazioni, ma in seguito a fatiche durate anni, so già che questo spiacevole dilemma mi perseguiterà
passo dopo passo.
Quale senso abbia l’astratto “il linguaggio” diverrà un po’ più chiaro
quando avremo esperito quanto astratto e irreale sia proprio ciò che per
il momento in buona coscienza abbiamo assunto come un qualcosa di
reale: le singole lingue. Cosa sono poi queste singole lingue che costi80
tuiscono l’oggetto della scienza del linguaggio, quella giovane scienza
che quest’anno 4 ha compiuto 80 anni? Se si pensa che questa scienza
si è prefissata di selezionare le diverse lingue degli uomini secondo le
stirpi, i popoli e poi di nuovo secondo i dialetti e via dicendo, bisogna
riconoscere che la scienza del linguaggio possa prendere le mosse solo
provvisoriamente e con riserva dalle singole lingue. Il suo oggetto è
piuttosto la massa enorme di tutti i suoni umani che mai siano stati detti
o scritti dagli uomini per comprendersi in un qualche luogo della terra.
La scienza del linguaggio si è prefissata di ordinare questo fondo enorme
secondo parole e modi di formazione e, successivamente o precedentemente, secondo una più vicina o lontana “parentela”. La delimitazione
usuale secondo le lingue dei popoli e i dialetti serve, come detto, solo
a un orientamento provvisorio. Un giorno si potrebbe scoprire che la
lingua degli antichi indiani sia un “parente” stretto della nostra; (6) si
potrebbe scoprire che il dialetto basso tedesco è più lontano dall’alto
tedesco di quanto creda l’abitante del Mecklenburg che parla il suo
dialetto basso tedesco. Nell’ambito delle lingue dell’Est asiatico queste
sorprese sono evento quotidiano.
Lingue individuali – Da questa situazione della scienza del linguaggio
appare chiaro che le sue singole lingue non sono unità così chiaramente
definibili come ben si potrebbe credere. In realtà anche il concetto di
lingua singola è soltanto un’astrazione per la gran quantità di somiglianze, anzi di somiglianze molto grandi presenti nelle lingue individuali
di un gruppo umano, il cosiddetto popolo. «Natura sane nationes non
creat sed individua» (Spinoza, Tract. Theol.-pol., xvii 5). Questo vale
per il diritto, la legge e i costumi come per la lingua. Dobbiamo subito
prendere atto di ciò che in seguito risulterà più trasparente, e cioè che
la lingua individuale di un uomo non è mai perfettamente uguale a
quella di un altro e che uno stesso uomo non parla la medesima lingua
nelle diverse età della vita, anche se si fa astrazione dalle particolarità
della sua lingua infantile. Non si possono non vedere, se si fa un po’
di attenzione, le diseguaglianze delle lingue individuali. Ogni scrittore
che abbia carattere si riconosce per la sua individuale e caratteristica
lingua. Anche a una distanza di cento passi. Come il quadro di un
pittore che abbia carattere. Chi non abbia un suo proprio stile, non
è uno scrittore nato. Solo Dio (nella Bibbia) non ha un proprio stile.
Spinoza ci ha detto ridendo (Spinoza, Tract. Theol.-pol., ii 6): «Deum
nullum habere stylum peculiarem dicendi, sed tantum pro eruditione et
capacitate Prophetae eatenus esse elegantem, compendiosum, severum,
rudem, prolixum et obscurum». Come un giornalista che vuole piacere
al suo pubblico. Solo in un grande scrittore è particolarmente evidente
il fenomeno della lingua individuale. Ma anche la differenza della lingua
di un individuo nei diversi periodi della sua vita è maggiore di quanto
si vorrebbe credere. Si può presumere in generale che il singolo uomo
81
segua grosso modo l’evoluzione della lingua del tempo che ha vissuto,
anche se (7) molte abitudini della sua giovinezza gli rimarranno così
impresse come nella lontananza le abitudini del suo dialetto di casa. Si
provi a immaginare un tedesco nato nello stesso anno di Walter von
der Vogelweide e che oggi, a poco più di 700 anni di età, viva ancora
in piena freschezza di spirito e corpo. Alcune feconde utili ipotesi scientifiche dei nostri linguisti presuppongono ancor più fantasia. Noi oggi
capiamo le poesie di Walther solo con l’aiuto di un lessico di tedesco
alto-medievale, e lo stesso Walther potrebbe capire i nostri romanzi e
articoli di giornale solo dopo studi faticosi (perché dovrebbe per di più
imparare molti fatti); allo stesso modo sostengo: il mio uomo di settecento anni parlerebbe grosso modo la lingua dei nostri giorni, sarebbe
divertito dalle abitudini del diciottesimo secolo nella lettura ad esempio
di Lessing, ma avrebbe le nostre stesse difficoltà a leggere senza ausilio
scientifico il suo compagno di gioventù Walther. Se si incontrasse con
Walther, non si comprenderebbero l’un l’altro.
Il letto del fiume del linguaggio – Possiamo quindi dire che le lingue
individuali, di cui suole occuparsi la scienza del linguaggio come fossero cose reali, assomigliano a correnti, nelle quali in ogni singolo punto
la goccia d’acqua viene nel tempo continuamente sciolta da altre gocce
d’acqua e stando nello spazio in mezzo ad altre gocce d’acqua vi scorre
dentro. L’antico detto greco “non ci si può bagnare due volte nello
stesso fiume” vale anche per il linguaggio. Le sue parole e le sue forme
sono incessantemente mutate. Se il nostro Helm 7 deriva veramente
dall’antico indiano çarman (gotico hilms), il cambiamento si è prodotto
del tutto gradualmente in un impercettibile sfumatura del suono; ma
quanto più insignificanti siano i cambiamenti di suono da stirpe a stirpe, quanto più ogni stirpe crede e spera di consegnare pura la parola
ereditata, tanto più incessante deve essere il flusso di questi cambiamenti perché da çarman venga Helm. Qui cento anni significano così
poco che Helm, ad esempio, era ancora del tutto adeguato, (8) quando
gli organizzatori delle forze armate prussiane reintrodussero la parola
(insieme alla cosa) all’inizio del xix secolo, dopo che per circa duecento anni era rimasta reclusa in un ambito puramente storico-poetico.
Anche i mulini del linguaggio macinano lentamente, ma con sicurezza.
Allora ogni goccia che segue – per rimanere all’immagine della corrente – è così simile a quella che la precede che nessun microscopio riesce
a individuarla; eppure non è escluso che l’acqua di una corrente nel
corso dei secoli non modifichi le parti dissolte in essa, perché si sono
esauriti dei depositi di minerali lungo il suo corso o perché è inondata
più velocemente una qualche montagna per via del diboscamento o
perché vi sono stati cambiamenti nel terreno, ecc. Quello che per la
corrente è una possibilità o una probabilità poco notata, è realtà certa
per la lingua. Le lingue cambiano incessantemente il significato delle
82
loro parole e nell’immensa circolazione dell’ultimo secolo, nel grande
spreco di nuovi concetti, la lingua riesce a mala pena a venire incontro
ai bisogni del cambiamento di significato. Per esempio, il cambiamento
di significato delle parole nell’ambito dell’ampio gruppo dei concetti
che riguardano le ferrovie non si è compiuto completamente. Si pensi a
Platz in Platzkarte 8. Oppure al concetto di Stunde dei berlinesi (“Nach
Hamburg sind es vier Stunden” 9) e degli abitanti di montagna (“Gute
vier Stund’ bis hinauf” 10). Per altri versi ha luogo incessantemente
il mutamento del suono, che può essere ricondotto principalmente
all’unica necessità della funzionalità fisiologica. Eppure, se è generalmente riconosciuto che il mutamento del suono viene attuato in gran
parte per risparmiar lavoro agli organi fonatori, anche il mutamento
delle forme di costruzione, che finisce con l’allargare ed estendere
innovativamente le analogie (per esempio in tedesco la sostituzione
della coniugazione forte con quella debole, come backte 11 invece di
buk, in maniera analoga nel linguaggio infantile: trinkte 12 invece di
trank), è una comodità per le vie nervose. Esempi sono quasi inutili.
In tedesco la strana parola tardo latina paraveredus (9) è diventata
alla fine Pferd 13, che inoltre viene spesso pronunciata Ferd, così che
nella futura ortografia la p forse verrà abbandonata. La parola greca
ejlehmosuvnh (tedesco Almosen) è diventata l’inglese alms, che viene
pronunciato ams. Qualche volta possiamo osservare al lavoro questo
segreto operare per una pronuncia più comoda. Così ancor oggi ogni
maestro e studente di paese scrive sehen e gehen 14. Attori, predicatori
e loro pari si sforzano di pronunciare chiaramente la e muta. Ma nella
lingua parlata questa e muta, che nel gotico è una a (saihwan), non
viene più pronunciata e i maestri di lingua sono in imbarazzo su quale
sia la regola da formulare. Ancora pochi anni fa un linguista scriveva
che omettere questa e nella sillaba finale en (gesehn) fosse volgare. Da
allora ho visto spesso questa omissione.
Ora il cambiamento delle parole nel tempo è già più variegato e
più fine di quanto finora siano state contrassegnate le differenze delle
gocce d’acqua che si susseguono l’una dopo l’altra, così anche la differenza delle gocce d’acqua, che scorrono a fianco l’una dell’altra nel
letto del fiume, non è poi così grande come quella delle lingue individuali tra connazionali. Se si è confrontata la singola lingua con il fiume
che eternamente muta, bisogna pur dire che la corrente della lingua
è più lenta, eppure nella lingua – e qui sta il punto – l’inafferrabilità
e la fuggevolezza del singolo momento mi sembra ancora più grande.
Faremmo un passo avanti se potessimo paragonarla a una corrente
d’aria regolare e a un letto di questa corrente d’aria. Se allora non si
vuole riconoscere nella singola lingua un astratto irreale non rimarrà
altro che confrontare la singola lingua con il letto stesso del fiume,
con la forma che rimane eguale a sé stessa, poiché il letto del fiume si
modifica in modo sufficientemente lento.
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Ora, se non mi sono posto il compito di seguire la forma e la storia
delle singole lingue, ma quello di osservare ciò che in esse è comune,
devo scoprire le loro affinità. Se non vi è altra somiglianza tra le singole lingue che quella che sta nella definizione che esse servono alla
comprensione tra gli uomini, in questo caso la mia ricerca arriverà presto alle fine oppure non darà alcun risultato positivo. (10) Servirebbe
però a distruggere alcune superstizioni che grammatica e logica hanno
intrecciato al linguaggio. Ma io spero di poter fare ancora un piccolo
passo più in là. Se si confrontano tra loro le singole lingue allo stesso
modo in cui la descrizione della terra confronta tra loro i singoli letti
dei fiumi, in base alla loro posizione, alle loro linee e simili, mi pare
possa soltanto venirne fuori una scienza inutile. Però sarebbe anche
possibile, con attenzione molto precisa e completa conoscenza di tutte
le circostanze concomitanti, descrivere fin nei dettagli ogni singolo letto
di fiume come effetto della propria massa d’acqua. Le note proprietà
fisiche e chimiche dell’acqua sono le sole cause del letto attuale che
poi certo insegnano di nuovo la strada alle nuove masse d’acqua. Questi insegnamenti sono a buon mercato come le more. Ogni pecoraio lo
capisce e lo sa anche senza essere interrogato. Tuttavia c’era un tempo
nel quale l’umanità spinta da un intenso bisogno di mitologia si immaginò un qualche dio, un’immagine maschile o femminile, seduto alla
sorgente del fiume, il quale dio con nascoste intenzioni faceva fluire
molta o poca acqua, acqua calda o fredda, acqua buona o cattiva nel
letto del fiume o dalla sorgente. Uno strascico di questa mitologia lo
troviamo ancor oggi in espressioni come il padre Reno oppure anche
nelle ridicole figure femminili che, con improbabili brocche greche
nelle mani, rappresentano fiumi tedeschi su ridicoli monumenti. Lo
abbiamo fatto in buona fede, dice la gente a mo’ di scusa.
Mitologia nel linguaggio – Nelle scienze dello spirito tuttavia, specialmente nelle intuizioni del linguaggio umano, questo bisogno di mitologia è ancora fortemente presente. E mi sembra proprio una forma di
mitologia quello che pensano del linguaggio non solo i preti e il volgo,
(11) quello che i linguisti copiano l’uno dall’altro, cioè che il linguaggio
sia uno strumento del nostro pensiero (uno strumento mirabile per
giunta). Secondo questa idea, ancor oggi unanimamente condivisa, nel
letto del fiume del linguaggio siede una divinità – una figura maschile
o femminile – il cosiddetto pensiero, che regna sul linguaggio umano
con i suggerimenti di una divinità affine, la logica, e con l’aiuto di una
terza divinità, la grammatica. Il risultato della mia ricerca di cui andrei
più orgoglioso sarebbe riuscire a convincere gli uomini dell’irrealtà e
della pochezza di questa trinità; servire divinità irreali richiede sempre
sacrifici, quindi è sempre nocivo.
Ritengo che “il linguaggio”, il linguaggio in generale o l’essenza
del linguaggio, a una considerazione più attenta, non ne vorrà più
84
sapere della sovranità del pensiero, della logica e della grammatica.
“Il linguaggio” si rivelerà in gran parte un vuoto astratto; dove invece
noteremo effettive somiglianze tra le singole lingue, che sono anch’esse
astrazioni, dove il linguaggio diverrà per noi una designazione per un
atto effettivo dell’agire umano, non avremo alcuna necessità di risalire
al pensiero, alla logica, alla grammatica quale origine. Piuttosto scopriremo che pensiero, logica e grammatica sono aspetti del linguaggio
che in un certo senso si nascondono nel linguaggio e vengono scovati da oziosi fanatici dell’ordine. Così in natura non c’è altro blu di
quello dei fenomeni blu. Sarebbe così anche se la lingua non si fosse
data la pena di astrarre l’aggettivo blu. Allo stesso modo l’elettricità
c’era prima che la si scoprisse, rendeva cioè i suoi effetti percepibili
ai nostri sensi. Come ci sono nella natura tutti gli elementi che ancora
non conosciamo.
La formazione del linguaggio – (12) Alla fine però anche questa critica
vorrà soltanto quello che ogni scienza del linguaggio ha voluto da
sempre: spiegare il fenomeno del linguaggio.
Spiegare il linguaggio! Anche i Greci cercavano ingenuamente qualcosa di simile quando discutevano se il linguaggio fosse sorto per natura o mediante un legislatore. L’origine da un legislatore deve essere
stata la risposta più antica, quella teologica. Questa risposta poi venne
data dai meno dogmatici Greci in modo un po’ più razionale rispetto ai
cristiani del medioevo; i Greci pensavano pressappoco a un legislatore
umano, a un eroe, a un inventore, come in genere onoravano tra gli
dei gli inventori delle principali attività culturali. Sono da preferire ai
cristiani anche per aver pensato nel linguaggio a qualcosa di più concreto, cioè alla propria lingua nazionale, al greco. I cristiani – per comprendere sotto questo nome i popoli del nuovo sviluppo dell’Occidente
– raggiunsero molto presto la coscienza che ci fossero molte lingue e di
pari dignità e concepirono dapprima “il linguaggio” come un astratto,
in modo che contenesse pressappoco il senso di “facoltà di parlare”,
visto che si parlava di Dio che ha dato agli uomini il linguaggio. Questa
idea, che per noi è quasi mostruosa, si trova ancora del tutto intatta e
pretesca nel resoconto, per altri versi eccellente, dei risultati ottenuti
fino a oggi dalla linguistica, nelle lezioni di Whitney. Qui si dice (Die
Sprachwissenschaft, rivisto da Jolly, 1874, p. 555 15): «l’origine divina del
linguaggio è da mantenere nel senso in cui la natura degli uomini è in
generale dono di Dio insieme con tutti i doni innati e acquisiti». Questi
complimenti per il buon Dio possono essere ipocrisie consapevoli (con
questo non vorrei prestar fede volentieri a passi simili dell’Einleitung in
die vergleichende Religionswissenschaft di Max Müller 16); ma possono
anche essere cortesie inconsce, adattamento alla comunità popolare; e
allora appartengono anch’esse all’ambito del mutamento semantico.
(13) Dobbiamo guardarci naturalmente dal credere che tutte queste
85
proposizioni, domande e risposte abbiano avuto lo stesso significato in
tutti i tempi. All’evoluzione della lingua appartiene, come condizione
secondaria concomitante, che le parole subiscano un cambiamento di
significato anche là dove noi non lo sappiamo. E dove lo sappiamo
non siamo sempre coscienti del cambiamento.
Così i Greci hanno certo collegato al pensiero che un legislatore
avesse creato il linguaggio, l’idea infantile che questo legislatore abbia
creato l’unica lingua corretta, ovviamente quella greca. Non solo un
cavallo si chiamava i{ppo", era anche un i{ppo". In questo i cristiani li
superarono di nuovo poiché nella loro dottrina dell’origine divina del
linguaggio era certo insita l’idea di una certa arbitarietà. La volontà di
Dio è eo ipso caso. Fu volere di Dio che ci fossero più lingue; eppure
vi furono più lingue di pari dignità. L’arroganza nazionalistica dovette
essere originariamente estranea al cristianesimo internazionalista. Alla
trovata stravagante di dedurre etimologicamente le lingue dall’ebraico si
pervenne solo più tardi, per via filologica. Non si trattava di un dogma
teologico.
fuvsei – Nel momento in cui si oppose alla tesi che il linguaggio fosse
sorto qevsei (mediante un legislatore) la nuova teoria che esso fosse sorto fuvsei, a concetti ingenui erano mescolati pensieri corretti. Sarebbe
quindi del tutto falso credere i seguaci di Eraclito capaci di elaborare l’idea attuale di uno sviluppo naturale del linguaggio. Riusciamo
a mala pena a immedesimarci nel cervello di coloro che negavano la
creazione artificiale del linguaggio senza sospettare l’elemento incoscio
del processo e che per di più facevano sorgere dalla natura una lingua
“giusta”. Coloro che insegnavano la nascita fuvsei, si interrogavano pur
sempre sull’origine della lingua greca. Anche i nostri linguisti insegnano
lo sviluppo per via naturale; ma essi conoscono dai tempi di Leibniz
l’inconscio dell’attività umana che (14) produce tale effetto e accettano
le singole lingue come dati di fatto. La loro domanda non riguarda più
l’origine dell’unica lingua giusta, e nemmeno l’origine del linguaggio in
generale. La loro domanda è del tutto circoscritta e suona pressappoco
così: attraverso quale evoluzione storica si è giunti a che noi (ad esempio gli abitanti di una zona dell’Altmarkt) parliamo come parliamo, a
che invece gli attuali bantù parlino come parlano.
Alla domanda si riesce a rispondere solo in parte; risalendo ora
a due o tre, ora a cinquanta fino a cento generazioni. Vi sono lingue
giovani e vecchie, come vi sono famiglie che sanno ancora al massimo
come si chiamasse il nonno e cosa facesse, e altre, più orgogliose, che
possiedono ancora notizie dei loro avi. Dietro questi testimoniati sviluppi sta sempre però la paleontologia del linguaggio. E la domanda della
linguistica moderna è così limitata perché si accontenta di notizie così
scarse e accetta senza curarsene le vaghe ipotesi che hanno il compito
di chiarire la preistoria.
86
Gli antichi non potevano quindi intendere come noi l’astratto “il
linguaggio” perché non riuscivano a pensare al di là della loro lingua
nazionale (oltre la quale i Romani coltivavano anche il greco), ma non
potevano nemmeno comprendere il concreto nel linguaggio come i nostri ricercatori che si sono spinti effettivamente fino alla massima concretezza, quasi fino alle onde acustiche. In quanto movimento dell’aria,
il suono della lingua non viene certo determinato matematicamente,
ma sicuramente compreso sul piano fisico.
Ma l’idolatria è innata all’uomo. Egli cerca continuamente di saltare
al di là delle generazioni che conosce, che possono andare da tre a
cento, di risalire fino a quelle innumerevoli che non conosce, egli si
interroga sempre di nuovo sull’origine “del”linguaggio. Ma poiché, se
è un avveduto linguista, non potrebbe certo interrogarsi sull’origine di
una stirpe attualmente parlante, poiché la domanda (15) sull’origine
ad esempio delle radici sanscrite con cui le nostre lingue indoeuropee
devono aver cominciato, suona davvero come uno scherzo infantile,
ogni ricerca sull’origine della lingua non è allora più un’occupazione
che abbia a che fare con un qualcosa di concreto, ma – ciò che non è
ancora entrato in testa – è un ritorno all’astratto: “la” lingua. In questo senso “la lingua” è pressappoco lo stesso di ciò che la precedente
psicologia ha chiamato “la facoltà linguistica”. Quindi la domanda
sull’origine della lingua, il che significa sulle prime attività della facoltà
linguistica, sarebbe la stessa della domanda sull’origine della facoltà
linguistica. Il che pare un assurdo.
La facoltà del linguaggio – Sembra soltanto. Dobbiamo considerare anche il linguaggio tra le altre attività umane allo stesso modo del camminare, del respirare. Per il biologo è un’idea sensata non che l’uomo
cammini, perché ha gambe, ma che abbia gambe perché cammina; non
che l’uomo respiri, perché ha i polmoni, ma che abbia un polmone
perché respira.
Più correttamente: lo sviluppo di uno strumento e la crescita dell’attività procedono parallelamente. Se consideriamo ora lo strumento reale del linguaggio (con strumento linguistico intendo oltre all’apparato
acustico, anche tutti i muscoli e i nervi che ne sono al servizio o al
comando) come espressione fattuale di una facoltà linguistica immaginaria, è certo possibile che lo sviluppo del linguaggio umano sia andato
di pari passo con lo sviluppo degli organi linguistici dell’uomo.
Se ci atteniamo rigorosamente a questa idea, vediamo chiaramente
che – per quanti infiniti luoghi del tempo possiamo percorrere all’indietro alla ricerca dell’origine del linguaggio – non raggiungiamo mai
un punto in cui dovremmo abbandonare l’idea del suono linguistico
concreto, in cui dovremmo interrogarci sull’origine dell’astratto, del
linguaggio.
Mi sembra che il valore di questo punto di vista risieda nella pos87
sibilità di eliminare alcune astrazioni dall’uso scientifico (16). Locuzioni quali “facoltà linguistica” o “il dono del linguaggio” diventano
definitivamente superflue, se viene chiaramente riconosciuto che l’uso
linguistico, vale a dire l’esercizio dell’attività linguistica, ha sviluppato
per primo lo strumento linguistico. Si troverà allora assurdo il concetto
di una “facoltà linguistica” come si trova assurda l’idea di una particolare “facoltà motoria” o di una particolare “facoltà respiratoria”. Certo
vi è maggiore comodità nello spontaneo muoversi dell’animale rispetto
al sostare in attesa delle piante; ma lo strumento del movimento si è
sviluppato col muoversi. Allo stesso modo respirare con i polmoni è
probabilmente più confortevole che prendere l’aria nell’acqua come
fanno i branchiati; ma nessun uomo potrà sorvolare sullo “sviluppo”
graduale di questo “dono”, perché ogni rana ne offre un esempio.
Camminare e parlare – La somiglianza tra il camminare, o altre azioni,
e il parlare diverrebbe più evidente se fin d’ora, con una prospettiva
più precisa, potessimo sempre sostituire l’astratto «linguaggio» con il
termine «parlare», che designa un’attività.
Il nostro punto di vista ha inoltre il merito di far perdere l’antico
senso alla domanda sull’origine “del” linguaggio. L’origine deve essere
posta sempre più indietro e la ricerca sulle radici sanscrite decade a
una storia linguistica del giorno prima. Quando anche io – seguendo
l’invincibile uso linguistico – parlo di un’origine del linguaggio, non
penso con questo a un’origine effettiva che non riusciamo ad avvicinare,
ma a un punto del corso della corrente situato chissà dove all’indietro,
a un punto di quiete, che esiste però solo nella mia rappresentazione.
I movimenti finalistici, che noi riassumiamo nel nome linguaggio
o meglio nel verbo “parlare” (ogni verbo è un concetto ordinatore
dal punto di vista umano in vista di un fine), hanno un loro percorso
generale che dal movimento inconscio passa attraverso il volere conscio
e ritorna all’inconscio, e sicuramente sia nell’evoluzione generale della
lingua come nella lingua (17) dell’individuo. Le espressioni di dolore e di felicità continuano a non provenire dal volere cosciente; non
provengono, per applicare un uso linguistico degli psicologi francesi,
dalla volonté. Nei bambini imparare a parlare e imparare a camminare
sono ugualmente legati alla coscienza; dobbiamo allora ritenere che
anche nello sviluppo genetico della lingua ogni arricchimento, ogni
nuova sottile metafora sia stata connessa alla coscienza. Alla fine però
ogni lingua abituale diventa tanto automatica che al profano riesce inizialmente difficile vedere solo nei movimenti la realtà della lingua. In
fondo egli nota solo i risultati dei movimenti, i suoni, non i movimenti
stessi. Il parlare o il pensare, ogni conoscere, rimangono sempre legati
al volere conscio o inconscio, perché ogni conoscere ha la sua origine
ultima nell’attenzione suscitata dall’interesse individuale e nell’attenzione ereditata dall’interesse dei predecessori.
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Se gli uomini non avessero imparato a parlare, e uno solo di loro
parlasse, sarebbe naturale per un osservatore interpretare il fenomeno
come una successione di movimenti e difficilmente gli verrebbe in
mente di dare a questi movimenti un nome comune. Così, un bambino posto di fronte a un bue che muggisce, percepisce chiaramente la
fatica dell’animale. Al contrario i movimenti linguistici di un individuo
che fosse il solo a parlare tra simili privi di linguaggio non sarebbero
affatto linguaggio. Così non si può proprio immaginare un unico uomo
che parli tra compagni senza linguaggio, come un dio parlante che per
primo doni agli uomini il linguaggio. Oppure sarebbe come l’abbonato
di una estesa catena telefonica che non avesse un secondo abbonato. I
suoi movimenti finalistici non sarebbero linguaggio. I suoi movimenti
finalistici diverrebbero linguaggio solo attraverso la caratteristica, che
va oltre l’individuo e la realtà, di essere uguali in un gruppo di uomini, di essere perciò comprensibili, di essere utili. Solo come fattore
sociale la lingua, che prima dell’invenzione (18) dell’arte della stampa
non era neppure raccolta in un vocabolario, diviene qualcosa di reale. Il linguaggio è una realtà sociale; a prescindere da questa, è solo
un’astrazione da determinati movimenti.
Non ho bisogno di aggiungere che gli usuali concetti di volizione
e di volere sono a loro volta astrazioni alle quali non corrisponde nulla di reale. Così ogni movimento della lingua si riconduce alla fine a
un impulso alla comunicazione che andrebbe ottimamente aggiunto
all’impulso a respirare, all’impulso ad alimentarsi (del quale l’impulso
a respirare sarebbe solo una sottospecie), all’impulso sessuale (di cui
l’impulso al nutrimento sarebbe solo un servitore), all’impulso al gioco
e all’impulso alla percezione. L’impulso alla percezione si potrebbe allo
stesso modo dividere in impulso alla visione, impulso a udire ecc. Ma
tutti questi impulsi derivano solo dall’impulso umano a classificare, il
quale è degno di quelli, il che significa per l’economia della memoria
umana; nella realtà psicologica può anche non esserci alcun impulso
al di fuori della volontà individuale di vivere, per la quale poi si trova
naturalmente la designazione di impulso alla sopravvivenza.
Da nessuna parte la lingua materna – Non ci sono due uomini che parlino la stessa lingua. Nei momenti di malumore più profondo, ognuno
avrà pensato almeno una volta che nessun altro possa comprendere la
sua lingua. Metaforicamente ognuno afferra questa proposizione. Tuttavia non si concede facilmente che essa contenga una verità scientifica
obiettiva. Una verità che si potrebbe esprimere anche così: ciascuno
«domina» un frammento diverso della madrelingua comune. Scegliere
quest’ultima parola mi riesce difficile. Capita quotidianamente infatti
di comprendere una porzione più grande della nostra madrelingua e
di riuscire a parlarne una più piccola; come del resto si comprende in
genere un dialetto vicino, ma si riesce a parlare solo il proprio.
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Alla base di questa riflessione sta il concetto di una lingua comune
a un popolo, (19) la madrelingua. Ma dove questa lingua è realtà? dove
mai? non nel singolo. Perché chi comprende solo una parte del patrimonio di parole e di forme, usa solo una piccolissima parte di quello
che comprende. Non nei libri. Perché altrimenti non ci sarebbe stata
nessuna lingua prima dell’invenzione della scrittura. Dappertutto nei
libri c’è, al massimo, una raccolta di parole e regole, e le letterature che
casualmente si sono sviluppate; non c’è mai però neppure la possibilità
di raccogliere una lingua. Dov’è dunque realtà l’astratto “linguaggio”?
Nell’aria. Nel popolo, tra gli uomini.
Nessuno può vantarsi di conoscere anche solo la propria lingua.
Jacob Grimm non ha sempre osservato le sue proprie regole. Un ����
Goethe usa alcune parole con incertezza, fa “errori linguistici”. In breve,
nessuno conosce tanto precisamente la lingua tedesca da essere sicuro
di ogni forma d’uso, da non trovare ogni tanto parole che non ha mai
usato, mai sentito o letto. […]
Linguaggio e socialismo
Il linguaggio e il suo uso – (24) Ma questo è proprio lo straordinario
gioco di prestigio del linguaggio, cioè che il fondamento e il segno della
sua miserabile povertà vengono ritenuti enorme ricchezza, e ritenuti
a ragione dalle masse degli uomini e dagli uomini di massa: perché il
linguaggio è un oggetto d’uso che guadagna valore con l’estendersi
dell’uso. È facile chiarire il prodigio. Tutti gli altri oggetti d’uso vengono completamente consumati dall’uso, come gli alimenti, oppure
logorati, come gli strumenti e le macchine. Se il linguaggio fosse uno
strumento, verrebbe anch’esso logorato o consumato. Soltanto però le
parole vengono consumate, logorate, messe da parte, svalutate. Ma in
questo modo acquistano valore per le masse. Il linguaggio non è però
un oggetto dell’uso, nemmeno uno strumento, non è affatto un oggetto, non è niente altro che il suo uso. Linguaggio è uso del linguaggio.
Allora, che l’uso aumenti con l’uso non costituisce più un prodigio.
Questo fatto, che non poteva certo passare del tutto inosservato, ha
subito a partire da Hegel tali tentativi di distorsione che si è annoverato
il linguaggio, insieme con l’arte, la religione e le istituzioni statali, tra
le creazioni del cosiddetto spirito oggettivo. Propriamente spirito è il
soggettivo nell’uomo: nel momento in cui ora lo si scaraventa fuori dal
singolo uomo e lo si chiama oggettivo, ci si costruisce un nuovo dio,
con cui i socialdemocratici dovrebbero trovarsi d’accordo. Questo spirito poi pensa vuole e fa quello che la massa pensa vuole e fa. In verità il
fatto che si presenta con parole così altisonanti come spirito oggettivo,
non è altro che la dipendenza del singolo uomo dal linguaggio che egli
ha ereditato dalle masse dei suoi antenati che sono succedute le une
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alle altre, e che ha valore d’uso per lui proprio perché è una proprietà
comune di tutti i compagni del popolo. Gli oggetti d’uso rimangono
inalterati (25) quando non vengono consumati dall’uso degli uomini o
dall’uso involontario degli agenti naturali. Il linguaggio per contro senza
uso muore, poiché non è un oggetto d’uso, ma esso stesso uso. Allora
è di decisiva importanza che tutte le parti della lingua siano sempre
in uso in qualche luogo tra il popolo. Il singolo uomo non usa forse
per anni solo la decima parte delle parole che il linguaggio gli mette
a disposizione e solo una minima parte delle combinazioni di queste
parole? Il singolo, come si è detto, non domina la sua madrelingua.
Altrove è certo in uso un altro decimo e di tanto in tanto colpiscono
l’orecchio del singolo uomo tanti centri di associazione linguistica dei
decimi non usati che alla fine una parte molto più ampia dell’intera
lingua è continuamente a disposizione nell’esercizio passivo.
Linguaggio, una regola del gioco – Il comunismo è potuto divenire
realtà sul piano del linguaggio, poiché il linguaggio non è qualcosa
di cui ci si possa impossessare; il possesso comune è possibile senza
inconvenienti, poiché il linguaggio non è niente altro che l’affinità o
la volgare comunanza 17 della concezione del mondo. Le masse degli
uomini e gli uomini di massa si rallegrano stupiti di tale possesso e
non sospettano che si tratti di un’illusione. Anche luce e aria sono in
comune, ma esse sono qualcosa, e ogni raggio di calore, ogni atomo
d’aria che qualcuno consuma viene sottratto a un altro. Luce e aria
sono pur sempre valori. Il cittadino li deve pagare cari. Il linguaggio è
un valore solo apparente, come una regola del gioco che diventa tanto
più cogente quanti più giocatori vi si sottomettono, una regola però
che non vuole né cambiare, né comprendere il mondo della realtà. Nel
gioco di società del linguaggio, che si estende a tutto il mondo e quasi
lo domina, il singolo è contento di pensare assieme a milioni di persone seguendo le stesse regole, quando impara ad esempio a rispondere
ai vecchi enigmi ripetendo la nuova risposta “progresso”, quando la
parola “naturalismo” è diventata di moda, oppure quando le parole
“libertà”, “progresso” lo eccitano e lo dominano. La storia viene fatta
da nature forti che in questo gioco di società mondiale gridano le parole alle masse degli uomini. (26) Queste nature forti vanno bene per
il mondo. La storia spirituale viene fatta da uomini eccezionali che non
vanno bene per il mondo, i quali, discostandosi dal gioco, considerano
il mondo diversamente da come lo hanno considerato le masse dei
predecessori e da come la lingua ereditata pretende, da uomini che,
senza eredità e origine, credono di conoscere il mondo in modo nuovo
e possono a mala pena ammettere che anch’essi, con il sacrificio della
propria vita, non hanno escogitato che piccole modifiche delle regole
del gioco per il gioco di società del mondo. Li si possono considerare
come variazioni casuali che rompono la rigida ereditarietà della specie
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e forse possono contribuire a un lieve cambiamento della specie. Essi
non sanno che farsene della proprietà comune del linguaggio, e la
società, ciò che è comune, non sa che farsene di loro.
Il linguaggio, non un’opera d’arte – Si è chiamato così spesso il linguaggio una meravigliosa opera d’arte che la maggioranza degli uomini ha
considerato davvero questa massa nebulosa e fluttuante, che confluisce
in un concetto confuso, come un’opera d’arte. Solo che la stessa opera
uno l’ha considerata una distesa erbosa, un secondo un tempio antico,
un terzo il ritratto del nonno.
Il linguaggio non può essere un’opera d’arte già per il fatto che non
è la creazione di un singolo. Come abbiamo già detto, io non posso
veramente rappresentarmelo, ma posso pensare a parole che l’umanità
abbia vissuto per migliaia di anni senza parole e senza concetti, senza
dubbi e senza menzogne come il mondo animale, e poi all’improvviso
sia nato un uomo gigantesco, un uomo grande come una catasta tra
uomini alti un cubito. E costui sarebbe stato un poeta. Perché il linguaggio non fu mai un’opera d’arte, ma pur sempre il mezzo artistico
della poesia. Egli avrebbe, per sé e del tutto da solo, come se avesse
voluto scaricare la tensione in un tuono, desiderato con ardore, inventato e completato il linguaggio. Allora sarebbe diventato un’opera
d’arte. L’opera di un Uno. Anche un monologo però. Gli uomini alti
un cubito non lo avrebbero capito. Il linguaggio nato dal bisogno di
scaricare un tuono sarebbe potuto essere un’opera d’arte. Il linguaggio nato da un istinto ordinario della comunicazione è un brutto (27)
lavoro di fabbrica, raffazzonato da miliardi di lavoratori a giornata.
Il linguaggio non può essere un’opera d’arte perché un singolo non
può averlo creato, e non è neanche un’opera d’arte perché non è stato
creato per un bisogno grande di un uomo grande come una catasta, ma
per i piccoli bisogni di tutti. Il linguaggio è cresciuto come una grande
città. Camera su camera, finestra su finestra, abitazione su abitazione,
casa su casa, strada su strada, quartiere su quartiere, e tutto è inscatolato in qualcos’altro, legato all’altro, spalmato sull’altro, attraverso
tubi e fossi, e se gli si pone davanti uno zulù e gli si dice che quella
è un opera d’arte, allora quell’asino ci crede, eppure a casa ha la sua
capanna, rotonda e libera.
Volgarità del linguaggio – Se però il linguaggio non è un’opera d’arte,
proprio per questo è fino a oggi l’unica istituzione della società che
effettivamente si fonda su basi socialistiche. Davvero la città, come il
linguaggio, ha i suoi tubi del gas che portano luce avvelenata in tutte
le stanze, i tubi di piombo che portano un’acqua infetta in tutte le
cucine, le condutture che fanno gorgogliare vivacemente sotto terra la
sporcizia di milioni di uomini in bella simmetria con la vita di superficie verso nuovi territori dell’umanità a venire, le marcite. Ma caligine,
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acqua putrida e letame non sono ancora dappertutto bene comune.
L’esattore delle tasse regola il rubinetto e pretende denaro. Per questo
il linguaggio è una cosa ancor più divertente. Per dirla chiara: nei suoi
tubi arrugginiti scorrono insieme luce e veleno, acqua pura e contagio
e schizzano fuori dalle giunture gratis e dappertutto in mezzo agli uomini; l’intera società non è altro che un’enorme opera idraulica gratuita
costruita per questo miscuglio; ogni singolo è un doccione, e di bocca
in bocca la sorgente torbida si vomita addosso e si mischia gravida e
contagiosa, ma infruttuosa e infame, e per questo non c’è proprietà e
nemmeno diritto e nemmeno potere. Il linguaggio è un bene comune.
Tutto appartiene a tutti, tutti ci fanno il bagno, tutti lo respirano, e
tutti lo producono da sé.
(28) Gli utopisti sperano e insegnano che un giorno l’intera natura
diventerà comune così come lo è il linguaggio, solo quando ogni proprietà sarà comune e a buon mercato come il linguaggio. […]
La superstizione della parola
(158) Platone e altri buoni filosofi del Medioevo si richiamano spesso ai versi di Omero, come se il poeta fosse un’autorità per il mondo
reale. Quei versi non sono per loro citazioni ornamentali, né sostegno
morale delle loro argomentazioni, ma sono davvero qualcosa come principî dottrinali. Oggi siamo diventati più raffinati. Ma le parole che il
popolo ha escogitato per necessità o per superstizione vengono sempre
ancora trattate come se l’esistenza di una parola fosse una dimostrazione per la realtà di quello che designa.
Il termine comunissimo “significare (bedeuten)” ci pare una parodia dello sviluppo del linguaggio. Dal significato originario “produrre
qualcosa mediante un’indicazione (Hindeutung)”, ad esempio indicare
(bedeuten) a qualcuno di fare qualcosa, è diventato con il tempo una
designazione per tutti i casi in cui si indica qualcosa d’altro, di estraneo, di impreciso. Il linguaggio si è sviluppato mediante metafore, così
che una parola finisce col significare qualcosa d’altro da quello che
significa. Adesso per “significativo (bedeutend)” si intende importante;
ancora Goethe, che amava molto il termine, intende per bedeutend
qualcosa come tipico, caratteristico. Sarebbe bene circoscrivere questo termine abusato alla spiegazione delle metafore; ad esempio nella
proposizione “lei contava diciassette primavere”, “primavera” significa
anni.
La superstizione umana possedeva però in “significare” una parola
perfetta per questo suo indicare un segno in un evento futuro o in
un fatto nascosto; e poiché aveva la parola, la usava. Allora dietro ai
fenomeni della natura si nascose la potenza degli dei che rendevano
noto il futuro e l’occulto con segni e prodigi, così come i sacerdoti
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rivelano con parole il futuro e l’occulto. Allora ci si chiese: cosa significa questo terremoto? Cosa significa questo mostro? Cosa significa
questa cometa?
(159) Oggi si è fatta tremenda chiarezza e si sono consegnati terremoti, mostri e comete alla scienza. Ma se si trova da qualche parte
nell’uso linguistico una parola, ormai debole e vecchia, che non si
comprende più, si chiede allora con la stessa superstizione: cosa significa anima? cosa significa ragione? cosa significa materia? Quando
la geologia insegnava ancora che Dio aveva creato le rocce e insieme
aveva subito impresso i calchi di piante e animali, ci si chiedeva: cosa
significano questi prodigi della natura? Ora i calchi di piante e animali
si spiegano con la formazione della terra e con la storia dell’evoluzione
delle specie e si chiede: cosa significa evoluzione?
“rebus” – La maggioranza degli uomini soffre della debolezza di credere che, perché c’è una parola, la parola deve esserci per qualcosa;
perché c’è una parola, alla parola deve corrispondere qualcosa di reale.
Come se ogni disgregazione in una pietra debba essere il calco di una
pianta! Oppure come se una linea scarabocchiata per caso da un pazzo
debba sempre essere un rebus con una soluzione.
La lingua viene usata in generale proprio così. Non solo la gente
comune e chi – come si dice – abbia anche solo una mezza cultura
acchiappa al volo parole nuove e straniere che non comprende, per
ricamare il suo modello di chiacchiera con smancerie o con affettazione, ma anche dotti e ricercatori e pensatori hanno da sempre cavillato
su testi antichi in disfacimento per sciogliere enigmi che vi avevano
messo dentro loro. Si è creduto seriamente di trovare e di risolvere
rebus nei disegni di singoli fiori come negli scheletri di teste di pesce.
Questi erano però passatempi per metà coscienti. Si sono volute spiegare le linee decorative dell’antica America con l’aiuto dei caratteri
ebraici. Queste erano pazzie. Si è voluto da sempre applicare – e lo si
fa ancora – il pensiero più intenso di uomini vivi, cioè le associazioni
delle loro esperienze vive, a resti di parole di generazioni morte che
si perdono nella lontananza del tempo, si sono voluti da sempre convertire in nuovo alimento gli escrementi degli antichi con l’aiuto di
succhi gastrici di organi viventi. E qui non si fa (160) nient’altro che
voler risolvere senz’altro un rebus che non lo è, oppure del quale non
si capisce la lingua. Come ad esempio quando ricercatori in tutto e
per tutto moderni continuano a cercare di definire l’anima, lo scopo,
l’organismo, la vita, la morte oppure anche il linguaggio, le categorie,
le radici, semplicemente perché esistono le parole.
Deve essere un perfetto folle chi ha inserito il giocattolo dei rebus
nelle nostre riviste di passatempi. Certo sarebbe bello parlare con i
fatti invece che con le parole, rebus invece che verbis. Ma il suggeritore
di rebus semplifica soltanto la comoda scrittura delle lettere. Io credo
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seriamente che siano malati di spirito quelli che compongono i nostri
orrendi rebus (eccetto gli scherzi); e che siano solo bambini quelli che
– per antica consuetudine – si occupano delle opere di questi pazzi.
Feticismo del linguaggio – Nelle scienze il feticismo delle parole viene
praticato molto di più che nell’uso linguistico comune; come anche
il teologo che costruisce un sistema dal fantasma della superstizione
popolare, o che lo porta avanti, pratica un feticismo peggiore del semplice contadino che semplicemente crede al fantasma.
Noi siamo portati più facilmente a ritenere i teologi del Medioevo
o i teologi degli antropofagi come teorici di un sapere morto, come
lo sono del resto anche i professori attuali di teologia; vediamo anche
chiaramente che nella storia delle scienze si sono praticate mistificazione e idolatria con concetti che oggi sono invecchiati, ma non siamo
disposti ad accettare con facilità lo stesso per i concetti più elevati
della scienza del momento. Eppure la personificazione e la deificazione
è oggi la stessa dei tempi antichi. Le singole “forze” giocano oggi lo
stesso ruolo delle qualitates occultae di un tempo. E anche se gli studiosi ci sbattono il naso, negano l’errore della personificazione e così
continuano a pensare, appena si credono non osservati, nello stesso
modo infantile. Per il medico le singole (161) malattie sono forze personali, nonostante Virchow, personificazioni che egli combatte. Per lo
scienziato della natura le specie diventano personificazioni, nonostante
Darwin, anche se non lo si vuol riconoscere. L’errore diventa ancor più
visibile laddove la percezione di sé esprime in maniera incontrollabile
le rappresentazioni di fondo. La psicologia pullula di personificazioni.
Ad esempio all’anima umana vengono attribuite tre personificazioni:
l’intelletto, la ragione e la fantasia. Neppure teste altrimenti libere –
che nell’introduzione o nel capitolo finale o in un qualche altro luogo
appropriato esprimono il loro miglior punto di vista – riescono facilmente a liberarsi dall’immagine che ognuna di queste tre sottodivinità
presieda a una determinata attività dell’anima come il presidente di
una sezione ministeriale. È esattamente lo stesso processo per cui i
Greci deificarono per i grandi ambiti del vivere determinate divinità
protettrici e poi per le sezioni più piccole personificarono ninfe speciali
come le driadi e le oreadi.
Il concetto di un dio panteistico non è per nulla più metaforico
del concetto di un dio monoteistico o politeistico. Così nella vita del
popolo il concetto di sovranità si è impersonato dapprima nel capo
della stirpe, poi nel re della comunità popolare, poi nell’insieme dello
stesso popolo; la sovranità non era però altro che il bisogno di tutti di
proteggersi dalla bestialità del singolo. Patriarchia, monarchia e democrazia (panarchia) furono forme diverse dello stesso bisogno. Il grande
errore dell’anarchismo sta nel non vedere la bestialità degli uomini, nel
negare il bisogno della costrizione, nel credere di aver superato questo
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bisogno per aver scosso i fondamenti logici e la legittimità delle singole
forme di potere. Nelle prime democrazie (panarchie) moderne venne
in voga anche il panteismo sistematico. […]
Pensare e parlare
(176) Il più grave ostacolo alla conoscenza della verità è che gli
uomini tutti credono di pensare, mentre parlano soltanto, ma anche
che i teorici del pensiero e gli psicologi parlano tutti quanti di un
pensiero per il quale il parlare dovrebbe essere nel migliore dei casi
lo strumento. Oppure la veste. Ma questo non è vero; non c’è pensare
senza parlare, cioè senza parole. O meglio: non c’è proprio un pensare, c’è solo il parlare. Il pensare è il parlare valutato al suo prezzo
di mercato.
Se solo potessi dire forte abbastanza come sono comuni le parole
di tutti i giorni, le parole della lingua comune tra uomini comuni! Le
parole sono aringhe sotto sale, merce vecchia conservata. Chi crede di
pensare ha fame di comunicazione, e per questo gli piace la vecchia
merce conservata sotto sale. E se si vuole, si può mettere a confronto il
pensiero con la soluzione salata delle aringhe, che bagna tanto meglio
la roba conservata quanta meno merce c’è ancora nell’estensione e nel
concetto del grosso barile; la soluzione, in sé senza valore e senza forza, considera sé stessa come la cosa principale – e in essa i garzoni di
bottega e le cuoche e altri uomini pensanti rimestano con dita sporche
per acchiappare una misera aringa e poi leccar via dalle dita il liquido, per poter dire in tono solenne con slancio 18 e serietà da bottega:
questo sa di sale, questo è il pensare. E gli uomini che parlano sono il
sale della terra.
Peggio ancora che con l’estetica del pensare va con l’etica. La medicina più antica, che ancora non sapeva degli effetti dell’acido carbonico espirato, attribuiva la pericolosità dell’accalcarsi degli uomini
a un veleno, l’antropotoxina. La vera antropotoxina o veleno umano
è il parlare.
Non si dà un pensare al di là del parlare, una logica al di là della
teoria del linguaggio, un logos al di là delle parole, idee al di là delle
cose, come non esiste una forza vitale al di sopra del vivente, un calore
al di sopra della sensazione di calore, (177) la caninità al di sopra dei
cani. E chi trova diletto in parole astratte, può sempre parlare di una
facoltà del parlare che porta al parlare. Il suo sapere ne guadagnerà
tanto quanto il sapere che gli animali si muovono liberamente perché
sono mobili. Oppure meglio ancora: che gli animali si muovono liberamente per rendere possibile la motilità. Gli uomini parlano perché
(essi pensano) possiedono la facoltà di parlare. Gli uomini parlano per
mostrare la loro facoltà di parlare (per poter pensare).
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L’errore è nato proprio dal fatto che si è attribuito al pensare, alla
facoltà di parlare (Sprachigkeit) – come a tutti gli altri termini che in
tedesco finiscono in -heiten, -keiten e -schaften – un certo ché di fantasmatico, di divino, di sovrumano, come ficcare un diadema su un corpo
senza testa. In questo caso allora le -eiten, -keiten e -schaften, e con loro
naturalmente il pensiero, dovrebbero essere qualcosa di ultra decoroso.
Ma di solito il parlare è in tutta evidenza un cicaleccio, nei casi migliori un comando da cameriere, una chiacchiera. Allora dietro il parlare
sciocco ci deve essere il pensare, l’astratto acefalo con il diadema del re.
Suona terribilmente raffinato: il pensare. Chi pensa, parla. E viceversa:
chi parla, pensa. Se ne deve desumere come sia comune il pensare.
L’identità di pensare e parlare dev’essere un tesi molto antica, se già
l’asserzione di Platone che il pensare è un parlare interiore conteneva
un giudizio su due concetti definiti in modo chiaro; infatti non se ne
viene a capo con la relativa qualità del parlare ad alta o a bassa voce,
tanto meno da quando sono stati segnalati sentimenti motorii nel parlare muto o nel pensare articolato. L’identificazione di pensare e parlare è però sempre un’idea così arrischiata che anche in questo libro,
ogni volta che il pensare è stato identificato con il parlare, la voce della
coscienza linguistica ha poi subito messo in guardia di fronte a questa
identità. La critica del linguaggio è suicida, perché la critica scaturisce
dalla ragione, dunque dal linguaggio. Già nel 1784 19 Hamann scriveva
(178) a Herder: «Anche se io avessi l’eloquenza di Demostene, non
dovrei che ripetere tre volte una sola parola: ragione è linguaggio –
lovgo". Rosicchio questo osso con midollo e lo rosicchierò fino alla
morte». Non è semplice modestia se qui Hamann parla del suo “osso
con midollo”, e poi di nuovo del suo “letamaio” (in contrapposizione
al “giardino delle delizie” di Herder; con l’osso midollare pensa certamente anche all’os médullaire del Prologo al Gargantua e, in aggiunta,
al cane filosofico di Platone). È di più. La critica del linguaggio è più
sospetta di ogni altra disciplina scientifica. Lo strumento, il linguaggio, si ribella, vuole intervenire. Anche nella proposizione: ragione è
linguaggio. La cosa è così difficile perché anche oggi non possediamo
ancora una chiara definizione né del parlare né del pensare. L’incertezza sull’essenza del linguaggio potrebbe ancora andare, perché se
non altro per gli scopi pratici si ha all’incirca una rappresentazione
nell’usare la parola “linguaggio”. L’essenza del pensiero è invece così
inafferrabile che ogni volta ci si rappresenta qualcosa di diverso, a
seconda che si dia al pensiero questo e quel predicato. Se si dice “il
pensare è linguaggio”, nel pensare ci si rappresenta proprio subito, o
lo si anticipa immediatamente, proprio il parlare.
Per un certo tempo ho pensato di risolvere il problema accostando
i termini: il linguaggio sarebbe identico alla ragione, ma non all’intelletto. Con questo avevo in mente la distinzione usuale nella forma più
completa e decisa datagli da Schopenhauer. La spiegazione dà l’im97
pressione che la ragione sia un pensiero in concetti o in parole: tanto
più se la ragione viene derivata dal sentire (vernehmen) e sentire=udire
pare chiaramente indicare il comprendere attraverso la comunicazione
linguistica. Ma sentire (vernehmen) nella lingua più antica non significava niente altro che il percepire (Wahrnehmen), cosicché la bella
etimologia ci lascia in asso.
Ragione e intelletto – Atteniamoci nondimeno alla comoda distinzione,
che certo non è l’uso linguistico generale, ma lo è di molti pensatori,
(179) cioè alla distinzione seguente: la ragione comprende le attività
mentali che si realizzano in concetti o parole, l’intelletto le attività
mentali che hanno come fine di volta in volta l’orientamento nel mondo della realtà attuale o nel presente attuale; sembra così possibile, a
un primo sguardo, identificare ragione e linguaggio, e lasciar invece
lavorare l’intelletto senza linguaggio. Si sarebbe ottenuta o avviata così
una bella definizione, se solo le cose stessero in modo così semplice.
Ma in questa distinzione tra ragione e intelletto interviene purtroppo l’antico pregiudizio delle facoltà dell’anima personificate. Se si vuole
rendere in immagine l’intera distinzione, in un qualche posto del castello siede lo spirito umano come padrone, e ragione e intelletto sono
tutti e due suoi ministri, per il mondo esterno e per quello interno. Se
si riconosce poi lo spirito, insieme a ragione e intelletto, come qualcosa
di divenuto (meglio: come parola che designa un divenire eterno, come
la storia designa ciò che eternamente avviene), come una parola per
le combinazioni in evoluzione di dati ricavati dai sensi in evoluzione,
allora le competenze di ambedue queste facoltà dell’anima si spostano
in modo davvero strano.
Si può poi sempre identificare con il linguaggio l’attività mentale
in parole o concetti, ma se avremo riconosciuto il linguaggio come
la memoria dell’umanità, la ragione in questo senso non sarà niente
altro che l’applicazione della memoria individuale, che ha ereditato e
acquisito la memoria dell’umanità. La fisiologia, anche la più recente,
ci pianta in asso. Si è definita la memoria, intesa qui come memoria
individuale acquisita, come la disposizione di determinate parti nervose a rievocare le impressioni sensibili che sono state percepite. La
coscienza ereditata deve allora essere un tipo di disposizione che però,
ritornando al nucleo dell’ovulo umano, deve basarsi su un’altra successione ereditaria rispetto alla memoria individuale ereditata. Come che
sia, nessun uomo avrebbe raccolto da solo esperienze sufficienti (180)
a partire dalle quali costruire l’enorme impalcatura della sua lingua
materna (nelle classificazioni latenti della quale è insita a priori tutta la
sua conoscenza del mondo e tutto il suo concludere, dunque tutto il
suo pensare); la parte di gran lunga maggiore della sua lingua, quella
che egli ritiene memoria acquisita, egli l’ha ereditata; per questo l’uomo
qualunque usa la sua lingua in maniera così priva di pensiero; e per
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nulla vale più che per il linguaggio il detto “quello che hai ereditato
da tuo padre, acquistalo per possederlo”. C’è nell’uso del linguaggio
una massa spropositata di beni ereditati, non acquisiti, non vagliati,
che vengono usati sulla fiducia. Si potrebbe esprimere tutto questo
anche con una facezia storico-filosofica: che l’uomo pensante dovrebbe
utilizzare solo concetti acquisiti, che egli però inconsciamente esprime
molto più spesso concetti innati. Naturalmente non penso con questo
ai concetti innati della più antica psicologia, ma a ciò che, nel nostro
linguaggio quotidiano, è insito nelle classificazioni e nelle astrazioni ereditate, non vagliate. Chi lo abbia chiaro non dubiterà che noi, fossimo
anche dottori in filosofia, usiamo parole come pianta, animale, cielo,
luce, parlare, pensare, ragione, intelletto, vita, morte, salute, malattia
e così via, proprio allo stesso modo in cui il pulcino appena uscito
dall’uovo becca il seme, come il merlo costruisce il suo nido. Le attività
mentali degli animali classificate come inferiori all’intelletto umano le
chiamiamo istinto; le attività mentali in parole, classificate come attività superiori dell’intelletto umano, le chiamiamo ragione. Ma già a un
primo approccio abbiamo imparato che in questa ragione è insita una
massa di attività mentali ereditate, non acquisite individualmente, non
vagliate, quindi istintive. Non mi si obietti ora di nuovo che la lingua
è ancora qualcosa di diverso dalle sue parti, che l’astratto “linguaggio”
è qualcosa al di fuori delle parole. Se si tolgono via da un edificio
tutte le pietre e tutto il resto del materiale, può rimanere un’immagine
mnemonica, ma l’edificio non c’è più. Il linguaggio (181) in sé è una
non-cosa senza essenza (ein wesenloses Unding 20) e può sempre ancora,
se diverte qualcuno, essere posto come uguale al pensiero.
Pensare senza parlare – Ora però si effettuano molto spesso operazioni
intellettuali senza l’intervento del linguaggio e sono tuttavia operazioni
mentali. Quando un ingegnere deve costruire un ponte di cento metri,
usa certo abitualmente il linguaggio, ma solo finché formule e simili
facilitano il lavoro. Se avesse a disposizione travi della lunghezza necessaria e una forza fisica adeguata, lavorerebbe in silenzio, in un senso
diverso rispetto agli osservatori. E di fatto la vera e propria costruzione
del ponte si realizza benissimo ancora senza parole, le ordinazioni alle
singole fabbriche richiedono tutt’al più un paio di espressioni tecniche
e di cifre. Questo è lavoro dell’intelletto. Se un uomo oppure un cane
saltano un fosso, misurano la distanza senza parole, il che è ancora
lavoro dell’intelletto. Se l’uomo o il cane vedono una fragola o una
lepre al di là del fosso, e così hanno solo interpretato una modificazione sulla loro retina e l’hanno proiettatata al di là del fosso, quello
che li attira è di nuovo lavoro dell’intelletto. Tutte le attività mentali
dell’intelletto si riducono a quest’ultimo tipo di lavoro intellettuale,
all’interpretare le impressioni dei sensi (anche il semplice vedere, sentire, ecc. è, come ora sappiamo, lavoro dell’intelletto, un interpretare
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stimoli, che diventano sensazioni solo attraverso l’intelletto). Questa
attività non è però niente altro che una ereditata capacità di adattamento dell’individuo agli stimoli esterni, a ciò che noi chiamiamo
realtà. Senza concetti o parole non se la cava né l’uomo né il cane.
Rapporti di grandezza e immagini mentali sono rappresentazioni ereditate, e in essi ci manca la coscienza di parole e concetti, solo perché
queste attività intellettuali sono state esercitate all’infinito, da quando
esistono organismi sulla terra, e perché queste attività in questo modo
sono diventate automatiche. C’è soltanto una rappresentazione che è
stata ancor più esercitata, che è diventata nostra solo attraverso innumerevoli esperimenti (182): la più alta rappresentazione che costruisce
il mondo, il mondo della realtà là fuori. Questa rappresentazione ci
risulta comicamente indimostrabile, perché incessantemente dimostrata. Ogni volta che mangiamo, dimostriamo che il mondo esterno può
diventare mondo interno. L’attività dell’intelletto ci sembra priva di
concetti, perché non c’è sguardo e movimento delle dita senza che si
metta in pratica il concetto di spazio ecc. Se il fosso che un uomo deve
saltare è largo un metro, cioè non più largo del passo umano che egli
ha praticato da sempre, l’uomo salta al di là senza pensarci; il suo intelletto lavora automaticamente. Se il fosso ha una larghezza inusuale,
l’uomo ci pensa prima di saltare, e il cane forse abbaia. Se la distanza è
addirittura di cento metri e l’ingegnere non è così esercitato per questa
larghezza da compiere automaticamente il salto, allora l’intelletto non
lavora più in silenzio: l’ingegnere pensa e scrive cifre.
Soltanto la natura non ha nessun intelletto, nessuna ragione, nessuna
lingua. Chi potesse prendere la natura come maestra, sarebbe saggio
senza linguaggio. «Natura – dice Spinoza nel Tractatus teologico-politicus, i 21 – nobis dictat, non quidem verbis, sed modo longe excellentiore». Noi però non possiamo scrivere quello che la natura ci detta.
Anima e sensi
Zufallssinne – (327) Forse riusciamo a fare un passo avanti oltre la
tautologia se ci serviamo del concetto che ci è proprio, quello di sensi
accidentali. Forse su questa strada impariamo quello che nel migliore
dei casi possiamo farcene del concetto di anima.
Il nostro nuovo concetto di “sensi accidentali” si contrappone alla
concezione, assunta inconsapevolmente sia dai filosofi che dagli uomini
più semplici, che da un lato vi sia il mondo, dall’altro lato l’uomo con
organi adeguati per l’insieme dei fenomeni del mondo. In questa rappresentazione la cultura filosofica non cambia granché. Che il contadino
riconosca che il guanto si adatta alla mano, oppure che Kant riconosca
che la mano (il mondo dei fenomeni) si adatta nel guanto (l’intelletto),
dal nostro punto di vista è indifferente. Kant pensa, proprio come il
100
contadino, che intelletto e mondo sono fatti l’uno per l’altro come il
guscio per la chiocciola, come (328) i rispettivi organi genitali di una
specie animale, come la scimitarra curva e la guaina curva. A mio parere le dispute metafisiche vecchie di millenni su come sia da spiegare
l’accordo tra mondo esterno e vita interiore, a mio parere gli enormi
errori metafisici, da quando esistono il teismo, l’occasionalismo e il darwinismo, dipendono dal fatto che nessuno vuole accorgersi della natura
dei sensi accidentali, dal fatto che nessuno finora si è mai accorto di
quanto poco il mondo e i nostri poveri cinque sensi siano adatti l’uno
agli altri, di come piuttosto gli organismi abbiano sviluppato questi
disperati cinque sensi nei loro bisogni vitali, per adattare sé, cioè la
loro vita e quella della loro prole, alla vita che li circonda. Il mondo
esterno è un oceano di realtà e di possibilità, di elementi e di forze,
forse di possibilità divenute reali. Cosa ne sappiamo? I nostri sensi non
bastano per una qualche conoscenza della realtà nemmeno nell’ambito
della semplice chimica fatta in casa. A malapena distinguiamo l’arsenico
dallo zucchero senza ricorrere allo stratagemma di far giocare un organo di senso contro l’altro. Mediante questo e altri stratagemmi siamo
arrivati a distinguere all’incirca ottanta elementi; noi ci rendiamo conto
della brutale assurdità di questa cifra e non sappiamo come cavarcela e
che pesci pigliare quando all’improvviso un inglese astutamente scopre
nell’estensione più ampia di tutte le sostanze, nell’aria, nuovi elementi.
Dunque nemmeno per la spigolosa sfacciataggine (die Eckigkeit und
Dreckigkeit) dell’atomismo chimico bastano i nostri sensi. Nemmeno
per le forze! Secondo l’attuale concezione dei fisici qui fuori ci sono
ovunque oscillazioni, dappertutto, all’infinito. Se i nostri sensi dovessero farcela e se si dovessero prendere alla lettera queste oscillazioni,
come dovrebbe apparire una pallina d’aria della grandezza di una goccia di rugiada? Nello stesso tempo, più fortemente o più debolmente,
in essa dovrebbero oscillare ogni calore, ogni luce, ogni suono che da
un qualunque punto o sulla terra o sull’ultima stella della via lattea
tracci la sua onda; e dovrebbe continuare a oscillare fino all’infinito
(329) ogni suono, ogni colore, ogni processo di riscaldamento e ogni
scarica elettrica, che in un qualche tempo in un qualche punto della
terra o in qualche punto della via lattea abbia dato inizio al cerchio
della sua onda imperitura. Le oscillazioni, che in una particella d’aria
si incrociano in modo caotico e pur armonioso, quando in una sala
da concerto l’orchestra intera fa risuonare un accordo complicato con
tutti i suoi suoni e gli armonici di tutti gli strumenti, questo andirivieni
di onde, indistricabile da qualsiasi formula matematica, lo si potrebbe
dire la quiete più assoluta in confronto all’incrocio cosmico delle onde
di ogni pallina d’aria della grandezza di una goccia di rugiada. Ma
cosa percepiscono i nostri sensi in questa infinità di supposte oscillazioni? Non sappiamo nulla ad esempio delle oscillazioni intermedie tra
le oscillazioni dei suoni e quelle sensibili del calore che riempiono il
101
mondo. I nostri sensi casualmente non hanno avuto interesse ad adattarsi a queste oscillazioni.
L’arte della parola
Poesia e concetti – (B i, 111) Se si chiede a uno scolaro o a un maestro
di scuola cosa sia un concetto, risponderà pressappoco così: una rappresentazione generale che viene “astratta” dalle singole rappresentazioni. Noi abbiamo – secondo questi maestri di scuola – innumerevoli
rappresentazioni singole di alberi, conosciamo abeti, querce, (112) noci
ecc, conosciamo tante specie di abeti, di ogni tipo innumerevoli individui. Togliamo ora da queste immagini – secondo la dottrina corrente
– l’elemento accidentale: la grandezza, il colore, la forma delle foglie
ecc. e otteniamo così la rappresentazione generale, il concetto.
Che non succeda così nella nostra testa, lo ha già sostenuto il fantastico Berkeley contro Locke, e invero molto rigorosamente. Egli non
potrebbe rappresentarsi un triangolo che non abbia una forma determinata, che non sia acuto, retto o scaleno.
Che le nostre rappresentazioni generali o concetti si formino mediante astrazioni lo si può far credere alla gente per gusci vuoti come:
virtù, immortalità e simili. Appena però vi è un riscontro con il mondo
reale, dovrebbe sembrare evidente, senza bisogno di dimostrarlo, che
propriamente non ci sono rappresentazioni generali, che nella nostra
memoria ci sono solo indistinte rappresentazioni simili, che scorrono
una nell’altra, che stanno come scorta dietro i concetti e dalle quali la
fantasia trae fuori di continuo quelle che adopera in quel momento o
che l’associazione inconscia le procura.
Con questo non si deve dimenticare che solo in pochi ritengono
anche necessario nell’uso della parola rifornire tutte le volte il singolo
concetto o la parola con la scorta delle rappresentazioni e, in questo modo, renderle o mantenerle vitali. Il comune lettore di romanzi
(come lo scrittore pasticcione) non si rappresenta nulla con una frase
come: “i cavalli trottavano attraverso il prato”, e quando egli crede
tuttavia di capire le parole a lui ben note, avviene che la scorta delle
rappresentazioni sta dietro i concetti, proprio come la melodia infinita
dell’orchestra wagneriana dietro le parole cantate, e che inconsciamente un qualche cosa di nebuloso si presenta insieme in cavallo, trottare,
prato. Di qui derivano le molte frasi sciocche da romanzo che fanno lo
spasso del “Kladderadatsch” 22. «Ella coprì il suo volto con entrambe
le mani e allungò verso il conte la destra aristocraticamente fine». Lo
scrittore pasticcione lo può scrivere solo perché egli usa il concetto
senza rappresentazione. (113) E in questo egli è ancora più ricco di
fantasia del suo lettore, di Tizio e di Caio.
Così senza rappresentazione usa la scienza le sue parole, solo che
102
essa le applica con una fiducia spensierata come segni matematici inalterati. “Il cavallo è un mammifero” vien detto quasi senza alcuna rappresentazione 23.
Va così nell’uso comune dei chiacchieroni e dei dotti. Accade diversamente quando la ricerca linguistica o un imbarazzo ci costringono a
far cadere una luce abbagliante su un concetto o su una parola; sentiamo allora come una quantità di rappresentazioni individuali si ammassi
davanti alla cruna della nostra coscienza, pronta a passarci attraverso e a
far rivivere il concetto. Possiamo poi rappresentare molte cose una dopo
l’altra e abbiamo l’autoillusione di una rappresentazione generale.
Poiché ora però il ricordo di una singola rappresentazione ben si
sbiadisce e sfuma, ma non può mai davvero in senso proprio connetterla con un’altra, sembra addirittura impossibile che si dia una vera
e propria rappresentazione o concetto generale. Cos’è allora ciò che
pure ben conosciamo come rappresentazione generale o concetto, come
parola fuori di noi?
Una mescolanza, come del resto si trova nel sogno, e che è possibile nella veglia solo per il concorso della cosiddetta fantasia, la fantasia
poetica, che certo è così simile al sogno. Senza questo concorso non
sarebbe stato possibile nessun linguaggio, nessun concetto singolo. Fu
un genio poetico colui che per primo nei tempi più antichi riuscì a
fissare le sue singole rappresentazioni di abeti, querce ecc. mediante
il segno sonoro albero, e di nuovo oggi solo un modo della fantasia
poetica collega ancora rappresentazioni vivaci alla parola albero.
Con questo si accorda bene la mia teoria, cioè che il linguaggio si è
formato mediante metafore e cresce mediante metafore, se la fantasia
poetica deve continuamente integrare e far rivivere le parole.
Poesia e metafora – (114) […] Il lettore che non ha letto la mia opera
per la seconda volta – è un libro vuoto quello che non bisogna leggere
due volte – non saprà ancora molto del concetto dei sensi accidentali.
Ma avrà accettato con favore come già si possa spiegare, senza allontanarsi dal punto di vista di Lessing, la collocazione eminente della poesia
nei confronti di tutte le altre arti possibili e la menzogna della sopravvalutazione del dramma. Ora però verremo a conoscenza di ciò che fa
di nuovo vacillare ogni teoria delle arti, che cioè i nostri cinque sensi
sono sensi accidentali e il nostro linguaggio, formatosi dai ricordi di questi sensi accidentali ed estesosi mediante conquiste metaforiche a tutto
il conoscibile, non sono mai in grado di dare l’intuizione della realtà.
L’idea, per il momento ancora paradossale, che i nostri sensi siano
sensi accidentali, fa risaltare ancor più chiaramente il valore più elevato
della parola poetica. Come la parola o il concetto riassumono dapprima
in modo sostantivo le diverse qualità che i singoli sensi hanno percepito
come effetti ad esempio dell’usignolo, per così dire in modo preistorico,
sì certo, preumano; come la parola usignolo rende per la fantasia più
103
del ricordo di una di quelle osservazioni che l’hanno suscitata, allo
stesso modo la poesia produce più di qualsiasi altra arte, sì, più della
somma di tutte le altre arti. L’intera nostra conoscenza del mondo non
si è formata dalla deduzione, ma dall’induzione, da un’induzione incompleta, ed è solo utilizzando campioni tratti dal mondo della realtà
che abbiamo composto l’immagine del mondo; allo stesso modo, l’arte
della parola unifica i dati dei sensi accidentali in un’immagine che, mediante il suo accordo con sé stessa, cioè mediante la possibilità della sua
ripetizione non contraddittoria, sembra qualcosa più che un caso.
Parole senza intuizione – Ma questa elevata attività dell’arte della parola, che come immagine del mondo reale finora supera ancora tutti i tentativi di una conoscenza scientifica, (115) ha i suoi limiti nella capacità
del linguaggio di dare delle intuizioni. Non solo la vecchia estetica, da
Aristotele a Lessing, sperò mediante le parole di poter imitare la natura;
il termine “imitazione” non lo si usa più, ma nessun poeta o studioso
di estetica dubita che le immagini del mondo reale si possano chiaramente suscitare mediante parole. Vischer dice invero: «chi basa l’arte
sull’imitazione, la considera un gioco» (iii, 93) 24; poi gioca un po’ con
la parola “gioco”. Ma noi abbiamo appreso che le parole non danno
immagini e non suscitano immagini, ma solo immagini di immagini di
immagini. Nella vita pratica, di fronte al cameriere, ce la caviamo così
bene con le parole del linguaggio che sorvoliamo d’abitudine su come
il linguaggio sia incapace di raggiungere i suoi fini ultimi. Ogni singola
parola è pregna della sua propria storia, ogni singola parola porta in
sé uno sviluppo infinito di metafora in metafora. Di fronte al cumulo
chiassoso di visioni, chi usa la parola, non sarebbe nemmeno in grado
di arrivare a parlare, se solo gli fosse presente anche una minima parte
di questo sviluppo metaforico; se però di nuovo questo non gli è più
presente, egli usa ogni singola parola soltanto nel suo valore quotidiano
convenzionale, come gettoni, e con questi gettoni dà solo un valore
immaginario, non dà mai intuizioni.
La metafora
(B ii, 450) Sull’origine del linguaggio qualcosa di attendibile, fondato sull’esperienza, non lo si può ovviamente sapere. L’induzione è
allora esclusa. La deduzione da concetti porta solo a tautologie.
Se dunque, ciononostante, vogliamo rappresentarci l’origine del
linguaggio, dobbiamo farlo metaforicamente, con delle immagini, e vi
guadagneremo qualcosa di più che con sottili asserzioni. Voglio provvisoriamente prendere i concetti fondamentali nel loro senso comune
e sperare che alla fine di questa riflessione dobbiamo di nuovo porre
un punto interrogativo su questo senso comune.
104
La crescita del linguaggio – Quello che costituisce la crescita (conservazione e riproduzione) degli organismi deve ben aver dato origine alla sua
formazione. Detto in immagini: nutrizione è crescita. E posso divertirmi
a immaginare che la derivazione del regno animale da quello vegetale
sia avvenuta quando un che di simile a un organismo parassita (vegetale) per fame e invidia si sia rivoltato, abbia trattenuto il nutrimento
circondandolo, formando quindi uno stomaco e poi sia stato costretto
a spinger fuori da sé degli arti per procurare a questo stomaco il nutrimento che non poteva più succhiare da parassita. E ancor prima la vita
potrebbe essersi divisa dalla materia inerte quando a una molecola più
capace si avvicinò del nutrimento. So che questa finzione non spiega
nulla; la “capacità” della molecola rimanda a sua volta alla questione
dell’origine della vita. Ma certamente la questione viene semplificata
dall’immagine. Allora cos’è che costituisce la crescita della lingua? Qual
è il nutrimento spirituale della lingua?
mediante trasposizione – Se distinguo in maniera del tutto netta tra
la crescita repentina delle nostre conoscenze della realtà (che sono
osservazioni delle cose e sempre precedono il linguaggio, la (451) loro
parola) e la crescita organica del linguaggio stesso, cioè quella delle leggi di natura, dei concetti, delle inferenze, in breve del chiacchiericcio
umano, allora giungo all’idea che il linguaggio è cresciuto e ancor oggi
cresce a partire dalla memoria umana (e la memoria umana è a sua
volta solo linguaggio) soltanto mediante la trasposizione (metafevrein)
di una parola definita (fertig) su un’impressione indefinita, mediante
il confronto dunque, mediante questo atto eterno del à-peu-près, mediante questo infinito circoscrivere e parlare figurato, che costituisce
la forza artistica e la debolezza logica del linguaggio. I due o cento
“significati” di una parola o di un concetto sono altrettante metafore o
immagini e, dato che oggi non conosciamo assolutamente il significato
originario di nessuna parola, dato che la prima etimologia si colloca infiniti anni addietro rispetto alla nostra conoscenza di questo significato,
allora nessuna parola ha mai altro significato che quello metaforico.
Siamo così abituati a questo uso che non lo sentiamo mai come
una mancanza quando denominiamo con immagini persino i concetti
più impellenti, quelli che devono avere anche gli animali, utilizzando
termini contrastanti tratti da ambiti quasi contrapposti. Quando in una
lingua straniera dobbiamo formare una perifrasi anche soltanto per
una parola rara, ci vergognamo e lo sentiamo come un’incapacità. Ma
non lo avvertiamo come metafora, non ci vergognamo affatto, quando
definiamo il tempo con espressioni spaziali (lungo, breve), quando definiamo l’altezza del suono con concetti spaziali o di colore (profondo,
chiaro); lo vediamo bene nelle nostre lingue obsolete.
La nostra lingua cresce mediante metafore. E si può dire davvero
che ogni metafora viene dapprima usata consciamente e poi è entrata
105
ad arricchire l’organismo del linguaggio, quando non la si avverte più
come metafora.
Così sarebbe allora una pura supposizione che la metafora, che
determina la crescita del linguaggio, ne abbia causato anche l’origine.
A questo proposito non riesco per ora (452) a pensare ancora nulla.
Si ha una qualche impressione, ma è ancora chiacchiera. La tesi che la
metafora abbia creato il linguaggio diventa però pensabile, comprensibile, davvero illuminante, se io ora ripeto che la metafora opera una
mediazione tra i concetti di spazio, tempo e suono.
Metafore naturali dello spazio – Chi in un paese straniero, del quale
non conosce la lingua, vuole dire “grande”, aprirà molto le braccia;
questo è un gesto del tutto naturale. (È naturale che l’animale non lo
abbia.) Chi vuol dire “piccolo” avvicinerà i palmi delle mani. Cosa
succederebbe allora, se anche l’intero apparato vocale partecipasse alla
gesticolazione? Cosa, se glottide e bocca si rinserrassero, dicendo poi
“i”, per imitare un piccolo spazio, glottide e bocca si aprissero, facendo “o”, per imitare uno spazio grande? Cosa, se questo fosse già una
metafora? Se poi il suono venisse trasposto dallo spazio al tempo, ai
colori, ecc.? Ammetto che con questa ipotesi sembra davvero di aver
ottenuto qualcosa per la questione dell’origine del linguaggio.
E seppure a Platone non sia certo venuta in mente una simile interpretazione della sua onomatopea (formazione delle parole), si potrebbe
a buon diritto chiamare onomatopea una metafora originaria. Infatti le
nostre presunte imitazioni, per quanto appartengano al linguaggio effettivo e non siano degli scherzi, non sono imitazioni pappagallesche di
suoni naturali articolati e classificati in consonanti e vocali, ma imitazioni
metaforiche (per es. di melodie mediante sillabe), che ci sono divenute
così abituali che noi sentiamo trasposta nella natura (hineinhören) la nostra onomatopea metaforica. Il cuculo non canta “c” o qualcosa di simile
a “c”, non “u” o qualcosa di simile a “u”. E tuttavia noi lo sentiamo
cantare cu-cù e crediamo di imitare con il suo nome il suo richiamo.
Ora però devo stare attento a non diventare io stesso un servitore
del linguaggio e credere di aver spiegato con la metafora della metafora qualcosa di reale. È una parola (453) che ho fatto crescere mediante
la mia osservazione ipotetica. Questo è tutto. E di nuovo non tutto.
Dev’esserci tuttavia dietro lo spazio del nostro linguaggio qualcosa
di nascosto nel mondo reale, apparentato allo spazio, se l’apparato
fonatorio, quando vuole rendere in immagine rappresentazioni spaziali, diventa esso stesso immagine spaziale. E così può esserci dietro
l’istinto verso metafore così audaci (come la trasposizione dallo spazio
al tempo, dal colore al suono) una cogenza che sta nei rapporti non
svelati del mondo reale. Il linguaggio è metafora; ma la metafora copre
in qualche modo il mondo.
In questa idea dell’origine del linguaggio nulla cambia se pensiamo
106
che mai un singolo uomo può aver creato in sé il linguaggio, che il
linguaggio è essenzialmente qualcosa di intersoggettivo, un prodotto
sociale, che il monologo è qualcosa di malato. Al contrario: così come
la perifrasi (in una lingua parlata male) diventa necessaria solo quando si
viene in contatto con una nazione straniera, così la metafora della lingua
originaria, l’onomatopea originaria, la mimesi metaforica mediante il
suono, può essere sorta proprio anche per l’esigenza di comunicare reciprocamente, in un tempo in cui ognuno era straniero tra stranieri. […]
Max Müller – (455) Max Müller arriva abbastanza vicino alla convinzione che ogni mutamento di significato sia metaforico. Ma si preclude
la via distinguendo nettamente tra due tipi di metafora, tra metafora
poetica e metafora radicale, e così non si accorge di non avere il diritto
di parlare di un’immagine per la cosiddetta metafora radicale, se non
fosse esistita psicologicamente, in un qualche momento del mutamento
semantico, una metafora poetica. Egli non considera come solo l’uso
frequente della metafora poetica l’abbia resa così impoetica, così automatica, che infine sembrò presente alla coscienza linguistica il semplice
mutamento semantico. A questo proposito già il vecchio Quintiliano
sapeva considerare più correttamente l’origine del mutamento semantico dalla metafora; ed è ben questo il senso della sua sorprendente
proposizione (Libro ix, 3, all’inizio: «Si antiquum sermonem nostro
comparemus, paene iam quidquid loquimur figura est»).
Queste idee dell’importanza della metafora per la storia del linguaggio, anzi dell’identità della metafora con il mutamento semantico, si era
già consolidata in me, quando fui stimolato da uno scrittore che mi era
fino ad allora sconosciuto a inseguire oltre questo pensiero. Fino ad
allora la mia guida era stato Locke, la cui teoria del passaggio da significati concreti ad astratti in fondo spiegava soltanto meglio l’antica parola
di Quintiliano. Bastò semplicemente tralasciare il paene per riconoscere
il dominio assoluto della metafora nel mutamento semantico. Con ciò
l’attività di creazione graduale del linguaggio apparve graziosamente
come una creazione poetica, come ciò che anche in ogni singolo caso
può avere un ulteriore valore.
Vico – Allora la mia attenzione fu attirata da una parola di Goethe
su Vico e ora mi getto con grandi attese sulla sua opera senza mai
rimanerne deluso. (456) Quest’uomo straordinario è ingiustamente semidimenticato. Per dire subito l’ultima cosa che devo al pensare fino
in fondo le sue idee: ogni formazione linguistica non può essere niente
altro che un mutamento semantico metaforico, perché il concetto di
metafora non è in fondo niente altro che un’espressione tradizionale,
che ci deriva dalle scuole di retorica, insopportabilmente pedante, per
l’essenziale nella nostra vita spirituale, per quello per cui noi abbiamo
la nuova espressione associazione di idee. […]
107
Jean Paul – Prima però di tentare di fondare l’essenza psicologica della
metafora, vorrei ancora riportare quello che il nostro immaginifico Jean
Paul ha espresso in modo così squisito sul significato linguistico della
metafora: «Come nello scrivere l’ideografia anticipò la scrittura alfabetica, così nel parlare la metafora, adatta a designare rapporti e non
oggetti, fu la parola primitiva, che lentamente finì per scolorarsi, sino a
diventare espressione propria. L’animazione e l’incarnazione mediante
tropi costituivano ancora un’unità in quel tempo in cui l’io e il mondo erano ancora fusi insieme. Perciò ciascuna lingua, sotto l’aspetto
delle relazioni intellettuali, è un vocabolario di metafore sbiadite» 25.
Jean Paul era imparentato con il nostro Hamann, come Hamann con
Vico. E già Hamann aveva predicato (Aesthetica in nuce 26): «L’intero
tesoro della conoscenza umana e della beatitudine consiste in immagini». Il suo Bacone, e quello di Vico, aveva detto: «ut hieroglyphica
literis, sic parabolae argumentis antiquiores». Il devoto Hamann si era
riservato la possibilità di mescolare conoscenza e beatitudine; ma per
la questione della teoria della conoscenza, cioè per il lato psicologico
della questione, Jean Paul, Vico e Bacone non avevano un’idea chiara.
Wilhelm Wundt ha collegato molto bene (in tutti e due i primi volumi
della sua Völkerpsychologie) la metafora con il gesto sonoro, meno
bene con il mutamento semantico. Ernst Elster (Prinzipien der Literaturwissenschaft 27) ha un po’ raffinato la poetica della metafora. Alfred
Biese ha scandagliato più a fondo e ha scritto una Philosophie des
Metaphorischen davvero degna di essere letta. (457) Ma anche Biese, al
quale devo abbastanza materiale, non penetra al centro del problema
della teoria della conoscenza.
Aristotele – Il concetto di metafora, come viene spiegato nelle nostre
scuole, risale ad Aristotele. Così da duemila anni la metafora passa
per la trasposizione (conscia) di una denominazione che propriamente
significa qualcos’altro, sia essa la trasposizione dal concetto più vasto
al più ristretto, o dal concetto più ristretto al più vasto. L’intenzione
di questa definizione è di spiegare in senso logico il linguaggio immaginifico della poesia. Questa intenzione e quindi la limitazione alla
metafora artistica risulta chiaramente dal modo in cui Aristotele cerca
di risolvere ogni metafora in una proporzione matematica completa o
incompleta. Ad esempio la coppa di Dioniso sta a questo dio come lo
scudo sta al dio Ares; si potrebbero quindi scambiare l’uno con l’altro
i termini della proporzione in maniera del tutto meccanica e dire in
modo arguto che la coppa sia lo scudo di Dioniso (il che sarebbe pur
sempre spiritoso) o che lo scudo sia la coppa di Ares (il che sarebbe
davvero insulso). Un altro esempio: la vecchiaia: la vita = la sera : il
giorno; dopo di che si può dire che la vecchiaia è la sera della vita
o che la sera è la vecchiaia del giorno. Il fascino di questa maniera poetica di esprimersi (che del resto ha imperversato malamente al
108
tempo di Shakespeare, in particolare come marinismo, gongorismo,
eufuismo o come “estilo culto” in Inghilterra, Italia e Spagna, persino
negli scritti dei maestri, e che oggi ridiviene pericolosa come art pour
l’art) consiste naturalmente nel tralasciare, nel lasciar indovinare uno
dei quattro termini della proporzione. Dove la comparazione è ancor
più semplice da indovinare, vengono subito tralasciati due termini;
Aristotele porta l’esempio dello spargersi (secondo l’immagine del seminatore) dei raggi del sole.
L’idea di Aristotele di chiarire la metafora con la proporzione matematica non ha nulla a che fare con il processo o la condizione psicologica, quale (458) si rivelerà a noi la metafora; nondimeno la trovata
rimane ingegnosa. Ci può aiutare a distinguere il concetto di metafora,
apparentemente così ben conosciuto, dai numerosissimi concetti attigui.
Ci sono infatti – con questo rimango provvisoriamente nell’ambito della
poetica – paragoni nei quali si giunge a qualcosa di più e a qualcosa di
meno che ai quattro termini di una proporzione. Se il paragone è più
complicato, esso può estendersi a un tipo di similitudini che sono conosciute in particolare come similitudine omeriche, nelle quali però certo la
fantasia del poeta suole dimenticare l’attività di comparazione e cavalca
una tratta più in là montando un cavallo nuovo; se invece la similitudine
non contiene nemmeno indirettamente quei quattro termini, al posto
della proporzione sta, per così dire, una regola del tre (capelli neri come
il carbone), allora la si chiama una similitudine in senso stretto. Devo
essere un po’ pedante prima di proseguire; lo richiede l’occuparsi di
antiche definizioni. Vorrei notare infatti che il famoso tertium comparationis non è né la regola del tre né uno dei tre o quattro termini nella
proporzione; è sempre un concetto più alto (il colore nel caso dei capelli
e del carbone, l’attributo nel caso in cui venga paragonata la coppa di
Dioniso con lo scudo di Ares). Dove la metafora (come specifica Vischer
iii, p. 1221 28) è più poetica della similitudine è nel lasciar indovinare
il segno di paragone: «il “come” o il “quasi” è un prendere le distanze
da una supposta prosa, cioè dal confondere immagine e contenuto; e
proprio per questo motivo precipita in essa ».
La similitudine – Nella similitudine (in senso stretto) è molto facile
dimostrare che il processo psicologico porta all’evoluzione del linguaggio. È probabile che le stesse designazioni di colore più antiche, e che
a noi appaiono senza possibilità di paragone, fossero dapprima delle
similitudini; in parole come il tedesco lila (in francese il lillà, mentre
il tedesco violett è il francese la violetta) la similitudine è chiara; nelle
designazioni dei colori di moda (rosso ruggine, verde reseda, color
“torre Eiffel” e simili) non si può nemmeno dire con sicurezza se sia
ancora (459) presente una similitudine cosciente o già un nuovo concetto di colore.
La metafora è quindi, a differenza della similitudine a tre termini in
109
senso stretto, il tipico paragone di due rapporti, nel quale è divenuto
abituale lasciare inespresso il concetto più comune. Nella proposizione
“la prudenza è la madre della saggezza” ognuno capisce: la saggezza si
rapporta alla prudenza, come la figlia alla madre. Il tertium comparationis – tanto per non rinunciare alla pedanteria – è qui che la madre
abbia generato la figlia. Si potrebbe anche pensare che la figlia sia
simile alla madre, che la figlia sia obbediente nei confronti della madre; ma il mondo della realtà nella nostra anima non ci lascia proprio
pensare a un tale non-senso. Se noi udiamo i tre concetti “prudenza,
madre e saggezza”, l’associazione del pensiero getta un ponte tra loro
soltanto nel concetto del generare, non nel concetto dell’ubbidienza.
Impareremo presto come sia importante anche per la metafora questa
necessità, questa cogenza della connessione di immagini.
Tropi – Ancora una cosa. Se qui applico il termine metafora, abbastanza in accordo con la spiegazione di Aristotele (il quale parlava greco;
per lui dunque la parola metafora, trasposizione, non era ancora un
termine tecnico straniero), all’intero gruppo delle immagini cosiddette
poetiche o ai tropi, sono d’accordo con il più recente uso linguistico
che non sa più molto che farsene delle distinzioni della retorica antica. Mi sembra evidente che un grande numero delle specie, in cui
tradizionalmente sono ripartiti i tropi, cada comunque sotto l’antico
concetto della metafora, cioè dello scambio dei concetti di due oggetti
confrontati. Su questo si potrebbe scrivere un saggio inutile: come gli
antichi maestri della retorica hanno utilizzato le sterili categorie logiche
per ricavare tali sottospecie. Ancora Salomon Maimon ha pensato a
un simile sistema dei tropi, che sarebbe diventato simile (o uguale?) al
sistema (460) delle categorie (Lebensgeschichte, ii, p. 261 29). Lascerò
volentieri a qualcun altro il compito di scrivere questo saggio e mi
limiterò a fornire solo alcuni esempi. Se si scambiano tra loro specie
e genere, la parte e il tutto (lei aveva vissuto 15 primavere), questo si
chiama sineddoche, se si scambiano causa ed effetto (egli è un grosso
sacco di denaro), si chiama metonimia, se si paragona l’animato con
l’inanimato (il piede del monte), si chiama personificazione; ma non
appartiene proprio più al nostro stile di pensiero fare simili distinzioni
scolastiche. Ci accontentiamo del fatto che alla base di tutti questi
modi di dire sta il processo psicologico della comparazione; e l’uomo
ha bisogno di accontentarsi, non di pensare oltre.
Ci sono alcuni altri tropi che a prima vista non sembrano riconducibili al concetto del paragone metaforico, per es. l’iperbole e l’ironia. Ma sembra soltanto. Finché rimaniamo nell’ambito della poetica,
l’intenzione di ogni espressione figurata di questo tipo è certamente
quella di rafforzare l’intuibilità. Se qualcuno dice primavera al posto di
anno, sacco di denaro al posto di uomo ricco o piede del monte (che
già è diventato lingua, per la quale non abbiamo quindi più nessuna
110
espressione propria), egli vuole solo illuminare con più forza la rappresentazione, e questo comporta sempre una forma di ingrandimento. In
ogni metafora c’è qualcosa di iperbolico. E l’ironia raggiunge lo stesso
scopo in una piccola perifrasi, quando ad es. chiama il Chimborasso
un nano, e così, acuendo la contraddizione, rende particolarmente evidente la grandezza del monte. Ora, che mi si conceda o meno questa
spiegazione dell’iperbole, io uso tuttavia la parola metafora nel senso
del tropo o del paragone figurato in generale, la qual cosa è mio diritto, avendolo detto esplicitamente. […]
Metafora e Witz – (487) Ogni metafora è arguta (witzig). La lingua
attualmente parlata da un popolo è la somma di milioni di arguzie
(Witze), è la raccolta delle pointe di milioni di aneddoti, la storia dei
quali è andata perduta. A questo riguardo dobbiamo pensare che gli
uomini del periodo della creazione del linguaggio fossero più divertenti
(488) degli attuali buffoni che vivono delle loro arguzie. Si potrebbe
persino sostenere in generale che l’uomo è tanto più arguto, quanto
più è ignorante, il che non contraddice certo l’essenza dell’arguzia.
L’arguzia scorge somiglianze lontane. Le somiglianze vicine si possono
fissare subito con concetti o parole. Il mutamento semantico consiste
nella conquista di queste parole, nell’estensione metaforica o arguta del
concetto alle somiglianze più lontane. E queste più lontane somiglianze colpiscono, si sa, piuttosto l’estraneo che il conoscitore. L’europeo
trova simili tra loro tutti i cinesi, il cittadino tutte le mucche, l’estraneo
tutti i membri di una famiglia. L’ignoranza rende spassoso (witzig). La
non conoscenza trova velocemente le somiglianze. Ne ho esperienza
anche in me stesso: mi colpiscono somiglianze nelle melodie in cui il
musicista sa che sono stato ingannato dalla casuale somiglianza di due
toni collegati.
Non mi si torni a dire che ogni singola arguzia, ogni singola metafora è stata necessaria nella storia del mutamento semantico, perché
quindi dev’esserci sotto una legge. Anche il corso di un ruscello è necessario nel senso che ogni più piccola goccia d’acqua obbedisce alla legge
di gravità e quindi il ruscello, la somma delle sue gocce, deve seguire
questo corso e nessun altro. Si può pur sempre definire secondo legge
la gravità, ma il corso del ruscello rimane casuale, proprio in relazione
alla forza di gravità. Mi devo guardare continuamente dal confondere
la necessità con la legalità. E la storia del mutamento semantico è anche
molto più irregolare: essa somiglia piuttosto alla figura che l’acqua versata disegna su una tavola. Anche in questo caso ogni goccia obbedisce
alla legge di gravità, ciononostante la figura è casuale.
E se riflettiamo su quale enorme mutamento semantico sia presente
nelle parti del discorso non indipendenti, per esempio nelle flessioni
e nelle preposizioni, con quale audacia metaforica la nostra forma del
genitivo o la nostra preposizione “in” designa, tastando attorno a sé,
111
le relazioni più distanti, (489) riconosceremo allora, anche a partire
da qui, la casualità non solo della materia della lingua, ma anche della
forma della lingua.
Ampliamento metaforico – Secondo il nostro modo di esprimerci il
mutamento semantico delle parole riguarda molto spesso solo l’ampliamento dei concetti. Solo nel suo risultato ultimo chiamiamo infatti il restringimento un mutamento; il processo stesso è la perdita di
un gruppo di altri significati. L’ampliamento però consiste di regola
nell’applicazione metaforica, nella limitazione di un nuovo contenuto.
Questo rapporto diventa molto chiaro in una parola relativamente nuova come ala. Il significato dell’ala come ala di uccello (propriamente
non così semplice dal punto di vista etimologico) è presente a noi tutti;
non è quindi per niente difficile mostrare al mugnaio che parla delle ali
del suo mulino a vento, all’ufficiale che parla delle ali della sua armata,
al signore che parla delle ali del suo castello, che si intende in senso
metaforico la parte laterale del mulino, dell’armata, della casa, come
un’ala di uccello è la parte laterale del corpo dell’uccello. Anche una
mente semplice arriverà da sé a comprendere che Flügel (ala, pianoforte a coda) ha ricevuto il suo nome dalla somiglianza con un’ala di
uccello triangolare e arcuata.
In connessione con ampliamenti di questo tipo succede poi che
venga affermato solo l’ambito che è stato conquistato e che il possesso
antico vada perduto, dove poi – quando la connessione non è chiara
– sembra esserci un puro mutamento semantico senza ampliamento.
In francese e in italiano l’espressione antica per Kopf (capo, chef) è
diventata così abituale nel suo significato metaforico di “guida”, che
quella originaria è andata perduta; e tralasciando quanti miseri anni
prima lo stesso significato originario possa essere stato una metafora.
Lo sostituì testa, tête, così come Topf (pentola), il che era però una
metafora molto comune, finché non è diventata così generale che ha
cessato di essere comune. In tedesco non è molto diverso. (488) Haupt
(sì, certo un prestito dal latino caput, nonostante la sua formazione
anomala) viene usato per testa quasi solo da rimatori senza gusto. Kopf
è di nuovo una pura metafora, certo per la somiglianza del cranio con
una coppa (lat. cuppa). Se Kopf dovesse lentamente restringersi, in una
nuova metafora, al significato di intelletto, potrebbe forse venire in
auge (come pentola e coppa) una delle parole ora già popolari o solo
gergali come zucca, melone ecc., per designare la parte più nobile del
corpo. In svedese testa si dice panna, pentola.
Il mutamento semantico per ampliamento del concetto porta anche
a un fenomeno che i linguisti e i profani hanno spesso già notato, senza
che se ne sia riconosciuto il suo carattere metaforico. Si è detto spesso
che il significato delle parole sbiadisce, che esse perdono la loro precisa
definizione e quindi il loro antico valore – proprio come la moneta
112
spicciola. Certo, con ciò esse ampliano di solito il loro concetto, il loro
ambito di validità; in questo modo divengono però solo più utilizzabili,
non di maggior valore. Gli esempi sono quasi superflui; per lo più si cerca l’origine di gene e del tedesco sich genieren (imbarazzarsi) nell’ebraico
Gehenna (inferno) passando attraverso le pene dell’inferno e il martirio
per arrivare alla costrizione e al disturbo, fino all’insignificante imbarazzo, che è per noi il significato di questa parola straniera. L’abitudine di
certe cerchie di applicare a banalità ora questa ora quella parola enorme
offre esempi meno convincenti, ma più quotidiani; così vengono a galla
improvvisamente parole come gigantesco, colossale, spaventoso, dette a
proposito delle cose più ridicole, per scomparire subito di nuovo da
questo gergo e far posto ad altre novità. Non sempre scompaiono. La
nostra parola di comodo sehr (molto) si è formata allo stesso modo.
Si è formata da una parola che significava doloroso, veemente, violento
e va confrontata con l’inglese sore. Nel dialetto viene usato così arg
(originariamente: cattivo, di poco valore) nel senso di sehr. […]
Le metafore vanno e vengono – (495) Si può dire che il mutamento
semantico delle parole non è compiuto fintanto che l’uso metaforico è
avvertito come tale. L’uso metaforico è solo l’impalcatura per la nuova
costruzione. È questo oscillare della nostra memoria tra uso conscio e
inconscio di metafore a fare una grande differenza tra buoni e cattivi
scrittori, tra poeti e non poeti, e si può dire che nell’enorme costruzione della memoria umana, come si presenta in ciò che chiamiamo
astrattamente la lingua di un popolo, si può sempre solo abitare in un
luogo di confine. Dietro di noi rovine, davanti a noi costruzioni nuove, con noi la casa in cui dimoriamo; dietro di noi una lingua morta,
davanti a noi il sentore di nuovi concetti, con noi un ondeggiare e
un intrecciarsi (ein Wogen und Weben) di metafore, che stanno per
diventare parole senza senso e quindi utilizzabili. Se facciamo bene
attenzione, in molti ambiti linguistici si fanno ancora sentire le tracce
di antiche metafore. Non si può più risvegliare la metafora nelle forme
pure delle parole, nelle sillabe di derivazione, la si può tutt’al più ancora dimostrare. In parole come il latino: amabo (forse: ama-fuo), gotico:
habaida (haben tat ich), francese: dirai (dire-ai) la composizione di due
parole la si può ancora rintracciare storicamente; ma il cammino sul
quale questi concetti, certo in un primo tempo grossolani, dell’”esser
fatto”, del “fare”, dell’”avere” si avvicinavano, in una qualche ardita
iperbole, ai verbi, il cammino sul quale queste parole si univano alla
rappresentazione di un concetto temporale, persero la loro intuibilità,
persero il tratto iperbolico, il cammino sul quale poi la parola, diventata un semplice strumento, fu imitata analogicamente, finché essa finì
come sillaba formale grammaticale e morì, questo cammino non lo si
può più ricostruire; si può solo profetizzare che queste parole, una volta in fiore, dopo aver percorso un tale mutamento semantico, in futuro
113
spariranno dalla lingua, come le desinenze latine sono scomparse dal
francese, quelle germaniche dall’inglese, a parte alcuni residui; poi le
lingue avranno bisogno di nuove forme e parole che un tempo erano
in fiore deperiranno in questa loro funzione. Succede con le parole
come con le generazioni degli uomini: qui e là si estinguono delle famiglie, ma la stirpe umana diventa sempre più grande; infatti da ogni
parte emergono nuove stirpi e nuovi individui, e proprio ciò che vale
per le parole più forti che nullifichiamo usandole come desinenze, vale
anche per il diverso impiego formale delle parole.
Nel tedesco è andata perduta la declinazione antica, non in modo
così completo come nell’inglese e nel francese, certo però in maniera
abbastanza rilevante. Al posto delle antiche forme dei casi dovettero
entrare in uso nuove preposizioni, e dovettero prestarsi a questo parole
sature. Anche qui ondeggia e si intreccia nella lingua una confusione
di utilizzo conscio e inconscio di tali parole. In dank o kraft (grazie a
questa legge, in forza di questa legge) si ha ancora coscienza dell’uso
figurato; in mit (con), durch (mediante) non più da lungo tempo. Nessun tedesco sente più che lo strumento, per mezzo (durch) del quale,
con (mit) il quale viene compiuta un’azione, sta in mezzo tra colui che
compie l’azione e l’atto, che l’atto passa attraverso lo strumento, che
lo strumento sta nel mezzo. Il francese che usa puisque nel senso di
perché difficilmente ha la sensazione di ripetere così una metafora che
cerca di rispondere alla domanda forse più difficile di tutta la filosofia, ponendo la successione nel tempo come una successione causale,
la sensazione (497) che in puisque (latino postquam) la congiunzione
temporale dopo che è diventata il causale perché. A questo proposito
non dovremmo dimenticarci che il viennese fa sorridere il tedesco del
nord quando usa, come il francese, nachdem (dopo che) nel senso di
perché. Oltre a questo forse ci viene in mente che anche il nostro weil
non si è formato in altro modo che come un’antica trasformazione di
Weile, che altro non vuol dire che tempo, forse anche riposo.
“Wippchen” – L’antica parola Wippchen (Hermann Paul la spiega con
Faxen, buffoneria), da quando fu chiamato così il corrispondente di
guerra di un giornale umoristico, è passata a designare gli accostamenti
ridicoli, preferiti nelle sue notizie, delle vignette di protesta.
Ci vuole molto spirito (Witz) ed esercizio per accumulare questo
tipo di scherzi. Stettenheim, il virtuoso del gioco di parole, ha perfezionato questo passatempo, facendone la sua specialità, ma nelle sue
mani il gioco è diventato quasi meccanico, così che il suo seguace
Alexander Moszkowski nello stesso spirito è riuscito a essere molto
più incisivo. Lavorando in questo vasto campo, tutti e due avrebbero
però ragione di stupirsi che le loro allegre violazioni del linguaggio
ci aiutano a penetrare più a fondo da un nuovo lato nell’essenza del
linguaggio. Anche dei professori potrebbero stupirsene. Potrebbero.
114
Nessun linguaggio senza Wippchen – A Stettenheim non sarebbe venuto
in mente di elaborare questa contraffazione e spingerla fino in fondo,
se non l’avesse trovata molto spesso in articoli considerati seri. L’ironica
rubrica delle lettere del “Kladderadatsch” brulica di Wippchen, che
sono stati perpetrati inconsciamente da giornalisti frettolosi. Spesso anche dai migliori scrittori si può sentir dire che nessuno è sicuro di non
aver scritto qualche volta qualcosa di simile. Ma qui per me si tratta di
stabilire che piccoli Wippchen inconsci, che per questo possono anche
non avere un effetto comico e che quasi sempre vengono ignorati, sono
(498) fenomeni di ogni giorno; forse finiremo addirittura con il dubitare che non sia possibile una lingua senza Wippchen nascosti.
Se consideriamo solo in generale il processo psicologico dal punto
di vista che ho esposto qui a proposito dello sviluppo del linguaggio
umano, questo triste risultato emerge subito logicamente e scientificamente. E se per questo dovessi dare a credere più che persuadere,
potrei accontentarmi, come altri scrittori di libri, della logica e della
scienza. Sappiamo infatti che tutte le parole del nostro linguaggio sono
giunte al loro significato mediante applicazione figurata. Ogni parola
ritorna ora naturalmente in ogni suo significato a un’altra rappresentazione figurata. Non si può certo tralasciare il fatto che già nell’accostamento banale di due parole risulta una commistione di due immagini
divergenti. Prendiamo un esempio qualsiasi, più è semplice e meglio
è. Se la parola del sanscrito per la nostra parola da esso derivata (?)
Tochter (figlia) proviene davvero dalla rappresentazione di una mungitrice (forse perché il compito di mungere spettava come privilegio
alla figlia di casa), quando l’immagine della mungitrice viveva ancora
nella coscienza della lingua, ci doveva essere un Wippchen ogni volta
che si diceva: la mungitrice fa il fuoco o ricama o partorisce. Con questo tralascio del tutto il fatto che il far fuoco, il ricamare, il partorire
ritornino a loro volta ad altre rappresentazioni figurate. Certo oggi lo
dicono solo i filologi che la nostra Tochter (allo stesso modo lo slavo
dcera) era collegata un tempo con l’immagine della mungitrice. Con
questo la possibilità di avvertire il Wippchen è scomparsa. Ma non
si può negare allora che dietro a quasi tutte le connessioni di parole
della lingua siano nascosti questi antichissimi Wippchen. Addirittura si
deve ritenere un caso più raro se capita che le immagini di due parole
collegate combacino. Come se ad esempio quando qualcuno dice che
la Tochter (499) gli ha dato da bere del latte. Eppure mi si deve concedere che nella frase c’è qualcosa che suona originario, patriarcale.
L’insieme dell’immagine ha qualcosa di intimamente vero.
Contaminazione – I cultori della scienza del linguaggio non si stupiranno di apprendere di essere stati loro a formulare la teoria dei Wippchen
quando applicarono a certe formazioni linguistiche basate sull’errore
l’espressione dotta contaminazione. Contaminazione significa propria115
mente contagio. Nella linguistica, spiega Hermann Paul, la contaminazione è il processo «per cui due forme di espressione sinonimiche
si introducono contemporaneamente nella coscienza, così che nessuna
delle due si realizza in modo puro, ma si costituisce una nuova forma,
nella quale si mescolano elementi dell’una con quelli dell’altra».
1 [Gli ultimi nove anni sono quelli della stesura dell’opera, ma il numero nove sembra
contenere anche suggestioni sacre, Cfr. Ludger Lüktenhaus, Einleitung des Herausgeber, B
i, p. ix, n. 1]
2 [Sta rispondendo alle critiche di incompetenza.]
3 [«Dem Volke aufs Maul sehen können», l’espressione è di Lutero e riguarda i criteri
per la traduzione della Bibbia.]
4 [1896.]
5 [Baruch Spinoza, Tractatus theologico-politicus, Hamburgi, apud Henricum Kühnrat,
1670, p. 217.]
6 [Ivi, p. 34.]
7 [Elmo.]
8 [Platz, luogo, posto, diventa posto a sedere in Platzkarte, biglietto di prenotazione.]
9 [“Per Hamburg ci vogliono quattro ore”]
10 [“Buone quattro ore fin su”.]
11 [Imperfetto di backen, cuocere al forno.]
12 [Imperfetto di trinken, bere.]
13 [Cavallo.]
14 [Vedere e andare.]
15 [William Dwight Whitney, Die Sprachwissenschaft: Vorlesungen über vergleichende Sprachforschung, bearb. u. erw. von Julius Jolly, Ackermann, München 1874 (Olms, Hildesheim - New
York 1974)].
16 [Friedrich Max Müller, Einleitung in die vergleichende Religionswissenschaft, Trübner,
Strassburg 1874.]
17 [Gemeinsamkeit = comunanza, Gemeinheit = volgarità: gemein = comune, volgare.]
18 [In tedesco Ladenschwung è sinonimo di Ladenschwengel, garzone.]
19 [Lettera dell’8 agosto.]
20 [Unding si usa in tedesco anche nel senso: non è cosa, è una follia, una chimera.]
21 [Baruch Spinoza, Tractatus theologico-politicus, cit., p. 16.]
22
[Settimanale satirico berlinese, 1848-1944.]
23 [Diversa la rappresentazione per la parola tedesca: Säugetier, animale che succhia, viene
allattato.]
24 [Theodor Vischer, Aesthetik oder Wissenschaft des Schönen, Mäcken, Reutlingen-Leipzig
1846-1858 (Georg Olms Verlag, Hildesheim - Zürich - New York 1996, iii, p. 108).]
25
[Jean Paul Richter, Vorschule der Aesthetik, in Sämtliche Werke, Abt. i, V Bd., hg. von
Norbert Miller, Hanser, München 1963, p. 184.]
26 [Johann Georg Hamann, Aesthetica in nuce, in Sämtliche Werke, Verlag Herder, Wien,
ii, p. 197.]
27 [Verlag von Max Niemeyer, Halle, 1911.]
28
[Theodor Vischer, Aesthetik oder Wissenschaft des Schönen, cit., vi, p. 75).]
29 [Salomon Maimon, Lebensgeschichte, hg. von Karl Philipp Moritz, ii, Vieweg, Berlin
1793.]
116
Dizionario di Filosofia
(voci dal Wörterbuch der Philosophie)
Significato (Bedeutung)
(W i, 146) Non potè sfuggire all’attenzione dei grammatici che le
parole della loro disciplina, le parole della lingua ordinaria hanno un
contenuto, un senso, un significato; allo stesso modo non potè sfuggire
all’attenzione dei logici che il contenuto dei loro concetti e i significati
delle loro proposizioni sono legati al linguaggio umano. La conseguenza dell’una e dell’altra attenzione fu che davvero presto comparve la
distinzione tra la parola (la proposizione) e il suo significato. Come tra
il parlare e il pensare. Questa era una distinzione morta, una procedura anatomica, finché non si notò esplicitamente che anche la parola
viva ha un significato.
Le parole morte si trovano soltanto sul tavolo anatomico degli studiosi di etimologia e nei dizionari. Poi anche nei cattivi libri. Nella
lingua viva non si può staccare la parola dal suo significato come non
si può staccare un organismo dalla sua “anima”; chi si accorgesse che
proprio non esiste un’anima particolare al di fuori della lingua, sarebbe
propenso a definire il significato l’anima delle parole.
Una parola che non avesse significato non sarebbe una parola del
linguaggio, come la maggior parte delle parole di un papagallo non
sono ancora parole del linguaggio.
Ora, ogni lettore avveduto di dizionari deve essersi accorto che in
un lungo articolo di un dizionario serio si trovano molti significati della
parola, ma non si trova mai il significato; quanto più un dizionario è
piccolo e misero, tanto più si limita a indicare in modo falso e fuorviante un’unica traduzione, il significato. (147) Lo sforzo di rendere
ogni parola di una lingua con una parola dell’altra – che è un errore
evidente negli strumenti più miseri impiegati per l’apprendimento o
per l’uso pratico di una lingua straniera, e che nei viaggi in paesi stranieri diventa la fonte di confusioni infinite e spesso spassose – proprio
questo sforzo era fino a poco tempo fa l’ideale dei lessici filosofici e in
generale dell’uso filosofico delle parole. L’adepto della filosofia incappava a ogni passo, durante il suo viaggio nel paese straniero del pensiero astratto, in parole straniere e ne cercava la spiegazione dapprima
in un dizionario delle parole straniere della filosofia; qui imparava velo117
cemente in modo sicuro il significato di tutti i termini tecnici filosofici.
Man mano che invecchiava, quanto più diligentemente si dedicava alla
storia della filosofia, leggendo cioè le opere originali dei pensatori più
significativi di tutti i tempi, gli doveva diventare sempre più chiaro
che i termini tecnici della filosofia (accanto alle loro traduzioni e sostituzioni) non hanno un unico vero, immutabile significato, che non
c’è proprio il significato accanto ai significati. I dizionari filosofici più
nuovi, quello tedesco di Eisler e quello inglese di Baldwin – e qui vorrei ringraziare tutti e due per le innumerevoli indicazioni bibliografiche
– hanno compreso che si può conoscere il significato di un termine
solo dalla storia del termine, e arricchiscono questa storia reperendo
materiali dovunque; invero tutti e due i lessici si preoccupano troppo
spesso di fissare oltre a ciò anche il significato, come se ci fosse ancora
una volta un qualche concetto al di fuori della sua storia. Quello che
si può notare a proposito del significato attuale della parola lo si può
definire solo à peu près, tracciando una linea risultante dalle direzioni
presenti, in lotta tra loro, e decidendo di attenersi a questa risultante
per la concezione del mondo del presente o perfino per la concezione
del mondo definitiva; anche il significato attuale di tutte le parole è
divenuto storicamente. Il dizionario della filosofia, che non ha osato
chiamarsi un dizionario filosofico, può aggiungere a ogni saggio di una
storia della parola (148) anche una critica al significato del momento
o ai significati in conflitto.
Da questo si vede che cosa si ottiene quando nelle più moderne
esposizioni della logica il discorso verte su un significato in sé, su un
significato obiettivo-ideale (Husserl). Ma a dire il vero anche qui vi
è al fondo una differenza che, se fosse stata chiara, avrebbe dovuto
metter fine all’inutile ricerca del significato. Penso alla differenza tra
concetto e significato.
Di una parola si può dire cha ha significato; come si può dire di
una cosa che ha delle proprietà, anche se la cosa non è nulla al di
fuori e accanto alle sue proprietà. Così anche la parola non è più una
possibile parte costitutiva del linguaggio se le si toglie il suo significato.
Il significato può essere giusto oppure sbagliato, chiaro oppure oscuro, usuale oppure occasionale, preso in generale oppure limitato a un
ambito ristretto, può appartenere al linguaggio comune o del mestiere:
il significato appartiene sempre indissolubilmente alla parola e nella
psicologia reale del pensiero non lo si può separare dalla parola. Il
significato è un puro concetto psicologico.
Il concetto ha un significato solo nella logica. Non è corretto dire:
la parola ha un concetto. Il concetto non è una proprietà della parola,
è invece la parola stessa, nel momento in cui con essa si eseguono delle
operazioni logiche.
Non saprei dire chi abbia coniato per primo la parola tedesca Bedeutung (significato) in questo senso psicologico; quando si dice che
118
qualcosa di irreale, ad esempio un sogno, bedeute (significhi) qualcosa
di reale, bisogna prima deuten (interpretare) il sogno perché esso abbia
un senso; così bedeuten viene ancora usato molto spesso, e fu usato in
tempi più antichi, per ‘interpretare’, per l’interpretazione (Auslegen)
di parole della propria lingua in relazione a parole straniere o oscure
o equivoche. Per questa ragione sarebbe molto seducente derivare la
parola primitiva deuten, come la parola deutsch, dall’antico alto tedesco diot (popolo), (149) così che deuten potesse significare: render
popolare, comprensibile. Deutsch era già in gotico = pagano, popolaresco; Lutero poteva tradurre bavrbaro" con undeutsch (non tedesco),
nel senso di undeutlich (non chiaro). (Nelle scuole ebraiche si usa
molto spesso, come ho avuto modo di imparare, la domanda: “Was
ist taitsch?” nel senso di “che cosa significa?”) Se si considera però
originale il significato attuale di deuten, cioè indicare, dare un segno,
deiknuvnai, allora Bedeutung potrebbe (non posso dimostrarlo) essere
un’antica traduzione di connotatio, parola usuale nel Medioevo e divenuta di recente un termine inglese con Mill. Non è giusto tradurre
l’inglese connotation con il tedesco Mitbezeichnung (connotazione) o
Nebenbedeutung (significato secondario); il suffisso be (antico alto tedesco bi = nuovo alto tedesco bei) in Bezeichnung (designazione), in
Bedeutung rende già sufficientemente il suffisso latino con e lo ha già
tradotto; connotation nel senso di Mill vuole esprimere propriamente
solo il contenuto semantico di una parola, ma, accanto a questo, anche
il contenuto in opposizione al contesto logico; non ci dobbiamo più
preoccupare di ciò che, con meticolosa distinzione, esprimeva connotatio nell’uso linguistico degli scolastici.
Sul mutamento semantico ho già parlato esaurientemente (B ii, pp.
248ss.); sarebbero ora da confrontare i Prinzipien der Sprachgeschichte
di Paul (terza edizione, p. 67 1) e l’Essai de Sémantique di Bréal. Tutti
e due questi ricercatori si erano evidentemente stancati di indagare
oltre sul mutamento fonico secondo presunte leggi; Bréal esprime questa sensazione in maniera graziosa nelle Idée de ce travail: «Si l’on se
born aux changements des voyelles et des consonnes, on réduit cette
étude aux proportions d’une branche secondaire de l’acoustique et de
la physiologie; si l’on se contente d’énumérer les pertes subies par le
mécanisme grammatical, on donne l’illusion d’un édifice qui tombe en
ruines» 2. Il più rigoroso Paul, che non possiede orecchio meno fine
dello studioso francese per la forma interna della lingua, tiene in maggior conto il contesto delle scienze in questione, si accontenta anche
della designazione tradizionale del mutamento semantico; io non oso
decidere se sia meglio che la nuova disciplina (150) debba chiamarsi
semantica o semasiologia; in qualsiasi modo la si chiami, la nuova disciplina, più feconda della teoria del mutamento fonico, potrebbe dare
i contributi più validi alla storia del pensiero umano.
La teoria inglese del significato (significs) non è davvero molto lon119
tana dalla critica del linguaggio. Distingue con precisione tra significato
usuale (l’uso linguistico dominante), significato individuale (l’intenzione
del parlante o dello scrittore nell’uso di una parola) e il significato
del valore di una rappresentazione. In quest’ultimo senso bedeutend è
stata una parola molto amata dall’ultimo Goethe; già Jacob Grimm ha
registrato con amore e delicatezza questo uso individuale: «Goethe usa
la parola troppo spesso, come se essa non fosse passata dalla rappresentazione più vivace di colui che ti adora, di colui che ti fa presagire,
senza che tu te ne renda conto, anche senza esagerare, in quella più
astratta di ciò è importante, decisivo, eccezionale, grande» 3; e Grimm
nota già che nel linguaggio comune unbedeutend (= insignifiant) precede questo bedeutend (significans).
Coscienza (Bewusstsein)
(174) Il sostantivo “coscienza” non esprime proprio null’altro che
la somma di quelle attività interne che con un’altra parola chiamiamo
la nostra vita spirituale. Ci sono parole-somma (Summenworte), come
appunto “vita”, che hanno diritto di esistenza nel linguaggio scientifico;
a queste parole utilizzabili non appartiene “coscienza”, e io cercherò
di mostrare il difetto del concetto di coscienza che lo differenzia dal
concetto di vita. Ora la parola “coscienza” è ancora più inutilizzabile di
altre parole-somma sostantive dello stesso tipo, poiché il suo contenuto
coincide del tutto con quello di altre parole, dalle quali la superstizione
della parola degli psicologi vorrebbe di nuovo distinguerla. È talmente
chiaro che da circa cent’anni nel linguaggio comune si dice “spirito”,
“spirituale” là dove la scienza parla di espressioni della coscienza. Meno
chiaro è purtroppo che anche i concetti di “io”, “memoria”, “linguaggio” sono solo sinonimi di coscienza. Se però il sentimento dell’io è
un’illusione, se il sentimento dell’io è solo il sentimento vissuto di aver
ricordi, sentimento che noi chiamiamo individuale, perché non c’è un
altro tipo di ricordi, se – detto altrimenti – l’enigma della personalità è
tutt’uno con l’enigma della memoria; se inoltre la nostra vita, diciamo,
animale, il nostro corpo ereditato e le sue funzioni, sono tutt’uno con
la memoria degli organismi; se infine la nostra vita spirituale o il nostro
linguaggio sono tutt’uno con i ricordi ereditati del nostro popolo e di
nuovo dell’umanità: con ciò l’identificazione di coscienza e memoria,
personalità e linguaggio non è invero dimostrata logicamente; tuttavia
questa idea inusuale si avvicina alla spiegazione.
Anche senza ricondurre la coscienza all’attività della memoria, la
parola “coscienza” dopo più di duemila anni di servizio (la sua storia
(175) va dai neoplatonici fin oltre Wolff, che coniò il termine tedesco)
è in procinto di essere licenziata; la nuova psicologia non la ama e
non trova più alcuna differenza tra “cosciente” e “psichico”; solo gli
herbartiani, e agli herbartiani appartiene anche Wundt, si trascinano
ancora avanti con la parola divenuta superflua e si danno pena di ri120
empire la vecchia forma linguistica con nuove rappresentazioni. Così
arrangiata, essa è finita nella raccolta dei concetti filosofici dismessi
come un animale imbalsamato: paglia nella pelle graziosa.
Mi si potrebbe obiettare: se coscienza vuol dire lo stesso che vita
spirituale o psichica, e se questa vita interna, o come altro la si voglia
chiamare, è anche una realtà, anzi persino la realtà più certa e forse
l’unica, il modo di dirla non importa e si potrebbe lasciare in vita la
parola antica, ripulita dalla polvere scolastica. Ma “vita spirituale” è
evidentemente un’espressione figurata e dà una falsa immagine della
rappresentazione. La falsità invero, che si nasconde in tutti questi sostantivi astratti, è comune al concetto di vita e di coscienza: non c’è
una vita, un’altra volta, accanto alle espressioni della vita, non c’è una
coscienza, un’altra volta, accanto agli atti della coscienza. Tutti i sostantivi astratti danno l’illusione a un critico del linguaggio, che fosse
giovane e forte abbastanza, di poter spazzar via con una scopa di ferro
i sostantivi astratti in una grande riforma del linguaggio. I sostantivi
concreti dovremo ben tenerceli finché vogliamo conservare il credo
mistico nella realtà dell’amato mondo.
Cosa (Ding)
(295) Abbiamo imparato a riconoscere che la totalità delle cose,
che la si sia chiamata materia (Materie) o anche sostanza (Stoff), è una
rappresentazione o, con altro termine, un’astrazione (Gedankending).
«Quello che noi chiamiamo materia è un determinato complesso di
sensazioni conforme a leggi» (Mach). Non è così semplice riconoscere che questa critica del concetto generale di sostanza vale anche per
quella che viene comunemente chiamata cosa (Ding), una singola cosa,
un oggetto, una cosa (Sache). Verremo a sapere ancor più precisamente
che Ding e Sache sono due calchi che provengono dall’uso giuridico dei
Latini e in origine significavano l’oggetto controverso di un processo,
che al contrario Gegenstand è un calco di obstantia (objectivum), che
proviene dalla filosofia e che, nel suo significato, già (296) alludeva
in modo oscuro a questioni di teoria del conoscere: Gegenstand è ciò
che sta di fronte all’io, la rappresentazione del quale deriva insieme da
qualcosa di esterno alla ragione umana e dall’impiego della ragione.
Tutte queste espressioni vengono usate nel linguaggio comune senza
particolari distinzioni per le singolarità del reale, per le piccole e grandi
realtà, per le quali il realismo ingenuo nemmeno cerca una spiegazione,
ma che di una spiegazione hanno davvero molto bisogno. Poiché tutte
queste cose non sono invero reali, sono piuttosto le cause di una metà
del nostro mondo reale, quello esterno. Una mela non è che la causa
delle sensazioni: rotondo, rosso, dolce, ecc.; e non c’è una seconda
volta accanto alle sensazioni, delle quali è causa; non c’è poi un’altra
volta ancora. In questo senso tutte le cose sono soltanto astrazioni,
soltanto rappresentazioni. E qui ci si deve guardare dallo scambiare
121
rappresentazione (Vorstellung) e apparenza (Erscheinung). Apparenze
(nel senso di Berkeley e Kant) sono anche le sensazioni aggettive date
immediatamente; queste però non sono astrazioni, non rappresentazioni; esse sono sì già in qualche modo elaborate dall’apparato centrale del
nostro cervello, nel momento in cui arrivano alla coscienza, ma le sensazioni non sono ancora elaborate dalla ragione o dal linguaggio, non
sono ancora astrazioni o rappresentazioni, come lo sono le cose. Non
sappiamo dire delle cose più di questo, che cioè tutte le cose sono solo
astrazioni. La teoria del conoscere, che applica alle cose la proposizione
di Mach: «quello che chiamiamo una cosa è un determinato complesso,
conforme a leggi, di sensazioni connesse tra loro», si distingue solo per
un particolare dal realismo ingenuo che crede di percepire sensibilmente proprio le cose, solo per questo: che essa vede un problema dove
il cosiddetto sano buonsenso non vede nulla e non cerca nulla. Tutti
gli enigmi dei concetti di causa, sostanza, legge, unità si nascondono
dietro il fatto che si è costretti ad assumere un determinato complesso
conforme a legge (297) che i nostri sensi non rivelano e che per questo
apre la strada alla seduzione del sensismo.
Kant, e ancor più chiaramente i neokantiani, hanno indagato il rapporto tra le sensazioni e le loro cause, il rapporto tra il mondo aggettivo e il mondo causale o verbale; i neokantiani hanno conservato la
terminologia di Kant e, in maniera completamente sbagliata, chiamano
cose in sé le cause della sensazione aggettiva; recentemente credono
di aver riconosciuto le vere cose in sé nelle energie. Le energie però
non sono affatto cose, anche se sono oggetti del pensiero. Le cose
appartengono al mondo sostantivo, anche se sono tutte solo astrazioni. Mi pare allora – e da qui vorrei prendere le mosse – che, secondo
questa concezione, non abbia nessun senso che qualcuno si interroghi
sulla cosa in sé dell’astrazione; sarebbe come se si volesse decidere di
designare proprio le sensazioni aggettive come cose in sé relative delle
astrazioni sostantive, il che è abbastanza paradossale.
Ovviamente non intendo per astrazioni degli pseudoconcetti; infatti
questi (strega, miracolo) si segnalano per il fatto che a loro nel mondo
sensibile non corrisponde nulla. All’idea che tutte le cose siano solo
astrazioni ci si abitua meglio con concetti come: ombra, fiamma, vento,
tuono. Il tuono non esiste una seconda volta, sostantivamente, accanto
alle nostre sensazioni di tuono; la fiamma non esiste una seconda volta,
oltre e accanto agli effetti, come causa dei quali noi la proiettiamo, la
ipostatizziamo o come dir si voglia; esattamente allo stesso modo la
mela non c’è due volte, una volta nel mondo aggettivo e una volta in
quello sostantivo. Noi sorridiamo con superiorità del bambino, cui era
stato promesso un viaggio, il quale lontano da casa, dopo aver visto
nuove montagne e laghi e boschi, chiede: “allora – ma dov’è il viaggio?”. Noi siamo infantili allo stesso modo quando chiediamo al fisico:
“allora – ma dov’è la mela, la mela in sé? La mela accanto (298) e al di
122
fuori delle sue qualità?” Pretendiamo due volte la mela che la natura
nonostante la sua onnipotenza ci può dare soltanto una volta.
Così arrivo a un nuovo paradosso, che però può sembrare qualcosa
di strano solo dal punto di vista del realismo ingenuo, non invece secondo la concezione del mondo che ha imparato qualcosa da Hume: le
nostre rappresentazioni di un’astrazione (di un ens rationis) sono molto
più chiare delle nostre rappresentazioni di una cosa corporea. Ho detto
poc’anzi che le nostre impressioni sensibili sono le cose in sé relative,
che non ha nessun senso cercare ancora una volta e in aggiunta cose in
sé dietro le cose reali, e dover credere alla loro esistenza. Ho chiamato
cose in sé relative le sensazioni; qualcosa di assoluto non c’è.
Tutte le cose corporee o i corpi sono appunto già rappresentazioni.
Soltanto che le astrazioni non ci inducono dapprima a cercare dietro
di esse una seconda esistenza, mentre i corpi danno sempre di nuovo
adito a questa doppia visione, non appena rifiutiamo di accontentarci
del sensismo. E questo non lo possiamo evitare, perché l’assunzione
di un mondo reale dietro le impressioni sensibili è un istinto dell’intelletto umano.
È la stessa difficoltà che si presenta per il sentimento dell’io, che
crede esserci, accanto e al di fuori della catena continua dei nostri
vissuti, ancora un io a parte che tiene insieme questa catena. Proprio la
stessa difficoltà. La durata è per noi il contrassegno dell’io. La durata è
per noi il contrassegno delle cose. Inconsciamente, spinti da un istinto,
poniamo un io qualsiasi nelle cose; introiezione la si è chiamata; ne era
a conoscenza già Hume, molto prima che Avenarius coniasse questa
brutta parola. L’idea è stata espressa nel modo migliore da Mach (Erkenntnis und Irrtum, p. 15 4); egli considera la cosa e l’io problemi
fittizi: «rimane il fatto che non esiste, in senso stretto, una cosa isolata.
Solo se si considerano in modo preferenziale dipendenze più forti e
vistose, e si trascurano (299) quelle più deboli, che si notano meno,
ci è consentita, a un livello provvisorio di indagine, la finzione di cose
isolate. Anche l’antitesi tra io e mondo si basa sulla stessa distinzione
in gradi delle differenze. Non c’è un io isolato, come non c’è una cosa
isolata. Cosa e io sono finzioni provvisorie dello stesso tipo».
Unità (Einheit)
(360) Nella mia Kritik der Sprache (B iii, p. 142 ss.) ho già richiamato l’attenzione sulle difficoltà del concetto di unità. Né le unità,
con le quali lo scolaro oggi crede di dover lavorare, né l’unità logica
tra il concetto che sussume e quello sussunto, nemmeno infine l’unità
psicologica della cosiddetta autocoscienza, (361) sono così semplici
da definire, come credono gli scolari, i logici e gli psicologi; e queste
applicazioni della parola si lasciano ancor meno chiaramente inquadrare in un unico concetto di unità. (Nel suo piccolo scritto Rüge einer
merkwürdigen Sprachverwirrung unter den Weltweisen, 1809 5, Carl Le123
onhard Reinhold ha richiamato l’attenzione sulla confusione tra unità e
connessione [Zusammenhang] negli epigoni di Kant, ma senza interesse
per la storia delle parole e nel suo tipico modo incerto di andare a
tastoni). In tedesco Einheit, per quanto possa suonare sorprendente, è
entrata nell’uso comune solo nel xviii secolo. Adelung la considera ancora come un neologismo del tutto inusuale: «La proprietà per cui una
cosa è una; la proprietà per cui una cosa in determinate circostanze
rimane la stessa; la proprietà per cui più cose […] costituiscono solo
uno e proprio lo stesso essere» (Trinità); «la proprietà per cui una cosa
è indivisibile» (monas). Si deve qui notare che cosa è andato perso
per il nostro senso della lingua: una proprietà; soltanto nel contare,
secondo Adelung, l’unità designa la cosa stessa, fintanto che essa è
una; poi, come cosa, essa ha un plurale. Adelung non conosce ancora
le unità plurali, per es., nel dramma le unità di luogo ecc. «Unità, un
sostantivo dei nuovi filosofi, ricavato dal numerale uno, che esprime
il latino unitas» 6. Quindi Adelung sentiva ancora in Einheit il calco
di unitas. Dei tentativi più antichi di rendere unitas con una radice
e un suffisso tedeschi, nella lingua è rimasto solo Einigkeit (unità),
ma non nel senso di Einstimmgkeit (accordo), ma nel termine tecnico
Dreieingkeit (trinità). Così la lingua conservatrice della fede può dire
ancor oggi per l’Uno o l’unico Dio der einige Gott.
Einigkeit era un modo di aggirare il problema, propriamente un
calco di una unicitas non più esistente; poiché Einigkeit connette il
suffisso keit (derivato da heit) a ein trasfomato nell’aggettivo einig,
così che il suono k deriva due volte dalla sillaba finale -ig. I nuovi
filosofi di Adelung (362) erano Leibniz e Wolff. Leibniz fu colui che
per primo usò la parola Einheit per unité e la parola monadi per le
sue Einheiten. Il neologismo Einheit è passato dal tedesco con lieve
modifica all’olandese, allo svedese e al danese e, almeno nell’olandese,
viene sentito come germanismo.
Che Einheit sia un calco di unitas per il mio lettore non occorre
dirlo e nemmeno dimostrarlo. Che il latino unitas fosse un calco del
greco monav", suonerà ancora più strano, eppure è essenziale alla parola
latina e alla greca, come originariamente a quella tedesca, che essa significhi la proprietà dell’essere uno; non può non dare nell’occhio che
unitas fosse usato in senso metaforico per Einigkeit, non ancora monav";
che monav" designasse ancora l’unità sul dado, unitas non più. Una
proposizione come «mundi, quae nunc partes sunt, aliquando unitas
fuit» (Giustino, ii, i, 14) esprime con parole latine uno stato d’animo
greco. Spingendomi ancora più in là, mi chiedo come i Greci siano
giunti al loro termine astratto monav" senza effettuare un calco. Riflettiamo solo su questo: movno" non significa in greco uno (ei|"), ma unico; in
ogni caso le due parole si convertono l’una nell’altra: Platone dice ora
monav" ora eJnav". Al tardo neoplatonismo non posso fare riferimento.
L’antico significato di movno", solo, solitario, che ritorna curiosamente
124
nell’uso di Einigkeit in Kaisersberg, ha dato vita a un’intera famiglia di
vocaboli (es. monasthvrion). In altre formazioni del greco monov" significa
sempre solo oppure unico. Fino a che non mi si indica il passo in cui
un pensatore greco ha formato, in modo autonomo e consapevole, a
partire da questo movno" con la sillaba finale -a", il concetto dell’unità
matematica o logica, io continuo a credere al calco della parola greca
da una fonte orientale o egizia.
Prima di andare avanti o di tornare indietro, vorrei richiamare l’attenzione su come un certo senso della lingua poli-storico cooperi all’internazionalità, sì all’intertemporalità (363) delle nostre scienze. C’è un
sistema filosofico che si chiama dottrina delle monadi, perché tutto ciò
che è composto alla fine di un possibile processo di divisione viene
ricondotto alle parti semplici, dando a queste il nome di monadi. Nel
Medioevo si sarebbe giustamente potuto dire unità o unicità. Ma se
Leibniz, al posto di monadi, avesse detto “unità” (il che era assolutamente lo stesso), ben difficilmente la dottrina che le unità siano semplici
avrebbe ottenuto tutta questa fama.
Littré indica dodici gruppi di significato della parola unité; ma anche il suo acume positivistico naufraga davanti al compito di collegare
logicamente questi gruppi. (1) L’unità come elemento del numero, (2)
l’unità che è posta a fondamento del confronto di qualsivoglia grandezza fisica, (3) le monadi semplici o sostanze di Leibniz, (4) gli atomi o le
molecole della chimica, (5) la proprietà dell’indiviso, che mette insieme
l’unità di Dio e l’unità ad esempio di una specie animale, (6) l’unità
dell’individuo, (7) l’unità del carattere, (8) le cosiddette tre unità di
Aristotele (le unità di azione, di luogo e di tempo, uno slogan che ha
dominato tanto a lungo nel dramma francese, che il plurale “le tre
unità” è divenuto un concetto unitario quasi come i nostri “dieci comandamenti”; Voltaire parla spesso delle tre unità); (9) l’unità del tipo
nell’anatomia comparata, (10) l’unità della materia che sta alla base del
materialismo moderno, (11) l’unità della malattia o dell’immagine della
malattia nella patologia; (12) la cosiddetta unità tattica dell’arte della
guerra, il battaglione, lo squadrone e la batteria. Sarebbe una perdita
di tempo già solo criticare l’ordinamento logico di questa analisi. Ma
gli esempi della prima sezione mostrano come sia potuta andare di
nuovo persa l’antichissima e giusta idea di Euclide, che cioè l’unità o
l’uno sia il fondamento del contare, ma non esso stesso un numero.
Nientedimeno che Pascal, pensatore e matematico, dice (Geom. i 7):
«l’unico motivo (363) per non attribuire l’unità ai numeri è questo:
Euclide e i primi aritmetici dovevano dare più proprietà che fossero
proprie a tutti i numeri, fuorché all’unità; ora, per non dover ripetere
che tale e talaltra condizione di ogni numero, all’infuori dell’unità, era
soddisfatta, esclusero piuttosto l’unità dal concetto di numero, con la
libertà, che ciascuno ha, di dare delle definizioni».
La causa del disordine che si presenta in quasi tutte le trattazioni
125
del concetto di unità sta nel fatto che il concetto di unità passa subito
da due scienze tra loro inconciliabili all’uso linguistico generale o in
ogni caso superficiale. Ed è certo del tutto diverso se l’uso metaforico
del concetto di unità parte dall’unità numerica della matematica o
dalla cosidetta unità dell’autocoscienza, e quindi da una psicologia,
che farebbe del cosiddetto io il punto di partenza e la fonte di tutti gli
altri concetti di unità. A questo si aggiunge ancora la logica formale,
che vorrebbe ricondurre a un solo concetto le unità aritmetiche, cioè
le unità di misura poste di volta in volta arbitrariamente, e le unità organiche, quindi le unità collegate, mediante un qualche io individuale
anche se sbiadito. Questo concetto presenterebbe l’ulteriore difficoltà
di tener separati le parole o i concetti di unità e semplicità e in questo
caso non c’è possibilità di mettere ordine nell’uso linguistico.
A meno che non ristabiliamo nel nostro uso linguistico o nel senso
interno della lingua quello che dal tempo di Adelung è andato perduto:
il carattere qualitativo (Eigenschaftlichkeit) dell’unità logica e concettuale e il carattere non qualitativo (Nichteigenschaftlichkeit) dell’unità
numerica. E qui scopriamo, forse con nostra sorpresa, che possiamo
afferrare facilmente e definire il concetto astratto di unità, che sembra essere uno dei concetti più generali e più difficili, che persino gli
animali lo possono afferrare vagamente meglio del concetto di unità
numerico, l’uno, apparentemente così infantilmente semplice.
Il concetto astratto di unità, che per primo stabilisce il concetto di
cosa (365) nel sostantivo, il concetto di fine nel verbo, la connessione
di causa ed effetto nella meccanica, è capace di un’estensione generale
così vasta, da poter essere esteso a ogni numero o gruppo di numeri
maggiore. La data di oggi, 4.12.1907, la si può comprendere come
unità; in questo senso 2, 3, ecc. sono unità. Questo concetto di unità
certo il mio cane non lo possiede. Ma l’unità del concetto di cosa deve
essergli comprensibile, perché altrimenti non riconoscerebbe i singoli
uomini e le singole cose. Lui non può pensare o scrivere in modo
discorsivo e scolastico con Leibniz «ce qui n’est pas véritablement
un être, n’est non plus véritablement un être», ma per il mio cane io
sono primariamente un uomo, perché sono un uomo. Deve aver percepito la mia astratta unità, mentre la mia unità numerica non riesce
a contarla.
Devo qui parzialmente correggere l’affermazione che l’unità non sia
ancora un numero e che il primo numero sia il due. Solo l’unità astratta
che deve essere stata precedente a ogni contare, ovviamente a ogni
pensare o parlare, non è ancora un numero; un numero diventa però
naturalmente l’unità numerica, perché appartiene al sistema numerico,
ma solo dopo che un sistema numerico è stato completato. Altrimenti
non potremmo contare con l’uno. Possiamo contare certamente anche
con lo zero e con il differenziale; ma lo zero e il differenziale scompaiono, devono scomparire di nuovo, prima di esprimere il risultato esatto;
126
l’uno rimane esatto nel risultato. 1+1 è esattamente 2 (1+1 = 2), 1² =
1: l’unità astratta giunge a espressione solo nella denominazione. Se
nell’ultima uguaglianza ho avuto in mente 1 cm, il risultato è 1 cm ¤,
se pongo al suo posto 10 mm, devo calcolare 1² = 10² = 100 e 1 ¤cm
= 100 ¤ mm. Voglio mostrare con un esempio, se possibile ancora più
elementare, come si distinguano il concetto astratto di unità e quello
numerico. Se di notte sento il campanile battere l’una o le cinque, vuol
dire che è stato necessario lo sviluppo culturale di secoli perché io fossi
in grado di collegare al numero dei colpi (366) il concetto di questo
numero e quanto richiamano uno o cinque rintocchi; il sistema numerico dovette prima essere diventato un’abitudine meccanica, un’abitudine proprio dei bambini piccoli dei popoli acculturati, perché io possa
contare come uno il primo rintocco dopo la mezzanotte e collegargli la
rappresentazione corrispondente, e non bisogna nemmeno dimenticare
che la suddivisione del giorno in 24 ore, e poi la numerazione per due
volte da uno a dodici, è un ulteriore accomodamento arbitrario. Si può
ammaestrare un cane, un cavallo, a distinguere i colpi da uno a dodici;
ma gli animali non hanno il nostro sistema numerico, essi non sanno
che si può andare avanti a contare così, non hanno l’unità numerica; a
prescindere del tutto dal fatto che sarebbe difficile far loro apprendere
le associazioni di pensiero del nostro confrontare le ore e sarebbe difficile che essi potessero distinguere le otto di mattina dalle otto di sera.
Tuttavia il cane deve pur percepire l’unità astratta di un colpo, perché
altrimenti non avrebbe percepito il colpo come un rumore individuale
che per esempio lo induce ad abbaiare. Potrei anche dire così: la via
verso l’unità numerica scende in basso a partire dai numeri più alti; la
via dell’unità astratta sale al sistema numerico. Il cane non possiede il
nostro sistema numerico e non può mai raggiungere l’unità numerica,
l’uno; il cane però possiede il concetto astratto di unità, l’unità della
cosa, ma non raggiunge per questo il sistema numerico, perché ha pur
sempre meno capacità spirituali dell’uomo. E perché in origine è stato
comunque un enorme passo avanti passare dall’unità della cosa al contare le cose. In breve: se noi poniamo l’unità numerica, già esercitiamo
(ben lontani dall’eseguire il più semplice atto di pensiero) un’arte, la
scienza applicata dell’aritmetica, il cui esercizio ci è divenuto tanto abituale nel far di conto, come avviene da circa 600 anni, che riteniamo
scienza applicata l’applicazione dei concetti più semplici.
(367) Ma non è così. E ora, alla fine, comprenderemo perché i
numeri non sono mai parole come le altre parole, perché i numeri
propriamente cadono fuori dall’architettura della grammatica. I numeri
si collegano nel discorso ai sostantivi, come se fossero i loro aggettivi;
essi non hanno però niente a che fare con il mondo delle parole che
indicano delle qualità, con le Eigenschaftswörtern, come noi interpretiamo in tedesco la categoria di aggettivo. Nella forma grammaticale e
anche nell’applicazione metaforica i pronomi possessivi e gli ordinali
127
rientrano grammaticalmente negli aggettivi. Il mio secondo fratello aggiunge al nome “fratello” due aggettivi che aiutano a determinare in
modo inequivocabile un individuo. Soggettivo è mio tanto quanto un
aggettivo come buono; ancor più soggettiva è proprio la determinazione il secondo. Ma se dico io ho quattro fratelli, al mio giudizio sopraggiunge immediatamente, forse in modo deittico, un nuovo elemento
reale, che è altrettanto importante come un qualsiasi sostantivo, verbo
o aggettivo, ma che, nonostante questo, rimane senza forma in senso
grammaticale. Nella maggior parte delle lingue. Spesso solo i primi tre
numeri – in tedesco fino a circa 150 anni fa – hanno la declinazione
del nome; al nominativo e all’accusativo (prima anche al genitivo e al
dativo) venivano persino distinti i tre generi: zween, zwo e zwei; solo a
partire da Adelung si è imposta la forma del neutro, dopo che persino
Goethe e Schiller avevano scambiato le forme. Crederei che questo
carattere aggettivo dei primi numeri non derivi semplicemente dal fatto che vengono usati particolarmente spesso; forse ha contribuito la
formazione analogica del linguaggio infantile, forse la circostanza, che
si colloca a un livello più profondo, che tutti i numeri molto piccoli si
possono percepire con uno sguardo, di colpo, senza contare, e quindi
i numeri molto piccoli possono essere afferrati senza usare l’aritmetica,
davvero quasi come aggettivi o come impressioni sensoriali.
Così l’analisi grammaticale toglie senza misericordia il concetto
astratto di unità – e quanto gli consegue nelle applicazioni logiche,
psicologiche (368) e metafisiche – dal concetto di unità numerica e
dopo una simile considerazione può sembrare un caso che si possano
esprimere con la stessa parola le più alte essenzialità di ogni genere
e il numero più piccolo. Ma tutti e due i concetti si avvicinano nuovamente quando tentiamo di forzare le categorie della grammatica.
Io ho sostenuto (cfr. in particolare B iii, p. 94 ss.), e lo ritengo uno
dei risultati più fruttuosi della critica del linguaggio, la tesi che l’aggettivo, che Aristotele non poteva ancora registrare, è la parte del
discorso originaria e iniziale (visto che abbiamo già dovuto spezzettare la lingua nelle parti del discorso), la tesi che tutti i dati dei nostri
organi di senso, quindi il fondamento di tutto ciò che è nel nostro
intelletto, quindi nel nostro pensiero, ha propriamente e del tutto in
senso proprio natura qualitativa, è aggettivo. La realtà naturale non si
preoccupa certo del linguaggio umano né tantomeno delle parti grammaticali del discorso; ma se potessimo comprendere la realtà naturale
immeditamente senza parole, se possedessimo delle tenaglie adeguate
per questa comprensione, allora dovrebbero essere tenaglie aggettive.
D’altronde l’intelletto umano si sforza da secoli di spiegare la realtà
naturale, dal punto in cui deve sospendere la descrizione, con l’ipotesi
di unità infinitamente piccole, uguali o disuguali. Appartiene all’unità
già presso gli scolastici il fatto di essere indivisibile, indivisibile nella
meccanica o nel pensiero. Ora, per me, da questo punto di vista, il
128
più esterno, è del tutto indifferente rappresentarsi queste unità come
cieche o vedenti, con o senza finestre, come monadi o come atomi;
nella storia della filosofia di fatto lottano da millenni la dottrina delle
monadi e la dottrina atomistica, senza che mai un pensatore abbia saputo dire cosa fossero le monadi, cosa fossero gli atomi, a parte il fatto
di essere unità. Oggi, nonostante Leibniz, Fechner e Hartmann, siamo
immersi fin sopra i capelli nell’atomistica; domani tornerà di moda una
nuova monadologia. Sarebbe possibile un’unificazione delle due ipotesi
solo se si appianasse l’opposizione che ho appena indicato. In tutte le
monadi qualificate (Dio come monas (369) monadum lo si trova più
di mille anni prima di Leibniz, in Sinesio, l’amico cristiano di Ipazia)
c’è la qualità piuttosto che l’unità astratta, negli atomi non qualificabili
c’è la mancanza di qualità piuttosto che l’unità numerica. Se non fosse
altro che un caso relativo della storia delle parole ad aver legato in
un incantesimo i due i concetti così distanti di unità, noi potremmo
comprendere il carattere qualitativo (Eigenschaftlichkeit) dell’unità numerica, l’uno, e con questo la proprietà dei numeri in generale; allora
avremmo sciolto l’enigma del mondo. Fino alla prossima e migliore
posizione del problema. Temo però che il concetto di unità, quello
numerico come quello astratto, corrisponda solo a un bisogno umano,
alla povertà del linguaggio umano, che non sia natura, e se dovessimo
riuscire a sciogliere questo enigma e unificare il concetto astratto di
unità con il concetto numerico di unità, ci sarebbe ancora una volta
soltanto una nuova filosofia, che si chiamerebbe una nuova spiegazione
del mondo, ci sarebbe ancora una volta soltanto un nuovo libro con
nuove sequenze di parole. E, dato che persino il riso è soltanto umano,
la natura non potrebbe nemmeno riderci su.
Il concetto di unità, in tutte le lingue colte, è un concetto numerico,
è l’unità numerica. Esso può essere sorto, non etimologicamente, ma
psicologicamente, dall’unità dell’autocoscienza, dall’atto della memoria
individuale, atto che ci rispecchia il fenomeno primordiale dell’unità,
il sentimento umano dell’io. Questo concetto psichico di unità venne
poi trasferito agli esseri organici, alle specie, a unità casuali o storiche,
come potremo vedere meglio nella nostra ricerca sul concetto di forma,
vedere cioè che il linguaggio è ciò che non può comprendere in altro
modo il mondo della realtà e il mondo interno, se non cercando di
ordinare secondo unità, forme o concetti ciò che o la memoria della
specie ha già ordinato davvero o che l’interesse umano vuole ordinare
per potergli dare un nome.
È stata una fortuna che l’uno o l’unità (370) sia l’unico degli innumerevoli numeri a essere un concetto, una parola come altre parole.
Conoscere (Erkennen)
(441) Non sarebbe onesto se in questo piccolo saggio volessi seguire il concetto nel suo passaggio dal significato sensibile a quello sovra129
sensibile, se volessi prendere le mosse dal significato più decisamente
sensibile, perché nel linguaggio del tedesco biblico vuol dire lo stesso
che consumare il coito; tuttavia non è ancora chiarita la questione se
erkennen abbia un’antichissima connessione con zeugen (generare)
(come assume Grimm) oppure se il senso di copulare sia un calco (al
di là del latino e del greco) dall’ebraico 8. La parola, presa nel significato corrente di riconoscere, ha pur sempre un contenuto puramente
sensibile; si riconosce qualcosa che prima si è visto o sentito, in una
sua caratteristica sensibile. Nell’uso odierno del linguaggio (in passato
kennen coincideva del tutto con erkennen) il processo molto più cosciente dell’Erkennen si distingue dal processo inconscio del kennen
per il fatto che il prefisso er (secondo Paul) designa veramente un processo momentaneo (442) e precisamente insieme l’evento e il risultato;
si potrebbe anche dire: in kennen sta più un ricordo in potentia, in
erkennen più un ricordo in actu.
Il processo che avviene in un uomo quando riconosce un fenomeno
sensibile dovrebbe spiegarlo la psicologia, in particolare la psicologia fisiologica. Un termine usato da Ziehen, che voleva ricondurre il perdurare di una impressione alla sintonizzazione di determinate cellule corticali
del cervello, fa graziosamente pensare al paragone con il telegrafo senza
fili, nel quale vengono prodotti dei segnali solo quando l’apparecchio
ricevente viene sintonizzato su una determinata lunghezza d’onda. Ma
se si osserva bene, questo tentativo di spiegazione è solo un’immagine.
Del resto sono soltanto immagini anche le ricerche meno stimolanti
che negano nell’oggetto conosciuto una qualità conoscitiva obiettiva e
ammettono solo un sentimento conoscitivo soggettivo. Inoltre, dato che
dovrebbe esserci prima una spiegazione della formazione dei concetti,
e la psicologia fallisce già ai primi passi, possiamo trarne la conclusione
che la sola psicologia importante, quella del pensiero, non esiste proprio.
Questo di passaggio; volevo soltanto richiamare l’attenzione sul fatto
che il concetto di erkennen, anche nel suo significato più semplice, ci
è noto solo mediante l’introspezione, quindi superficialmente.
L’uso linguistico attuale, specie negli scritti di carattere spirituale,
utilizza il termine per indicare un’esperienza mentale più intensa. Già
nella traduzione della Bibbia di Lutero erkennen (Vulgata, intelligere)
viene paragonato una volta al vedere e al sentire senza i sensi (Marco,
iv, 12); ancora in Kant erkennen non è propriamente un’espressione
tecnica della filosofia, ma viene usato senza precisione per “intuire”,
”capire”, “comprendere”. Probabilmente non sbaglio nell’osservare
che la prima parola che ne deriva, Erkenntnis, ma ancor più le nuove
forme più nobili Erkenntnistheorie e Erkenntniskritik, ci costringono
a scorgere nella parola base erkennen un’attività eccezionale della nostra facoltà di pensare. (443) Come in ogni verbo anche in erkennen è
nascosto uno scopo. Ci stiamo abituando sempre più a esprimere con
l’espressione fondamentale Erkenntnistheorie l’unico scopo di tutta la
130
scienza e di tutta la filosofia; ci consideriamo dal punto di vista della
conoscenza (wir sehen uns nach Erkenntnis), abbiamo cioè il desiderio di imparare a conoscere il mondo che ci circonda nel suo essere
e di comprenderlo nel suo divenire. L’essere del mondo crediamo di
poterlo ancora sapere (wissen), il divenire del mondo lo dobbiamo
conoscere (erkennen). Secondo l’attuale uso linguistico il sapere è diventato così quasi una condizione del conoscere. Non ho bisogno di
aggiungere che questo rapporto dei due concetti, sapere e conoscere,
è sottoposto alla storia contingente delle mode linguistiche; altre lingue
colte hanno sviluppato la relativa opposizione in modo un po’ diverso,
così che sarebbe impreciso tradurre in francese o in inglese quello che
ho formulato fin qui a proposito del termine tedesco.
La piccola opposizione è relativa, anche perché – se mi si concede
la tendenza che si è affermata nell’uso linguistico contemporaneo – la
scienza del mondo progredisce sempre più e si arresta proprio là dove
comincia il desiderio di conoscere. Sappiamo molto (molto più che nel
Medioevo) del mondo reale nello spazio, del mondo aggettivo dei sensi. Lo chiamiamo una crescita del sapere, se si tratta di fare, mediante
concetti via via sempre più elevati, un catalogo del mondo molto asistematico ed eternamente lontano dall’ideale. Se un tale catalogo del
mondo fosse poi possibile, sarebbe un’unità solo apparente del sapere
nel concetto più alto e più vuoto, nel concetto di essere. Soltanto una
tale unità del sapere anche solo nel mondo aggettivo si chiamerebbe
conoscenza secondo l’uso linguistico in evoluzione.
Anche del mondo verbale o del mondo del divenire abbiamo davvero un cumulo di conoscenze incommensurabilmente più grande rispetto al Medioevo, ma anche qui siamo molto lontani da un’unità del
sapere storico proprio (444) allo stesso modo che nel mondo aggettivo
dei sensi. L’invidiabile monismo, invidiabile per il suo accontentarsi
di sé, per essere l’ultima parola dello spirito umano, dovrebbe proprio teorizzare un’unità più alta rispetto alla conoscenza del mondo
aggettiva e verbale, un’unità più alta del mondo topografico e storico,
del mondo dello spazio e del mondo del tempo. Ma il monismo ha
una pericolosa somiglianza con una istituzione religiosa per il fatto di
essere di nuovo solamente un’aspirazione verso il limite del sapere e
non una rivelazione credibile; infatti, se non altro per amore di un vero
metodo critico, non avremmo avuto bisogno di una parola nuova. I
grandi pensatori e i grandi ricercatori ai quali si richiama volentieri il
monismo non erano monisti.
Io penso allora che l’attuale tendenza dell’uso linguistico porterà
a intendere con conoscenza un’aspirazione che dovrebbe raggiungere,
ai limiti del sapere relativo, un sapere assoluto.
Una conoscenza in questo senso, una conoscenza assoluta è impossibile, perché ogni conoscenza ritorna alla fine alla conoscenza sensibile
e i nostri sensi accidentali sono troppo rozzi anche solo per permettere
131
nel mondo sensibile un conoscere definitivo, una conoscenza che giunga al fondamento ultimo. Il microscopio non ci mostra mai la natura
del sangue o l’attività dei nervi fino alle cause ultime. Per una conoscenza assoluta dell’organismo ci vorrebbe di più, cioè la conoscenza
quasi inimmaginabile dei processi vitali che fanno agire il sangue sulle
vie nervose e i nervi sulle vie del sangue. E questo in innumerevoli
casi. Non possiamo penetrare nella natura fino ai fondamenti ultimi,
per non parlare poi delle connessioni e tessiture dei fondamenti ultimi.
Arriviamo così a una confessione umiliante dove un po’ di humour
può produrre una svolta. Conoscenza dei fondamenti ultimi è solo
una parola del desiderio. L’altra parola del desiderio, Dio, è altrettanto un’espressione per la causa ultima di tutto ciò che è avvenuto
in natura. (445) Uno scolastico devoto del Medioevo potrebbe essere
soddisfatto di questo risultato, che quindi la parola Dio e la parola
conoscenza significhino pressappoco la stessa disposizione dell’uomo
che si eleva. Soltanto che non sarebbe soddisfatto dell’affermazione
che tutte due le parole siano povere allo stesso modo.
Umorismo (Humor)
(W ii, 104) È un concetto così nuovo che fino a ora non si è riusciti a darne una definizione. Né i primi inventori inglesi della cosa, né
i Tedeschi, che l’hanno imitata e migliorata, sono riusciti a penetrare
l’essenza dell’umorismo. Persino per i Francesi, che della parola hanno
preso a prestito la forma dagli Inglesi, la cosa rimane ancor oggi una
creazione straniera; per questa hanno cominciato a usare la parola
inglese humour e impiegano la parola quasi esclusivamente per l’umorismo inglese e per quello tedesco, per quanto lo siano riusciti a comprendere; gli Italiani, il cui umore corrisponde esattamente al francese
humeur, hanno introdotto per questo termine la parola umorismo.
Il termine Humor è nuovo ed è nazional-germanico. Ci si è inutilmente sforzati di scoprire nei Greci e nei Romani qualcosa che corrispondesse al nostro umorismo. E va forse imputato a questi sforzi
che siano fallite le definizioni dell’estetica filosofica (proprio nei nostri
migliori umoristi e nei migliori teorici dell’umorismo, in Jean Paul e
Vischer).
Su questo punto vorrei richiamare qui l’attenzione soltanto di sfuggita. Si è voluto spiegare l’umorismo come un concetto subordinato
del comico, perché l’umorismo riesce a suscitare il sorriso e il riso, e
perché il riso veniva suscitato negli antichi unicamente e soltanto mediante il comico. La letteratura comica dei Greci e dei Romani è assai
ricca; il genio comico di Aristofane nel suo genere non è stato mai
superato; ma di quello che noi chiamiamo umorismo nei comici antichi non se ne trova (105) nemmeno un barlume. Piuttosto si possono
rintracciare tratti umoristici in alcuni caratteri realistici dei tragici. Ci
troviamo qui di fronte a uno dei molti casi nei quali l’antichità, model132
lo a quanto si dice del nostro mondo spirituale, era troppo semplice,
troppo poco complicata, troppo lineare, per poter anche solo presagire
i nostri più moderni stati d’animo e concetti.
La connessione pedante al concetto di comico è sbagliata proprio
perché l’umorismo è esattamente vicino al comico come al pathos, il
contrario del comico. Si pensi al ridere fino alle lacrime che l’umore porta nel suo blasone. E non è un caso che nel momento in cui
gli Inglesi hanno preso coscienza del significato del loro umorismo,
in Francia un’infelice imitazione portava alla commedia lacrimevole.
Larmoyant, malinconico, sentimentale, umoristico, tutti questi concetti
erano ancora estranei ai Greci e ai Romani.
La storia della parola parte dalla Grecia, passa per Roma, per la
Francia e l’Inghilterra e arriva in Germania; passa però anche attraverso diverse discipline scientifiche. La psicologia medica dell’antichità
introdusse l’idea di quattro fluidi, dei quattro humores, la corretta mescolanza o dosaggio (temperamentum) dei quali è necessaria alla salute.
Anche alla salute dell’anima, al buon umore (gute Stimmung); e così
ora il temperamentum, ora gli humores divennero in psicologia l’espressione per ciò che siamo soliti chiamare, a conclusione della storia di
un’altra parola, il carattere; in questo significato si trova molto spesso il
francese humeur. Nella realistica e individualistica Inghilterra la parola,
nella forma humour, è diventata una parola di moda per le tendenze
individuali dei tipi originali, per le stranezze del comportamento, per
quello che gli Inglesi chiamano altrimenti fancy, whim; nei poeti della
commedia, come Ben Johnson e anche Shakespeare, la parola viene
spesso usata, perché si voleva metterla in ridicolo. Quando poi Shakespeare attraverso la traduzione di Schlegel divenne quasi un classico
tedesco, la parola Humor, della quale non si notò l’uso ironico, da noi
passò (106) a indicare la stranezza comica di un carattere individuale;
e poiché i romantici vi ricavarono a ragione relazioni con la loro poesia trascendentale o la loro ironia romantica, l’estetica filosofica del
tempo si impadronì del concetto di umorismo; si credette di analizzare
l’umorismo di Shakespeare, ma si giunse a un nuovo ideale tedesco di
umorismo, per il quale non vi era alcun esempio nella storia del concetto. Vorrei però subito notare che gli humores della psicologia medica
adesso ci sembrano infantili, perché la patologia umorale, che era in
vigore un secolo e mezzo fa, attualmente o al momento è sostituita da
un’altra teoria, la patologia cellulare; e vorrei notare che l’humeur della
precedente psicologia appartiene oggi già alla psicologia popolare, che è
tenuta meno in considerazione, perché la parola di moda temperamento
(che certamente appartiene al gruppo degli humeurs) è stata sostituita
dalla parola di moda carattere, che gode di una sempre più alta considerazione, perché questa estetica filosofica è up to date.
Per la storia decisiva della parola in Inghilterra e in Germania è
importante un passo dell’Essay of dramatic poesy di Dryden (1668) e
133
la traduzione che di questo passo ha dato il giovane Lessing nel saggio
xiii della sua Biblioteca teatrale. Questo saggio xiii è certo tutto dello
stesso Lessing, anche se quanto precede dovette essere di Nicolai. Il
giovane Lessing allora premette: «ricordo anche che, quando voglio
tradurre la parola, rendo Humour con Laune, perché non credo che si
troverà qualcosa di più adatto in tutta la lingua tedesca». Dopo questa
spiegazione egli fa dire a Dryden: «Lo Humor è la stravaganza ridicola
nei rapporti per cui un uomo si distingue da tutti gli altri. Gli antichi
hanno molto poco di questo nelle loro commedie; infatti il geloi'on della commedia greca antica, di cui Aristofane era l’esponente principale,
non aveva lo scopo di imitare un determinato uomo, quanto piuttosto
di far ridere il popolo con un colpo di scena insolito (107) che aveva in
sé per lo più qualcosa di innaturale o di osceno 9. […] Successivamente,
nella commedia moderna i poeti cercarono di esprimere l’h\qo" degli
uomini, come nelle loro tragedie il pavqo". Solo che questo h\qo" conteneva semplicemente il carattere generale degli uomini e i loro costumi
come essi si presentano: vecchi, amanti, servitori, cortigiane, scrocconi
e altre persone di questo tipo, come le troviamo nelle loro commedie
[…] ma per quanto riguarda i Francesi, sebbene essi abbiano la parola humeur nella loro lingua, ne fanno un uso assai parco nelle loro
commedie e nelle farse, che altro non sono che cattive imitazioni del
geloi'on o del ridicolo della commedia antica. Del tutto diverso negli
Inglesi, che intendono per umorismo una qualche abitudine, passione
o tendenza licenziosa che, come già detto, è propria di una persona
che con questa stranezza si distingue subito da tutte le altre. Se questo
umorismo viene rappresentato in maniera vivace e naturale, suscita per
lo più il piacere maligno che si tradisce nel riso, che del resto tutte le
deviazioni dall’ordinario sono in grado di suscitare molto efficacemente.
Ma in questo modo il riso è solo casuale, dipende dal fatto che le persone rappresentate siano stravaganti o bizzarre; il piacere al contrario
gli è essenziale come lo è ogni imitazione della natura. Allora il genio
proprio e la più grande maestria del nostro Ben Johnson consistono
nella descrizione di questo umorismo o buon umore che egli aveva
notato in certe determinate persone» 10.
Si noti quanto poco questa esposizione corrisponda al nostro concetto di umorismo; il riso dev’essere solo casuale, dipendere solo dai
caratteri strani e buffoneschi, quindi dalla materia, mentre noi nell’umorismo pensiamo prima di tutto alla forma soggettiva (108) dell’attività
poetica; il ragionamento di Dryden corrisponde piuttosto abbastanza
precisamente a ciò che chiamiamo realismo o naturalismo del dramma;
e l’inglese ha proprio ragione quando contrappone alla commedia francese la nuova e nazionale esigenza di rappresentare in modo naturale
i caratteri specifici.
Il Lessing maturo della Hamburgischen Dramaturgie è tornato ancora una volta sulla storia della parola (1768), nel saggio 93, in una nota
134
che si ricollega sia a Dryden che a Ben Johnson: «la parola Humor era
tornata di moda e venne abusata nella maniera più ridicola». Egli cita
un passo di Ben Johnson:
As when some one peculiar quality
Doth so possess a Man, that it doth draw
All his affects, his spirits, and his powers
In their construction, all to run one way,
This may be truly said to be a humour.
(«Quando una qualche peculiare qualità di un uomo lo possiede in
modo tale da coinvolgere nella sua tutte le sue passioni, i suoi spiriti
e le sue forze, da incanalarle tutte in una sola via, questo lo si può
veramente chiamare umorismo») […] «L’umorismo, che noi ora consideriamo così eccellente negli Inglesi, era allora in loro in gran parte affettazione e in particolare il rendere ridicola questa affettazione descrive
l’umorismo di Ben Johnson. […] Ne ho raccolto diligentemente degli
esempi (Lessing pensa di individualizzare l’arte degli antichi), esempi
che desideravo anche solo poter mettere in ordine per rivedere con
l’occasione un errore che è diventato abbastanza generale. Ho tradotto
cioè – ed è ora quasi comune – umorismo con Laune (buon umore) e
credo consapevolmente di essere stato il primo ad averlo tradotto così.
Ho sbagliato e desidererei che non mi avessero seguito. Credo infatti
di poter dimostrare in modo inconfutabile che umorismo e Laune sono
cose del tutto diverse e, in determinate condizioni, del tutto opposte.
Laune può diventare umorismo (109), ma l’umorismo, al di fuori di
questo unico caso, non è mai Laune. Avrei dovuto indagare meglio la
derivazione della nostra parola tedesca e il suo uso comune e rifletterci
meglio. Ho concluso troppo in fretta che, dato che Laune esprime
il francese humeur, potesse esprimere anche l’inglese humour; ma i
Francesi stessi non possono tradurre humour con humeur» 11; penso
di sapere come Lessing sia giunto a questa correzione. Tra il 1758 e il
1768 cade la pubblicazione di una lettera di Voltaire all’Abbé d’Olivet,
il cancelliere dell’Accademia francese. Voltaire lamenta che la lingua
francese sia impoverita dalla massa di libri inutili, che abbia perso le
belle espressioni che in inglese si sarebbero mantenute, come désappointé e partie. A proposito del nostro tema scrive (20 agosto 1761):
«Je trouve, par exemple, plusieurs mots qui ont vieilli parmi nous,
qui sont même entièrement oubliés, et dont nos voisins les Anglais se
servent heureusement. Ils ont un terme pour signifier cette plaisanterie,
ce vrai cornique, cette gaieté, cette urbanité, ces saillies qui échappent
à un homme sans qu’il s’en doute; et ils rendent cette idée par le mot
humeur, humour, qu’ils prononcent yumour; et ils croient qu’ils ont
seul cette humeur, que les autres nations n’ont point de terme pour
exprimer ce caractère d’esprit. Cependant, c’est un ancien mot de notre langue, employé en ce sens dans plusieurs comédies de Corneille.
135
Au reste, quand je dis que cette humeur est une éspèce d’urbanité,
je parle à un homme instruit, qui sait que nous avons appliqué mal à
propos le mot d’urbanité à la politesse, et qu’urbanitas signifiait à Rome
precisément ce qu’humour signifie chez les Anglais.»
Ho presentato in maniera esauriente le doglie del parto della parola
tedesca, dell’uso linguistico tedesco, perché essa ha acquisito un così
alto credito proprio a partire dall’estetica tedesca che sempre vuol essere metafisica del bello. Persino i due eccellenti umoristi, Jean Paul e
Vischer, che hanno scritto sull’umorismo tutto quello che vale la pena
di leggere, si sono sentiti in dovere di entrare nel merito di tutto (110)
l’armamentario filosofico. Jean Paul parla di una totalità dell’umorismo,
di un finito applicato all’infinito, e con tutta la sua arguzia non ha reso
teoricamente comprensibile l’umorismo come ha fatto attraverso alcune figure umoristiche dei suoi romanzi. Vischer, che ha fatto seguire
abbastanza tardi alla sua teoria l’esempio del suo delizioso romanzo
umoristico 12, si è affaticato invano ad applicare il modello di Hegel
al concetto di umorismo; egli stesso deve essere scoppiato in una risata umoristica liberatoria, quando da vecchio signore, ha riaperto la
sua Aesthetik ai paragrafi 205-22. Mi è sempre sembrato che Vischer
abbia costruito con le sue astrazioni esangui una definizione piuttosto
di filosofia che di umorismo. Mi sono molto sforzato di tradurre la
metafisica di Vischer nella lingua di un uomo non del tutto incapace
di apprezzare i componimenti umoristici; ho anche cercato di tradurre
i tre gradi dell’umorismo in ricordi artistici: il primo grado o l’umorismo ingenuo non è ancora proprio umorismo; il secondo o l’umorismo
sguaiato corrisponde pressappoco a quello che possiamo gustare proprio
come umorismo in Shakespeare e Swift, in minor misura in Sterne, in
Jean Paul e Vischer. Ma cos’è l’umorismo del terzo grado, l’umorismo
in senso proprio, quello grande e libero? Temo davvero che l’umorismo
libero non sia niente altro che la concezione del mondo del tutto libera
della mente veramente filosofica, il sacro riso del filosofo, la superiorità
rispetto a tutto l’affannarsi e il pensare dell’uomo, la rassegnazione di
un grande cuore; e tutta (111) questa grandezza la possiamo sentire e
apprezzare come umorismo solo quando il filosofo è per caso anche
uno scrittore umoristico e utilizza a tal fine l’umorismo del primo e del
secondo grado (Witz, Laune, ironia, baldanza, malinconia) per rappresentare la sua concezione del mondo in un personaggio umoristico. Non
si può definire l’umorismo, perché non esiste umorismo nel mondo sostantivo, né come cosa reale, né come astrazione; c’è umorismo solo nel
mondo aggettivo; ci sono pensatori con humour (anche tra uomini del
tutto sobri; umoristi lo diventano solo quando scrivono libri); ci sono
figure umoristiche, umoristiche per l’osservatore o per il lettore. Trovo
una involontaria confessione di questo fatto, che cioè la definizione di
umorismo proprio non esista, nello stesso Vischer (ivi, p. 472 13): «il
concetto di questo umorismo (dell’umorismo libero, dell’umorismo al
136
più alto grado) è necessario, la sua realizzazione rimane un compito».
Si potrebbe dire la stessa cosa per molti bei concetti. Dio, libertà, felicità sono necessari; la loro realizzazione rimane un compito; il che non
esclude che esistano uomini (relativamente) santi, felici, liberi. Anche
l’umorismo del più alto grado è solo un postulato della teoria.
Ho altre eresie sul cuore.
Non è vero che i Greci abbiano già conosciuto qualcosa come l’umorismo. A questo proposito si cita sempre Aristofane, a suo modo certo
insuperabile. Ma tutti i suoi talenti – arguzia (Witz), satira e ironia –
non cambiano il fatto che egli non ha mai creato una figura umoristica; il significato più profondo rende più pregevole il Witz, ma non lo
trasforma in umorismo. Ci fu forse una volta un greco che possedeva
umorismo: Socrate; ma i Greci non compresero l’umorismo e uccisero
il loro unico umorista.
Non è vero che il grande umorismo sia una scoperta dello spirito
germanico. Shakespeare fu certamente un pensatore con dello humour;
ma egli solo occasionalmente ha prestato alle sue figure tratti umoristici;
umoristico al grado più alto (112) era Amleto, eppure il suo poeta volle
chiaramente creare una figura tragica; e anche Amleto diventa umoristico solo dove egli, il disperato, rimane fedele in maniera ridicola (witzig)
al suo ruolo. Swift nel suo Gulliver è sempre witzig; umoristico soltanto
dove come narratore esce dal ruolo. C’è un’unica figura umoristica che
corrisponde interamente alla definizione del grande umorismo, e questa figura non è germanica: don Chisciotte; Cervantes voleva scrivere
un’allegra parodia; ma don Chisciotte, il suo eroe comico, era buono,
nobile, valoroso, saggio, era un uomo eccellente; lo scrittore si affezionò
al suo eroe comico, e solo allora il Don Chisciotte divenne il capolavoro dell’umorismo (soprattutto nella seconda parte, nell’ira consapevole
contro la comicità del meschino prosecutore, Avellaneda). L’umorismo
non è mai un’astrazione. Non credo di contraddirmi se ciononostante
ora cerco un’altra parola per umorismo, se cerco di trovare un nome
per quello che i Tedeschi pressappoco intendono quando, dal tempo
dei loro romantici, parlano di umorismo. Intendono la maniera migliore del ridere, il sacro riso, il riso di chi ha superato il mondo e che
ridendo ha superato anche sé stesso. Si sente spesso dire che l’uomo
si distingue dall’animale per il ridere, che l’uomo è l’animale che ride;
e Schopenhauer ha costruito su questo la sua teoria del ridicolo: ne
sarebbe l’origine la sussunzione inaspettata di un oggetto sotto un concetto eterogeneo. Io vorrei sapere dove si nasconde questa sussunzione
quando un intero circo ride del volto stupido di Hanswurst preso a
schiaffi. C’è un ridere così comune che si avrebbe quasi la voglia di
chiamarlo un ridere animale. Il ridere può raffinarsi in un ridere su
scherzi via via sempre migliori dell’arguzia spiritosa, dei motti di spirito
artistici. Il ridere su una sorpresa musicale di Haydn è già molto vicino
al ridere che io ho in mente, ma è ancora felicità. Il sentimento che è
137
stato chiamato in modo così stucchevole dolore cosmico (Weltschmerz)
quando è diventato una maniera (113) e una smorfia, per il suo sacro
riso il sentimento del superamento del mondo non ha nemmeno bisogno di una pausa, come Haydn; il sentimento del superamento del
mondo ride nel modo più sacro della quotidianità alla quale appartiene
consapevolmente anche colui che ride. Chi non sa di appartenervi, chi
si ritiene un oltreuomo, non conosce ancora il sacro riso, non è ancora
un filosofo, è forse una figura tragico-umoristica del più alto grado, il
nuovo Don Chisciotte.
La parola umorismo con la quale si è indicato questo sacro riso si
è ridotta molto male. Non solo ai nostri tempi, in cui gli editori di
piatto ciarpame possono definire sé stessi umoristi e definire racconti
umoristici le loro merci, proprio il piatto ciarpame. Già Jean Paul ha
parlato dei cosiddetti umoristi che non saprebbero che rivelare il loro
divertito sentirsi a proprio agio. E con questo Jean Paul non pensava
ancora agli scarabocchi della comicità più volgare che oggigiorno ci
viene imbandita sotto il titolo di racconti umoristici; egli pensava a
scritti comici di medio valore che al suo tempo erano molto stimati e
che ancor oggi sono citati con onore nella storia della letteratura.
Jean Paul, che come critico, non sempre come scrittore, possedeva un gusto straordinariamente fine, aveva dovuto difendersi da una
concezione dell’umorismo diventata dominante tra i romantici: dalla
confusione tra umorismo e ironia. Jean Paul, il più soggettivista di tutti
i narratori, dovette fare una fatica particolare per liberarsi dal soggettivismo dogmatico di Fichte; altrettanta fatica per superare il romanticismo dogmatico. Jean Paul fu davvero quello di cui i leader romantici si
vantavano solo con parole forbite, un educatore alla vita; l’educazione
romantica all’arte non gli bastava. Che il più alto punto di vista della
considerazione del mondo si chiamasse umorismo o ironia, in ogni caso
egli mirava alla cosa in sé: seriamente, non per gioco. «Critici e cani
non fiutano rose e fiori puzzolenti, (114) ma amici e nemici» (Vorschule
der Aesthetik, p. 307 14). Egli vide la distanza tra il modello dell’ironia
romantica e il genio ironico. «Il Gulliver di Swift – nello stile meno,
nello spirito più umoristico della sua favola – sta alto sulla rupe Tarpea dalla quale questo spirito fa precipitare il genere umano» (cit., p.
240 15). Chi apprezzava così tanto uno Swift, non poteva accontentarsi
del giochetto romantico dell’ironia.
Ironia (eijrwneiva = finzione) è notoriamente il nome di una figura
retorica; questa figura consiste nel fatto che il parlante chiede con
particolare insistenza il giudizio all’ascoltatore affermando il contrario;
l’ascoltatore deve trovare da sé ciò che si intende e in questo modo
viene reso più attento che non mediante l’esposizione diretta della verità. È chiaro, anche senza la mia pedante spiegazione, che la figura
dell’ironia designa solo la forma di un pensiero, non il pensiero stesso.
Il più saggio dei Greci, Socrate, aveva esercitato l’ironia per educare
138
al pensiero i suoi giovani amici; ma qualsiasi sciocco è ironico quando
con un tempo da lupi parla di bel tempo, quando chiama bella ragazza una prostituta brutta e ripugnante. È chiaro allora che i romantici
scambiarono la forma con la cosa, il gioco dell’ironia con la serietà
della riflessione, quando identificarono schematicamente la loro ironia
con l’umorismo, quando (Friedrich Schlegel) definirono l’ironia lo stato
d’animo «che guarda al di là di tutto, si innalza infinitamente sopra
tutto ciò che è condizionato, anche al di sopra della propria arte, virtù
o genialità». Nei protoromantici non si trova nemmeno un barlume di
quello che chiamiamo umorismo; nemmeno negli attuali neoromantici.
Per questo uno spirito così penetrante come Novalis potè identificare
in un unico e medesimo respiro l’ironia romantica e l’umorismo. Per
dimostrarlo mi basta riportare due frasi di un frammento dal Blütenstaub (115) (Schriften, ed. da Minor, ii, p. 117 16), da lui stesso pubblicato. «Quello che Friedrich Schlegel caratterizza in modo così acuto
come ironia, a mio parere, non è niente altro che la conseguenza, il
carattere dell’accortezza, la vera presenza di spirito. L’ironia di Schlegel
mi sembra essere l’umorismo autentico […] L’umorismo è un atteggiamento di maniera assunto arbitrariamente. L’arbitrario è quello che vi
è di piccante». Si potrebbe ridere: il superamento del mondo, il superamento del proprio pensiero e del proprio sentimento, l’oltrefilosofia,
è diventata una maniera di scuola.
Ho creduto di dover mostrare l’illusione dei Romantici, la loro confusione tra umorismo e ironia, per far ora comprendere i motti di Goe����
the sull’umorismo, che raramente sono stati citati. Goethe aveva a suo
tempo mantenuto la parola tramandata nell’antico significato inglese, nel
senso di meraviglia; così usa il termine ancora in Dichtung und Wahrheit,
quando racconta dello Humor audace delle sue ragazzate. Poi l’uomo
maturo conobbe il concetto nel travisamento dei romantici. E vanno
contro questo travisamento frasi come (Sprüche in Prosa, 108 17): «non
c’è nulla di volgare in ciò che, espresso nella distorsione di una smorfia,
sembri umoristico»; poi: «l’umorismo è uno degli elementi del genio, ma
appena prevale, ne è solo un surrogato; accompagna l’arte decadente, la
distrugge, infine la annienta» (701 18). Si confronti anche quello che egli
(456) adduce contro i tormenti psicologici degli «ipocondriaci, umoristi
e Heautontimorumenoi» 19.
E Goethe, che si è liberato dei propri tormenti ipocondriaci con
la creazione del Werther, ha tuttavia creato anche Mefistofele, che si
avvicina abbastanza all’ideale di una figura umoristica. Quel poco che
ancora ci manca non può essere la superiorità spirituale, dato che
Goethe era saggio. Non può essere la bontà d’animo, che non deve
mancare nel poeta umoristico, dato che Goethe era buono. Ma la proprietà dell’umorismo, il riso dell’umorismo lo può possedere soltanto
un uomo; e Mefistofele non è un uomo, (116) è soltanto l’ironia personificata. È l’apice dell’ironia, quello che i romantici una generazione
139
dopo esigevano come qualcosa di nuovo. Inoltre Goethe era troppo
concreto per spendersi nel soggettivismo dell’umorismo; infine, troppo
egoista per amare una delle sue figure fino all’umorismo.
Ridere (Lachen)
(269) Il muscolo che provoca nel volto umano segnatamente l’espressione mimica del ridere con il sollevare il labbro superiore è lo zygomaticus major e non il risorius; ciononostante quest’ultimo muscolo ha
mantenuto il suo simpatico nome e può continuare a portarlo, perché
è bene se il nome antico viene mantenuto a ricordo di antiche rappresentazioni. Ricordo il particolare anche solo perché questo termine
sbagliato mi sembra essere un analogo degli sforzi senza fine di trarre
conclusioni dalla somiglianza dei movimenti espressivi che denominiamo ridere e sorridere, di connettere indissolubilmente l’umorismo con
il ridicolo (das Lächerliche, geloi'on). In genere il sorriso viene spiegato
come un riso indebolito anche da quei ricercatori che (come Hecker)
hanno spiegato molto bene il riso come l’effetto di un solletico interiore,
per così dire di un solletico dovuto allo scambio veloce di rappresentazioni messe a confronto. Certo, il sorriso può anche essere un riso
indebolito; nel malato che è troppo debole per attivare con sufficiente
vivacità il gioco dei muscoli; in chi è triste, se ad esempio la giovane
madre, nel dolore che prova subito dopo la morte dello sposo, riesce
appena a sorridere allo scherzo del bimbo, scherzo per il quale avrebbe
altrimenti riso forte.
Ma c’è anche un sorridere diverso da quello che può essere provocato in ogni uomo da un oggetto adeguato, ma soltanto in un soggetto
particolare, e che può essere provocato quasi da ogni osservazione,
non solo da un’arguzia: penso al sorriso di superiorità dell’umorismo
filosofico. Forse si imparerà a riconoscere che i movimenti espressivi
mimici hanno anche questa somiglianza con le parole del linguaggio
umano: non si possono tradurre sempre in modo univoco. Si sa che le
combinazioni non sono così semplici, come credeva la mimica antica.
Lo sguardo penetrante, il pianto e la stessa espressione del disprezzo
e dell’amarezza possono mettere in gioco i muscoli che provocano il
sorriso. Amarezza e disprezzo devono essere superati se si (270) deve
poter parlare della concezione del mondo dell’umorismo più libero;
ma riso, amarezza, disprezzo possono giocare in qualche modo agli
angoli della bocca, se il volto mostra un’espressione umoristica. Con
il ridicolo, il geloi'on, non ha molto a che vedere né la storia della
parola Humor né il concetto troppo dilatato che ora (invero solo in
Germania) viene collegato alla parola; non più che il musculus risorius
con il risus.
Bello (Schön)
(W iii, 75) Omero e Sofocle, Fidia e Raffaello, Dante e Shakespe140
are, Leonardo da Vinci e Sebastian Bach hanno creato opere che ancor oggi troviamo belle; hanno creato senza l’estetica, senza nemmeno
sapere che un giorno ci sarebbe stata una scienza del bello; molto
prima della scoperta dell’estetica Greci e Romani, Inglesi e Tedeschi
avevano nella loro lingua parole che esprimevano la sensazione (76):
questo mi piace. Omero diceva kalov" di uomini e volentieri di donne,
di manzi e di cani, di vestiti e di armi, ma anche nel senso di buono
o di appropriato, di venti, di discorsi; conosceva anche il sostantivo
kavllo", soltanto che gli interpreti discutono se questo kavllo" fosse
la bellezza personificata, che veniva messa addosso agli uomini come
un vestito, o se fosse semplicemente un mezzo ornamentale. I Latini
dicevano pulcher di giovani e di ragazze, di case e di città, però usavano la parola anche laddove noi diciamo bello, beato, nobile ecc. delle
cose spirituali; pulcher viene fatto derivare da fulgere (risplendere). Ora
però presso i Latini era molto popolare anche un’altra parola: bellus
(da benulus da bonus), che corrisponde al tedesco hübsch (grazioso),
niedlich (carino) o all’obsoleto artig (garbato). Da bellus e dal volgare
bellitas derivano le parole romanze bello, beau, beauté, belâtre con tutte
le loro famiglie, e gli Inglesi vi ricavarono il loro beautiful (da beauty),
pressappoco come diciamo stilvoll (in perfetto stile) di un mobile.
Le lingue germaniche possedevano una parola che in inglese è stata
sostituita da beautiful (anche sheen è obsoleto, vale a dire è ancora in
uso nella lingua poetica), ma che nell’olandese e nell’alto tedesco è fin
troppo usata: schön (bello). L’etimo è incerto; il gotico skauns traduce
in combinazione il greco morfhv, ma non dobbiamo sorvolare sul fatto
che non sappiamo se i due passi principali (Filippesi, 2,6; 3,21) si riferiscano alla bellezza del Cristo trasfigurato o già alla successiva figura
teologica. La derivazione da schauen (guardare) non è convincente; se
si dovesse accettare nuovamente la derivazione da scheinen (sembrare)
(nonostante Skeat, ii, p. 58 20 rifiuti ogni connessione con to shine),
non si potrebbe pensare a un calco di pulcher (da fulgere); rimane
strano che (secondo Bréal) anche kalov" debba aver avuto il significato
fondamentale di chiaro. Ed è anche strano che il nostro schon, l’avverbio antico di schön, venisse spesso usato in passato e venga usato oggi
come il latino belle e bene nel senso di recte, gut, wohl (bene).
L’aggettivo bello (e naturalmente i suoi corrispondenti) (77) esprime in tutte le lingue una sensazione che conosciamo bene; e anche
se non è riferito in primo luogo al piacere sessuale, come più volte è
stato ammesso (da Erasmus Darwin, da Charles Darwin, da Wilhelm
Scherer), come pure era costume in Grecia intagliare il nome dell’amato sul tronco di un albero e scriverci sotto oJ kalov" oppure hJ kalhv,
poté designare tra gli uomini più semplici un’impressione piacevole.
Il predicato bello appartenne da sempre ai giudizi di valore naturali;
nel mondo dell’esperienza umana, nel mondo aggettivo, ci sono stati
fenomeni belli: uomini belli, animali belli, suppellettili belle, e alla fine
141
si fece la scoperta che anche il paesaggio poteva essere definito bello.
Ma gli uomini impararono con il tempo a trasferire i fenomeni belli nel
mondo verbale, nel mondo dell’agire, dal momento in cui essi produssero qualcosa di bello. Essi scoprirono le arti. Ultimamente gli artisti
amano definirsi i creatori par excellence. E le arti si ostinano da secoli,
senza che ve ne sia bisogno, a cercare la bellezza anche nel mondo
sostantivo e in quello metafisico. La Germania può vantarsi di aver
indagato e definito per prima l’essenza della bellezza. Scientificamente.
Come se le parole kavllo", pulchritudo, bellezza, beauty, Schönheit non
fossero già in uso prima. Si attribuì il termine astratto “bellezza” a
donne e anche a uomini, animali, piante; si scrissero trattati sulla bellezza e si cominciò persino a riflettere sul concetto. Il vecchio Walch
(Philosophisches Lexicon 21) già richiamava l’attenzione sui «differenti»
modi di usare la parola; la si può applicare alle sensazioni, in cui «il
concetto e il gusto degli uomini sono così differenti l’uno dall’altro»;
[…] «posti davanti all’altro, bisogna contemplare la bellezza come essa
sia effettivamente in una cosa»; la bellezza non sarebbe una chimera, una cosa che consiste soltanto nell’immaginazione, ma qualcosa di
reale, un ordine e un’armonia composta di pezzi molteplici. Questa
annotazione precede (78) una dissertazione nella quale il famoso Baumgarten formulò l’esigenza di una scienza specifica, di una scienza
del bello (1735), e la pubblicazione «di valore epocale» della prima
parte dell’opera stessa, l’Aesthetica di Baumgarten, che non ha ancora
smesso di provocare conseguenze fatali.
L’onesta Aesthetica di Baumgarten, per il contenuto, non va essenzialmente oltre il suo tempo; Gottsched e Bülfinger avevano trattato il
bello in maniera già sufficientemente razionalistica e Breitinger aveva
tentato di istituire una dottrina del buon gusto come “logica della
facoltà dell’immaginazione”; nuovo in Baumgarten è davvero soltanto
il nome che egli dà alla dottrina del gusto: aijsqavnomai = percepire
(wahrnehmen), appercepire (apperzepieren), aijsqhtav" = percepibile,
sensibile, ta; aijsqhtikav = ciò che è percepibile, il mondo sensibile. Così
con aijsqhtikhv potè essere definita la dottrina della percezione sensibile. La bellezza però è perfectio cognitionis sensitivae qua talis; il gusto
è judicium sensuum; così aijsqhtikhv potrebbe chiamarsi la dottrina del
bello par excellence. Per noi il padre o meglio il padrino dell’estetica
moderna è semplicemente indigeribile per lo sforzo di istituire il bello
in parallelo con il vero e di ricondurre le verità estetiche sotto il concetto di probabilità, perché esse non sono né interamente vere né interamente false: «est ergo veritas aesthetica, a potiori dicta verisimilitudo,
ille veritatis gradus, qui, etiamsi non evectus sit ad completam certitudinem tamen nihil contineat falsitatis observabilis» (Aesth. § 483 22).
Baumgarten non si è liberato dalla paura che gli si potesse obiettare,
a lui professore di filosofia teoretica e morale, di aver consigliato, con
l’elogio del bello, la menzogna.
142
Ma la forma conchiusa della nuova disciplina la dobbiamo allo
spirito sistematico tedesco e Kant – che in genere nei suoi scritti precritici spesso ha preso come fondamento delle sue lezioni i libri di
Baumgarten – dopo alcune oscillazioni, ha ripreso il concetto di estetica e lo ha introdotto con tutto il suo credito nelle scienze filosofiche.
(79) Conviene sottolineare che Kant in un primo momento rifiutò con
energia il nome “estetica”. Come è noto, egli chiama la prima parte
della sua opera principale “estetica trascendentale”, vale a dire «una
scienza di tutti i principi a priori della sensibilità». E poiché la parola
era stata limitata erroneamente alla sensibilità del bello proprio con
Baumgarten, aggiunge in una nota tagliente (prima Critica della ragion
pura, p. 21 23): «i Tedeschi sono i soli, che si servono ora della parola
“estetica”, per designare con essa ciò che gli altri chiamano critica del
gusto. Questa denominazione si fonda sulla falsa speranza, concepita
dall’eccellente pensatore analitico Baumgarten, di sottoporre la valutazione critica del bello a principi di ragione e di innalzare a scienza
le regole di tale valutazione. Questo sforzo tuttavia è vano. Difatti le
regole o i criteri suddetti, riguardo alle loro fonti, sono semplicemente
empirici e non potranno quindi mai servire come leggi a priori, secondo le quali dovrebbe regolarsi il nostro giudizio di gusto; quest’ultimo,
piuttosto, costituisce la vera e propria pietra di paragone per l’esattezza
delle prime. Per questa ragione, è consigliabile lasciar di nuovo cadere
questa denominazione e tenerla in serbo per quella dottrina che sia
vera scienza (in tal modo ci si accosterebbe anche più da vicino al
linguaggio e al significato degli antichi, presso i quali la partizione della
conoscenza in aijsqhta; kai; nohtav era assai famosa)». Così Kant tratta
la sua potente teoria dello spazio e del tempo nel capitolo “estetica”, che ora si chiamerebbe piuttosto “fenomenologia”. Nella seconda
edizione della Critica della ragion pura la protesta contro il termine
“estetica”’ è già molto attutita; solo le fonti «principali» si chiamano
ancora empiriche, le regole non possono mai servire a «determinate»
leggi a priori, la denominazione la si dovrebbe o lasciar cadere oppure
prenderla in parte in senso trascendentale, in parte in senso psicologico. Questa correzione dell’anno 1787 è doppiamente interessante
(cfr. l’edizione dell’Accademia, vol. v, Introduzione di Windelband,
p. 515 s. 24): Kant si era rappacificato con il termine “estetica”, era
già dell’idea di introdurre nel suo sistema trascendentale la dottrina
del bello (il lettore confronti la Lettera a Reinhold del 28 dicembre
1787, che è molto umana (80) e dimostra chiaramente la dipendenza
di Kant dall’architettonica del proprio sistema, poiché gli vengono
delle spiegazioni «che non si aspettava» e prevede già per la Pasqua
successiva il suo manoscritto sull’estetica con il titolo di Critica del
gusto), ma non aveva ancora aderito all’idea fatale che vi siano anche
giudizi estetici a priori, che l’estetica vada oltre la psicologia. Quando
egli nel 1790 pubblica la sua Kritik der Urteilskraft (le parole del titolo
143
sono scelte palesemente per ricondurre sotto un concetto, senza apparente violenza, il sentimento soggettivo del bello e la dottrina di una
oggettiva finalità della natura; qui noi trattiamo propriamente qualche
aspetto della prima parte, la Critica del giudizio estetico), usa l’aggettivo estetico quasi solo come lo usiamo comunemente, parla di giudizi
estetici, del valore estetico delle belle arti e di idee estetiche. Quasi.
Kant ha definito bene e in maniera rigorosa tutti questi concetti. In
Kant il concetto non era così scialbo come viene usato oggi (estetico è
diventato quasi un sinonimo di bello e la recente designazione esteta,
divenuta internazionale per tramite dell’Inghilterra, vuole estendere la
parola perfino all’insieme della condotta di vita); il concetto dovette
prima diventare una parola di moda; e lo divenne solo con l’allievo
di Kant, Schiller.
Almeno per la Germania Schiller ha sulla coscienza l’abuso delle
parole estetica e bellezza. Non sono serviti a salvarlo nemmeno le sue
aspirazioni di filosofia dell’arte. Esse cadono nella grande pausa improduttiva tra i drammi giovanili, geniali e immaturi, e le opere consapevolmente classicheggianti che hanno dominato il gusto tedesco per due
intere generazioni. Schiller ha presentato tre volte la sua estetica: nelle
conferenze, nelle lettere Über die ästhetische Erziehung des Menschen
e infine nei frammenti che scrisse a Körner per il grande progetto di
un’estetica, Kallias oder über die Schönheit. Schiller era ancora in tutto
più dipendente da Kant di quanto egli stesso credesse e ammettesse.
Occasionalmente (81) aveva scherzato (Hempels Schillerausgabe, Bd.
xv, p. 690 25) sui «poveri pasticcioni che rimestavano nella filosofia
kantiana»; ma anche lui è un kantiano non indipendente e maneggia i
concetti kantiani in maniera filosoficamente incerta, anche se con un’abilità così sorprendente che il pubblico letterario del tempo pensò che
Kant fosse stato migliorato da Schiller. «La bellezza non è niente altro
che la libertà nel fenomeno. – Un’azione libera è una bella azione se
coincidono autonomia dell’animo e autonomia nel fenomeno. – La bellezza è la natura nel suo essere conforme all’arte». Il grande passo che
Kant aveva fatto oltre Baumgarten consisteva nella liberazione di ciò che
è estetico da ciò che è logico, nella liberazione del concetto di bellezza
dal concetto di perfezione. Kant distingue tra bellezza libera (pulchritudo vaga) e bellezza puramente aderente (pulchritudo adhaerens); solo
la bellezza libera è del tutto pura e – Schiller formula con irritazione
questo pensiero – un arabesco o qualcosa di simile, considerato come
bellezza, è più puro della più alta bellezza dell’uomo. Schiller rifiuta
questa feconda osservazione di Kant: «in realtà mi pare che essa fallisca
completamente il concetto della bellezza» (p. 683). Schiller non ha certo
criticato il fatto che Kant, in fondo un estraneo all’arte, abbia scelto tra
gli altri un esempio mostruoso a sostegno della sua tesi, il fatto che egli
annoveri «l’intera musica senza testo» in questi arabeschi. La violenta
lotta di Kant per incorporare la dottrina del bello nel suo sistema tra144
scendentale è rimasta per Schiller un qualcosa di estraneo. Ancora nel
1792 Schiller vede Kant fermo al 1787, quando voleva ripartire il termine “estetica” tra la metafisica e la psicologia. Molto inferiore rispetto
a Kant, Schiller vuole andare al di là della psicologia, non dal punto
di vista della teoria del conoscere, ma solo in modo fuorviante; vuole
scoprire la bellezza sostantiva dietro il sentimento aggettivo del bello.
Egli scrive a Körner (xv, p. 646): «io credo di aver scoperto il concetto
oggettivo del bello, che si qualifica eo ipso anche come principio del
gusto e che Kant dispera di trovare». (82) Ebbene sì: «la bellezza è la
libertà nel fenomeno».
La differenza essenziale tra Schiller e Goethe si manifesta in modo
chiaro nel fatto che Goethe, che invece ha riflettuto veramente sull’arte,
non è mai diventato uno scrittore di filosofia dell’arte; le sue innumerevoli esternazioni occasionali non passano mai dal mondo aggettivo
del bello al mondo sostantivo e metafisico della bellezza astratta. Per
questo Goethe non aveva alcuna considerazione per l’attività artistica
in quanto tale, egli vedeva la «nullità» nelle opere dei piccoli talenti. «Il gusto non lo si può proprio formare nella mediocrità, ma solo
nell’eccellenza» (Gespräche v, p. 35 26). Goethe era superiore a Kant
e a Schiller nel fatto che, senza limitarsi alla poesia, aveva studiato a
fondo le arti figurative e l’architettura ed era pervenuto con passione
ad alcune «opinioni» anche nella musica, che gli era estranea.
Kant si era occupato molto della poesia più antica, mentre ebbe
a mala pena l’occasione di lasciar agire su di sé la grande musica o
addirittura le opere delle arti figurative. Così egli creò la sua estetica
dal profondo dell’animo e dai libri e non fu per niente cosciente della
mancanza di esperienza. Tuttavia, senza uscire da Königsberg, ha anche tenuto spesso lezioni sull’antropologia e, in questo caso, in maniera
del tutto ingenua, ha detto della sua città natale che la sua grandezza e
la sua posizione privilegiata potevano sostituire tutte le altre fonti antropologiche: «Una grande città, centro di uno Stato, dove si trovano
i consigli locali di governo, che possiede un’università (per la cultura
scientifica) ed è anche sede di commercio marittimo, che per mezzo
di fiumi favorisce il traffico dall’interno e coi paesi finitimi e lontani di
diverse lingue e costumi, una tal città, come è per esempio Königsberg
sul Pregel, può esser presa come sede adatta per l’ampliamento della
conoscenza dell’uomo e per la conoscenza del mondo, la quale vi può
essere acquistata anche senza viaggiare» (83) (Anthropologie, Vorrede,
p. vii 27). Allo stesso modo Königsberg dovette ben sostituire in lui
anche l’esperienza estetica.
Le cose non andarono diversamente per Schiller, nel momento in
cui prese a scrivere la sua grande estetica. Burke, Sulzer, Webb, Mengs,
Winckelmann, Home, Batteux, Wood, Mendelssohn accanto a cinque o
sei cattivi compendi li possiede già; ma egli desidera da Körner (lettera
dell’11 gennaio 1793) ancora più libri, sempre soltanto libri. Anche i
145
pittori italiani li vuole conoscere dalle incisioni. Anche sull’architettura
desiderava persino troppo volentieri un buon libro. «Dubito di potermi
fare delle idee sulla musica, poiché il mio orecchio è troppo vecchio;
tuttavia non temo che la mia teoria della bellezza possa far naufragio
nell’arte musicale».
Non si obietti che non si può pretendere da nessuno che vivesse
alla fine del Settecento la competenza che oggi si pretende con diritto
da ogni professore di storia dell’arte e da ogni miglior critico d’arte.
Qui non si tratta certo della storia dell’arte, ma dell’estetica, della
teoria del bello. Si dovevano indagare i sentimenti estetici e a questo
ufficio si dedicarono uomini che confrontarono le grandi opere strumentali di Bach e di Mozart con gli arabeschi, che non avevano mai
visto un quadro originale di Raffaello o di Rembrandt e che affrontavano perfino la poesia con le vecchie regole. Non è strano che da questo studio concettuale dell’arte scaturisse il nuovo dogma: l’essenziale
dell’oggetto artistico è di non suscitare interesse.
Questa dottrina, che io sappia, è stata elaborata per la prima volta
da Burke, l’originale inglese, che aveva chiaramente ricavato dai quadri dei pittori suoi contemporanei il suo grazioso ideale di bellezza.
Non si dimentichi che poco prima (1745) Hogarth aveva sbalordito il
mondo con la scoperta della curva della bellezza. Anche Burke aveva
la sua morbida curva della bellezza; secondo lui le proprietà naturali
di un bell’oggetto sono: (1) proporzionata piccolezza; (2) levigatezza;
(3) diversa direzione delle parti; […] (5) fine costruzione, (6) colori
vivaci (84), che però non devono essere troppo stridenti; (7) se tuttavia
ci dev’essere un colore stridente, deve venir mitigato da altri. Burke
ora dice – Schiller rende così la frase: «la bellezza suscita inclinazione
senza desiderio di possesso».
A questo pensiero è già stata data la forma da Kant e poi in modo
molto più brillante da Schopenhauer; il pieno godimento del bene e
del piacevole sarebbe connesso all’interesse; invece il pieno godimento
che definisce il giudizio estetico sarebbe privo di ogni interesse; il giudizio estetico sarebbe del tutto disinteressato, mentre l’oggetto di un
simile giudizio sarebbe molto interessante. Già questo modo di parlare,
che ancora domina l’estetica delle nostre scuole, contiene l’esagerazione, la menzogna, alla quale dovette portare la nuova disciplina, perché
essa aveva sostantivato l’oggetto di tutte le sue ricerche, la bellezza.
Finché la bellezza era una qualità nei fenomeni, una qualità in certa
misura obiettiva, una forza delle opere belle che desta in noi il compiacimento estetico, si poteva almeno dire di questa cosa inesistente che
essa non avesse alcuna relazione con il nostro interesse o con la nostra
volontà. Prima però che ci fosse una scienza estetica – invero anche
da quando c’è – c’era solo un sentimento che determinati fenomeni
suscitano in noi e che dipende proprio dal nostro interesse. Anche se
bello non deve aver designato originariamente e da principio ciò che
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appare piacevole nell’altro sesso (dove certo non è del tutto da escludere presso i non-esteti il desiderio del possesso brutale), certo però
l’aggettivo bello è stato esteso progressivamente dai fenomeni corporei
alle opere d’arte, e queste opere d’arte le vogliamo sentire o vedere,
facendo del tutto astrazione dal fatto che non siamo sempre dei barbari che vorrebbero anche possedere queste opere d’arte. L’errore nella
famosa mancanza di interesse del piacere umano mi sembra stare nel
fatto che nell’interesse si sia pensato a un interesse dei cinque sensi,
all’utilità per il singolo uomo o per l’umanità, al fatto che (85) non si
sia considerato quanto profondamente dipendano dalla volontà umana
tutti i giudizi di valore, ai quali appartengono anche i giudizi estetici.
La menzogna della mancanza di interesse nell’interesse artistico – di
cui si chiacchiera – diventa chiarissima quando si pensa ai filosofi che
hanno fatto un ulteriore passo avanti e, in modo del tutto conseguente,
hanno chiamato il godimento estetico privo di passione. Solo uno scrittore d’arte che non avesse mai esperito la sensazione del bello, potrebbe
spingersi così lontano. Possono esserci delle persone che proprio non
conoscono un’eccitazione più forte e passionale di quella che è connessa all’udire una sinfonia di Beethoven, l’ottava per esempio, al primo
sguardo sulla Madonna Sistina, alla prima lettura del Faust. Tutto viene
sconvolto, le fondamenta della volontà che la coscienza non raggiunge.
Odio e amore sono eccitati, si è spinti all’azione e questo gli scrittori
d’arte lo chiamano mancanza di interesse, mancanza d’affetto.
Tra i miei esempi della forza eccitatrice delle arti può far eccezione
la musica, poiché la musica agisce in modo immediato sul sentimento.
Allora però la musica dovrebbe essere esclusa dall’ambito dell’arte “disinteressata”, il che non si può tuttavia pensare seriamente. Lo stesso
Hanslick, famoso estetico musicale, del quale ora piace negare i meriti a
causa del suo odio contro Wagner, lo si intende male se si ritiene la sua
teoria del “bello musicale” come una estetica formale pura. Anch’egli
dà contenuto alla musica, solo che il contenuto ha da essere musicale.
«In confronto all’arabesco la musica è in realtà un’immagine, tale che il
suo oggetto non può essere racchiuso in parole ed esaurito dai concetti.
In musica c’è senso e continuità, ma intesi in senso musicale; essa è
un linguaggio che noi parliamo e comprendiamo, ma che non siamo
in grado di tradurre» (p. 79 28). Non c’è nella musica alcuna contrapposizione tra forma e contenuto. «A che cosa si vuole dare il nome di
contenuto? Ai suoni stessi? Certo, ma essi hanno già una forma. Che
cosa chiameremo forma? (86) Ancora una volta i suoni stessi, ma in
quanto sono una forma compiuta» (p. 213 29). All’esercizio di un secolo di estetica scientifica che, non contento di indagare il sentimento
aggettivo del bello, ha voluto scoprire nelle opere d’arte e persino nella
natura la bellezza obiettiva, sostantiva, a questo esercizio, ufficioso e
quindi spesso ipocrita, è riuscito di degradare il bello. L’arte o la bellezza obiettiva venne sopravvalutata e considerata una divinità; tutti gli
147
artisti “creatori” (avrei quasi detto alla berlinese Künstlehr) divennero
sacerdoti dell’arte. Nessuna meraviglia che questa gente proveniente
dal mondo verbale (pittore, scultore, poeta, compositore sono nomina
agentis) si sia subito messa insieme in una casta di sacerdoti che salvaguarda gli interessi di casta al servizio della sua arte disinteressata! Che
miracolo che, dopo le chiacchiere di maniera sul significato dell’arte,
ogni Künstlehr si ritenga o si dichiari un superuomo e pretenda decime,
da omuncoli e donnine! E il bello aggettivo, l’unico vero in questo
mondo, è diventato allora una merce, una merce di scambio dei sacerdoti dell’arte. Anche qui il sacerdote digerisce il cibo che i fedeli hanno
portato da mangiare al dio.
Verità (Wahrheit)
(409) La scepsi è dubbio. Chi crede, crede a una verità. La verità
personificata, la verità eterna, la stabilis veritas, perché è già di per sé
Dio, sta davanti al credente (410) Agostino in modo quasi grottesco.
Erit veritas etiamsi mundus intereat. Se la verità attenga alle cose o
al pensiero umano, alle nostre rappresentazioni o ai nostri giudizi, su
questo si è filosofato all’infinito. Tutti i logici hanno limitato il concetto
di verità al pensiero o al giudizio: Aristotele, Tommaso, Descartes, ma
anche Hobbes.
Ora che ci avviciniamo alla fine della ricerca e che la parola verità
non costituisce più per noi un feticcio, possiamo entrare con serenità nel
merito della disputa antica. Chi colloca la verità nelle cose, presta fede ai
suoi sensi; nel momento in cui crede due volte alle sue impressioni sensoriali, le pone due volte, una volta dal lato del soggetto e una volta da
quello dell’oggetto, ne deduce l’accordo tra apparenza e realtà e chiama
verità il fatto che cose identiche siano identiche. Chi pone la verità nel
suo giudizio, conferisce al concetto di verità un contenuto, se possibile,
ancora minore: in primo luogo egli giudica (ovviamente in modo corretto, vale a dire: secondo la sua miglior consapevolezza logica), poi crede
alla correttezza dei suoi corretti giudizi e chiama questa sua credenza
verità. Hobbes, che io ho collocato tra i pensatori che ponevano la verità
soltanto nel giudizio, ha già tratto le conseguenze di questa posizione.
Noi non conosciamo altri giudizi che quelli linguistici; quindi vero e
falso sono attributi del discorso, delle parole, di una proposizione. E
una proposizione è vera, se il predicato contiene in sé il soggetto. Non
credo di travisare la posizione del potente Hobbes, se la espongo nel
modo seguente: solo le proposizioni tautologiche sono vere.
Ci sono sempre stati dei dogmatici, uomini che credettero solo al
Dio onnisciente e infinitamente buono che non avrebbe potuto ingannarci nella fede nella sua verità, oppure uomini che credettero in
un sistema rigido. Ci sono sempre stati gli spiriti liberi, gli eretici in
religione e in filosofia, gli scettici, che applicarono l’idea che tutta la
nostra conoscenza è relativa anche al concetto del conoscere più alto,
148
alla verità. Herbart («noi (411) viviamo nelle relazioni e non abbiamo
bisogno di altro»), Spencer («noi pensiamo nelle relazioni») si sono
spaventati proprio della parola eretica relatività; essi non negano affatto l’assoluto, il reale, esso è per noi semplicemente unknowable. Non
sappiamo proprio niente altro che relazioni, perché il nostro sapere è
esso stesso solo una relazione, un rapporto dell’io con l’altro. Solo un
logico logicista (Stocklogiker) come Husserl può volerlo negare: «ciò
che è vero, è assoluto, è vero in sé». In fondo del tutto corretto: si
dovrebbe solo chiamare vero il vero assoluto, quindi non usare proprio
la parola vero.
Questo relativismo del concetto di verità lo ha espresso bene ����
Goethe in tutta la sua saggezza: «se io conosco il mio rapporto con me
stesso e con il mondo esterno, lo chiamo verità. E così ciascuno può
avere la sua verità ed è comunque sempre la stessa». Oltre a questo
Goethe ha anche affermato chiaramente che il concetto di verità aderisce alle parole (Spr. i. Pr. 51 30): «l’errore si ripete continuamente
nell’azione, per questo non ci si deve stancare di ripetere il vero nelle
parole». Sarebbe utile se il più saggio dei Tedeschi venisse citato più
spesso di quanto accade nelle diatribe filosofiche.
Il timore del relativismo deriva propriamente dal fatto che i dogmatici assumono verità eterne, assolute non solo nell’ambito del conoscere, ma anche all’interno del santuario della morale. Se anche le
verità morali venivano dichiarate relative, allora anche il mondo doveva
cadere a pezzi. Allora la menzogna e il diavolo non erano più neri.
Allora la menzogna non era più peccato, e all’umanità veniva strappato
via ogni valore. Il giudizio di valore sul concetto di verità, la mescolanza internazionale di verità e di veridicità agivano di comune accordo,
quando ci si spaventava di fronte alla difesa antimorale della menzogna
di Nietzsche. Di fronte alla dottrina di Nietzsche: che l’errore sia il
principio che mantiene in vita.
Le declamazioni contro la menzogna come vero e proprio vizio
diabolico sono state da sempre comuni ai teologi cristiani (nonostante
il Vangelo di Giovanni, 7, 8 ss.); in ambito filosofico Kant (412) ha
cercato per primo di fondare questa ripugnanza di fronte alla menzogna nella facoltà del linguaggio dell’uomo «in modo piatto, infantile e
senza gusto» (secondo le parole di Schopenhauer); questa ripugnanza
incondizionata si baserebbe però «sull’affezione o sul pregiudizio»; è
noto che Schopenhauer approva la menzogna almeno laddove sarebbe
permessa come legittima difesa. Anche Bacone, il fine conoscitore degli
uomini, è un difensore della menzogna; nel suo saggio Della verità egli
paragona la verità a una perla cha fa la sua miglior figura di giorno, ma
non raggiunge mai il prezzo di un diamante che si lascia osservare al
meglio al bagliore di una candela; la mendace mascherata del mondo;
la mescolanza con la menzogna e l’inganno sarebbe simile all’aggiunta di metallo comune nelle monete d’oro e d’argento, aggiunta che
149
solo rende il metallo adatto alla lavorazione. Spessissimo la menzogna
viene giustificata o addirittura lodata dai poeti che certo a essa sono
i più vicini; non è mai stato detto qualcosa di più benigno di quello
che viene detto da Grillparzer alla fine della sua commedia satirica,
condensato di umanità e saggezza, Weh dem, der lügt: «La mala erba
(la menzogna), a quel che vedo, non si estirpa. | Ed è fortuna se poi
vi cresce sopra il grano» 31.
Non è mai stato detto qualcosa di più terribile di quello che viene
detto da Ibsen nell’Anatra selvatica: il medico Relling salva le persone
che gli sono care conservando in loro la menzogna vitale, il principio
stimolante, il cauterio che mette loro sulla nuca. Così una menzogna
vitale è lo scherzo che egli ha escogitato per mantenere l’uomo in vita:
«se all’uomo medio si toglie la menzogna vitale, gli si toglie contemporaneamente anche la felicità. [...] Non usi la parola straniera ideali;
poiché l’abbiamo già la nostra buona parola menzogne» 32.
Ibsen conservò la parola, e la menzogna vitale che la conservava
corrisponde sorprendentemente bene al pensiero di Nietzsche sull’utilità biologica dell’errore. È difficile, come sempre in Nietzsche, far funzionare questo pensiero in modo netto e chiaro. Non perché Nietzsche
non abbia lasciato un sistema, nemmeno perché sia stato uno scrittore
di aforismi. È proprio di Nietzsche la splendida affermazione: «la volontà di sistema è una mancanza di onestà» 33. Gli aforismi sono sempre
mezze verità; poiché (413) però non abbiamo mai la verità intera, la
metà diventa più dell’intero. Anche la mania, spinta fino al patologico,
di passare con le stampelle del linguaggio da antitesi di giochi linguistici
a paradossi che eccedono se stessi può solo raramente intorbidire il
piacere limpido per la personalità scettica di Nietzsche. Ma l’interesse
passionale di Nietzsche per il pensiero in tutte le sue “poesie concettuali” riguarda la vita, riguarda l’inversione dei valori della vita; egli
ha portato avanti ricerche nell’ambito della teoria del conoscere solo
accidentalmente, ed era così poco contento di queste irruzioni, di questi
fuochi d’artificio o di questi lampi di genio, che quasi non li pubblicò
mai, che non ci mostrò mai l’impalcatura del suo filosofare, abbastanza
non-tedesco, visto che il più grande filosofo tedesco è diventato famoso
soprattutto grazie all’impalcatura con cui schiaccia spesso sé stesso e
noi. L’ideale tedesco dell’intellettuale sarebbe di lasciare stare l’impalcatura attorno a ogni duomo per tempi infiniti. Nietzsche ha pensato solo
di rado in modo concluso, ma la profanazione pietosa di cadaveri lo ha
buttato sul mercato, e ora si cerca di ricostruire la teoria del conoscere
di Nietzsche solo dai volumi disordinati del Nachlass.
Errore e menzogna diventano per Nietzsche concetti interscambiabili
perché egli, in questo “non-tedesco” e di nuovo il più tedesco dei Tedeschi, non era un commerciante del negozio del pensiero speculativo,
ma soffriva troppo profondamente per il suo pensiero che egli sentiva
profondamente. Come si può continuare a vivere, se si è penetrati con
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lo sguardo nella menzogna vitale? Se si sgomitolano le illusioni che mantengono in vita? Nella risposta a questa domanda faustiana sta tutto il
Nietzsche, malato affascinante. La massa crede alle illusioni, quindi non
si lascia disturbare. Il pensatore che è giunto dietro il segreto dell’errore vitale o della menzogna vitale, affonda, se è un codardo. Solo il
più forte, il povero Nietzsche malato, sopporta la verità che non ci sia
nessuna verità.
«La falsità di un giudizio non è per noi ancora, per noi, un’obiezione contro di esso […]. La questione è fino a che punto questo giudizio promuova e conservi la vita, conservi la specie e forse addirittura
concorra al suo sviluppo; e noi siamo fondamentalmente propensi ad
affermare che i giudizi più falsi (414) […] sono per noi i più indispensabili, […] che rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un rinunciare
alla vita, una negazione della vita» 34. La verità ha un valore morale,
la non-verità ne ha uno biologico. Essere conforme al vero (wahrhaft)
significa «dire menzogne in gruppo». Diciamo veri gli errori che sono
diventati carne. Nietzsche chiama vero ciò che ci è utile, come l’umanità fin dai tempi dell’origine ha chiamato buono ciò che gli era utile.
Con la stessa sequenza di parole i pragmatisti intendono qualcosa di
diverso. Nietzsche ha potuto ripetere contro il concetto di verità quello
che sempre Spinoza aveva enunciato contro il concetto di bene. Basta
una sola considerazione per dargli ragione: l’umanità non ha mai posseduto la verità fin dal suo esistere e tuttavia ha continuato a vivere.
Solo che è di nuovo un gioco con le parole chiamare con il termine
della negazione e dell’insulto, errore o menzogna, il positivo, che solo
può essere ciò che mantiene in vita, perché non lo conosciamo 35. Ciò
che è unknowable, è unknowable, che lo si celebri come l’assoluto o
lo si designi senza rispetto come errore. La voce inglese agnosticism
non è poi così male.
In riferimento al linguaggio Richter, invero in modo infelice, nel suo
libro – che peraltro vale la pena di leggere per il suo grande valore – ha
classificato l’agnosticismo individualistico di Nietzsche come scetticismo
biologico; Nietzsche valuta verità ed errore dal punto di vista biologico;
“scetticismo biologico” ricorda un po’ la caserma dell’artiglieria a cavallo (me la ricorda anche lo “scetticismo linguistico” con cui Richter
onora anche le mie idee, Richter, ii, p. 453 36). Nietzsche non voleva,
come Hume, essere chiamato scettico. Gli scettici greci che coerentemente definirono impossibile ogni giudizio, non avrebbero nemmeno
potuto vivere, se fossero stati del tutto coerenti. L’asino di Buridano,
che a causa della mancanza di libertà del volere, del volere umano
(avrei detto io), deve morire di fame tra due fascine di fieno esattamente uguali, sembra un asino più intelligente rispetto all’asino scettico che
non può mangiare la sua unica fascina, perché dubita della realtà del
fieno, e non sa nemmeno se sia un asino e se possa davvero mangiare.
Allo stesso modo avrebbe dovuto far morire di fame l’umanità questo
151
asino scettico, se essa avesse vissuto secondo la teoria scettica, l’unica
verità. Nietzsche, appassionato della vita, non volle essere un tal scettico, certo nemmeno uno scettico biologico. Si può chiamare la sua teoria
“relativismo individualistico”, se proprio la si vuol classificare: «ciò che
mi manda in rovina per me non è vero, cioè è una relazione falsa del
mio essere con altre cose. Infatti c’è solo una verità individuale – una
relazione assoluta è un non senso». Non possediamo allora nessuna
verità che sia assoluta, dobbiamo accontentarci delle opinioni, della
credenza (Glauben) che ci viene incontro come surrogato della verità
per la terza volta.
Il linguaggio si stanca a forza di dimenarsi pietosamente con tali
concetti. Vero dovrebbe essere ciò che corrisponde alla realtà. Chiamiamo credenza il nostro rapporto con le rappresentazioni o con i giudizi,
quando li consideriamo veri, cioè quando non sappiamo che sono veri,
quando quindi non li consideriamo veri. Sarebbe molto meglio (416)
optare per la rassegnazione, entrare nell’ordine degli Ent-sagenden di
Goethe.
La lingua tedesca ha formulato una volta un Witz pazzesco e ha
tolto la pelle al concetto di verità. Un’asserzione di verità era nel medio alto tedesco allwaere (antico alto tedesco alawâr = verissimus).
Quando non si sentì più la sua origine, ne venne fuori per mutamento fonetico alber, da Gottsched e Gellert albern. Noi sappiamo cosa
significa ora questo antico alwaere. Lutero traduce: ein Alber gläubt
alles (uno sciocco crede a tutto, Spr. Sal. 14, 1537).
Mondo aggettivo
(W i, 17) Il termine grammaticale adjektivum è notoriamente la
traduzione del greco ejpivqeton; è anche noto che Aristotele – che in
ogni caso non era un grammatico – non aveva alcuna idea della categoria dell’aggettivo, che per lui ejpivqeton consisteva nel caso speciale
dell’epitheton ornans poetico. In seguito, con ejpivqeton i grammatici
greci continuavano a pensare in primo luogo a elogio o biasimo, ma
aggiunsero lentamente alle proprietà dell’anima e del corpo altre parole
qualitative.
Se mai i Greci fossero stati portati alla ricerca gnoseologica, come
fondatore della logica Aristotele avrebbe comunque dovuto prendere
in considerazione anche il significato grammaticale dell’aggettivo.
Nella mia Kritik der Sprache (B ii, p. 94 s.) ho cercato di mostrare
che l’aggettivo nella storia della grammatica è la parte del discorso
più giovane, ma nella storia dell’intelletto la più antica. Cosa sia una
cosa me lo dicono le sue proprietà, al di fuori di esse la domanda è
metafisica. «La costituzione della corporeità a partire dalle qualità si
completa a livello prelinguistico; anche la scimmia, quando mangia una
mela, probabilmente mette insieme a partire dalle qualità di liscio, dolce, rosso, pesante, ecc. l’ipotesi della cosa-mela» 38. Il mondo aggettivo
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è l’unico mondo a noi accessibile mediante le impressioni sensoriali; il
mondo sostantivo è lo stesso mondo dato ancora una volta, concepito
sotto l’ipotesi della cosalità.
Non credo di avere la tendenza a costringere le mie osservazioni
in un sistema. Ma l’applicazione di una concezione del mondo – che
ci terrà occupati ancora per molto – al concetto di appercezione mi
trae fuori dall’isolamento nominalistico. Il linguaggio umano, che si
costituisce attraverso l’appercezione ed è costituito dall’appercezione,
ha formato da sempre tre categorie, con l’aiuto delle quali cercava di
comprendere il mondo: l’aggettivo, il verbo e il sostantivo. Mi sembra
ora possibile (18) ripartire ancora una volta in queste tre categorie, in
modo diverso da come è stato fatto finora, il processo interno delle
appercezioni che nel loro insieme costituiscono il pensiero.
C’è un mondo aggettivo, l’unico mondo del quale facciamo esperienza in modo immediato attraverso i sensi; tutte le nostre sensazioni,
tutti i nostri dati dei sensi sono aggettivi; aggettive sono inoltre anche
tutte le nostre sensazioni dell’anima, i nostri giudizi di valore, tutto ciò
che chiamiamo giusto, buono, bello ecc. Questo mondo aggettivo si
frantuma in singole impressioni, non si costituisce in forme unitarie,
lo si potrebbe chiamare un mondo a puntini (pointilliert).
Se vogliamo congiungere i punti in unità, se vogliamo dirigere l’attenzione su delle unità (con questo non bisogna dimenticare che l’attenzione viene stimolata da unità o forme misteriose nelle cose), dobbiamo
considerare, cioè pensare, cioè rivolgere la capacità di appercepire alle
impressioni dei sensi. La congiunzione delle sensazioni in unità mediante l’attività della memoria la si potrebbe chiamare il mondo verbale (un
po’ più audace dell’espressione mondo aggettivo di poco fa). Oppure,
mettendo sullo stesso piano attività ed efficacia, il mondo causale. Il
mondo a puntini delle impressioni passive dei sensi si trasforma mediante l’operare dell’appercezione nel mondo in divenire, nella trama
del mondo, in ciò che fluisce.
Le masse delle appercezioni o il pensare non sono in questione prima che il pensare sia giunto alla parola. Abbiamo parole per il mondo
aggettivo (blu, rumoroso, dolce, duro, giusto, bello), ma tutte queste
parole infilzano l’impressione con la punta dell’ago del momento e non
ci lasciano scorgere o addirittura descrivere la cosiddetta totalità. Il
mondo aggettivo è il mondo dell’animale. Il mondo verbale vi si aggiunge e ha designazioni per il divenire e il trascorrere, per il godere
e il soffrire, per il cambiare e il rimanere, per il causare e l’obbedire.
Il mondo verbale lo si può descrivere. Tuttavia l’impertinente parola
umana lo vorrebbe anche spiegare. Vorrebbe trovare un’espressione
non solo per le sensazioni del momento e per i mutamenti (19) nello
spazio, ma anche per l’essente, per ciò che permane nel tempo, per le
sostanze. E la parola impertinente si crea (solo per sé, la parola per la
parola) il mondo sostantivo, il mondo delle cose e delle forze, il mondo
153
degli dei e degli spiriti, un mondo del quale la memoria dell’umanità
non sapeva nulla prima che la parola se lo fosse procurato. E poiché
il mondo sostantivo gode della più alta considerazione tra il popolo
e parimenti da sempre è stato, presso “i muti del cielo”, presso i più
profondi pensatori o i mistici, il mondo della nostalgia, così non avrei
nulla in contrario se si volesse chiamare il mondo sostantivo del tutto
irreale: il mondo mistico.
Mondo sostantivo
(W ii, 262) Abbiamo conosciuto l’unico mondo della nostra esperienza, il mondo reale, il mondo del sensismo, come quel mondo per
la descrizione del quale il linguaggio ha a disposizione i suoi aggettivi;
abbiamo supposto che l’aggettivo sia davvero la più giovane parte del
discorso della grammatica, ma la più antica parte del discorso nella
storia dell’intelletto. Abbiamo già spiegato là che il linguaggio ha creato
a suo uso e consumo il mondo sostantivo, il mondo degli dei e degli
spiriti, il mondo delle cose e delle forze. Il mondo sostantivo è il mondo
mitologico.
Questa rappresentazione sarebbe una banalità se si pensasse soltanto che i sostantivi astratti, con cui una ragione sincera non sa pensare
nulla, appartengono a un mondo mitologico. No. Non solo gli dei e
gli spiriti sono mitologici, ma anche le forze apparentemente ben conosciute della fisica e della biologia sono cause mitologiche; anche le
cose stesse, le cose singole della nostra esperienza aggettiva sono solo
simboli nei quali riassumiamo le cause mitologiche dei loro effetti aggettivi. Per i sostantivi astratti la spiegazione è ancora più semplice.
Le lingue germaniche hanno più delle altre la tendenza a designare
le cose astratte, quelle cose delle quali sappiamo ancor meno rispetto
alle cose corporee, con parole doppie che, per il mio senso della lingua,
hanno in sé qualcosa di pleonastico. Freundschaft (amicizia) non dice,
nella mia relazione con N., niente (263) di più del fatto che noi siamo
Freunde (amici); l’attuale suffisso -schaft era originariamente lo stesso
che “stato” e venne poi a designare un concetto collettivo. Bürgerschaft
(cittadini), Judenschaft (ebrei) non dicono niente di più che Bürger (cittadini), Juden (ebrei); Wissenschaft (scienza), lo zainetto pieno di sapere,
niente di più di wissen (sapere). Anche il suffisso -heit era una parola autonoma e designava una condizione; Freiheit (libertà), Gleichheit
(uguaglianza) non dicono niente di più di frei (libero), gleich (uguale);
-heit però, come -schaft, ha assunto il significato di un collettivo, e Christenheit (cristianità) non dice niente di più di Christen (cristiani); certamente solo un turco che parla tedesco direbbe Christenschaft; infine si
mette -heit in modo del tutto pleonastico in Gottheit (divinità), Schönheit
(bellezza). Anche -tum era una parola autonoma; se diciamo Eigentum
(proprietà), non pensiamo niente di più che con l’aggettivo eigen (proprio), che è propriamente il participio di un antico verbo dimenticato
154
eigan, che significa besessen (posseduto), in contrapposizione a una cosa
senza padrone; soltanto il capriccio dell’uso linguistico distingue tra
Eigentum, Eigenheit e Eigenschaft; un tempo si diceva mein Eigen dove
ora diciamo mein Eigentum.
È poi solo un caso della storia della lingua che le cose concrete non
abbiano forme così forzate delle parole. Che non diciamo Pferdeding
(cosa-cavallo), Apfelding (cosa-mela) per Pferd, per Apfel o forse Pferdetum, Apfelheit; il francese maison è derivato dall’altrettanto astratto
latino mansio, luogo nel quale si rimane. In un certo senso i sostantivi
più concreti sono pseudoconcetti proprio come i mostri concettuali
più astratti della scolastica.
Se per una temeraria formazione analogica non ci fossimo abituati
ad attribuire quasi a ogni sostantivo le stesse categorie del caso, del
numero e persino del genere, riconosceremmo subito in queste categorie l’artificiosità, l’irrealtà della formazione del sostantivo. Avvertiremmo subito che i sostantivi astratti non possono avere alcun rapporto
di declinazione tra loro, alcun rapporto numerico in relazione a noi e
davvero nessuna somiglianza con le differenze di genere degli animali.
L’artificiosità della distinzione di genere (264) è evidente anche nella
maggior parte dei sostantivi concreti; la declinazione dei sostantivi concreti – come da tempo ha dimostrato la linguistica – si è però formata
solo metaforicamente secondo l’immagine di alcuni rapporti spaziali e
simula soltanto una conoscenza di relazioni delle quali possiamo asserire
qualcosa sempre soltanto in immagine; anche il numero dei sostantivi
concreti non è nel mondo dell’esperienza, non è nella singola cosa reale,
non è mai un effetto delle cose su di noi, ma è solo nel mondo verbale,
nel bisogno di ordine dell’uomo. I numeri infatti non sono percezioni,
non sono modi aggettivi.
L’intelletto umano che, seguendo un istinto remoto, certamento ereditato dall’animale, concepisce le cause comuni delle impressioni aggettive come sostantivi, simula quindi un mondo sostantivo proprio con
gli stessi mezzi con i quali lo scherzo ottico dei fisici simula per noi la
presenza di un corpo mediante specchi disposti abilmente e lenti scelte
in modo appropriato. Ho già detto da qualche parte che potremmo
credere a ragione di percepire una mela se un un giocoliere sovrumano
potesse simulare per noi la forma, il colore, la consistenza, il gusto e il
profumo di una mela. Solo che noi ci saziamo con la cosiddetta mela
reale che possiamo digerire; ma anche questo dipende di nuovo dagli
effetti aggettivi della mela reale, effetti che un giocoliere ancor più
sovrumano potrebbe simulare.
Mondo verbale
(W iii, 359) i. Nel nostro pensiero o nel nostro linguaggio, accanto
al mondo aggettivo, l’unico vero mondo dell’esperienza o del sensismo,
c’è anche un mondo sostantivo (360) dell’essere o dello spazio, che
155
abbiamo conosciuto come il mondo mitologico e (a un livello più alto)
come il mondo della mistica; c’è poi però anche un mondo verbale, il
mondo del divenire. Lo spazio è la condizione del mondo sostantivo,
il tempo è la condizione del mondo verbale. Spazio e tempo si distinguono essenzialmente per il fatto che lo spazio viene consumato solo
in relazione a un determinato tempo, il tempo invece viene sempre
consumato quasi come una forza, appena accade qualcosa. Nell’abisso
del concetto di causa mi sembra di intravedere la possibilità di dire
che spazio e tempo siano le condizioni dell’esperienza, che lo spazio
sia la condizione dell’essere, il tempo la condizione del divenire, ma
che in nessuno di questi casi si possano chiamare cause lo spazio e il
tempo.
Kant ha aggirato la difficoltà, che Hume non aveva proprio notato,
assegnando al soggetto lo spazio e il tempo come forme dell’intuizione,
togliendoli alle cose in sé, che egli riteneva proprio le cose-cause originarie (Ur-sachen). Ma almeno il tempo, come condizione del divenire,
non lo si può staccare né dal soggetto né dall’oggetto, a meno che non
lo si pensi misticamente del tutto inesistente. Il mondo verbale non
vede altro che il modo dell’interazione, quello che noi chiamiamo le relazioni delle cose con noi e le relazioni delle cose tra di loro. Il divenire
e il trascorrere, cioè il mondo oggettivo, liberato dalla superstizione del
realismo ingenuo, è oggetto del mondo verbale: l’aver effetto; ma anche
l’aver effetto su di noi, che viene immediatamente colto come mondo
aggettivo, appartiene anch’esso – appena lo abbiamo riconosciuto come
un aver effetto – al mondo verbale. Il sapere di un mondo aggettivo, il
formare dei concetti, il pensare o il parlare sono verbali.
Il concetto più generale per questo divenire, per questo flusso delle
cose, sarebbe il concetto di movimento. E qui l’espressione mondo
verbale non sembra del tutto appropriata, perché i verbi non designano sempre attività o movimenti o mutamenti in generale, ma spesso
(almeno ora) (361) stati di quiete. Ho detto: “almeno ora”, perché non
si può del tutto escludere la supposizione che originariamente i nostri
termini che indicano tempo e attività designassero di regola un’attività di carattere sensibile, anche se non posso ammettere l’assunzione
ulteriore di tutti i sanscritisti che tutte le cosiddette radici linguistiche
siano sempre state all’origine concetti di attività.
Non voglio nemmeno negare che nell’espressione mondo verbale
(per il mondo del divenire e del nostro sapere del divenire) siano contenuti alcuni errori minimali. I termini che designano propriamente delle
attività a cui ho pensato in un primo tempo nella teoria dello scopo
nel verbo (B iii, p. 59), non hanno, nella psicologia del linguaggio,
esattamente lo stesso carattere dei verbi che designano un’attività della
natura fisica: un movimento per es. dell’acqua, del suono, della luce
o del calore; dal suo punto di vista, la grammatica distingue poi verbi
transitivi e intransitivi, oggettivi e soggettivi. Tuttavia alla fine credo
156
che in tutte le nostre lingue i verbi, che esprimono attività spirituali o
persino stati di quiete, siano solo creazioni analogiche secondo la forma
e la forma linguistica interna dei verbi; le desinenze verbali ricordavano che il soggetto faceva qualcosa, che combinava qualcosa. E questa
rappresentazione confusa noi la colleghiamo ancor sempre con tutti i
verbi (Zeitwörter).
Non la colleghiamo però con il verbo più generale, quindi quello
più vuoto di tutti i verbi, con il concetto di essere. Ancora una volta
non posso negare che mi provoca un imbarazzo linguistico il fatto che
questo verbo generalissimo non possa essere inserito nel mondo verbale e sia invece proprio un sinonimo del mondo sostantivo. Posso solo
ricorrere all’uso linguistico: noi trasferiamo le cause del mondo aggettivo nei sostantivi di cui esprimiamo la realtà o l’essere solo quando
crediamo di sapere qualcosa delle relazioni di queste ipostasi cosali.
(362) ii. Naturalmente la divisione dei tre mondi secondo le parti
del discorso più importanti della grammatica la si deve intendere solo
cum grano salis. L’indeterminatezza del senso grammaticale (cfr. B iii,
p. 1 s.) si rivela chiaramente soprattutto nel fatto che non possiamo
dire esattamente cosa siano un aggettivo, un sostantivo, un verbo; la
logica, vale a dire la logica scolastica, è certo derivata dalla grammatica
attraverso una non chiarezza di Aristotele, diventata storica, ma con
questo la grammatica non è diventata logica. All’ideale dei concetti
logici corrispondono solo i sostantivi, in quanto designano individui e
poi concetti di genere più generali e sempre più generali. Gli aggettivi
sono da sempre determinazioni di impressioni sensibili o di sensazioni,
ma nella logica scolastica si devono usare ancor sempre come predicati
di giudizi e di conclusioni di implicazione. Nel senso della logica di
implicazione i verbi non sono poi per nulla concetti, essi non designano concettualmente, come abbiamo visto (B iii, p. 59), la somma di
percezioni uguali o simili, essi piuttosto riuniscono insieme una somma
di modificazioni progressive sotto un concetto di fine. Nella dottrina
della deduzione della logica scolastica si può usare in modo preciso
come copula propriamente solo il concetto di essere; e questo concetto
conviene, come abbiamo appena visto, piuttosto al mondo sostantivo
che a quello verbale.
Così ho anche ammesso l’errore di forma della mia divisione in tre
del mondo del linguaggio: che cioè si possa percepire in modo immediato uno scopo nel verbo solo nelle parole che indicano attività sensibili, in maniera più chiara in assoluto nei verbi oggettivi, il cui oggetto
sostantivo è soltanto una ripetizione tautologica dello scopo nel verbo,
ad esempio: scavare uno scavo, costruire una costruzione, ecc.
Non nascondo che nella mia teoria dello scopo nel verbo ci sia l’errore di una generalizzazione. Questo stesso errore però lo hanno fatto
prima di me le nostre lingue, formando, per l’analogia con i verbi di
sensazione, una quantità (363) di verbi, nei quali un tale fine evidente
157
non lo si poteva sentire immediatamente o non lo si poteva sentire per
nulla. Voglio tentare di difendere il concetto di scopo nel verbo per
alcuni grandi gruppi. Le attività sensibili dell’uomo sono espresse da
verbi che riassumono in uno scopo innumerevoli mutamenti microscopici parziali oppure deducono l’insieme dei mutamenti da una cosiddetta
causa finale; secondo l’uso scientifico del linguaggio i mutamenti nella
natura extraumana, dei quali sappiamo qualcosa in quanto relazioni
reciproche tra le cose, non ritornano a cause finali, ma a cosiddette
cause efficienti. Crediamo però di aver imparato dalla nostra critica
del linguaggio che tutte le forze, anche quelle della natura inorganica,
sono forze che hanno una direzione, che esse si sottraggono al concetto
di causalità, che il concetto di direzione sarebbe utilizzabile in questo
senso, utilizzabile provvisoriamente, come il concetto più generale, a
lungo cercato, per le antiche cause originarie e per le antiche cause
finali. La nostalgia del nostro tempo, che è stanco della concezione
meccanicistica del mondo, scivola volentieri – senza aver rielaborato
il concetto di direzione – verso la concezione del panpsichismo che
non vorrebbe più considerare teleologia e causalità come termini in
contrasto. Per una simile concezione non mi sembra assurdo, anzi mi
sembra necessario, nel verbo, trasferire lo scopo, dai verbi che indicano
attività sensibili anche a quelli, innumerevoli, che designano un qualche
effetto reciproco delle cose, che designano le relazioni reciproche dei
sostantivi. Avrei potuto parlare, in maniera più pregnante e più corrispondente a questa spiegazione, piuttosto che di uno scopo nel verbo,
di una direzione nel verbo; ma è una buona prova per le nuove idee se
esse si possono esprimere in parole semplici; e poi dodici anni fa non
ero ancora venuto a capo del concetto di direzione.
Si può interpretare un altro grande gruppo di verbi estendendo a
essi il concetto di iterativo; essi sono molto più diffusi che da noi nelle
lingue antiche, poi nel turco e in molte (364) lingue africane. Qui molte
o moltissime azioni parziali vengono riunite in un concetto verbale che
certo non sempre esprime una azione complessiva conforme a scopo,
ma spesso un’attività biologica dell’organismo, quindi teleologicamente
utile (respirare, digerire). In moltissimi casi i verbi di stato che non
designano alcun movimento hanno un senso imparentato con quello dei
verbi iterativi. Certo a molti verbi di stato sta alla base unico e solo il
concetto di tempo; una connessione con gli iterativi non sarebbe quasi
applicabile senza costruzione. Ma in questo contesto mi posso accontentare del fatto che i verbi si chiamano tutti in tedesco Zeitwörter e
non ho bisogno di arrabbattarmi a mettere ordine nella confusione che
la formazione analogica e la grammatica ha portato nella classificazione
dei verbi delle nostre lingue più conosciute – i verbi dei “selvaggi” non
si possono spesso classificare “all’indoeuropea”.
158
[Niemeyer, Halle 1898.]
[Michel Bréal, Essai de sémantique. Science des significations, Hachette, Paris 1897, p.
1 (Saggio di semantica, trad. it. di Arturo Martone, Liguori, Napoli 1990, p. 3).]
3
[Jacob Grimm, Wilhelm Grimm, Deutsches Wörterbuch, Hirzel, Leipzig 1854-1960,
i, Sp. 1227.]
4 [Barth, Leipzig 1906 (p. 16).]
5 [Industrie-Comptoir, Weimar.]
6 [Johann Christoph Adelung, Grammatisch-kritisches Wörterbuch der Hochdeutschen
Mundart, Breitkopf und Compagnie, Leipzig 1793-1801.]
7 [Blaise Pascal, De l’esprit géométrique, éditions eBook France, p. 13.]
8 Non ho dubbi che il significato di copulare sia un calco limitato al linguaggio biblico,
forse in ebraico un eufemismo castigato. La parola ebraica jada è interessante anche da un
altro punto di vista. Gli antichi ebrei possedevano tre parole distinte per il percepire con
la vista, con l’udito e con il gusto; tutte e tre le parole potevano designare metaforicamente
una conoscenza (Erkennen) spirituale; ma solo “jada”, la percezione mediante la vista, venne
trasferita al coito.
9 L’esempio di Socrate, come Aristofane lo portò in scena, non mi sembra scelto felicemente; egli e Cleone corrispondevano secondo l’idea degli ateniesi proprio all’umorismo
come lo intese Dryden e come ancora lo concepì Lessing.
10 [Gotthold Ephraim Lessing, Von Johann Dryden und dessen dramatischen Werken,
Thetralische Bibliothek, 4. Stück, in Werke und Briefe, hg. von Wilfried Barner et al., v, hg.
von Gunter E. Grimm, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt a. M., 1997, pp. 175-77.]
11 [Gotthold Ephraim Lessing, Hamburgische Dramaturgie, in Werke und Briefe, hg. von
Wilfried Barner et al., vi, hg. von Klaus Bohnen, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am
Main, 1985, p. 643.]
12 Auch Einer è un modello esemplare per una nuova teoria (i, p. 448). Dall’Aesthetik
di Vischer: «La personalità umoristica non ha bisogno […] di essere un Falstaff del tutto
sregolato. Catarro e occhi di gallina gli bastano per rendere una natura infinitamente infelice,
come richiede l’umorismo; infatti essa deve sentire l’organizzazione spirituale, il che vuol dire:
essere impedita nell’adempimento dei fini più puri, disturbata nei momenti più belli, dal tossire, soffiarsi il naso, sputare, starnutire e zoppicare. Essa è in questo così sensibile come carne
nuda in una ferita, è un uovo sgusciato» [Theodor Vischer, Aesthetik oder Wissenschaft des
Schönen, cit. (Georg Olms Verlag, Hildesheim - Zürich - New York 1996, i, pp. 486-87)].
13 [Theodor Vischer, Aesthetik oder Wissenschaft des Schönen, cit., i, pp. 486-87.]
14 [Jean Paul Richter, Vorschule der Aesthetik, cit., p. 153.]
15 [Ivi, p. 126.]
16 [Novalis, Blüthenstaub, in Schriften, hg. von Paul Kluckhohn u. Richard Samuel, Kohlhammer, Stuttgart 1981, ii, pp. 425-27.]
17 [Johann Wolfgang von Goethe, Sprüche in Prosa, hg. von Harald Fricke, in Sämtliche
Werke, Briefe, Tagebücher und Gespräche, hg. von Friedmar Apel et al., Deutsche Klassiker
Verlag, Frankfurt am Main 1993, xiii, p. 13.]
18 [Ivi, p. 334.]
19 [Ivi, pp. 157-58.]
20 [Walter W. Skeat, An Etymological Dictionary of the English Language, 1835-1912, The
Clarendon Press, Oxford.]
21 [Johann Georg Walch, Philosophisches Lexicon, Gleditsch, Leipzig 1726.]
22 [Alexander Gottlieb Baumgarten, Aesthetica, Frankfurt am Oder 1750-1758 (L’Estetica,
trad. it a cura di Salvatore Tedesco, Aesthetica, Palermo, 2000).]
23 [Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft (1. Aufl.), in Kant’s gesammelte Werke, hg.
von der Königlich Preussischen Akademie, Georg Reimer, Bd. iv, Berlin 1903, p. 30 (Critica
della ragion pura, trad. it. a cura di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1995, pp. 76-77).]
24 [Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft (2. Aufl.), in Kant’s gesammelte Werke,
cit., Bd. v, Berlin 1911 (Critica della ragion pura, trad. it. cit. pp. 775-77).]
25 [Friedrich Schiller, Kallias oder über Schönheit, in Werke, Bd. xv, Hempel, Berlin 1870.]
26 [Si tratta del colloquio con Johann Peter Eckermann del 26 febbraio 1824.]
27 [Immanuel Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, in Kant’s gesammelte Werke,
cit., Bd. vii, Berlin 1917, pp. 120-21 (Antropologia pragmatica, trad. it. di Giovanni Vidari e
Augusto Guerra, Laterza, Roma - Bari 1985, p. 4.]
28 [Eduard Hanslick, Vom Musikalisch-Schön, Barth, Leipzig 1891 (Il Bello musicale, trad.
it. di Leonardo Distaso, Aesthetica, Palermo 2001, p. 65).]
1
2
159
29
[Eduard Hanslick, Vom Musikalisch-Schön, cit. (p. 115).] Con non poca sorpresa e
gioia ho trovato nel mio connazionale Hanslick anche la distinzione tra mondo sostantivo e
mondo aggettivo, naturalmente senza le connesse riflessioni critiche.
30
[Johann Wolfgang von Goethe, Sprüche in Prosa, cit., p. 31.]
31 [Franz Grillparzer, Weh dem, der lügt, in Dramatische Werke, Bergland Verlag, Wien
1961, iii, p. 96 (Guai a dire bugie!, trad. it. di Cesare De Marchi, Greco & Greco editori,
Milano 1991, p. 146.]
32 [Cfr. Henrik Ibsen, Die Wildente, in Dramen, Artemis & Winkler, Düsseldorf - Zürich,
deutsche Übersetzung von Christian Morgenstern et al., p. 456 (L’anitra selvatica, in Teatro,
trad. it. di Alda Castagnoli Manghi e Hanne Coletti Grünbaum, Utet, Torino 1982, pp. 19596; ho modificato lievemente la traduzione italiana).]
33 [Friedrich Nietzsche, Götzen-Dämmerung, in Sämmtliche Werke, hg. von Giorgio Colli
und Mazzino Montinari, de Gruyter, Berlin, vi, (Crepuscolo degli idoli, trad. it. di Ferruccio
Masini, nota introduttiva di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1983, p. 28).]
34 [Friedrich Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse, in Sämmtliche Werke, hg. von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, de Gruyter, Berlin, v, p. 18 (Al di là del bene e del male,
trad. it. di Ferruccio Masini, nota introduttiva di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1983, pp.
9-10).]
35 Un detto molto citato di Schiller va bene qui tutt’al più come ornamento: «Solo l’errore è la vita, | e il sapere è la morte». Questi versi si trovano nella poesia Kassandra, sono
drammaticamente introiettati nell’anima della profetessa e intendono propriamente il sapere
profetico del destino futuro; questo stato d’animo viene espressa dallo scolaro di Kant in maniera ancor più incisiva nei versi: «tu (il dio) mi hai dato il futuro, | ma ti prendesti l’attimo».
Certo Schiller generalizza lo stato d’animo di Cassandra: ogni sapere rende infelici. «Giova
alzare il velo?» «Chi si rallegra della vita se ha guardato nel suo fondo?». Nonostante questo
c’è un’ulteriore distanza tra il paradosso di Nietzsche dell’utilità biologica e la poetica antitesi
di Schiller. Per un motivo molto semplice. Schiller non intende per nulla l’errore, l’opposizione
alla verità. Egli intende il non-sapere, in contrapposizione al sapere. Egli ha soltanto messo
errore – direi con il cappello in mano – al posto di non-sapere per via del ritmo fastidioso. E
come punizione e perché quasi richiede l’opposizione a errore, il passo viene spesso citato in
modo errato, da Fontane, da Raoul Richter: «Solo l’errore è la vita, | e la verità è la morte».
36 [Raoul Richter, Friedrich Nietzsche: sein Leben und sein Werk, 15 Vorlesungen, Dürr,
Leipzig 1903.]
37 [Martin Luther, Sprüche Salomonis.]
38 B ii, p. 94 s.
160
Le tre immagini del mondo
(da Die drei Bilder der Welt)
Le tre nuove categorie
(3BW, 1) Il nostro mondo c’è una volta soltanto, ma noi non possiamo vederlo in una sola volta. Del resto anche il sole c’è soltanto
una volta nel nostro sistema planetario, ma noi non possiamo proprio
vederlo direttamente e a occhio nudo, ma solo mediatamente, nei suoi
effetti, come causa di fenomeni del tutto diversi, che sono poi stati
classificati nella nostra conoscenza della luce, del calore e dell’elettricità. Inoltre possiamo guardare il sole solo nell’immagine o in immagini. Quando con un’osservazione eccezionale vediamo un doppio
arcobaleno lunare, abbiamo davanti a noi tre immagini del sole per lo
meno simili nella loro essenza; invece i fenomeni della luce, del calore e dell’elettricità non li designamo volentieri come immagini, simili
nella loro essenza, dell’unico sole; abbiamo avuto bisogno di un tempo
infinito per scoprire alcune relazioni tra questi tre fenomeni naturali.
Il “mondo”, parola con la quale cerchiamo ora di abbracciare il tutto
in una volta – che ne abbiamo o non ne abbiamo ora conoscenza – è
però un complesso di fenomeni ancora più grande e più aggrovigliato
rispetto al sole, e allora (2) avremo bisogno di un tempo ancora più
lungo per giungere alle relazioni segrete delle immagini che ci si offrono al posto del mondo stesso.
Non abbiamo altra immagine del mondo che quella del linguaggio;
non sappiamo nulla del mondo, né per noi stessi né per comunicarlo
ad altri, se non ciò che si lascia dire in una qualche lingua umana.
Una lingua propria, una sorta di lingua sovrumana, la natura non ce
l’ha, la natura è muta, solo l’uomo può dire qualcosa su di sé e sulla
natura, sul mondo.
Già anni fa, nel mio Wörterbuch der Philosophie, ho tentato di mostrare, brevemente e in modo per me insoddisfacente, che vi sono tre
diversi punti di vista per raggiungere un’immagine dell’unico mondo, che noi ci disegnamo un’immagine aggettiva, una sostantiva e una
verbale del mondo, ciascuna separata dall’altra. Ora voglio tentare la
disamina delle condizioni e delle particolarità di queste tre immagini.
Innanzi tutto voglio porre la questione – senza promettere di riuscire a
dare una risposta univoca – se sarà mai possibile tradurre l’uno nell’altro i tre linguaggi nei quali queste tre immagini si formeranno davanti
161
a noi; sovrapporre queste tre immagini in modo tale che ne possa scaturire un’immagine unitaria e corretta di un unico mondo. Chiamerò
di regola i tre punti di vista (3) le tre categorie della conoscenza del
mondo, anche se non mi piace il gergo inutile degli eruditi; ho però
motivi sufficienti per usare il concetto ingrigito di “categoria” nel suo
significato originario. Ho imparato da Trendelenburg 1 che Aristotele
– diciamo così – prese le mosse dal ricercare una tavola dei più alti
concetti metafisici e, quando enunciò la sua tavola delle categorie, che
ha avuto tanta influenza, trovò soltanto i concetti grammaticali fino
allora sconosciuti. Anche l’uso logico delle categorie in Aristotele è,
più di quanto egli supponesse, un’analisi della proposizione semplice;
nota bene: della proposizione greca. Le categorie di Aristotele, al raffinamento e al miglioramento delle quali hanno dedicato molta fatica
le teste migliori fino a Kant, non sono niente di più e niente di meno
che le più alte determinazioni concettuali che si possono esprimere
come predicato di una qualche cosa. Che proprio Aristotele abbia
scompaginato tutta intera la sua tavola con la sua prima categoria,
che poi le casualità della grammatica greca abbiano provocato guasti
ancora peggiori, questo va al di là del nostro discorso. Basta dire:
kathgorei'n non significa in Aristotele assolutamente nulla di più che
“asserire (aussagen)”, kathgorivai e kathgorhvmata (praedicamenta) nulla
di più che “asserzioni (Aussagen)”, nel migliore dei casi “possibilità di
asserzione”. (4) Naturalmente i Greci dell’epoca successiva, gli arabi e
gli scolastici non avrebbero potuto mettere assieme intere biblioteche
su questi semplici concetti, se dietro alle “asserzioni” non fosse stato
nascosto ogni sorta di enigma della grammatica, della logica e dell’ontologia: tutti gli enigmi del linguaggio appunto. “Categoria” divenne
un terminus technicus – e rimase un’espressione tecnica – da quando la
parola non significò più ogni asserzione possibile, ma solo l’asserzione
predicativa di uno dei concetti più alti. In questo senso la “categoria”
appartiene al più antico patrimonio linguistico della filosofia. Ora, poiché non mi aspetto nessun vantaggio per la conoscenza del mondo né
dall’antica tavola delle categorie, né da una qualsiasi nuova tavola, né
dalle categorie grammaticali, né da quelle logiche, poiché credo di aver
smascherato l’influsso dannoso della grammatica e della logica, poiché
inoltre un termine logorato viene reso quanto meno innocuo se gli si
fa compiere un mutamento di significato e gli si toglie il significato
logorato, per questo voglio chiamare le tre possibilità di asserzione, su
cui si basano le tre sole possibili immagini del mondo, appunto le tre
categorie. Alla fine della ricerca sapremo che anche in questo caso si
tratta di scoperte o di invenzioni linguistiche, che le tre categorie, o
punti di vista o possibilità di asserzione, (5) conducono all’esigenza di
costituire per la comprensione del mondo aggettivo, di quello sostantivo e di quello verbale ogni volta un nuovo strumento, ogni volta una
nuova lingua. Se fossi un purista della lingua, avrei certo potuto dire
162
“asseribilità” (Aussäglichkeiten) al posto di “categorie”; ma nessuno
protesterà sulla antica cattiva parola, mentre della nuova buona parola
si sarebbe inorriditi.
Provvisoriamente voglio tentare di mostrare la differenza della mia
nuova dottrina delle categorie da quella antica solo in un unico punto.
Le antiche tavole delle categorie, per quanto fossero diverse tra loro,
credevano alla possibilità di conoscere il mondo attraverso il linguaggio,
credevano a una logica interna del linguaggio umano, credevano alla
possibilità di penetrare con l’aiuto del linguaggio umano (hoministisch)
la natura non umana. Singoli pensatori hanno ben riconosciuto che le
lingue nazionali esistenti non corrispondono all’ideale di uno strumento di conoscenza; allora si sperò in una lingua filosofica che dovesse
eliminare le mancanze delle lingue costituitesi storicamente; ma tutti i
filosofi furono invero razionalisti proprio nella speranza di istituire, con
lo strumento del linguaggio umano, che l’intelletto umano comune ha
creato, un’immagine assolutamente simile al mondo. So bene di aver
apportato ancora una volta un cambiamento di significato al termine
“razionalismo” (6); proprio il critico del linguaggio peraltro viene biasimato o lodato per il dovere o il diritto di usare in modo un po’ diverso
da quello tradizionale ogni concetto del suo linguaggio scientifico; del
resto proprio la necessità di esaminare l’accordo di ogni parola tramandata con la cosa (con la lingua) dimostra a sua volta la necessità della
critica del linguaggio. Razionalistica mi sembra allora ogni tipo di filosofia – sia che essa ritenga sé stessa teologica, idealistica, materialistica
o critica – che non abbia abbandonato il pregiudizio di possedere nella
lingua umana un’immagine della natura, di poter istituire mediante il
linguaggio umano un’immagine della natura; il pregiudizio del linguaggio può essere superato solo riconoscendo che parlare e pensare sono
un’unica e identica attività dell’uomo e non che il linguaggio – come
si suole dire – sia uno strumento del pensiero; riconoscendo che ragione (ratio) e linguaggio sono concetti intercambiabili. Il seguace della
critica del linguaggio non si stupirà allora che anche il pregiudizio
religioso, ad esempio la fede nel migliore dei mondi, sia soltanto un
caso particolare del pregiudizio generale del linguaggio; (7) si aggiunge
semplicemente al dominio divino, che ha creato il mondo e l’uomo e
il linguaggio, anche la pretesa, propriamente una pretesa etica, che il
linguaggio, un qualsiasi linguaggio preso a caso e contingente, debba
corrispondere alla natura, debba essere utilizzabile come un’immagine
simile alla natura. […]
(11) La filosofia ingenua del linguaggio umano – è evidente – ha da
sempre cercato di integrare i concetti sensistici o aggettivi con grossolane rappresentazioni sostantive e verbali; tutte le nostre lingue comuni
formano in questo modo un miscuglio delle mie tre categorie o mondi;
la lingua aggettiva comune pullula di sostantivi e di verbi. Ma anche
le due uniche possibili concezioni del mondo, sovrasensibili e sovraag163
gettive, hanno trovato già molto presto il loro unilaterale ritrattista, il
mondo sostantivo in Platone, il mondo verbale, che avrà influenza solo
molto più tardi, in Eraclito; non ho qui l’intenzione (12) di esporre la
storia della filosofia e voglio limitarmi a stabilire una connessione tra
ciascuna delle mie categorie e questi famosi sistemi, non per richiamarmi all’autorità di Platone o di Eraclito, ma soltanto per mettere in
guardia dal pericolo della parzialità dell’immagine del mondo sostantiva
e di quella verbale.
Platone – non importa sotto quali influssi – voleva inoltrarsi al di
là delle percezioni sensibili, senza oggetto e irreali, inesistenti, verso la
conoscenza dell’essere, e inventò il mondo sostantivo: le idee divennero
per lui le immagini originarie delle cose del mondo sensibile, smascherate nel loro non essere. Ma per il fatto che queste idee erano allo stesso tempo una sorta di causa delle singole cose percepibili sensibilmente,
egli confuse di nuovo, certo senza accorgersene, il mondo sostantivo
con quello verbale. Egli incorse già duemila anni prima nell’errore certo
inevitabile che Kant avrebbe ripetuto nel fare della cosa in sé la causa
del fenomeno; ma poiché questo smarrimento del platonismo non ebbe
conseguenze negative e non ne poteva avere prima che ci si dedicasse
alle nuove scienze della natura, mi limito a questo accenno. Più importante e più istruttivo per il mio scopo può essere richiamare il fatto che
il platonismo (13) venga a coincidere davvero proprio con l’idealismo,
che attribuisce un essere solo alle idee e non alle cose sensibili, ma che
anche l’opposto dell’idealismo, il realismo, imparentato con il sensismo,
possa sorgere dall’idealismo, nel momento in cui vengono assunti vari
livelli e gradi di idee, nel momento in cui alle specie e alle sottospecie
e infine anche alle singole cose vengono assegnate, pressappoco come
angeli custodi, idee particolari, nel momento in cui – e Platone come
tutti i Greci non era uno spirito critico – a ogni concetto di genere, e
con ciò a ogni cosa, proprietà e relazione possibili vengano ascritte idee
particolari. Sembra che Platone stesso in tarda età abbia solennemente
celebrato la propria dottrina delle idee e abbia voluto intendere come
idee solo le idee portatrici di valore; alle sue riflessioni originarie si
avvicina molto la distinzione tra idee e fenomeni, tra mondo sostantivo
e mondo aggettivo, ma è anche molto vicino il pericolo di ravvisare in
ogni singola cosa reale la copia di un’immagine originaria, l’ei[dwlon
di un’idea.
Quanto anche Platone fosse lontano dal formulare coscientemente
con la sua dottrina delle idee una delle tre possibili categorie della
comprensione del mondo, di comprendere il mondo sostantivo come
una delle tre immagini parziali del mondo, lo si capisce ancor più chiaramente dal fatto che (14) nel Medioevo la grande contesa tra il realismo della parola (da non confondere con il realismo gnoseologico o
ingenuo appena citato) e il nominalismo potevano ricollegarsi alle idee
o ai concetti-genere di Platone. So bene che l’intera disputa divenne
164
così violenta dapprima per via delle ricerche linguistiche e logiche a
cui posero mano Aristotele e i suoi seguaci e infine solo a causa delle
coercizioni della teologia cristiana, ma la disputa ruotava pur sempre
solo attorno alla domanda: le idee o concetti di genere hanno una più
alta realtà o non hanno punto realtà?
All’interno della Scolastica i nominalisti – considerati dal punto di
vista dello sviluppo spirituale umano – furono i sostenitori dell’illuminismo e furono precursori del moderno psicologismo e della critica del
linguaggio, i realisti della parola furono i sostenitori di un sapere teologico apparente, di un pregiudizio del sovrannaturale. Così ci siamo abituati a considerare le parti in lotta, certo non del tutto a torto. Chi ora
però prenda in considerazione la possibilità di dividere la comprensione
del mondo nelle tre immagini parziali, per poi riunificarle laddove sia
possibile, si pone un’aspettativa più alta persino di quella dello sviluppo
spirituale umano, e non può prender partito unilateralmente né per i
realisti della parola né per i nominalisti. (15) Ogni filosofia, fino a questa
formulazione provvisoriamente ultima della domanda da parte della critica del linguaggio, è, come si è detto, razionalismo o dipendenza dalla
parola. Razionalisti nel senso dell’illuminismo erano naturalmente i nominalisti, che riconobbero così presto i concetti di genere, e con ciò tutti
i sostantivi, come prodotti del cervello umano; razionalisti, pressappoco
nel senso di Hegel, erano però anche i realisti della parola che vollero
ignorare i fenomeni del mondo sensibile o aggettivo e si costruirono al
di là del mondo terreno un mondo sostantivo nel quale i concetti o le
idee si muovevano secondo leggi proprie, noncuranti delle proprietà
sensibili dei loro fenomeni corporei. Questi realisti della parola poterono
ritenersi i veri discepoli di Platone, tanto più in buona coscienza perché
l’assunzione di un mondo delle idee incorporeo era espressa nello stesso
Platone in modo estremamente confuso; l’identificazione del mondo
delle idee e del mondo dello spirito è un’aggiunta molto posteriore; il
regno delle idee, almeno nella disposizione originaria, non comprende
soltanto le idee più generali, più alte e portatrici di valore (del bello, del
buono), ma anche le immagini originarie sostantive di ogni fenomeno,
anche se esso sia brutto o volgare; il regno delle idee divenne allora
il rifugio degli artisti o degli uomini pii che non volevano sporcarsi le
mani con i fenomeni del mondo sensibile, (16) del mondo aggettivo.
Un cristiano certamente Platone non lo era stato, ma un artista e un
mistico lo fu. A questo proposito è di una certa importanza – e non vi
è certo pericolo di sopravvalutarlo – il fatto che l’unico grande mistico
tedesco, Meister Eckhart, l’ardente cercatore di Dio ed eretico, che
ha fecondato con i suoi pensieri lo sviluppo spirituale della teologia
e della filosofia, non fosse un illuminista, non un nominalista, ma un
sostenitore del realismo della parola – come più tardi Wiclef e Hus – e
in più un discepolo fedele del maestro dell’ordine, san Tommaso; per
Meister Eckhart il mondo sostantivo era più vero del mondo aggettivo
165
– anche se non lo espresse in questi termini –, la realtà ideale più vera
della comune realtà corporea, la conoscenza era il vero essere, tanto
che – non credo di giocare con la parola – persino la mistica più pura
fu un segreto razionalismo. Infatti i realisti della parola non potevano
considerare il loro mondo sostantivo come una delle tre immagini che
a pari diritto rappresentano il mondo, perché nella loro litigiosa limitatezza lo consideravano come il mondo più bello e più vero; perché
persino Meister Eckhart vide nella “natura naturata”, quella che cade
sotto i sensi o aggettiva, quasi uno scarto della “natura innaturata”, del
più alto sostantivo, dell’unico essere, di Dio. (17) Lo ripeto: non ho scomodato Platone per cucire una vecchia toppa su un vestito nuovo, ma
davvero per mostrare, accostando la mia categora sostantiva alla dottrina
sorprendentemente longeva delle idee, come persino questo maestro di
un mondo apparentemente sostantivo non pensasse di presentare la sua
inaudita concezione del mondo come una semplice immagine del mondo
o come un’immagine accanto ad altre due immagini del mondo dello
stesso valore, egualmente simili ed egualmente dissimili. […]
Dappertutto tre mondi. L’attore
(166) Egli è un artista. Si è calato per settimane in un ruolo. E ora
si trasforma tutte le volte che sta sul palcoscenico, dalle sette alle dieci:
egli dà ciò che è più profondo, egli è il meglio. Un povero diavolo,
quando non è un dio creatore. Inavvicinabile. Uno spirito libero.
Anche se è un dio, nelle pause e – scorno e cruccio! – anche in
momenti di lavoro disturbanti e disturbati, uno schiavo senza libertà.
Schiavo della plebe e della sua professione. Gli batteranno le mani?
A lui più che agli altri? O meno? Gli verrà dato il suggerimento come
lo può aspettare? Funziona il trucco come lo voleva lui? Non si nota
che si finge più giovane di quello che è? Più giovane? Secondo quale
calendario?
È un pover’uomo. Dopo le dieci. Quando arriva a casa. Dai suoi
cari o dalla moglie invecchiata o dai bambini pieni di pretese. Conti.
Fatture. Fame. Anche sete. Torna allora a casa? Oppure è il suo ruolo
la sua casa? Oppure è la scena la sua casa?
Quale di questi mondi è il suo vero mondo?
Epilogo
(167) Mi restano ancora da cercare alcune povere parole a proposito
di una nostalgia che non può essere un compito, a proposito di un
desiderio che non posso né mettere in dubbio né credere di soddisfare, a proposito dell’istanza di unire in una le tre immagini del mondo.
Nessuna delle tre immagini può essere giusta, perché ciascuna è gravata
dalla maledizione del suo specifico linguaggio figurato; forse l’unificazione non sarà possibile, perché un’unificazione dei tre linguaggi – almeno
finora – non è stata altrimenti possibile che in una delle nostre lingue
166
comuni, che appunto sono ancora più inadeguate alla conoscenza del
mondo rispetto ai linguaggi parziali, da me pensati nello spirito, delle
tre sole possibili visioni del mondo. Un paragone potrebbe aiutarmi a
chiarire l’incapacità del pensiero umano ad affrontare un tale ultimo
compito. Si è tentato di inventare fotografie con i cosiddetti colori naturali. Si sono assunti con straodinaria arroganza tre colori fondamentali, dalla mescolanza dei quali si deve poter ricavare qualsiasi colore
dell’esperienza; poi con l’aiuto di filtri colorati si sono realizzate tre diverse fotografie dello stesso oggetto, ciascuna per ognuno dei tre colori
fondamentali; e infine si è cercato di ottenere, sovrapponendo le tre immagini parziali, i colori naturali. Il risultato fu grazioso e sorprendente;
tuttavia non si può parlare seriamente di fotografie in colori naturali. In
primo luogo questi signori devono riconoscere spontaneamente di non
poter utilizzare nella colorazione nel processo di stampa i colori puri
fondamentali dello spettro, ma solo i colori sporchi dei corpi chimici.
Ma l’errore proprio del procedimento sta ancora più a fondo: anche i
filtri colorati che vengono usati per le immagini parziali sono scelti a
seconda del senso accidentale del colore di determinati uomini e non
assicurano in nessun modo che le immagini parziali corrispondano ai
colori fondamentali ideati. Non ho bisogno di spiegare che parimenti
i filtri dell’intelletto umano non sono sufficientemente sovrumani per
formare in una precisa selezione uno dei tre linguaggi parziali e che
dunque una sovrapposizione dei tre linguaggi figurati non potrebbe
produrre un’immagine naturale unitaria dell’unico mondo.
Nell’impulso invincibile di ritornare al di là della divisione necessaria delle tre immagini al loro congiungimento, all’unica immagine
dell’unico mondo, in un momento favorevole mi sembrò percorribile
un’altra via (169), la cui descrizione, per la breve durata del momento
favorevole, non sembrò un semplice paragone. Quello che io cercai
di comprendere in un faticoso lavoro intellettuale, la spaccatura delle
categorie umane e la loro ripartizione nei tre linguaggi delle tre immagini del mondo sole possibili, questo prima non lo ha visto o avvertito
nessuna ricerca conoscitiva, mentre da sempre è stato gioiosamente
praticato dagli artisti. Voglio subito ammettere che le tre arti, che ora
voglio porre in relazione con le mie tre categorie, sono scelte con un
certo arbitrio, non si distinguono con un rigore così esclusivo e non
si completano come le tre categorie. Ma il confronto può non essere
inutile.
Dappertutto dove regna l’arte vera – forse essa stessa ideale irraggiungibile al quale i più grandi possono solo avvicinarsi – un genio
comprende l’unico mondo senza concetti, senza linguaggio. Forse anche
nel vero pensiero – della cosiddetta filosofia – ci sono tali ore solenni del comprendere senza parole. Ore mattutine del risveglio, quando
improvvisamente cade il velo del giorno e in una notte chiara come il
giorno è aperto l’accesso al segreto dell’Uno-tutto. L’accesso si chiude
167
di nuovo appena il ricercatore tenta il primo passo sulla via intravista.
Il chiarore si oscura di nuovo appena egli apre gli occhi. (170) La comprensione si disgrega appena egli vuole incantarla per sé o per altri in
concetti o parole.
L’Uno-tutto era annodato soltanto nell’io silente; alle prime parole
ad alta voce precipita ogni unità, anche quella dell’io. Niente si lascia
più dire.
1
[Adolf Trendelenburg, Geschichte der Kategorienlehre, Bethge, Berlin 1846, p. 2 ss.]
168
Indice dei nomi
Aarsleff, H., 64.
Abel, G., 62.
Adelung, J. C., 124, 128.
Agrippa von Nettesheim, H. C., 59,
60.
Albertazzi, L., 45, 61.
Alighieri, D., 15, 140.
Amicone, A P., 67.
Andreas-Salomé, L., 9.
Ansell-Pearson, K. J., 61.
Arens, K., 27, 46, 47, 52, 61, 62.
Aristofane, 132, 134, 137, 159.
Aristotele, 29, 34-36, 38, 39, 53- 55,
59, 62, 71, 104, 108-110, 125, 128,
148, 152, 157, 162, 165.
Arnaud, E., 64.
Avellaneda, A. F. de, 137.
Avenarius, R., 11, 38, 47, 62, 123.
Beradt, M., 63 .
Bergson, H., 44, 47, 56, 63, 72.
Berkeley, G., 19, 30, 102, 122.
Berlage, A., 63.
Berlin, I., 63.
Bertinetto, P. M., 67.
Betz, F., 46, 63.
Biese, A., 34-38, 54, 63, 108.
Bismarck, O. von, 46, 51.
Black, M., 63.
Blackmore, J., 63.
Bloch-Zavfřel, L., 63.
Blumenberg, H., 63.
Boezio, S., 29.
Bohnen, K., 69.
Bois-Reymond, E. du, 27.
Bolzano, B., 68.
Bongioanni, A., 69.
Borges, J. L., 14, 31, 48, 63, 65.
Bornmann, F., 71.
Brahm, O., 45.
Brandes, G., 53.
Bréal, M., 22, 63, 119, 141.
Bredeck, E., 13, 15, 49, 63, 64.
Breitinger, J. J., 142.
Brentano, F., 61.
Briosi, S., 64.
Broch, H., 64.
Bruchmann, K., 34, 38, 55, 64.
Buber, M., 11.
Bülfinger, G. B., 142.
Buridano, G., 151.
Burke, E., 145, 146.
Bab, J., 46.
Bach, J. S., 141, 146.
Bachelard, G., 62.
Bachmann, J., 65.
Bachmann M., 65.
Bacone, F., 108, 149.
Bahr, H., 63.
Baldung Grien, H., 54
Baldwin, J. M., 118.
Barth, P., 62.
Barthes, R., 62.
Batteux, C., 145.
Baumgarten, A. G., 142-144, 159.
Bayle, P., 29.
Beckett, S., 14, 48, 69, 72.
Beer-Hofman, R., 9.
Beethoven, L. van, 147.
Behler, E., 62.
Benincà, P., 62.
Ben-Zvi, L., 14, 48, 62, 63.
Cambi, F., 56, 64.
Cantelli, M., 64.
Carchia, G., 56, 64.
Carpitella, M., 71.
Carus, P., 28.
169
Cassirer, E., 64.
Castagnoli Manghi, A., 160.
Castellani, E., 66.
Cervantes, M. de, 137.
Cicero, V., 69.
Cicerone, M. T., 29.
Cleone, 159.
Cloeren, H., 52, 64.
Coletti Grünbaum, H., 160.
Colli, G., 71, 159, 160.
Conte, A. G., 74.
Cossmann, P. N., 64.
Crizia, 55.
Croce, B., 56, 64, 66.
Cubeddu, I., 67.
Fano, V., 73.
Fechner, G. T., 24.
Fichte, J. G., 138.
Fidia, 140.
Filangieri, G., 49.
Fontane, T., 7, 9, 45, 46, 63, 65, 68,
160.
Forberg, F. K., 32.
Formigari, L., 20, 50, 65, 67.
France, A, 44.
Franceschetti, L., 45.
Franzini, E., 65.
Freud, S., 66.
Fuchs, G., 65.
Füzesi, N., 65.
D’Amico, M. G., 69.
D’Angelo, P., 64.
D’Elia, A., 51, 64.
D’Olivet, P. J. T., 135.
Dapìa, S. G., 48, 65.
Darwin, C., 95, 141.
Darwin E., 141.
De Lorenzo, G., 72.
De Man, P., 65.
De Marchi, C., 160.
Deft, A., 46, 65.
Delbrück, B., 50.
Della Volpe, G., 54, 65.
Demostene, 97.
Deridda, J., 65.
Descartes, R., 13, 47, 148.
Di Cesare, D., 50, 65, 67.
Distaso, L. 159.
Dorati, M., 62.
Dryden, J., 133-135, 159.
Gabriel, G., 66.
Galton, F., 28.
Gardini, N., 63.
Gargani, A., 51, 52, 66, 70.
Garroni, E., 66, 67.
Geiger, L., 28, 52, 66.
Gellert, J. C., 152.
Genette, G., 66.
Gerber, G., 20, 34, 37, 38, 50, 54, 55,
66, 70, 73.
Gessinger, J., 64.
Giacomini, U., 67.
Gigliotti, G., 66.
Giovanni, ev.,13, 149.
Giustino, M. G., 124.
Gloy, K., 65.
Goethe, J. W. von, 19, 39, 43, 47, 49,
66, 90, 93, 107, 120, 128, 139, 140,
145, 149, 159, 160.
Goldwasser, J., 45, 46, 66.
Gombocz, W. L., 74.
Gorgia, 55.
Gottsched, J. C., 142, 152.
Graf, O. M., 9.
Graffi, G., 51, 66.
Grampa, G., 72.
Grillparzer, F., 150, 160.
Grimm, 90, 120, 130.
Gruppe, O. F. , 60.
Grzybowski, W., 66.
Guerra, A., 67, 159.
Guglielmi, G., 66.
Guglielmino, S., 71.
Guglielmo II, 46.
Gustafsson, L.,66.
Guzzardi, L., 70.
Eckermann, J. P.,159.
Eckhart, J., 165, 166.
Eco, U., 48, 65.
Ehrenberg, J., 9.
Eisen, W., 65.
Eisendle, H., 65.
Eisler, R., 118.
Elisabetta di Boemia, 47.
Emanuele, P., 69.
Empedocle, 35.
Eraclito, 10, 32, 86, 164.
Eschenbacher, W., 65.
Euclide, 125.
Fabbri, P. 62.
170
Kant, I, 19, 20, 24, 30, 32, 42, 47, 49,
53, 55, 56, 67, 74, 100, 122, 124,
130, 143-146, 149, 156, 159, 162,
164.
Kappstein, T., 68.
Kierkegaard, T., 72.
Kleist, H. von, 13, 47.
Knobloch, C., 68.
Koegel, F., 38.
Kofman, S., 39, 55, 68.
Körner, C. G., 144, 145.
Kraus, K., 73.
Krieg, M., 68.
Kühn, J., 11, 14, 45-47, 53, 55, 56,
68.
Kühtmann, A., 68.
Kurzreiter, M., 68.
Küsgen, F. L., 68.
Kutter, U., 68.
Haller, R., 49, 51, 52, 66, 74.
Hamann, J. G., 13, 17, 19, 20, 47, 49,
50, 63, 66, 67, 70, 97, 108, 116.
Hanslick, E., 147, 159, 160.
Harden, M., 9, 46.
Härting, P., 60.
Hauptmann, G., 9.
Haydn, J., 137, 138.
Hecker, E., 140.
Hegel, G. W. F., 56, 66, 90, 136, 165.
Hegeler, E. C., 28.
Heine, H, 52.
Helmholtz, H. von, 51.
Henne, H., 67.
Henry, A., 67.
Herbart, J. F., 23, 33, 51, 148.
Herder, J. G., 19, 20, 49, 67, 73, 97.
Hering, E., 52.
Herzog W., 69.
Hesse, H., 9.
Hiller, K., 9.
Hirsch, R., 67.
Hobbes, T., 148.
Hofmannsthal, H. von, 13, 26, 47,
67.
Hogarth, W., 146.
Hohenegger, H., 67.
Home, H., 145.
Humboldt, W. von, 17, 20, 21, 50, 65,
67.
Hume, D., 19, 123, 151, 156.
Husserl, E., 30, 118, 149.
Laas, E., 32, 53.
Lacoue-Labarthe, P., 68, 71.
Lagrange, J. L., 51.
Lakoff, G., 68.
Landauer, G., 9, 12, 46, 61, 68.
Lange, F. A, 32, 61, 72.
Lanza, D., 62.
Lasker-Schüler, E., 9.
Le Rider, J., 45, 68.
Leibniz, G., 50, 86, 124, 125.
Leinfellner, E., 62, 64, 66, 68, 69,
74.
Leonardo, 141.
Lernout, G., 48, 69.
Lessing, G. E., 39, 43, 44, 57, 69,
103, 104, 134, 135, 159.
Levisohn A., 8.
Levisohn C., 47.
Lichtenberg, G. C., 26, 27, 51,
69.
Liede, A., 69.
Lindau, H., 69.
Littré, E., 125.
Lo Piparo, F., 69.
Locke, J., 13, 17, 18, 47, 49, 50,
102, 107.
Lofrida, M., 65.
Longobardi, G., 62.
Lorusso, A. M., 65, 69, 70.
Lucentini, F., 63.
Luciano, 52.
Ludwig, O., 51.
Ibsen, H., 46, 150, 160.
Irmscher, H. D., 67.
Jacobi, F. H., 13, 47.
Jacobs, M., 60.
James, W., 30.
Janik, A, 67.
Johnson, A. B., 66.
Johnson, B., 134, 135.
Johnson, M., 68.
Johnston, W., 67.
Jolly, J., 116.
Joyce, J., 14, 48, 69.
Jung, J., 65.
Kaiser, C., 67, 69.
Kaisersberg, J. G. von, 125.
Kampits, P., 67.
171
71-
82,
52,
69,
Lüktenhaus, L., 20, 47, 50, 61, 69,
116.
Lutero, M., 39, 47, 116, 119, 130, 152,
160.
Nietzsche, F., 10, 24, 32, 38, 39, 46,
51, 55, 61- 63, 65- 68, 70-73, 149152, 160.
Noiré, L., 28, 52, 71.
Novalis, 159.
Nyíri, J. C., 68.
Macchia R., 63.
Mach, E., 10, 14, 24-29, 31, 32, 47,
49, 51, 52, 60, 62-64, 66, 69, 70,
73, 121-123.
Maeterlink, M., 16.
Magris, C., 47, 67, 70.
Maimon, S., 46, 53, 110, 116.
Manetti, G., 70.
Marco, ev.,130.
Marienberg, S., 49, 70.
Marinelli, M. C., 68.
Marmo, C., 65.
Martone, A., 63, 159.
Masini, F., 160.
Mastroddi, M., 45, 70.
McGuiness, B., 74.
Meijers, A., 55, 70.
Meinong, A., 48.
Melandri, E., 63.
Mendelssohn, M.,145.
Mengs, A, R., 145.
Merckels, W. von, 49.
Meschiari, A., 70.
Mill, J. S., 119.
Miller, N., 72.
Mittner, L., 40, 50, 70.
Mommsen, T., 9.
Mongré (Hausdorf F.), 70.
Montanari, F., 62.
Montefusco Calboli, L., 70.
Montinari, M., 71, 160.
Morgenstern, C., 14, 47, 160.
Morpurgo Davies, A., 50, 51, 70.
Morpurgo-Tagliabue, G., 35, 36, 39,
54, 55, 70.
Mortara Garavelli, B., 70.
Mosse, R., 8.
Moszkowski, A., 115.
Mozart, W. A., 146.
Mühsam, E., 9.
Müller M., 70, 85, 107, 116.
Müller-Lauter, W., 62, 71.
Musil, R., 26.
Ogden, C. K., 71.
Omero, 93, 140, 141.
Oppenheimer, F., 9.
Pagliaro, A, 71.
Pascal, B., 125, 159.
Paul, H., 10, 20, 22, 23, 50, 51, 56, 71,
72, 114, 116, 119, 130.
Pautrat, B., 71.
Pavolini, L., 71.
Perissinotto, L., 71.
Pestalozzi, K., 71.
Pinotti, A., 71, 74.
Pirandello, L., 56, 71, 72.
Pizer, J., 71.
Placido, B., 63, 72.
Platone, 24, 32, 46, 93, 97, 164, 165.
Plauto, T. M., 47.
Pniower, O., 65.
Poincaré, H., 44.
Porfirio, 18.
Proust, M., 65.
Pupi, A., 67, 71.
Quintiliano, M. F., 19, 107.
Raffaello Sanzio, 140, 146.
Rahden, W. von, 64.
Rapp, C., 62.
Rathenau, W., 9.
Ravy, G., 45, 71.
Reale, A., 71, 72.
Reinhold, K. L., 124, 143.
Rembrandt, 146.
Richards, I. A., 71, 72.
Richter, J. P., 40-44, 55, 56, 64, 72,
108, 116, 132, 136, 138, 159.
Richter R., 151, 160.
Ricoeur, P., 54, 72.
Rilke, R. M., 65.
Robertson, R., 45, 72.
Rossi, D., 64.
Rousseau, J.-J., 65.
Nancy, J.-L., 71.
Nautz, J., 68, 71.
Nehrlich, B., 71.
Saccone, E., 65.
172
Salaquarda, J., 62, 72.
Santulli, F., 72.
Sauerland, K., 66.
Savj-Lopez, P., 72.
Scherer, W., 141.
Schiller, F., 128, 144-146, 159, 160.
Schlegel, F., 41, 56, 133, 139.
Schleichert, H., 64, 66, 68, 69, 72, 74.
Schlenther, P., 65.
Schmidt, J., 30, 60.
Schneider, G., 46, 72.
Schoeller, B., 67.
Schopenhauer, A., 10, 24, 52, 72, 137,
146, 149.
Schulte, J., 74.
Serzisko, F., 72.
Shakespeare, W., 44, 109, 133, 136,
137, 140.
Silvestri Stevan, G., 62.
Skeat, W. W., 141, 159.
Skerl, J., 48, 72.
Socrate, 10, 137, 138, 159.
Sofocle, 140.
Sosio, L., 70.
Spedicato, E., 42, 56, 72.
Spencer, H., 22, 149.
Spinicci, P., 72.
Spinoza, B., 46, 59, 60, 63, 81, 100,
116.
Spitzer, L., 73.
Spörl, U., 47, 55, 56, 73.
Stadler, F., 49, 51, 52, 66.
Steinthal, H., 21, 32, 50, 51.
Stern, M., 47, 60, 73.
Sterne, L., 136.
Stettenheim, J., 115.
Stingelin, M., 55, 70.
Straub, H., 11, 12, 46, 47, 60, 69.
Stumpf, C., 29, 52, 73.
Sulzer, J. G., 145.
Swift, J., 44, 136-138.
Thunecke, J., 46, 62, 63, 66, 68, 69,
71- 73.
Tommaso, 148, 165.
Toulmin, S., 67.
Trendelenburg, F. A, 31, 162, 168.
Trotta, G., 73.
Tylor, E. B., 26.
Ullman, B., 73.
Untersteiner, M., 55, 73.
Vahrenkamp, R., 68, 69, 71.
Vaihinger, H., 11, 32, 33, 53, 73.
Vasoli, C., 72.
Venturelli, A., 72.
Verdino, A., 62.
Vertone, S., 64.
Vico, G., 13, 17-19, 47, 49, 70, 107,
108.
Vidari, G., 67, 159.
Vidusso Feriani, M., 67.
Violi, P., 68.
Virchow, R., 95.
Vischer, F. T., 37, 43, 44, 56, 73, 74,
104, 109, 116, 132, 136, 159.
Vogelweide, W. von, 82.
Voltaggio, F., 73.
Voltaire, 44, 52, 125, 135.
Wagner, R., 147.
Walch, J. G., 142, 1159.
Weber, W. E., 49.
Weiler, G., 14, 17, 46, 47, 49, 74.
Weininger, O., 26.
Whitney, W. D., 85, 116.
Wiener, O., 14, 48, 74.
Winckelmann, J. J., 145.
Windelband, W., 143.
Wittgenstein, L., 13, 14, 25, 52, 67, 68,
70, 71, 74.
Wolff, C., 120, 124.
Wolters, G., 70.
Wundt, W., 51, 108, 120.
Tani, I., 49, 50, 67, 73.
Tavani, E., 56, 73, 74.
Thalken, M., 73.
Thiele, J., 69, 73.
Zecchi, L., 66.
Ziehen, G. T., 130.
173
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Supplementa
1 Breitinger e l’estetica dell’Illuminismo tedesco, di S. Tedesco
2 Il corpo dello stile: Storia dell’arte come storia dell’estetica a partire da Semper,
Riegl, Wölfflin, di A. Pinotti
3 Georges Bataille e l’estetica del male, di M. B. Ponti
4 L’altro sapere: Bello, Arte, Immagine in Leon Battista Alberti, di E. Di Stefano
5 Tre saggi di estetica, di E. Migliorini
6 L’estetica di Baumgarten, di S. Tedesco
7 Le forme dell’apparire: Estetica, ermeneutica ed umanesimo nel pensiero di Ernesto
Grassi, di R. Messori
8 Gian Vincenzo Gravina e l’estetica del delirio, di R. Lo Bianco
9 La nuova estetica italiana, a cura di L. Russo
10 Husserl e l’immagine, di C. Calì
11 Il Gusto nell’estetica del Settecento, di G. Morpurgo-Tagliabue
12 Arte e Idea: Francisco de Hollanda e l’estetica del Cinquecento, di E. Di Stefano
13 Pœta quasi creator: Estetica e poesia in Mathias Casimir Sarbiewski, di A. Li Vigni
14 Rudolf Arnheim: Arte e percezione visiva, a cura di L. Pizzo Russo
15 Jean-Bapiste Du Bos e l’estetica dello spettatore, a cura di L. Russo
16 Il metodo e la storia, di S. Tedesco
17 Implexe, fare, vedere: L’estetica nei Cahiers di Paul Valéry, di E. Crescimanno
18 Arte ed estetica in Nelson Goodman, di L. Marchetti
19 Attraverso l’immagine: In ricordo di Cesare Brandi, a cura di L. Russo
20 Prima dell’età dell’arte: Hans Belting e l’immagine medievale, di L. Vargiu
21 Esperienza estetica: A partire da John Dewey, a cura di L. Russo
22 La maledizione della parola, di F. Mauthner
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Collana editoriale del Centro Internazionale Studi di Estetica
Presso il Dipartimento Fieri dell’Università degli Studi di Palermo
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Registrato presso il Tribunale di Palermo il 27 gennaio 1984, n. 3
Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione il 29 agosto 2001, n. 6868
Associato all’Unione Stampa Periodica Italiana
issn 0393-8522
Direttore responsabile Luigi Russo
The Curse of the Word
Fritz Mauthner was a German-speaking Jewish-Bohemian writer
and eccentric intellectual active in Berlin between the end of the
nineteenth and the beginning of the twentieth century. His critique of language is based on the assumption that the word as
such is a metaphor, a transposition of definite terms on indefinite
impressions, and that it is enclosed within an image that can only
refer to other images. This skeptical conclusion finds confirmation
through a comparison with a variety of traditions of thought.
This volume by Luisa Bertolini ([email protected]) presents, for
the first time in Italian translation, a wide selection of Mauthner’s
work, and reconstructs Mauthner’s sustained critical dialogue with
authors who have theorised the metaphorical character of language. Mauthner’s thesis brings together a variety of philosophical
approaches: Vico’s narration of the origins, the empiricist critique
of abstraction, Herder’s and Hamman’s metacritique of reason,
von Humboldt’s and Steinthal’s dynamic interpretation of Kant’s a
priori, Hermann Paul’s research on semantic change, Ernst Mach’s
functionalist conception of the “I” and the “thing” and his theory
of the concept as a system of operations, as well as Vaihinger’s
philosophy of pretence.
Mauthner’s reading of Aristotle’s theory of metaphor through
Biese and Bruchmann, and in ways that parallel the approach of
Gerber and Nietzsche, enables a close examination of the metaphor based on analogy and of the metaphor-image, while his
analysis of verbal metaphors (according to Morpurgo-Tagliabue’s
classification) intersects with Jean Paul Richter’s and Theodor
Vischer’s. The verbal metaphor is pivotal to Mauthner’s thesis that
semantic change is essentially based on Witz, on the wit that discloses remote similarities. The critique of language expresses itself
in the humour of the philosopher, who is amused by everything
that is held sacred in daily life but also knows that he belongs to
this daily life without heroes. His expressionist style of writing
reflects, in the circularity of an approach that never grasps the
object in question, his asystematic thought and relativistic results.
It does not come as a surprise, then, that Mauthner’s fame is
greater among writers (for example, Joyce and Borges, to mention
just two) than among philosophers. The exception is Wittgenstein,
who, notwithstanding his quotation in Tractatus, ends up articulating a critique of language quite akin to Mauthner’s.
Centro Internazionale Studi di Estetica, Viale delle Scienze, I-90128 Palermo
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