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storia economica dell`eta` contemporanea
Storia economica dell’età contemporanea, 2015-2016 Dai “miracoli economici” del dopoguerra alla stagnazione: l’Europa dalla ricostruzione postbellica al XXI secolo Durata prevista dal 18 nov. al 18 dicembre 2015; dal 24 febbraio al 28 aprile 2016. Testi di riferimento obbligatori. (1) Barry Eichengreen, La nascita dell’economia europea. Dalla svolta del 1945 alla sfida dell’innovazione, Il Saggiatore, Milano, 2009; Il testo vuole spiegare la specificità dell’esperienza europea in campo economico-sociale e intende verificare se ci sia una relazione tra questa e il rallentamento economico che interessa l’Europa più degli USA fra i paesi sviluppati. (2) Andrew Glyn, Capitalismo scatenato. Globalizzazione, competitività e welfare, Francesco Brioschi editore, Milano, 2007 Si concentra sulla svolta in campo economico e di politica economica intervenuta dagli anni 80. Dedica attenzione alle trasformazioni della domanda di lavoro e alle nuove relazioni di lavoro, alla concentrazione della ricchezza e alle conseguenze macroeconomiche della sperequazione dei redditi. Testi di riferimento a scelta : uno tra le 8 monografie seguenti (1) Manuel Castells, Volgere EGEA, 2003 [20082]. di millennio, Milano, Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011. Ha-Joon Chang, Cattivi samaritani. Il mito del libero mercato e l’economia mondiale, Milano, EGEA, 20142. David Harvey, Breve storia Milano, Il Saggiatore, 2007. del neoliberismo, Testi di riferimento a scelta : uno tra le 8 monografie seguenti Peter Marsh, Fabbricare il futuro. La nuova rivoluzione industriale, Torino, Codice edizioni, 2014. Richard A Posner, Un fallimento del capitalismo. La crisi finanziaria e la seconda Grande depressione, Torino, Codice edizioni, 2011. Richard A Posner, La crisi della capitalista, Milano, EGEA, 20142. democrazia Daniel Yergin, Joseph Stanislaw, La Grande guerra dell’economia (1950-2000). La lotta tra Stato e imprese per il controllo dei mercati, Milano, Garzanti, 2000. Due guerre mondiali e due dopoguerra: lezioni di un passato fallimentare e ricerca di nuove soluzioni La gestione economica e finanziaria della prima guerra mondiale aveva rappresentato una novità che aveva colto pressoché del tutto impreparati stati e operatori economici. Altrettanto era stato per il difficile dopoguerra e la gestione di una fase di drammatica instabilità economica, sociale e politica che aveva interessato tutta l’Europa: (1) dislocazione del commercio mondiale e (2) crisi del preesistente sistema di pagamenti internazionali imperniato su Londra e la £; (3) fine della stabilità valutaria; (4) pesante inflazione in molti stati, con (5) la ridistribuzione di redditi che essa comportava, (6) dilatazione del ruolo dello stato. Riaffermazione di politiche economiche di ispirazione liberista come reazione, nel tentativo di restaurare il passato. L’esperienza compiuta nel 1914-18 e nel primo dopoguerra sono largamente utilizzate nel 1939-45 e nel secondo dopoguerra per evitare gli errori che avevano favorito (1) l’instabilità valutaria; (2) la drastica riduzione dei rapporti economici e finanziari internazionali durante la grande crisi e la depressione degli anni Trenta; (3) la diffusa e persistente disoccupazione. Nuovi obiettivi e strumenti di politica economica. In particolare sono attentamente valutate l’esperienza del ristagno economico sofferto già negli anni 1920 da paesi come UK e Italia a causa di politiche di cambio errate (rivalutazioni eccessive e non concordate); e soprattutto quella della gravissima recessione degli anni 30 e delle soluzioni che avevano consentito in alcuni sistemi economici di limitare i guasti. Le lezioni tratte dagli anni 30 portano a elaborare nuovi indirizzi di politica economica. Amministrazioni statali ormai investite di ampie responsabilità in campo economico applicano misure di stabilizzazione congiunturale mediante (1) politiche monetarie ed eventualmente fiscali e (2) politiche di investimento per favorire la ricostruzione e l’occupazione ed eventualmente (3) riqualificare i sistemi produttivi (v. UK, TVA). . L’ispirazione keynesiana nelle politiche economiche Le proposte di John Maynard Keynes si erano imposte nel mondo accademico anglosassone. L’affermazione fu accompagnata dal ruolo inedito che gli economisti svolsero come consulenti dei governi di UK, Canada e USA durante la guerra. Inoltre vi contribuì il grande prestigio che lo stesso Keynes aveva acquisito per doti personali e grazie al suo ruolo: nel dibattito politico e culturale fra le due guerre; come consigliere del primo ministro e della Treasury britannica dal 1940; come principale negoziatore internazionale per il governo britannico tra 1941 e 1945. Progressivamente, tardi (dal 1940) e in modo non omogeneo, esse ispirarono i responsabili della politica economica britannica e di stati europei continentali. L’evoluzione delle concezioni di Keynes dalla vigilia della prima guerra mondiale al 1930: un cenno Keynes rivolse particolare attenzione ai problemi monetari per tutta la prima parte della sua attività, da Indian currency (1913) al Treatise on money (1930). Negli anni 20, in disaccordo con la maggior parte degli economisti contemporanei, propose di stabilizzare i prezzi interni piuttosto che i cambi, e di frenare l’inflazione evitando una rigorosa deflazione. L’effetto ridistributivo di entrambe era ingiusto e minava la stabilità sociale. Da metà anni Venti concentrò l’attenzione sul rapporto tra tasso d’interesse e investimenti, mentre raccomandava politiche di sostegno all’occupazione attraverso lavori pubblici, come chiedevano Lloyd George e il partito liberale britannico nella campagna elettorale del 1929. Partecipò attivamente alle discussioni sulla dole e polemizzò con la Treasury, secondo cui bisognava contrarre la spesa pubblica per superare le difficoltà dell’economia britannica (1929-1931), nella convinzione che ciò che lo stato spendeva era sottratto alle risorse del settore privato. . La Teoria generale suggerisce soluzioni non ortodosse per rimediare alla crisi. Nel 1936 pubblicò la sua opera più innovativa, The general theory of employment, interest and money. Essa proponeva ricette innovative di politica economica in condizioni di parziale impiego delle risorse disponibili (disoccupazione diffusa, sottoutilizzo della capacità produttiva degli impianti). Per stimolare l’economia occorreva aumentare il volume della spesa per aumentare il reddito distribuito e stimolare la domanda effettiva. L’aumento della spesa pubblica in deficit è la soluzione più semplice ed efficace disponibile. Si trattava di posizioni non ortodosse. Tuttavia Keynes preferì agevolare l’affermazione delle sue idee inserendole in un quadro analitico familiare agli economisti formatisi nel quadro teorico dell’economia neoclassica. Le scuole keynesiane Keynes non le sviluppò ulteriormente perché prima fu colpito da un attacco di cuore (1937) e poi fu assorbito dalla collaborazione con la Treasury e il governo fino al 21 aprile 1946. Solo in How to pay for the war (1940) affrontò il problema dell’inflazione in condizioni di pieno impiego, fornendo idee per il controllo dei redditi in condizioni si pressione inflazionistica associata al pieno impiego delle forze produttive disponibili. Era una questione rilevante in guerra, tornata attuale negli anni 60. Nel dopoguerra riuscì facilmente a prevalere un’interpretazione del pensiero di Keynes che trascurava il potenziale più innovativo delle sue analisi sull’instabilità finanziaria. Questo è l’indirizzo dominante fino agli anni 1970 in USA e UK. . Il lascito della guerra: le distruzioni nei territori occupati dalla Germania I paesi direttamente o indirettamente coinvolti nella guerra passano per esperienze anche molto diverse, a cominciare dalla natura e dall’entità delle sollecitazioni a cui la guerra sottopone le loro strutture economiche e sociali, eventualmente in conseguenza del rapporto con la Germania. I paesi dell’Est occupati furono saccheggiati per consentire un livello di vita relativamente alto alla popolazione tedesca e limitare il suo coinvolgimento nello sforzo produttivo di guerra. Fu limitato al massimo l’impiego di donne tedesche nel lavoro industriale. In Polonia fu distrutto il 62% dell’industria e 84% delle infrastrutture; fu ucciso il 16,7% della popolazione. I danni furono il 350% del reddito naz. 1938. In URSS risultarono distrutte 17m città e 70m villaggi. 25 mln di morti; 1/3 della ricchezza nazionale distrutto. Con l’Europa occidentale la Germania cercò di realizzare un’integrazione economica. Distruzioni prodotte dall’offensiva alleata e dalla resistenza tedesca. Secondo il governo francese il paese perse in guerra il 45% della ricchezza nazionale. In Italia la perdita era stimata di 1/3 della ricchezza. Alla fine del conflitto in Germania risulta danneggiato o distrutto il 90% del patrimonio residenziale. L’apparato produttivo però era solo parzialmente distrutto, anche se non riusciva ad essere immediatamente riattivato. Le infrastrutture erano state pesantemente danneggiate dai bombardamenti. Durante l’occupazione militare sovietica, a titolo di riparazioni fu trasferita in URSS una parte consistente dell’apparato produttivo industriale, dei mezzi di trasporto e del bestiame. Il trattato di Potsdam trasferì all’URSS beni e investimenti tedeschi in Ungheria e Romania. Riparazioni all’URSS erano previste da parte di Bulgaria, Romania e Ungheria. Riparazioni dovevano essere pagate anche a Cecoslovacchia (dall’Ungh.), Grecia e Jugoslavia (dalla Bulgaria e dall’Italia). Morti complessive in relazione alle perdite di guerra (000 omessi). Militari 22.000 Civili morti in campi di concentramento 12.000 Civili morti sotto bombardamenti 1.500 Civili morti in Europa per altre cause di guerra 7.000 Civili morti in Cina per altre cause di guerra 7.500 Totale 28.000 Perdite complessive 50.000 Fonte: voce Demography of the war, in Oxford companion of the Second World War, OUP, Oxford 1995. Altre conseguenze demografiche della seconda guerra mondiale La mobilitazione e le perdite militari modificano il rapporto quantitativo fra i sessi in molti popoli. In particolare nell’URRS. Calano drammaticamente i tassi di nuzialità e fertilità durante il conflitto. A guerra conclusa il recupero è rapido. Si verifica in diversi paesi (a cominciare dagli USA) un baby boom capace di influire fortemente sulla disponibilità di popolazione attiva alla fine degli anni 1950 e agli inizi degli anni 60. I tassi di natalità superano 20‰; calano nettamente da metà anni 1960 (13‰ OCSE, 1993). Nella CEE (1962) la fertilità è 2,8‰ contro 1,5 nel 1993. Cala drasticamente la mortalità (fino a 10 ‰, anni 90). I movimenti di popolazione si ripercuotono sulla composizione etnica e di nazionalità in molte regioni, creando un potenziale di tensioni e conflitti politicosociali che si trascinano a lungo. Condizionano pesantemente la gestione della politica in alcuni stati. Es.: i profughi dei Sudeti nella RFT. Gli spostamenti di popolazione: i profughi [000] 1939-1945 1946-47 Dentro Fuori Saldo netto Dentro Fuori Germania 7.500 4.600 7.200 600 9.500 Italia 1.400 1.500 680 350 230 Romania 450 700 80 - -170 Austria 385 150 310 33 512 9.927 7.134 8.471 1.211 10.053 UK - 500 - 413 87 Jugoslavia - 350 90 180 -440 15 1.025 160 1.915 -2.765 Polonia - 6.900 1.500 2.300 -7.700 Francia 3.900 3.710 282 50 422 Totale Alleati 4.201 12.835 2.300 4.988 -10.322 408 200 93 219 -82 Totale Asse Cecoslov. Totale altri URSS 20.000 Il lascito della guerra: lo stimolo a crescere in paesi non industrializzati I paesi produttori di materie prime e i paesi coinvolti come retrovie del conflitto in Asia, Australia e Medio Oriente ricevono un forte impulso alla crescita perché favoriti dalle spese degli alleati. Il reddito monetario insolitamente alto creato da esportazioni verso i belligeranti e/o dalla spesa di truppe stanziate sul loro territorio fornisce abbondanti risorse valutarie. Raramente possono essere spese immediatamente. Soprattutto i conti in £ (i più consistenti) sono bloccati dalle disposizioni valutarie britanniche. La chiusura del mercato internazionale favorisce l’avvio di produzioni manifatturiere locali prima ostacolate dalla concorrenza di economie industriali. I benefici ottenuti non sono permanenti. Raramente i paese interessati riescono a consolidare la propria economia. V. l’Argentina. Gli USA rafforzano il loro primato economico e finanziario. Il commercio estero USA, 1939-1945 [mln $] 1939 1940 1941 1942 1943 1944 1945 Importazio ni Esportazio ni Lend-lease 2.361 2.599 3.269 2.821 3.418 3.911 4.125 3.138 3.938 5.026 8.005 12.872 14.288 9.676 - - 999 4.525 8.659 9.967 3.781 Ind.Import . Ind.Esport. 100,00 110,08 138,46 119,48 144,77 165,65 174,71 100,00 125,49 160,17 255,10 410,20 455,32 308,35 19,88 56,53 67,27 69,76 39,08 56,86 87,29 91,59 96,05 68,11 Lendlease/ esportazio ni Lendlease/ saldo comm. L’erogazione degli aiuti USA durante la seconda guerra mondiale Nel concedere aiuti ai paesi impegnati nella guerra contro Germania e Italia l’amministrazione Roosevelt è vincolata da 2 leggi, frutto del forte isolazionismo che caratterizza il Congresso. Sono (1) il Johnson Act emanato dall’ammin. Coolidge nel 1924 per vietare crediti a chi non avesse rimborsato i debiti della prima guerra mondiale; (2) i Neutrality Acts emanati nel 1936-37 per impedire il coinvolgimento degli USA in guerre. Stabiliscono che eventuali forniture a paesi belligeranti devono essere regolate in contanti; e vietano l’impiego di navi americane nel trasporto. La grave situazione della Gran Bretagna che si profila dal maggio 1940 fa auspicare a Roosevelt il superamento delle limitazioni poste dal Congresso. Nel marzo 1941, dopo un approfondito dibattito parlamentare che serve a far accogliere il principio dell’appoggio economico ai nemici dell’Asse, è approvato il Lend lease Act. Il presidente può fornire mezzi ritenuti indispensabili allo sforzo di guerra; valuterà a sua discrezione a quali condizioni finanziarie. Varata la legge, il Dipartimento di Stato cerca di scambiare forniture contro basi militari (specie in Centro America). Gli aiuti lend-lease degli USA agli alleati, importi mensili tra il gennaio 1943 e il giugno 1945 e valore cumulativo dal marzo 1941 [mln. $]. 1.800 45.000 1.600 40.000 1.400 35.000 1.200 30.000 1.000 25.000 800 20.000 600 15.000 400 10.000 200 5.000 0 0 Totale cumulativo da mar.41 Importi mensili in mln $ Aiuti lend lease, genn. 1943-giu.1945 La tenuta della produzione tedesca di armamenti fino all’ultima fase della guerra. Indice della produzione di armamenti, 1° bimestre 1942=100 Produz. Armi Carri arm Aerei Muniz. totale 1941 98 106 81 97 102 1942 142 137 130 133 166 1943 222 234 330 216 247 1944 277 348 536 277 306 gen-45 227 284 557 231 226 Fonte: R. Wagenfuhr, Die deutsche Industrie im Kriege 1939-1945, pp. 178-81. La guerra stimola l’incremento dello stock di macchine utensili di 5 paesi belligeranti, 1938-45 (000 di unità] 1938 1940 1945 900 1.178 1.737-1.233 Id. taglio e modellamento metalli 1.281 1.577 2.316-1.776 Id. ogni lavoraz. di metalli 1.614 n.d. 2.594-2.143 UK taglio e modellamento metalli n.d. 700 800 Francia ogni lavoraz. di metalli 550 n.d. 600 Italia ogni lavoraz. di metalli 207 n.d. 290 USA:taglio metalli n.d. 942 1.883 Germania:taglio metalli Le conseguenze finanziarie della guerra: debiti pubblici, scarsità di riserve, inflazione. Per molti stati la guerra produce un netto peggioramento della bilancia dei pagamenti; alcuni sono appesantiti da un consistente debito estero (per es. UK: £ 16 mld). Praticamente in tutti i paesi coinvolti la guerra lascia una pesante eredità in termini di spinte inflazioniste. Perché (1) la spesa pubblica ha incrementato enormemente la liquidità, (2) i saldi attivi delle bilance dei pagamenti, specie nei paesi neutrali, hanno avuto conseguenze simili, benché di minor portata. L’inflazione può avere un forte impatto sulle società; può risultarne una forte disorganizzazione economica, per esempio cancellando la capacità di finanziare nuovi investimenti (dopo una fase iniziale in cui, invece, può favorirli). L’inflazione modifica profondamente la ripartizione dei patrimoni e sollecita comportamenti molto destabilizzanti a quanti cercano di mettersi al riparo dalle sue conseguenze per redditi e patrimoni. Sono quasi generali gravi carenze di approvvigionamenti alimentari, aggravate da cattivi raccolti. La produzione agricola europea nel 1945 è 50% del 1938; quella industriale è 33%. La carenza di merci aggrava le spinte inflazioniste. La ripresa commerciale è gravemente ostacolata dal Dollar gap. Esso è aggravato dalla revoca dell’Accordo Lend lease il 15.8.1945 che si chiude con l’erogazione di $ 42 mld, tra marzo 1941-giugno 1945, 89% merci; ca. 50% a UK e Impero. La flotta mondiale in 000 t, 1939-1947. Una distribuzione per stati che aumenta le difficoltà delle bilance dei pagamenti dei paesi debitori 1939 USA (meno flotta dei Grandi Laghi) 1947 9.000 27.000 0 11.000 21.000 17.500 Giappone 5.600 1.000 Norvegia 4.800 3.400 Germania 4.500 700 Italia 3.400 700 Olanda 3.000 1.900 Francia 2.900 1.700 Grecia 1.800 700 URSS 1.300 1.200 Danimarca 1.200 700 di cui in riserva Impero Britannico L’eredità tecnologica della guerra: qualche esempio. Esiti: ricerca dell’efficienza; maggiore produttività; abbattimento dei costi; diversificazione e ampliamento dell’offerta Agricoltura: meccanizzazione e concimi; riduzione degli addetti. Siderurgia: maggiore diffusione dei laminati di acciaio. Metallurgia: accresciuto impiego dell’alluminio. Meccanica ed elettromeccanica: prodotti più numerosi e sofisticati; accentuazione della standardizzazione produttiva. Trasporti: nuove tecniche produttive per le navi (standardizzazione e saldatura); trasformazione degli aerei e del loro processo di costruzione. Sviluppo della logistica. Chimica: la conversione al petrolio come componente decisiva della produzione energetica e come materia prima. I prodotti sintetici (gomma e benzina, nylon, teflon). I medicinali (pennicillina prodotta industrialmente; trasfusioni di sangue). Elettronica: comunicazione a distanza e strumenti di rilevazione. La produzione di nuovi strumenti di calcolo. Progressivo controllo sulla reazione nucleare e successiva trasposizione dall’impiego militare alla produzione di energia. Da produzioni limitate e costose a processi industriali. Crescente sofisticazione del controllo dei processi di produzione e delle innovazioni gestionali, riprendendo le tecniche di direzione aziendale concepite negli USA e le soluzioni istituzionali sperimentate nelle grandi imprese americane. Ricostruzione economica e riqualificazione produttiva. L’industrializzazione come strumento di sviluppo e di costruzione nazionale Forte esigenza di industrializzazione per garantire un livello di reddito più elevato (1) nei paesi già industrializzati (ma preoccupati di combattere la disoccupazione che minaccia la stabilità sociale) e (2) in quelli non industrializzati. Si vuole rimediare alle distruzioni e riqualificare sistemi produttivi rimasti separati dal flusso di rinnovamento tecnologico più recente perché le restrizioni valutarie avevano ostacolato la loro acquisizione. La spinta all’industrializzazione é collegata alla formazione di stati indipendenti partendo da paesi che erano stati a lungo colonie o comunque subordinati, politicamente ed economicamente, a potenze europee (UK, Olanda, Belgio e Francia). Diversi paesi dell’Asia, già colpiti dalla drammatica caduta delle esportazioni negli anni 20 e 30, che era stata aggravata da un’evoluzione a loro danno delle ragioni di scambio, diventano finalmente indipendenti. L’industrializzazione é in diversi casi un mezzo per costruire le basi politiche dei nuovi stati: l’avvio di politiche di sviluppo, favorisce il consolidamento di borghesie nazionali e il varo di campagne di lotta alla miseria. Simile la situazione europea, secondo Alan Milward: così si supera la crisi degli stati evidenziata dallo scoppio della guerra e dal suo primo tempo. L’industrializzazione dei nuovi stati socialisti In Europa dell’Est e in URSS, più tardi in Cina, l’industrializzazione è strumento di trasformazioni strutturali che devono consentire l’indipendenza nazionale e l’organizzazione di un’economia socialista. Si adotta in quasi tutti i paesi la pianificazione centralizzata che ricalca quella varata in URSS nel 1928: (1) rigida e volontarista anziché attenta alle compatibilità di una crescita integrata dei diversi settori produttivi. (2) Si assume che i prezzi non debbano essere in relazione con i costi. (3) Non ci si preoccupa di trovare mezzi per adattare offerta e esigenze espresse dalla domanda. (4) E di assicurare la qualità delle merci. Prevale il criterio di raggiungere gli obiettivi quantitativi fissati dal piano, senza attenzione per l’efficienza nell’impiego delle risorse. Si mette molto impegno nelle produzioni di base funzionali all’incremento degli investimenti e alla difesa. Si trascura la produzione di beni di consumo e l’edilizia residenziale (dove fanno premio criteri di costruzione che mirano soprattutto alle economie di scala). L’agricoltura presenta livelli di produzione spesso inadeguati, come in URSS, dopo la collettivizzazione. L’integrazione economica è limitata alle economie socialiste e viene gestita spesso come strumento delle alleanze politico-militari nel “blocco sovietico”. Non necessariamente con vantaggio economico per l’URSS. Ricostruzione economica e riqualificazione produttiva. L’articolazione delle industrie per settori e per dimensione tra 800 e 900 I sistemi industriali sono diversi, ma per molto tempo la loro composizione ricalca modelli relativamente simili. I settori produttivi attivati riflettono (1) le risorse locali disponibili, (2) l’eventuale specifica capacità di specializzarsi in alcuni tipi di produzioni, (3) l’esistenza di sbocchi commerciali per i prodotti, sul mercato interno o su quello internazionale. I livelli di reddito influiscono perciò sui percorsi di industrializzazione. Ci sono industrie leggere e pesanti; industrie dei beni di consumo e industrie di base o di beni d’investimento. Richiedono strutture di gestione e quantità di capitale diversi. Anche il rapporto con il mercato è spesso molto diverso secondo i settori produttivi, e secondo che si producano beni di consumo venduti direttamente ai fruitori finali (condizione che garantisce flussi di cassa più pronti) o che si producano beni intermedi e beni d’investimento per altre imprese. Cartelli e intese sono utilizzati per rimediare alle rigidezze di produzioni dove sono decisive le di economie di scala. Piccola e grande impresa: sono legate da rapporti di complementarità e subordinazione; presentano modelli organizzativi diversi. La piccola impresa spesso vanta una maggiore flessibilità, mentre la grande può mobilitare maggiori risorse finanziarie e può risultare più dinamica nell’innovazione. Il ruolo economico dello stato nel dopoguerra: nuovi compiti, dilatazione della spesa, gestione di politiche di stabilizzazione monetaria (1) Durante il conflitto i compiti economici dello stato nella produzione e distribuzione del reddito si dilatano. Comportano un appesantimento della spesa pubblica che solo in parte viene affrontato, nelle economie di mercato, con incrementi del prelievo fiscale. Cresce l’indebitamento e cresce la creazione di liquidità attraverso emissioni di moneta fiduciaria che crea pressioni inflazionistiche (eventualmente nascoste da disposizioni restrittive su prezzi e distribuzione delle merci e dei servizi che sono adottate durante la guerra e possono durare nel dopoguerra). Le pressioni inflazionistiche comportano un’instabilità (più o meno accentuata) per gli assetti monetari dei diversi stati. Tendono a cancellare il valore reale delle posizioni debitorie, a cominciare da quella dello stato. L’onere del debito pubblico cala, se esso non viene ulteriormente alimentato, mentre l’inflazione erode il potere d’acquisto della moneta. Purché il debito non sia costituito prevalentemente da titoli a breve scadenza che debbano essere rinnovati a tassi d’interesse crescenti. Il ruolo economico dello stato nel dopoguerra: ricostruzione e stabilizzazione sociale, riqualificazione produttiva, decolonizzazione (2) La transizione del dopoguerra, nonostante le pressioni per ridimensionare l’azione dello stato (garanzia di contenimento della pressione tributaria) richiede di confermarla (1) per la ricostruzione di infrastrutture, (2) per interventi di stabilizzazione sociale, (3) eventualmente per la riconversione dell’apparato produttivo. L’accentuata propensione egualitaria che accompagna l’esperienza di guerra porta ad attribuire alle amministrazioni statali maggiori compiti di tipo ridistributivo e previdenziale. Inoltre si accelera nel 1945-46, cominciando in Asia, il processo di decolonizzazione; provoca reazioni diverse da parte degli stati dominanti, ma impone spese: per contrastare militarmente la decolonizzazione o per reinserire i colonizzatori costretti al rientro in patria. In Africa un processo simile si avvia nei primi anni 1950. Continua a lungo, anche nei paesi ad economia di mercato, il coinvolgimento diretto delle amministrazioni statali nella gestione dell’economia (v. ERP). Le nazionalizzazioni, motivate richiamandosi all’efficacia economica e/o alla giustizia sociale, sono ricorrenti in diversi paesi occidentali. Si prolungano inoltre nel dopoguerra, pur fra tensioni e discussioni, scelte di partecipazione diretta dello stato all’attività produttiva compiute negli anni 1930, come in Italia. Indipendentemente dall’estensione delle economie pianificate di tipo socialista o comunista. Riallineamento dei cambi, applicazione di cambi rigidi e relativa stabilità dei prezzi: le acquisizioni del sistema di Bretton Woods per le economie dell’Europa occidentale. Condizioni specifiche permettono di limitare fortemente le spinte inflazionistiche nei paesi dell’Europa occidentale dopo le sistemazioni monetarie che intervengono fra 1947 e 1949, grazie anche al sistema di parità di cambio relativamente rigide emerso dal trattato di Bretton Woods. Giocano un ruolo positivo (1) gli aiuti statunitensi, (2) la capacità di rapida ripresa dei sistemi produttivi esistenti Il trattato crea un nuovo sistema di rapporti finanziari internazionali, frutto di un articolato progetto di profonda riorganizzazione elaborato durante la seconda guerra mondiale. Esso è il risultato di una dura contrattazione fra i 2 paesi che disponevano delle principali monete usate come mezzo di pagamento internazionale alla vigilia della seconda guerra mondiale: £ e $. Parteciperanno anche altri interlocutori, ma senza ruoli determinanti. Bretton Woods è parte di un nuovo assetto istituzionale internazionale imperniato sull’azione di organismi sovranazionali; i membri condividono un patrimonio politico-ideale. Diversamente dal 1919, il governo USA sceglie di impegnarsi formalmente nell’assetto politico del mondo uscito dalla seconda guerra mondiale. Prima tappa l’Atlantic Charter del 14 agosto 1941, elaborato da Roosevelt e Churchill; viene firmato il 1.1.1942 da Cina, UK, USA e URSS (cui si aggiungono 22 altri joint declarers e 19 altri firmatari che ne accettano gli impegni). Compare la definizione Nazioni Unite. 10 obiettivi di principio: (1) niente ingrandimenti territoriali; (2) niente cambiamenti territoriali contro la volontà dei popoli; (3) autodeterminazione; (4) restaurazione dell’autogoverno dove era stato cancellato; (5) riduzione delle restrizioni commerciali; (6) cooperazione economica globale per assicurare migliori condizioni economiche e sociali per tutti; (7) libertà da paura e bisogno; (8) libertà di navigazione; (9) Abbandono dell’uso della forza; (10) disarmo degli stati aggressori. Impegni successivi sugli obiettivi di principio degli Alleati 30.10.1943, a Mosca, dichiarazione delle 4 potenze (USA, UK, URSS, Cina) conferma gli impegni del gennaio 1942. Conferenza di Dumbarton Oaks 21.8-28.9.1944, 28.97.10.1944: 39 paesi elaborano il quadro di un’organizzazione di sicurezza mondiale sulla base della dichiarazione delle 4 potenze. Linee guida delle Nazioni Unite (Assemblea e Consiglio), del loro Segretariato, della Corte internazionale di giustizia. L’URSS avrà 17 seggi? Conferenza di San Francisco, 25.4-26.6.1945: 50 stati partecipano alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’organizzazione internazionale. Firma dello UN Security Charter. Disaccordo con URSS (seggio Polonia; veto nel Consiglio di sicurezza). UNRRA (1945-1947). Bretton Woods: UN Monetary and Financial Conference, 122.7.1944: 44 stati. Funzionerà da dicembre 1945 con 22 aderenti. Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. Gli scopi del FMI: l’art. 1 della carta istitutiva Promuovere la cooperazione monetaria internazionale fornendo strumento di consultazione e collaborazione. Facilitare espansione e crescita bilanciata del commercio internazionale, contribuendo a promuovere e mantenere un alto livello di occupazione e reddito reale e allo sviluppo delle risorse produttive di tutti i membri. Promuovere la stabilità dei cambi, mantenere rapporti di cambio ordinati fra i membri ed evitare le svalutazioni competitive. Aiutare a stabilire un sistema multilaterale di pagamenti nelle transazioni correnti fra i membri, eliminando le restrizioni sui cambi esteri che ostacolano la crescita del commercio mondiale. Dare fiducia ai membri rendendo le risorse generali del Fondo temporaneamente disponibili con adeguate salvaguardie, per correggere squilibri della bilancia dei pagamenti senza ricorrere a misure che distruggano la prosperità nazionale e internazionale. Abbreviare la durata e ridurre la portata degli squilibri di bilancia dei pagamenti dei membri. Il fondo ha l’autorità legale di sovrintendere l’adeguamento dei membri a politiche economiche coerenti con gli obbiettivi del Fondo. E’ l’unico organismo al mondo con questo diritto. Il Fondo monetario internazionale (1) Deve consentire di risolvere alcune delle peggiori difficoltà emerse dopo la prima guerra mondiale nella riorganizzazione del sistema di pagamenti internazionali. Afferma il principio che le parità di cambio tra monete (1) possono fluttuare solo entro margini molto ristretti (± 1%); (2) ogni modifica che si renda necessaria per rimediare a uno squilibrio strutturale della bilancia dei pagamenti di uno dei paesi aderenti deve essere autorizzata preliminarmente dal Fondo. Esso deve essere uno strumento sovranazionale (comprende inizialmente 44 stati membri) che ha come scopo favorire la collaborazione economica e finanziaria internazionale per evitare le svalutazioni competitive delle monete, spesso utilizzate negli anni 1930 per rimediare agli squilibri delle bilance dei pagamenti. Dovrebbe diventare lo strumento fondamentale per rendere possibile la ripresa e lo sviluppo del commercio internazionale. Non dispone, però, di risorse adeguate al compito, specie in una congiuntura connotata dal dollar gap. Il Fondo monetario internazionale (2) (1) I tassi di cambio definiti nel quadro del FMI devono essere armonizzati: la parità diretta tra lira e franco francese, per es. deve corrispondere alla parità che si otterrebbe se il passaggio da una all’altra moneta avvenisse tramite una terza valuta, per es. il dollaro. Questa pratica sposta i flussi commerciali spingendo a utilizzare di più una valuta. (2) I tassi di cambio devono essere unici: non è permesso applicare tassi diversi a seconda del tipo di transazione a cui si riferiscono (v. lira e franco fr.). (3) La moneta di riferimento internazionale è il dollaro degli Stati Uniti, ma le parità di cambio sono determinate in termini di once (o grammi) d’oro. Non c’è più circolazione monetaria in oro e il ricorso all’oro è limitato ai pagamenti internazionali in caso di necessità, utilizzando lingotti e non metallo monetato. Le diverse valute non sono in realtà convertibili direttamente in oro da parte di privati, tranne poche. Tra queste è fondamentale il $. Il modo di operare del Fmi (1) Il Fmi concede crediti ai paesi che ne hanno bisogno per assicurare la stabilità del proprio cambio. Sono crediti di importo relativamente limitato, sulla base della loro quota di partecipazione al capitale del Fondo, costituito da versamenti in monete nazionali integrate da una frazione in oro. Il credito deve essere restituito al massimo entro 2 anni. Il cumulo delle quote consente di concedere credito ai debitori per mettere in atto le misure necessarie all’assestamento delle rispettive bilance dei pagamenti. In linea di principio l’aggiustamento tocca prevalentemente ai debitori, quindi mediante le tradizionali politiche deflazioniste. Viene tuttavia introdotta una clausola che prevede l’eventuale correzione di parità e misure riequilibratrici da parte di un paese che risultasse strutturalmente creditore. Il modo di operare del Fmi (2) Il fondo dispone di un capitale relativamente limitato: inizialmente poco più di 8 mld. di $. Le decisioni sono votate sulla base del numero di quote sottoscritte. Già nella configurazione iniziale gli Stati Uniti dispongono di fatto di un diritto di veto perché dispongono della quota senza la quale non si ottiene la maggioranza qualificata necessaria per decidere. Il Fondo divenne operante nel marzo 1947, dopo la ratifica dei parlamenti della decisione di aderire espressa dai firmatari dell’accordo del luglio 1944. Non aderirono URSS, democrazie popolari, Svizzera, Portogallo e Nuova Zelanda. La stabilità dei cambi rende più facile l’incremento del commercio internazionale. L’uso del $ non comporta limitazioni nella produzione di liquidità internazionale e per quasi 20 anni essa cresce senza rischi di deflazione. Aumentano i rischi di inflazione in rapporto con l’evoluzione della bilancia dei pagamenti USA Crediti ottenuti dal Fmi come percentuale delle importazioni mondiali 1948-1992 Fmi e movimenti di capitali (1) Già nelle trattative che preparano l’accordo di Bretton Woods emerge un giudizio negativo nei confronti dei movimenti internazionali di capitali, sulla base degli effetti destabilizzanti che avevano avuto nel corso degli anni 1920 e, in particolare, nella crisi finanziaria del 1930-1931. Gli ampi spostamenti di capitali, che hanno contribuito alla trasmissione internazionale della crisi, hanno (1) impedito agli stati di realizzare politiche monetarie stabili, (2) minacciato la stabilità dei cambi, (3) messo a rischio la stabilizzazione finanziaria. Non sarebbe possibile mobilitare riserve valutarie adeguate se, oltre alle risorse necessarie per le esigenze commerciali e le altre transazioni ordinarie, fosse necessario fronteggiare movimenti di capitali. Fmi e movimenti di capitali (2) Serve un controllo preventivo sui movimenti di capitali: non devono cessare gli investimenti esteri, ma sono sottoposti al controllo degli stati e ad accordi internazionali. Il Fmi recepisce e legittima sul piano internazionale tali controlli; essi attenuano il collegamento fra condizioni finanziarie interne e internazionali senza pregiudicare la stabilità del cambio. Il mercato finanziario nell’immediato dopoguerra è di modesta entità: i controlli non entrano in forte conflitto con le esigenze degli operatori finanziari. L’azione internazionale delle imprese è ancora relativamente ristretta, anche se diversi fattori spingono in quella direzione. Fondamentale l’esperienza dei grandi produttori di petrolio e derivati. La Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo: uno strumento per favorire la crescita (1) Diventa operativa nel maggio 1946, ma il primo credito ($ 250 mln alla Francia) viene concesso nel maggio 1947. Ha come obiettivo a breve finanziare la ricostruzione; solo più tardi si occuperà di sviluppo. I primi esercizi vedono un impiego molto cauto e limitato delle risorse. Si tratta di una banca intergovernativa: è controllata dagli stati aderenti che forniscono il suo patrimonio e concede credito agli stati. Ottiene le risorse necessarie collocando obbligazioni sul mercato finanziario, prevalentemente New York. E offre garanzie sui crediti concessi da finanziatori privati. La cautela dimostrata dalla Banca riflette l’esigenza di ottenere un’alta notazione sul mercato per contenere il costo del collocamento delle obbligazioni. Finanzia progetti di investimento in infrastrutture e impianti che aumentino la capacità produttiva dei debitori e sceglie progetti che paiono redditizi. I crediti sono concessi per periodi lunghi, a tassi d’interesse dipendenti da quelli di mercato. La Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo: uno strumento per favorire la crescita (2) Dopo la metà degli anni 1950 cresce l’attenzione per l’esigenza di finanziare lo sviluppo. Un cambiamento decisivo viene realizzato nel 1960 con la fondazione dell’International Development Association (IDA) che estende l’ambito operativo del “gruppo” della Banca al finanziamento di progetti agricoli, idrici, di educazione e formazione. L’IDA non valuta rigidamente la convenienza diretta dei progetti in cui investe come la Banca. A partire dalla presidenza Dell’ex segretario di stato USA Robert McNamara (1968-1979) il tema della lotta alla povertà e quello dello sviluppo diventano prevalenti. La Banca si trasforma nel 1970 in Banca mondiale. Si specializza nell’erogazione di crediti a economie con basso livello di reddito pro capite. Condiziona i crediti all’elaborazione di progetti specifici, alla cui preparazione contribuisce fattivamente. Subordina i crediti anche a scelte di politica economica da parte degli stati debitori giudicate adeguate, contribuendo efficacemente alla costruzione di un indirizzo di politica economica più sensibile alla oculatezza e al rigore nella gestione dei finanziamenti che alle ricadute sociali delle scelte . Negli anni 1980 svolge un ruolo importante nella gestione della crisi dei paesi debitori. Prestiti della Banca mondiale,1946-95: impegni medi annui in valore assoluto in $ correnti e costanti (1995) e ripartizione geografica in % 1946-49 1950-59 1960-69 1970-79 1980-89 1990-95 Impegni (medie annuali) Mld $ correnti 0,22 0,39 1,05 5,36 15,69 22,03 Mld $ 1995 1,19 2,37 5,52 12,09 22,24 23,66 Africa 0 15 12 14 15 15 Asia 0 38 40 38 43 37 Europa 81 20 12 12 9 16 America Latina 19 22 28 24 26 25 0 5 7 11 7 7 Distribuzione % per regione Medio Oriente-Nord Africa Prestiti della Banca mondiale,1946-95: ripartizione per settore e tipo di credito in % Distribuzione % per settore 1946-49 1950-59 1960-69 1970-79 1980-89 1990-95 Agricoltura 0 4 13 28 24 16 Finanza e industria 2 13 12 16 18 11 21 61 64 36 29 24 0 0 4 13 15 26 76 22 8 8 15 24 76 21 6 5 18 20 Investimenti specifici 2 53 67 56 46 60 Altro (e) 0 2 11 17 16 80 Infrastrutture (a) Sociale (b) Altro (c) Distribuzione % tipo di prest. Programmi e aggiustamenti (d) Legenda della tab. sui prestiti della Banca mondiale, 1946-1995. (a) telecomunicazioni, trasporti, elettricità e altre energie. (b) educazione, ambiente, popolazione, sviluppo urbano, acqua e fognature. (c) Petrolio, gas, miniere e attività estrattive, gestione del settore pubblico, turismo, attività polisettoriali e settori non determinati. (d) Ricostruzione, aggiustamento di settore, aggiustamento strutturale, prestiti su altri programmi. (e) Rimborsi, ripresa di emergenza, intermediazione finanziaria, assistenza tecnica. Istituzioni finanziarie internazionali attive dopo il 1945: BRI, Eximbank, banche internazionali regionali. La Banca dei regolamenti internazionali venne fondata nel 1930 per curare i trasferimenti fra stati derivanti dalle riparazioni delle potenze sconfitte nella prima guerra mondiale e regolati in modo definitivo dal Piano Young del 1929. Ha svolto le funzioni di banca centrale delle grandi banche centrali, mantenendo i contatti fra loro anche durante la seconda guerra mondiale. Ha assunto un ruolo importante di raccolta di informazioni sui flussi finanziari e di punto di osservazione sui mercati finanziari. La Import-Export Bank statunitense venne creata come società dall’amministrazione Roosevelt nel 1934 per concedere prestiti a operatori esteri allo scopo di agevolare le esportazioni dagli USA e sostenere l’occupazione. Nel 1945 fu trasformata in ente governativo per agevolare le esportazioni di operatori privati fornendo crediti e garanzie assicurative. Oltre alla Banca mondiale si sono sviluppate altre banche regionali che finanziano programmi di sviluppo: in particolare la Asian Development Bank, dove prevale l’influenza della Bank of Japan; la Inter-American Development Bank, dove sono forti gli interessi dei paesi debitori; la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, impegnata nel sostegno dei paesi dell’Europa dell’Est. Il Piano Marshall e l’ERP: i preliminari. Cerca di rimediare al dollar gap che diventa particolarmente acuto nel primo semestre 1947, in seguito (1) al peggioramento della situazione alimentare in Europa e (2) all’impennata dei prezzi di merci e servizi degli Stati Uniti. Questa è seguita alla brusca liberalizzazione adottata dall’amministrazione Truman in presenza di una forte domanda nazionale e internazionale. L’annunzio di un programma di aiuti è dato dal segretario di stato George Marshall il 5.6.1947. Il programma è operativo nel 1948, dopo un duro confronto nell’amministrazione su chi dovesse gestirlo (Tesoro o Dipartimento di stato). La responsabilità toccherà al Presidente che si varrà di un’agenzia apposita posta sotto la sua autorità. C’è anche un teso dibattito parlamentare sull’opportunità di sacrificare i contribuenti americani a vantaggio di stranieri, e sull’entità degli aiuti. L’approvazione del programma è favorita dalla crescente preoccupazione per la diffusione del comunismo in Europa occidentale, favorito dalle difficoltà economiche. Il Congresso impone la verifica annuale del programma e che le risorse siano votate annualmente. Sono nettamente ridimensionate le cifre inizialmente indicate come ammontare complessivo degli aiuti ($ 22, poi 17 mld). Il Piano Marshall e l’ERP: condizioni e obiettivi. Gli Stati Uniti chiedono ai beneficiari di coordinare le loro politiche economiche e di unirsi in un organo rappresentativo che collabori alla ripartizione degli aiuti. Sarà l’OECE. Avrà sede a Parigi. Destinatari sono 16 paesi europei da cui sono esclusi URSS e democrazie popolari che non vogliono accettare di dare informazioni sulla propria economia. È’ un passo decisivo nel confermare la divisione economica e politica dell’Europa. La 2. Conferenza economica di Parigi dell’aprile 1948 fissa gli obiettivi: (1) aumentare la produzione, (2) utilizzare meglio la manodopera, (3) assicurare la stabilità monetaria e finanziaria, (4) intensificare gli scambi di merci e di servizi. Le politiche dei paesi aderenti devono essere coordinate e vanno controllati i rispettivi programmi nazionali di produzione, importazione ed esportazione. Si intende favorire la cooperazione economica fra stati. Le modalità di funzionamento dell’ERP (1) Il primo esercizio ERP durerà 15 mesi dall’inizio di aprile 1948. Sarà prorogato al 30 giugno 1950 e successivamente al 30 giugno 1951. Nel 1951 gli aiuti arriveranno nell’ambito del Mutual Security Act. Cesseranno il 30 giugno 1952. Gli aiuti sono dati come grants (doni) per il 90% e loans (prestiti, gestiti attraverso la Export-Import Bank) per il 10%. Sono finanziati dal bilancio federale USA. Permettono di comperare merci e servizi (trasporto) prevalentemente da produttori americani per cederle ai governi membri dell’ERP. Questi ricevono gli aiuti in natura e possono venderli agli operatori economici e agli enti che ne fanno richiesta contro pagamento nelle diverse monete nazionali. In questo modo i bilanci statali ricevono entrate di natura non fiscale che possono finanziare spese utili a ricostruzione e sviluppo. L’ERP assicura circa ¼ delle importazioni europee fra 1947 e 1950. Le modalità di funzionamento dell’ERP (2) Gli importi pagati affluiscono ai “conti di contropartita” a favore delle rispettive amministrazioni statali, integrandone il bilancio. Sono utilizzati in diverso modo: dal finanziamento di lavori pubblici (senza accendere prestiti o appesantire il prelievo fiscale) all’accumulazione di riserve. Gli effetti in termini di stimolazione dell’economia e dell’occupazione sono diversi. L’ECA (European Cooperation Agency) nel 1949 criticherà i governi troppo cauti nell’utilizzare i fondi di contropartita per finanziare investimenti. Nei primi 15 mesi arrivano in Europa soprattutto cereali, carbone e materie prime per l’industria. Successivamente vengono forniti soprattutto macchinari e impianti. Questo è il contributo diretto dell’ERP all’ammodernamento dei processi di produzione e alla riduzione del divario tecnologico rispetto agli Stati Uniti. L’ERP promuove direttamente la formazione di tecnici e imprenditori alle tecniche moderne attraverso visite a imprese americane e apposite missioni di consulenza in Europa. Anche in questo modo si favorisce l’applicazione di soluzioni più avanzate nei processi produttivi dell’industria europea. Bilancio federale USA negli anni dell’amministrazione Truman, 1945-1952. Mld $ correnti Eccedenza o deficit totale in % del Pil Avanzo o disavanzo Pagamenti totale Incassi totali totali Pil 1945 -0,2 226 -46,1 43,8 89,9 1946 -0,1 228 -13,7 33,9 47,6 1947 1.7 239 3,2 29,9 26,7 1948 4.5 262 8,7 30,5 21,8 1949 0.2 277 0,4 28,9 28,5 1950 -1.1 279 -2,3 28,7 31,0 1951 1.9 327 4,2 35,2 31,0 1952 -0.4 358 -1,0 44,1 45,1 Fonte: http//federal-budget-findthebest.com/d/d/Harry-S.-Truman Le erogazioni ERP [mld $ correnti] Importi 1948 4,300 1949 (30.4-30.6) 1,150 1949-1950 4,300 1950-1951 2,700 Totale 12,400 Di cui all’ Europa 93,0% All’Unione Europea dei pagamenti 2,8% A paesi orientali 4,2% I crediti accordati dall’ERP, 3.4.1948-3.4.1951 [$ 000]: ripartizione merceologica, valore e quota percentuale % Materie prime per l’industria 5.032.119 45,35 Alimentari e prodotti agricoli 4.884627 44,02 725.829 6,54 47.334 0,43 350.000 3,15 56.000 0,05 11.095.919 99,54 Noli oceanici Servizi tecnici Unione europea dei pagamenti Conto ECA prepagato Totale I crediti accordati dall’ERP, 3.4.19483.4.1951 [$ 000]: ripartizione per paese UK 2.703.049 25,29 Norvegia 218.659 2,05 Francia e suoi territori 2.223.880 20,80 Irlanda 146.200 1,37 Italia 1.213.059 11,35 Turchia 117.262 1,10 Germania occ. 1.188.757 11,12 Svezia 116.334 1,09 Olanda 949.779 8,88 Portogallo 45.745 0,43 BelgioLussemburgo 529.765 4,96 Trieste 33.247 0,31 Austria 513.978 4,81 Islanda 18.419 0,17 Grecia 432.516 4,05 Totale Danimarca 239.270 2,23 10.689.910 Stima dell’incidenza dei fondi ERP in % del PNL 1949 di 5 paesi Tasso di cambio anteriore al 19 sett. 1949 Tasso di cambio posteriore al 19 sett. 1949 Francia 9,9 11,5 Italia 8,8 9,6 16,1 23,1 UK 5,2 7,5 Germania occidentale 4,7 5,9 Olanda Le sistemazioni monetarie del dopoguerra: pressioni inflazioniste e primi tentativi di stabilizzazione (1) I cambi nel secondo dopoguerra vengono mantenuti fissi (diversamente dal primo dopoguerra). Sono frequenti però: (1) rapporti bilaterali, (2) tassi incrociati non allineati, (3) pratiche multivalutarie. Per rimediare alla carenza di $ molti paesi mantengono controlli discriminatori sui pagamenti verso l’area del $. I timori per la scarsità di $ durano ancora negli anni Cinquanta. 3 paesi (di cui uno solo europeo) rivalutano per evitare che il saldo attivo della loro bilancia dei pagamenti faccia aumentare la liquidità interna e aggravi le pressioni inflazioniste: Canada e Svezia nel luglio 1946; la Nuova Zelanda nell’agosto 1948. La maggior parte degli altri sembra destinata alla svalutazione, accompagnata da misure deflazioniste per limitare l’aumento dei prezzi e permettere di stabilizzare i cambi. Il deficit pubblico è spesso indicato come causa principale delle pressioni inflazioniste; in realtà agiscono anche l’espansione del credito e gli alti prezzi delle importazioni. Le sistemazioni monetarie del dopoguerra: blocco dell’inflazione e nuovi, durevoli, allineamenti di cambio (2) Nel 1947-1948 si moltiplicano gli sforzi per rimediare ai fattori di instabilità monetaria. Le difficoltà valutarie minacciano la ripresa economica europea perché costringono a mantenere scambi bilaterali, accordi di pagamento e controlli. Il Fmi avvia le operazioni, mentre fallisce il tentativo di convertibilità della £. E prevede un periodo transitorio di 5 anni prima della piena applicazione delle sue regole ai paesi membri. Viene fatto un primo tentativo per favorire la ripresa dei pagamenti multilaterali in Europa occidentale. Ma occorrono l’avvio dell’ERP e la riforma monetaria tedesca (giugno 1948: drastica riduzione della liquidità e ampia liberalizzazione dei prezzi) per consolidare la riorganizzazione del sistema monetario europeo. Nel 1949 una nuova, grave crisi della £ porta a un’ondata mondiale di svalutazioni: le nuove parità di cambio si conserveranno quasi tutte fino al 1971 proprio grazie al riassestamento avviato nel ‘48. Solo il $ canadese tra le valute di economie importanti fluttua dal 1950. I paesi occidentali applicano progressivamente nel decennio 1950 le prescrizioni fondamentali di Bretton Woods sui cambi. Il risultato è agevolato dal mantenimento di molti controlli valutari. Le sistemazioni monetarie del dopoguerra: un aiuto dal Fmi, ma l’ERP e soprattutto l’EPU svolgono il ruolo decisivo (3) Periodicamente si manifestano crisi valutarie che vengono affrontate con strumenti diversi, fra cui i crediti di stabilizzazione del Fmi. Si afferma la collaborazione fra banche centrali come strumento che aiuta la conservazione del sistema. L’ERP attenua le difficoltà grazie anche alla decisione di consentire l’uso dei doni per pagare importazioni da paesi diversi da USA limitatamente a 1/15 degli aiuti, corrispondente al 3% del valore del commercio intereuropeo. L’ECA prevede l’erogazione di doni condizionali per i paesi creditori, ma un meccanismo difettoso non permette un uso efficace e produce forti differenze fra stati. Quando a fine 1949 si profila la fine dell’ERP occorre una nuova soluzione. Sarà l’EPU che nel 1958, dopo 8 anni circa di buon funzionamento, che permetterà di ristabilire la convertibilità relativa al conto corrente della bilancia dei pagamenti. La via verso l’Unione Europea dei pagamenti, 1947-1950. Nel 1948 gli accordi bilaterali che avevano consentito la ripresa del commercio internazionale in Europa nell’immediato dopoguerra sembrano non più rinnovabili: diversi paesi debitori hanno esaurito le disponibilità valutarie; alcuni paesi (come UK e Belgio) continuano ad avere un surplus rispetto al resto d’Europa (comprese Svizzera e Svezia), e i paesi debitori cercano di limitare le importazioni provenienti dai creditori. Il commercio intereuropeo minaccia di bloccarsi. Dal 1947 si era tentato di correggere parzialmente gli effetti degli accordi bilaterali, ma con scarso successo perché i creditori erano preoccupati delle conseguenze che potevano derivare dal fatto che in paesi importanti continuava l’inflazione. Essa rendeva anormalmente alte le importazioni e anormalmente basse le esportazioni. Nel novembre 1947 Belgio, Lussemburgo, Olanda, Francia e Italia raggiungono un accordo per la reciproca compensazione dei saldi esistenti, ma senza accordarsi nuovi crediti. Vengono compensati solo $ 5 mln su 762,1. Nell’ottobre 1948 un accordo impegna tutti i paesi OECE alla cancellazione multilaterale dei debiti, senza nuovi prestiti. E’ applicato fino al luglio 1950 e non dà risultati rilevanti (solo 4% dei debiti sono compensati). Poi la UEP dà una soluzione. Come funziona l’Unione europea dei pagamenti 1950-1958 (1) Ogni stato membro alla fine del mese trasferiva alla Banca dei regolamenti internazionali (BRI) i suoi saldi con tutti gli altri stati. La Banca provvedeva alla compensazione. I saldi restanti sono consolidati su base multilaterale: non come debiti o crediti verso un paese, ma verso l’Unione. Così cessava l’esigenza di discriminare fra paesi in relazione alla posizione valutaria reciproca. I debiti netti potevano essere finanziati. Ogni paese disponeva di una quota pari a 15% del suo commercio totale con i membri EPU. Se il debito restava <20% della quota, era finanziato interamente e diventava un credito della BRI. Se era >20%, doveva essere rimborsato in oro (o $) per l’importo percentuale corrispondente alla quota del debito. Se si superava la quota attribuita al paese membro, l’intero debito andava rimborsato in oro o $. I debiti cumulati erano rimborsati allo stesso modo. Come funziona l’Unione europea dei pagamenti, 1950-1958 (2) I paesi creditori trovano conveniente il dispositivo perché ricevevano una quota di rimborso in oro o $ > di quella chiesta ai debitori, grazie all’uso di un fondo di $ 350 mln dato dall’ECA. Inoltre un consiglio di esperti finanziari indipendenti consigliava ai paesi debitori come rimediare al debito, facendo pressione sui debitori perché correggessero lo squilibrio. Infine l’EPU comporta la liberalizzazione delle restrizioni sul commercio (feb. 1951), cominciando col dimezzare i dazi e i vincoli quantitativi esistenti per ridurli successivamente fino al 75%. Tra 1950 e 1959 il commercio intraeuropeo cresce da $ 10 mld a 23 mld; le importazioni dal Nord America passano da 4 a 6 mld. Il commercio estero cresce più rapidamente della produzione. I risultati ottenuti permettono già nel 1954 di imporre ai debitori di saldare più sollecitamente la loro esposizione e i creditori ottengono una quota > di oro o $. La rimozione dei controlli quantitativi da parte dei paesi dell’EPU sulle rispettive importazioni viene estesa agli USA: è il segnale di una riduzione delle difficoltà create dal dollar gap. Le regolazioni fatte dall’Unione europea dei pagamenti, 1950-1958 [mld $ correnti] Compensazioni multilaterali 20,0 prorogate 12,6 regolazioni speciali e aggiustamenti Saldo regolato in oro e $ Saldo regolato a credito 0,4 10,7 2,7 Saldo da regolare 13,4 Totale delle posizioni bilaterali (deficits + surplus) 46,4 L’eredità della guerra, valutata al termine della ricostruzione: modifiche nella ripartizione del reddito e riflessi sugli investimenti. La guerra non produce solo distruzioni: può stimolare anche la crescita economica, in particolare industriale, se è possibile dedicare risorse alla produzione nonostante il conflitto e ricavare profitti da tale produzione (com’è stato possibile nella 2. guerra mondiale, cedendo le merci ai governi o a privati). Le particolari condizioni monetarie che accompagnano un conflitto basato su un grande sforzo produttivo possono favorire l’accumulazione di consistenti risorse finanziarie capaci di alimentare un significativo flusso di investimenti. Nei primi anni della seconda guerra gli investimenti furono molto intensi anche in Europa oltre che negli USA e in Giappone. Solo dal 1944 la maggior parte dei paesi comincia a limitare l’incremento della capacità produttiva. Difficile però valutare il risultato complessivo ottenuto perché occorre tenere conto delle distruzioni, la cui stima è spesso falsata dalla possibilità di ottenere risarcimenti. Esse sono comunque rilevanti soprattutto nelle infrastrutture, nel patrimonio edilizio, nell’agricoltura e allevamento. La guerra provoca cambiamenti significativi nella ripartizione del reddito a favore delle imprese e di alcune categorie di operatori che possono trarre vantaggio dalle condizioni dei mercati durante il conflitto e nell’immediato dopoguerra: per es. aggirando i controlli amministrativi sui prezzi e i rifornimenti. L’eredità della guerra: modifica degli assetti produttivi, trasformazione dei rapporti economici e finanziari internazionali; sviluppo di politiche sociali per la stabilizzazione del reddito. La guerra favorisce importanti cambiamenti della struttura produttiva di diversi stati combattenti e anche di diversi neutrali, interessati da politiche di sostituzione delle importazioni e/o da forniture ai belligeranti. Sul piano produttivo la trasformazione dell’industria comporta l’applicazione di significative innovazioni di prodotti e di processi produttivi, eventualmente estendendo al settore civile acquisizioni legate alle produzioni militari. In parte grazie a questi processi, in parte a causa delle modalità di con cui si creano interdipendenze fra le economie dei paesi belligeranti, la guerra provoca modifiche profonde nei rapporti economici e finanziari internazionali. Si creano nuovi creditori e nuovi debitori; le loro posizioni possono essere relativamente stabili (per es. gli USA) o instabili (per es. l’Argentina). Tra 1939 e 1945 vengono poste le basi di un indebolimento irreversibile del Commonwealth e all’area della £. In alcuni stati vengono introdotte riforme importanti delle provvidenze sociali, sotto la spinta di forti esigenze egualitarie. Le riforme permettono di stabilizzare il reddito di categorie sociali numericamente ampie e spesso esposte all’incertezza; ma consolidano anche il reddito di classi medie, a cui garantiscono inoltre opportunità maggiori di avanzamento sociale. Ne deriva un > dinamismo nelle società del dopoguerra che accompagna e rafforza quello derivante dai processi di ridistribuzione patrimoniale connessi alla guerra. La crescita accelerata in Europa nel dopoguerra: recupero [catching-up] e convergenza. 1. 2. 3. La crescita del dopoguerra avviene recuperando la perdita di produzione e la distruzione di capacità produttiva provocata dalla guerra. Alla fine degli anni 1940 lo stock di capitale era < ai livelli di equilibrio. Se l’Europa avesse continuato a crescere fra 1938 e 1946 al tasso medio annuo composto del 2,2%, la produzione e lo stock di capitale sarebbero stati del 20% > al 1938 entro la fine degli anni 1940. E l’occupazione sarebbe stata >. C’è quindi spazio e opportunità per aumentare lo stock di capitale e si può ottenere una crescita rapida rimettendo al lavoro i molti disoccupati. La crescita rapida è, all’inizio, un ritorno alla normalità. La convergenza si riferisce alla crescita aggiuntiva ottenuta riducendo lo scarto di efficienza rispetto agli USA che da fine 800 avevano conquistato un altro livello di produttività (indicato dall’altro Pil pro capite), grazie: all’uso delle risorse disponibili, alla pionieristica adozione di metodi di produzione di massa, alla costituzione di un ampio mercato nazionale unitario. Le 3 condizioni permettono di adottare l’organizzazione multidivisionale delle grandi imprese, guadagnando efficienza di gestione, di ottenere economie di scala, e integrare le produzioni, consentendo sia rifornimenti sicuri di materie prime e semilavorati, sia l’accesso a condizioni convenienti a mercati locali lontani. I costi ridotti permettono alle imprese americane di diventare produttrici su scala mondiale. Ne deriva un ulteriore stimolo allo sviluppo del sistema di produzione di massa che caratterizza l’economia USA. Recupero e convergenza: le condizioni per realizzarli. Negli anni 1950 la divaricazione tra il Pil pro capite di USA e Europa è alta; c’è spazio per un rapido aumento di produttività tramite il recupero del ritardo accumulato. La liberalizzazione degli scambi commerciali e degli investimenti permette di superare i limiti dei mercati nazionali. C’è disponibilità illimitata di mano d’opera per diversi anni. L’automazione agevola l’uso di addetti non qualificati. Il prezzo dell’energia e di molte materie prime resta comparativamente basso per anni, salvo impennate di durata relativamente breve (in particolare per la guerra in Corea). Le ragioni di scambio sono favorevoli ai manufatti piuttosto che ai prodotti grezzi. Diverse condizioni istituzionali agevolano il processo di sviluppo. Riguardano il sistema dei pagamenti internazionali, le relazioni industriali, l’azione economica delle amministrazioni pubbliche. Politiche monetarie e manovre del cambio in Europa occidentale negli anni 1950: obiettivi interni e prescrizioni del Fmi Nel secondo dopoguerra la maggior parte degli stati dell’Europa occidentale dà molta importanza alla crescita economica e a livelli di occupazione alti. Questi obiettivi hanno la priorità soprattutto per il governo laburista britannico. Che applica sistematicamente una politica di bassi tassi di interesse. L’adesione a un sistema di cambi fissi comporta però il ricorso a variazioni del tasso di sconto per correggere squilibri della bilancia dei pagamenti (deficit), facendo rallentare la crescita e la riduzione dell’impiego delle risorse per assicurare la stabilità valutaria. Il controllo del tasso di cambio continua a essere un obiettivo fondamentale. Oltre alla manovra del tasso di sconto si applicano controlli sui cambi, eventualmente accompagnati da un aumento delle imposte per frenare i consumi interni. Obiettivo: contenere le importazioni, come nel 1950-1951 durante la crisi che colpì la Germania occidentale. Il ritorno alla stabilità è agevolato eventualmente da prestiti. Più tardi, quando sarà riassorbita la disoccupazione, come in UK dove fu <1,8% fra 1953 e 1958, sotto governi conservatori, si ricorrere a frequenti variazioni dei tassi d’interesse per stimolare o contenere la domanda effettiva (stop and go). Il potenziale rischio del sistema di Bretton Woods (stabilità valutaria e deflazione o instabilità e crisi valutaria) viene eluso negli anni 50 grazie alle caratteristiche e all’intensità della crescita economica L’accumulo di $ nell’economia internazionale non crea problemi (anzi) finché non ci sono dubbi sulla possibilità di convertirli in oro. La certezza svanisce quando i conti esteri delle principali economie presentano sistematicamente consistenti disponibilità di $ che nel 1960 superano l’entità delle riserve auree statunitensi. Nel 1963 il debito USA verso l’estero supera quello interno. La richiesta di conversione di $ in oro avrebbe avuto effetti analoghi a una crisi di liquidità di una banca e avrebbe cancellato il ruolo del $ nel sistema internazionale dei pagamenti. Se il governo USA avesse inteso contrastare questa situazione assicurando il tasso di cambio in vigore fra oro e $, avrebbe dovuto applicare misure deflazionistiche che avrebbero sottratto liquidità al mercato internazionale ed esercitato una vigorosa azione deflazionistica generalizzata. Tutti i sistemi economici avrebbero dovuto applicare misure simili per difendere le rispettive monete. Si sarebbe riprodotta la situazione degli anni 1930. Esigenze interne agli Stati Uniti fecero preferire l’incremento sistematico della liquidità, cercando soluzioni diverse per assicurare il ruolo del $ e il funzionamento del sistema internazionale degli scambi. L’evoluzione del quadro economico internazionale tra anni ‘50 e ‘60 (1) La bilancia dei pagamenti USA si modifica: il dollar gap scompare e la liquidità internazionale cresce nettamente preparando una situazione nuova che emerge entro l’inizio degli anni 1960. La massa di $ in circolazione nel mondo è nettamente > a qualunque possibilità di conversione se qualche stato decidesse di chiederla. La Francia di De Gaulle ne dà una dimostrazione con la lunga contesa sulla conversione dei $ in oro sviluppata fra 1961 e 1964. L’incremento degli scambi internazionali ha fatto consistenti progressi. La costruzione di aree di integrazione commerciale regionale risulta decisiva in Europa dove si affermano 2 diversi tipi di mercati integrati: il Mercato comune europeo (imperniato su Francia e Germania) e lo European Free Trade Agreement, imperniato su UK. Vengono trovate soluzioni specifiche per mantenere rapporti di > vantaggio con i paesi tropicali ex coloniali rispettivamente di Francia e UK. Particolari problemi emergono nella formulazione e gestione di politiche agricole per i paesi europei a partire dal 1964: bisogna conciliare (1) la garanzia di prezzi agricoli remunerativi per le agricolture nazionali con (2) l’esigenza di limitare rincari di beni salario e con (3) quella di offrire sbocchi alle produzioni agricole (in prevalenza tropicali) di paesi ex coloniali. Il ruolo internazionale della £ e del mercato finanziario londinese viene confermato ma ridimensionato e con aspetti nuovi. Londra diventa la prima piazza per trattare eurodollari, cioè $ che possono essere ottenuti da banche che non operano negli USA, consentendo di disporre della principale valuta mondiale, suscettibile di ampia circolazione, senza doversi adattare ai vincoli e alle prescrizioni delle autorità monetarie USA. L’evoluzione del quadro economico internazionale tra anni ‘50 e ’60. Le prime preoccupazioni per l’inflazione (2) La crescita della domanda di materie prime e il progressivo avvicinamento al limite del pieno impiego delle risorse disponibili (in particolare manodopera e materie prime) favorisce l’incremento dei prezzi. L’elevata liquidità internazionale facilita questo esito. L’incremento dei prezzi è diverso fra paesi, in funzione (1) delle rispettive strutture economiche, (2) delle rispettive istituzioni finanziarie e monetarie, e (3) delle diverse capacità di realizzare avanzamenti di produttività che permettano di mitigare l’aumento dei prezzi. Benché le monete dei paesi occidentali siano quasi tutte legate da cambi fissi, alcune tendono ad apprezzarsi e altre a svalutarsi. Nel corso degli anni 1960 si verifica un indebolimento del potere di acquisto del $ che si traduce in fragilità del cambio. Le banche centrali sviluppano un’intensa e sofisticata attività di intervento sul mercato dei cambi e di collaborazione. Si sviluppa però un’offensiva teorica in favore dei cambi flessibili, considerati più efficaci per frenare le spinte inflazionistiche. L’inflazione deve essere combattuta anche riducendo la spesa pubblica, tanto più che essa è considerata, quasi ontologicamente, fonte di spreco e inefficienza, mentre il mercato avrebbe la capacità di autoregolarsi. Commercio estero totale degli USA e commercio con l'Europa, 1944-1970, medie pluriennali [mld. $ correnti] Esp. Tot. Imp. Tot. Saldo tot. Esp. a EU Imp. da EU Saldo EU %X %M 1944-48 12.616 6.192 6.424 2.008 710 1.298 16 11 1949-53 13.947 10.057 3.891 772 1.783 -1.010 6 18 1954-58 17.759 12.280 5.479 973 2.797 -1.825 5 23 1959-63 21.150 15.859 5.291 1.226 4.490 -3.263 6 28 1964-68 30.976 25.273 5.704 1.827 7.604 -5.777 6 30 1969-70 40.642 38.234 2.408 2.436 10.865 -8.429 6 28 Fonte: US Dpt. of Commerce, Bureau of the Census, Historical Statistics of the US, Colonial Times to 1970, Washington, 1975, vol. 1, pp. 884, 903, 905. Investimenti USA all’estero e dell’estero in USA, 1945-1970, medie quinquennali e 1970 [mld $ correnti] Investimenti esteri USA (a) Tot. privati gov. Investim. dell'estero in USA (b) Tot. lungo breve b/a*100 1945-49 46,20 15,26 30,94 15,04 7,14 7,94 32,55 1950-54 58,50 22,58 35,92 20,80 9,48 11,36 35,56 1955-59 74,74 37,06 37,66 32,50 15,18 17,36 43,48 1960-64 98,54 61,50 37,06 48,32 21,56 26,72 49,04 1965-69 137,04 94,88 42,14 72,18 33,38 38,82 52,67 1970 166,90 120,20 46,70 97,70 48,70 49,00 58,54 Fonte: elab. da US Dpt. of Commerce, Bureau of the Census, Historical statistics of the US, colonial times to 1970, Washington, 1975, pp. 868-869. Investimenti diretti USA, 1945-1970, medie quinquennali e 1970 [mln. $ corr.]. Totale Canada Am. Lat. Eur. Occ. Dipendenze Altri paesi emisf. occ. 1950-54 14.674 4.716 5.190 2.179 159 2.431 1955-59 24.906 8.621 7.240 4.122 549 4.373 1960-64 37.815 12.363 8.379 9.166 1.086 6.821 1965-69 59.953 18.220 10.463 17.840 1.812 11.618 1970 78.178 22.790 12.252 24.516 2.508 16.113 1950-54 100,00 32,14 35,36 14,85 1,08 16,57 1955-59 100,00 34,61 29,07 16,55 2,21 17,56 1960-64 100,00 32,69 22,16 24,24 2,87 18,04 1965-69 100,00 30,39 17,45 29,76 3,02 19,38 1970 100,00 29,15 15,67 31,36 3,21 20,61 Fonte: US Dpt. of Commerce, Bureau of the Census, Historical statistics cit., p. 870. L’evoluzione della bilancia dei pagamenti USA, 1946-1959 . Bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti, 1950-1974. Medie pluriennali e dati annuali. Valori correnti in mld $. 1950-59 1960-64 1965-69 Esportazioni 14,80 21,70 31,30 42,00 142,80 48,80 70,30 Importazioni -11,80 -16,20 -28,50 -39,80 -45,50 -55,80 -69,80 Transazioni militari -2,30 -2,40 -2,90 -3,40 -2,90 -3,60 -2,20 Viaggi, noli -0,30 -1,10 -1,60 -2,10 -2,30 -3,10 -2,70 2,10 3,90 5,70 6,30 8,00 7,90 8,50 Altri servizi e trasferimenti -0,50 -0,60 -0,70 -0,80 -1,90 -1,80 -1,70 Trasferimenti non militari del governo USA -2,00 -1,90 -1,70 -1,70 -2,00 -2,20 -1,90 Saldo della bilancia corrente -0,10 3,30 1,40 0,40 -3,80 -9,80 0,50 Flussi di capitale a lungo termine pubblici -0,40 -1,00 -1,90 -2,00 -2,40 -1,30 -1,50 Id. privati -1,30 -2,90 -1,80 -1,40 -4,40 -0,10 0,10 Saldo della bilancia di base -1,90 -0,70 -2,30 -3,10 -10,60 -11,20 -0,90 Flussi di capitale privato a breve termine 0,30 -0,50 3,10 -6,50 -10,10 2,00 -1,80 Errori e omissioni 0,30 -1,00 -0,90 -1,20 -9,80 -1,80 -2,60 0,90 0,70 0,70 -9,80 -29,80 -10,40 Reddito di investimenti, diritti e altre competenze Attribuzione di DSP Variazione delle riserve ufficiali -1,30 -2,20 Fonte: L. B. Yeager, International monetary relations, New York, 1976, p. 568. 0,00 1970 1971 1972 1973 -5,30 Evoluzione delle riserve valutarie mondiali, 1950-1971, in mld $. 1950 Ripartiz. % 1971 Ripartiz. % Incremento Riserve mondiali 48,7 100,00 118,8 100,00 243,9 Riserve fuori degli USA 25,9 53,18 106,7 89,81 412,0 Di cui oro 12,0 24,64 39,6 33,33 330,0 4,4 9,03 50,6 42,59 1.150,0 Di cui $ Fonte:André Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 a oggi, Bologna, Mulino, 1998, p. 80. L’evoluzione della bilancia dei pagamenti USA negli anni ’60 e l’esigenza di aumentare la liquidità internazionale limitando il rischio di conversione dei $ Nella prima metà degli anni 1960 la bilancia commerciale USA non costituisce un problema serio. Le fonti maggiori di preoccupazione sono le spese dello stato all’estero, prevalentemente per esigenze militari, e i movimenti di capitale privato. Gli USA però attraggono dall’estero fondi a breve termine. Così la loro posizione è riequilibrata. Parte del fabbisogno europeo di capitali investiti a lungo termine proviene dagli USA, sotto forma di acquisto di titoli a interesse fisso (obbligazioni, titoli pubblici) o come investimenti diretti, dal momento che il mercato finanziario statunitense è interessato a questo tipo di impieghi per partecipare a un mercato in espansione e protetto e trarre vantaggi dall’eventuale rivalutazione di alcune monete. In Europa invece è rilevante la preferenza per impieghi liquidi. Trasferire capitali a breve sul mercato finanziario USA soddisfa questa esigenza e attribuisce alle istituzioni finanziarie americane il ruolo di banchieri del mondo: prendono a prestito a breve e prestano a lungo termine. É una situazione rischiosa. Il rischio può essere limitato creando liquidità. Oppure rivalutando l’oro. Se ne parla già sotto Eisenhower, ma Kennedy teme le conseguenze inflazioniste. La ricerca di soluzioni alternative all’intervento del Fmi da parte degli USA negli anni ’60 (1) Per difendere il $ le amministrazioni USA seguono strategie diverse. Tutte hanno in comune lo scavalcamento del Fmi. Man mano che il problema si aggrava, si rafforza l’intenzione di agire autonomamente, senza tenere conto dei dispositivi previsti dal sistema. Vanno in questa direzione gli accordi fra banche centrali che permettono di tamponare tensioni e disfunzioni nel sistema internazionale dei pagamenti e di attenuare la pressione sul $ negli anni ’60. In particolare le banche centrali di 10 paesi stipulano un General Agreement to Borrow (operante dal 1962) e assicurano un ammontare predeterminato di crediti reciproci a breve termine che contrastino movimenti di capitali destabilizzanti che interessino singole valute. Previsto un impegno per 6 mld $. Se la £ si indebolisce rispetto al $, per es., la Federal Reserve Bank di NY mette a disposizione della Bank of England un certo quantitativo di $ per sostenere la £. A fine 1962 il fondo è di 900 mln $; nel 1978 è di 30 mld. Ma il dispositivo funziona solo in crisi limitate. La ricerca di soluzioni alternative all’intervento del Fmi da parte degli USA negli anni 60 (2). L’azione per stabilizzare il prezzo dell’oro e il cambio del $ Nel 1961 viene varato dalla FRBNY e da 7 delle principali banche centrali (B, F, BRD, UK, I, NL, CH) il pool dell’oro per operare sul mercato di Londra. L’impegno è integrato nel 1962 e consente di tentare la stabilizzazione del prezzo dell’oro sul mercato internazionale (fino al 1967) attraverso operazioni di compravendita. L’azione non è risolutiva e nel 1968, data la crescente domanda di oro, si decide di applicare un doppio prezzo all’oro: (1) tra banche centrali e autorità monetarie e (2) tra altri operatori. Per diminuire la pressione sul cambio del $ vengono utilizzati degli swaps: le banche centrali possono utilizzare valute diverse dal $ per regolare le transazioni reciproche. Allo stesso scopo mirano le obbligazioni Roosa (1962), titoli del Tesoro USA acquistati in $, rimborsati in franchi svizzeri. Per integrare i mezzi di pagamento internazionali senza ricorrere al $ si decide che il Fmi emetta dei Diritti speciali di prelievo. Compensazioni per le spese militari, interventi sulle banche USA per limitare i flussi in uscita di capitale a breve Dal 1960 gli USA chiedono compensazioni per le spese militari all’estero sotto forma di depositi di fondi a medio termine che compensino il deflusso di pagamenti. Operano allo stesso modo le vendite di armamenti. I paesi che vedono affluire troppi capitali dall’estero adottano contromisure: dal 1964 le banche tedesche devono depositare alla Bundesbank, senza interessi,somme proporzionali a ciò che avevano ricevuto. Il prezzo del denaro estero sale e il suo uso è disincentivato. Nel 1963 gli USA introducono la Interest Equalization Tax sull’acquisto di azioni e obbligazioni estere per controbilanciare gli incentivi fiscali prima attribuiti all’acquisto di tali titoli. Nel febbraio 1965 chiesto alle banche USA di limitare volontariamente i crediti all’estero. Dal 1968 la Federal Reserve è autorizzata a limitare le operazioni all’estero delle banche. La Francia negli anni 50: il complicato percorso della seconda potenza industriale europea. Instabilità del franco, difficoltà finanziarie e instabilità politica In Francia si deve ricorrere a restrizioni commerciali per rimediare a una forte instabilità del franco, conseguenza dell’alto livello di spesa pubblica (spese militari, investimenti pubblici, sussidi all’edilizia), mentre è difficile aumentare le entrate tributarie. La bilancia dei pagamenti si presenta fragile. Tra 1956 e 1957 (Suez) si ricorre al deposito anticipato del valore delle importazioni autorizzate per frenarne la crescita, prima del 25%, poi del 50%. La misura è introdotta dopo una crisi valutaria che interviene dopo la decisione di aumentare le pensioni, appesantendo ulteriormente la spesa statale. Agosto 1957: le transazioni in cambi presentano un aggio del 20% sulle compravendite di valuta. Austerità finanziaria e fine della IV Repubblica: il ritorno al potere di Charles De Gaulle favorisce l’adozione di un maggior prelievo fiscale e di tagli alla spesa pubblica, insieme con la svalutazione del 17% del franco. Entro il 1959 la bilancia dei pagamenti francesi torna attiva; pochi anni dopo la Francia potrà sostenere l’opportunità di rivedere il ruolo internazionale del $ per tornare all’oro. La contestazione francese del ruolo del $ come valuta di riserva, 1965. Charles De Gaulle, nella conferenza stampa del 4 febbraio 1965 dichiarò: “La convenzione che conferisce al $ un valore straordinario come valuta internazionale non si fonda più sul presupposto iniziale, e cioè che l’America possiede le maggiori riserve auree del mondo. Il fatto che molti paesi accettino il $ come equivalente dell’oro per sanare i deficit della bilancia dei pagamenti americana ha conferito agli Stati Uniti il privilegio di indebitarsi gratuitamente con l’estero”. La Francia avvia la conversione in oro di riserve in $. Queste calano da $ 284 a 112 mln tra fine 1964 e 1966. L’evoluzione delle potenzialità del Fmi tra anni ’60 e ’70. A partire dal 1959, dopo l’introduzione della convertibilità parziale delle monete dei paesi aderenti all’UEP, il sistema di pagamenti previsto da Bretton Woods diventa realmente operativo. Le risorse del FMI vengono progressivamente aumentate. Il loro adeguamento doveva avvenire ogni 5 anni. Il primo aumento è realizzato nel 1960, incrementando le quote del 50% (da 8,8 a 13,2 mld $); il secondo avviene nel 1965 (+25%) e il terzo nel 1970 (+36%), nel tentativo di aumentare le disponibilità valutarie internazionali per fronteggiare crisi di pagamento di fronte a un’economia mondiale in rapida e intensa espansione. Nel 1970 le quote del FMI sono salite a 29,220 $ mld. Nell’ottobre 1969 gli accordi di Bretton Woods sono emendati per creare i Diritti speciali di prelievo, moneta addizionale utilizzabile nei pagamenti internazionali. Un DSP = US$ 1. I membri del FMI possono utilizzarli in relazione al loro peso nel Fondo. Assegnati in 3 rate. L’assegnazione dei Diritti speciali di prelievo, 1970-1972. 1 gennaio 1970 3,40 1 gennaio 1971 2,95 1 gennaio 1972 2,95 Fonte: A. Gauthier, L'economia mondiale cit., p. 81. Verso la fine di Bretton Woods I DSP arrivano tardi e sono resi inutili, come fonte di liquidità internazionale, dall’esplosione di liquidità creata unilateralmente dagli USA dal 1970. Non contribuiscono a creare fiducia nella convertibilità del $ limitando l’erosione delle riserve auree statunitensi perché la quantità di $ creati attraverso il passivo della bilancia dei pagamenti USA era elevata. I DSP hanno un ruolo marginale nel funzionamento del sistema internazionale dei pagamenti e non riescono a porlo su nuove basi. Con l’amministrazione repubblicana emersa dall’elezione di Richard Nixon alla presidenza USA prevale la scelta di restituire piena autonomia in campo valutario agli USA. Viene revocata la convertibilità aurea del $ il 15 agosto 1971. La gestione del sistema di pagamenti internazionale emersa nel 1944 soccombe; i paesi sono in reciproco disaccordo sugli aggiustamenti. L’evoluzione dei diritti speciali di prelievo e le ragioni della loro limitata importanza come riserva valutaria Dal 1972 i DSP svolgono il ruolo di moneta di conto per il Fmi. Sono poco significativi come strumento per creare riserve valutarie. I paesi sviluppati, che ne hanno la quota maggiore, non li utilizzano, mentre quelli non sviluppati li considerano una linea di credito relativamente poco costosa. Possono essere utilizzati solo cambiandoli contro una valuta e sono accettati solo nell’ambito del Fmi e di poche altre istituzioni autorizzate dal Fondo. Perciò non si possono impiegare direttamente per intervenire sul mercato e fornire liquidità o agire sui cambi per mantenere la competitività delle esportazioni. Inoltre sono relativamente scarsi: nel 2011 rappresentavano meno del 4% delle attività complessive in riserve valutarie. Perciò sono poco liquidi. Nel 1979, nel pieno di una crisi di fiducia nel $, ne furono emessi 12 mld in 4 anni; ma anche questa volta il rovesciamento della politica monetaria USA ne limitò l’efficacia. Hanno invece avuto una forte espansione durante la crisi finanziaria 2007-2010. Entro il 2011 ne furono collocati 203,4 mld. Dal luglio 1974 al dicembre 1980 il valore è stato definito sulla base di 16 valute. Di 5 dal 1981 al 1999, quando DM e Ffr sono stati sostituiti dall’€. Nel 2011-2015: 41,9% $, 37,4% €, 9,4% Y, 11,3% £. Variazione percentuale media annua dei prezzi al consumo in economie Ocse, 19511973 1951-55 1956-60 1961-65 1966-70 1971-73 USA 2,6 2,7 1,6 4,3 4,6 Giappone 6,2 3,6 5,1 5,7 7,4 Germania 3,2 2,7 3,5 3,5 5,9 Francia 6,8 6,5 4,2 4,5 6,3 UK 4,9 3,2 3,6 4,8 8,6 Ocse 3,5 3,2 2,6 4,4 5,9 Fonte:A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 a oggi, Bologna, 1998, p 77. L’aumento dell’inflazione nel quarto di secolo di intenso sviluppo. Spiegazioni in conflitto o complementari Per i fautori della teoria monetarista che va aumentando la sua influenza negli anni 1960-70 l’inflazione è il frutto di una crescita eccessiva della liquidità. Per evitarla bisognerebbe regolare abilmente l’incremento di offerta di liquidità. Corollario: è vitale in particolare controllare con rigore la spesa pubblica come specifica responsabile di spinte inflazioniste. Per gli economisti influenzati da J.M.Keynes quell’inflazione è il risultato di uno squilibrio fra offerta e domanda; cioè una domanda da parte di imprese e famiglie superiore alla disponibilità di risorse. Va corretta con misure che modifichino il livello dei redditi e quello dell’offerta (sul breve periodo, per es., importando di più; su tempi più lunghi aumentando la produzione e il reddito). Le rigidezze nella ripartizione del reddito fra detentori del capitale e lavoratori dipendenti possono alimentare l’inflazione. Inflazione deriva anche da tendenza all’aumento dei costi di produzione associati all’aumento dei prezzi dei prodotti di base e dall’appesantimento degli oneri salariali e sociali sulle imprese. La dimensione e le caratteristiche delle imprese (così come la loro posizione di maggiore o minor peso sul mercato) influiscono sulla loro capacità di controllare lo scarto fra costi e prezzi. I cicli di trattative del GATT, 1947-1967 Ciclo data luogo stati Concessioni Valore in partecipanti tariffarie mld $ 1° round ot 47-giu 48 Ginevra 23 45.000 2° round ap-ago 49 Annecy 13 5.000 3° round set 50-apr 51 Torquay 38 8.700 4° round gen-mag 51 Ginevra 26 Dillon r. set 60-lug 61 Ginevra 26 Kennedy r. mag 64-giu 67 Ginevra 62 10,0 -25% 2,5 4.400 4,9 40,0 Il Kennedy Round comporta l’impegno di ridurre i dazi industriali CEE, USA, UK e Giappone del 35% in 5 anni (1.1.1972). Adozione di un codice antidumping da parte di 19 paesi. Restano molti ostacoli extratariffari. L’amministrazione Nixon crea una nuova situazione colpendo col 10% le importazioni. Fonte:A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 a oggi, Bologna, 1998, p 81. La crescita dell’integrazione economica internazionale. % delle esportazioni sul Pil [prezzi 1990], 1950-1992 1950 1973 1992 Francia 7,7 15,4 22,9 Germania 6,2 23,8 32,6 Olanda 12,5 41,7 55,3 UK 11,4 14,0 21,4 Totale Europa occidentale 9,4 20,9 29,7 Spagna 1,6 5,0 13,4 URSS/Russia 1,3 3,8 5,1 Australia 9,1 11,2 16,9 13,0 19,9 27,2 3 5,0 8,2 Totale America Latina 6,2 4,6 6,2 Cina 1,9 1,1 2,3 India 2,6 2,0 1,7 Indonesia 3,3 5,0 7,4 Giappone 2,3 7,9 12,4 Corea 1,0 8,2 17,8 Taiwan 2,5 10,2 34,4 Tailandia 7,0 4,5 11,4 Totale Asia 2,3 4,4 7,2 Mondo 7,0 11,2 13,5 Canada USA Valori delle esportazioni di 56 paesi a prezzi correnti, in $, 1870-1992 1870 1913 1929 1950 1973 1992 2.841 9.352 13.186 19.439 243.830 1.549.810 Paesi extraeuropei di recente insediamento 571 3.295 7.149 15.484 109.996 634.586 Paesi europei del sud 154 338 910 1.027 11.944 127.472 Paesi dell'Europa orientale 259 1.025 1.944 4.113 47.066 98.704 Paesi dell'America latina 218 1.236 2.328 4.866 19.926 109.690 Paesi dell'Asia 439 1.802 3.929 4.823 61.631 679.543 86 560 993 2.824 14.921 52.512 Totale 4.568 17.608 30.439 52.576 509.314 3.252.317 Indice 100 385 666 1.151 11.150 71.198 56.247 236.330 334.408 375.765 1.797.199 3.785.619 100 420 595 668 3.195 6.730 Valori assoluti Paesi europei industrializzati Paesi dell'Africa Valore di esp. mondiali in mln. $ 1990 Indice id. Fonte: A. Maddison, L'économie mondiale 1820-1992. Analyse et Statistiques, OCDE, Paris, 1995, pp.152252,257. Ripartizione percentuale delle esportazioni di 56 paesi a prezzi correnti, in $, 1870-1992 1870 1913 1929 1950 1973 1992 Paesi europei industrializzati 62,19 53,11 43,32 36,97 47,87 47,65 Paesi extraeuropei di recente insediamento 12,50 18,71 23,49 29,45 21,60 19,51 Paesi europei del sud 3,37 1,92 2,99 1,95 2,35 3,92 Paesi dell'Europa orientale 5,67 5,82 6,39 7,82 9,24 3,03 Paesi dell'America latina 4,77 7,02 7,65 9,26 3,91 3,37 Paesi dell'Asia 9,61 10,23 12,91 9,17 12,10 20,89 Paesi dell'Africa 1,88 3,18 3,26 5,37 2,93 1,61 100,00 100,00 100,00 100,00 100,00 100,00 Totale Fonte: A. Maddison, L'économie mondiale 1820-1992. Analyse et Statistiques, OCDE, Paris, 1995, pp.152252, 257. Distribuzione per zone del commercio mondiale (esportazioni), 1950, 1970, 1980 1950 1970 1980 CEE 23,3 28,4 33,3 EFTA 14,5 13,1 5,8 Resto di Europa occ. 2,5 2,9 1,6 Giappone 3,2 6,2 6,5 Canada 4,3 5,4 3,2 16,0 13,7 10,2 3,1 2,6 2,0 Economie a pianificazione centrale 11,8 10,6 8,9 Paesi in sviluppo 21,3 17,1 27,9 USA Australia, Nuova Zel., Unione Sud Afr. Fonte: H. van der Wee, Prosperity and upheaval, Harmondsworth, 1986, p. 263. Distribuzione geografica delle esportazioni mondiali di manufatti, in percentuale, 19631976 1963 1973 1976 2,61 4,16 3,32 17,24 12,58 Giappone 5,98 Francia Canada USA Repubb.Fed. Tedesca Italia UK Spagna 1963 1973 1976 Brazile 0,05 0,35 0,41 13,55 Messico 0,17 0,64 0,51 9,92 11,38 Jugoslavia 0,40 0,55 0,60 6,99 7,26 7,41 Hong Kong 0,76 1,05 1,15 15,53 16,98 15,81 Corea del Sud 0,05 0,78 1,20 4,73 5,30 5,49 Taiwan 0,16 1,04 1,23 11,14 7,00 6,59 Singapore 0,38 0,46 0,52 1,07 Tot. paesi recente sviluppo 2,59 6,29 7,12 2,70 2,34 1,55 0,28 0,92 Portogallo 1,30 0,35 0,21 Altri paesi in via di svil. Grecia 0,04 0,15 0,22 Blocco orientale 13,35 10,00 9,65 Altri paesi OCSE 15,65 17,63 17,71 Totale mondiale 100,0 100,00 100,0 Totale OCSE Fonte: H. van der wee, Prosperity and upheaval, cit. , p. 265. 80,49 82,25 82,76 Produzione e esportazioni mondiali, 19531982: valori correnti, mld $, e indici (1963=100) 1953 Esportazioni mondiali, valore totale Id. prodotti primari agricoli Id. prodotti minerari Manufatti Esport. mond., valore unitario, tot. Id. prodotti primari agricoli Id. prodotti minerari Manufatti Esportazioni mond., volume, totale Id. prodotti primari agricoli Id. prodotti minerari Manufatti Produzione mondiale, volume, totale Id. prodotti primari agricoli Id. prodotti minerari Manufatti 78 42 1958 1963 1968 1973 1977 1980 1982 105 50 154 45 240 54 574 121 1.125 288 1.990 299 1.845 272 55 100 103 26 82 100 100 41 140 105 100 96 347 161 185 266 648 271 255 567 1.095 423 330 493 1.049 403 292 98 70 74 100 100 100 100 111 104 149 121 192 152 231 147 550 232 269 166 1.200 337 305 203 1.254 314 300 209 44 66 100 100 144 166 195 280 188 344 185 400 153 410 60 77 74 88 100 100 133 115 180 128 205 139 224 146 223 154 69 100 100 129 141 171 197 191 227 196 253 183 249 36 100 107 94 52 60 54 Fonte: H. van der wee, Prosperity and upheaval, cit. Le cifre relative ai prodotti agricoli si riferiscono anche ai minerali nel 1953-58 Composizione merceologica delle esportazioni mondiali (% del totale), 1950-1980 Cambiamenti strutturali nei flussi commerciali internazionali e riflessi sul sistema dei pagamenti tra anni ’60 e ‘70 Il commercio internazionale è aumentato più velocemente della produzione mondiale: il valore delle esportazioni di 56 paesi, in $ 1990, quintuplica fra 1950 e 1973; fra 1973 e 1992 raddoppia; tra 1950 e 1992 il valore è più che decuplicato. Cambia la composizione merceologica. Nel 1955 i manufatti rappresentavano il 49,2% delle esportazioni mondiali; 11,1% erano i combustibili e il 38,4% gli alimentari e le materie prime. Nel 1973 le proporzioni erano 61,5, 19,4 e ancora 19,4. Cambia di conseguenza anche la ripartizione geografica dei flussi commerciali. Chi ha ampi saldi attivi teme di importare inflazione. I produttori di combustibili (specie petrolio) concentrano dal 1974 abbondanti disponibilità di valuta, da usare per impieghi finanziari. La svolta degli anni 1970: l’instabilità dei cambi (1) La divaricazione dei tassi d’inflazione tra economie diverse rende sempre più difficile dalla fine degli anni 60 mantenere il sistema di cambi quasi fissi. Nel 1967-1969 £, franco francese, DM subiscono variazioni di cambio. Non si vara un aggiustamento generalizzato perché avrebbe liberato gli USA da ogni vincolo di politica monetaria, aggravando la minaccia rappresentata dall’elevata liquidità in $, proprio allora in forte aumento. L’incertezze sui tassi di cambio, in un contesto di crescente integrazione commerciale e di > opportunità di speculazione finanziaria, favoriscono l’incremento di movimenti di capitale a breve per approfittare di eventuali variazioni di cambio. I rischi di destabilizzazione aumentano. L’attenzione alle opportunità speculative che emergono dalla necessità di allineare su parità diverse i cambi si è rafforzata dal 1961, in occasione della prima rivalutazione del DM. Lo sviluppo del commercio, l’espansione delle imprese multinazionali e le maggiori opportunità di comunicazione agevolano la speculazione e ostacolano controlli efficaci sui movimenti di capitali. La svolta degli anni 1970: tensioni inflazioniste legate alla dinamica espansiva dell’economia e a modificazioni strutturali nella forza lavoro (2) Il lungo periodo di alti tassi d’investimento (nei paesi industrializzati e in quelli in via d’industrializzazione) spinge in alto i prezzi di prodotti energetici e materie prime. L’aumento è sostenuto dal carattere non omogeneo dei processi di crescita. Si verificano disfunzioni fra settori che hanno differenti capacità di sviluppo; ne derivano tensioni dei prezzi, oltre che minore produttività. Per es., tra 1950 e primi anni 1970 l’arretratezza del sistema commerciale di distribuzione provocò aumenti dei prezzi al consumo superiori a quelli dei prezzi all’ingrosso, rafforzando la richiesta di incrementi salariali. I salari, con il procedere della lunga congiuntura di espansione, tendono a crescere per il progressivo avvicinarsi a condizioni di pieno impiego, anche se operano a lungo specifiche condizioni che permettono di attenuare le tensioni salariali: (1) flussi migratori da nuovi bacini di lavoro sottoutilizzato; (2) aumento della produttività favorito dall’accumulo degli investimenti pubblici (infrastrutturali ) e privati. L’aumento di produttività consente anche il recupero più o meno integrale degli incrementi di retribuzione e compensa la riduzione del numero di ore di lavoro. Dalla metà degli anni 1960 crescono però, in Europa occidentale, le tensioni nelle relazioni industriali e nei salari. Concorrono a questo esito sia fattori legati al mercato del lavoro, sia condizioni sociali che possono favorire i conflitti industriali: (1) rinnovo generazionale e sociale degli occupati, (2) effetti della concentrazione urbana, (3) irrigidimento dei processi di produzione e tendenza all’uso intensivo di soluzioni tayloriste. \+++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++D La svolta degli anni 1970: tensioni inflazioniste legate all’aumento delle spese pubbliche (3) Le trasformazioni strutturali intervenute nella società europee industrializzate comportano incrementi della spesa pubblica per finanziare (1) una burocrazia più estesa e complessa che svolge compiti più sofisticati, (2) infrastrutture indispensabili all’efficienza del sistema produttivo, (3) il potenziamento di servizi sociali, per rispondere a pressioni demografiche, all’ incremento dei redditi individuali, a esigenze poste da dinamiche sociali in atto. (4) Bisogna anche tenere conto di casi di irrigidimento delle spese militari (UK) o del loro aumento (Francia) e (5) di costosi interventi di ristrutturazione di settori produttivi diventati obsoleti o non profittevoli (dalle miniere di carbone alla navalmeccanica, al tessile). Non sempre le entrate tributarie riescono a coprire l’aumento delle spese. Ne deriva un aumento di liquidità mal controllabile dei sistemi economici; cresce la capacità di spesa delle amministrazioni pubbliche non bilanciata da limitazioni di quella privata prodotte dalla tassazione. Crescono le tensioni inflazioniste e peggiorano le bilance dei pagamenti. La svalutazione del $ e l’abbandono dei cambi fissi: contrasto di posizioni fra paesi CEE e USA Nella CEE si guarda con preoccupazione alla crescita della liquidità in $. Nel 1969-70 i suoi dirigenti politici progettano un’unione economica e monetaria che riduca i margini di fluttuazione fra le rispettive monete entro un decennio e offra un riparo ai rischi della crescita incontrollata della quantità di $ (Rapporto Werner). Nel Fmi nello stesso periodo cresce il timore che diventi sempre più difficile mantenere il sistema esistente: si discute di cambi più flessibili che agevolino gli aggiustamenti [crawling peg]. Aumenta, specie negli USA, l’attenzione per cambi liberi di fluttuare, come raccomandava Milton Friedman. Anche in Germania la Bundesbank e economisti accademici cominciano a considerare con favore questa scelta, benché i governi in carica smentiscano nettamente l’intenzione di modificare la parità di cambio. Ma nell’ottobre 1969 il governo SPD di Willy Brandt rivaluta di oltre il 9,29 % il DM dopo 4 settimane di fluttuazione. Gli accordi di Washington (Smithsonian agreement), una soluzione provvisoria, dicembre 1971 Un incontro allo Smithsonian Institute di Washington fra i rappresentanti di 10 paesi (USA, Canada, Giappone, Europa dei 6, UK) affronta le conseguenze negative per il sistema internazionale della decisione di Nixon. Accetta la modifica del valore dell’oro (da 35 a 38 $/oz, una svalutazione di 8,57%) e una serie di modifiche delle parità di cambio fra le monete. Viene ampliato il margine di fluttuazione consentito: da 1 a 2,25% rispetto al $. Lo scarto massimo fra le altre monete può dunque raggiungere in un momento dto 4,5% se una si è rivalutata al massimo possibile contro il $ e l’altra si è svalutata al massimo. Col tempo lo scarto fra 2 monete può salire al 9% rispetto alla posizione iniziale. Così si rafforza la funzione internazionale del $ che assicura fluttuazioni minori. Lo scarto fra quotazioni minime e massime è “il tunnel”. La convertibilità in oro del $ è definitivamente revocata. La svalutazione del $ rispetto alle monete dei 2 principali concorrenti (Germania e Giappone) aumenta la competitività degli USA in campo commerciale. Accordi monetari di Washington: la svalutazione del $ rispetto ad altre 7 monete Vecchia parità Nuova parità Ribasso ufficiale ufficiale % del $ Yen 360,0000 308,0000 -16,88 DM 3,6600 3,2230 -13,57 Fiorino ol. 3,6200 3,2450 -11,57 50,0000 44,8100 -11,57 £ 0,4166 0,3838 -8,57 Ff 5,5540 5,1160 -8,57 Lit 625,0000 581,5000 -7,49 Fbelga Fonte:A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 a oggi, Bologna, 1998, p. 89. La svalutazione del $ e l’abbandono dei cambi fissi: gli obiettivi dell’amministrazione Nixon e il fallimento dei tentativi di riforma a causa dell’irrigidimento USA L’amministrazione repubblicana USA sceglie di revocare la convertibilità aurea del $ per aumentare i propri margini di manovra nella gestione della politica monetaria, in relazione a (1) un alto livello di spesa pubblica militare; (2) alle esigenze di un’onerosa riqualificazione del sistema industriale in calo di produttività e competitività; (3) all’intenzione di stimolare la ripresa delle esportazioni grazie a un cambio svalutato e (4) di limitare le importazioni. (5) Le restrizioni all’esportazione di capitali imposte in forme diverse negli anni 60, inoltre, ostacolavano gli investimenti all’estero. La decisione è unilaterale. La posizione USA è forte, istituzionalmente, perché il paese ha di fatto diritto di veto nel Fmi. In particolare può bloccare l’emissione dei diritti speciali di prelievo con cui si spera di rimediare alla contraddizione fra bisogno di incrementare la liquidità internazionale e crescente inaffidabilità del $. Per circa 2 anni e mezzo (1971-73) si tenta di elaborare una riforma del sistema di pagamenti che allarghi i margini di fluttuazione rendendo il sistema di pagamenti più flessibile, pur tenendo in considerazione le preoccupazioni dei molti paesi ostili a cambi liberamente fluttuanti. Nel 1973 il sistema di cambi quasi fissi introdotto da Bretton Woods è formalmente abbandonato. Le reazioni europee alla svalutazione del $ e alla sua fluttuazione: l’accordo di Basilea del marzo 1972 e la difficoltà di mantenere un’area valutaria europea Diversi paesi con un’alto grado di apertura internazionale si considerano particolarmente esposti ai rischi derivanti dalla forte liquidità in $ e dalla fluttuazione del cambio; possono adattarsi alla nuova situazione cercando di aumentare i propri margini di autonomia nella gestione delle politiche dell’occupazione e della protezione sociale in una fase congiunturale che è carica di incertezze e sfide. Nella CEE i cambi flessibili e la tendenza degli USA a non curarsi dei rischi connessi all’aumento di $ ormai inconvertibili in circolazione inducono a preferire accordi valutari che permettano di stabilizzare i cambi. Tanto più che la fluttuazione complica la gestione delle sovvenzioni previste dalla politica agricola comune, destinataria della > parte del bilancio comunitario. Nel marzo 1972 i membri della CEE danno vita al “serpente monetario”, cui aderiscono anche UK, Irlanda e Danimarca, che stanno per entrare nella CEE. Prevede fluttuazione di ± 1,25%. Il serpente, organizzato attorno al DM, fallisce perché i tassi di crescita delle diverse economie sono molto diversi, così come il livello dei loro prezzi; le politiche monetarie e finanziarie che ciascuna conduce indeboliscono il serpente perché le differenze strutturali fra economie impediscono di conciliarle. É facile speculare sulle valute del “serpente”. L’uscita dal “serpente” della £ comporta la fine dell’area della £. Solo 12 su 65 aderenti continuano a farne parte. Chi usava la £ come valuta di riserva l’abbandona. Con UK escono Eire e Dk. Il tentativo fallito di un accordo multilaterale nel 1973 e la fluttuazione dei cambi. La limitata eccezione del “serpente monetario europeo”, mentre le bilance dei pagamenti devono riassorbire l’aumento del petrolio Un Comitato interinale di 20 paesi dal settembre 1972 discute del riassetto del sistema di pagamenti: la Francia chiede l’aggancio all’oro e le parità fisse, gli USA rifiutano il ritorno all’oro e vogliono cambi fluttuanti. Nel febbraio 1973 il $ è svalutato ancora 10% (oncia d’oro a 42,22 $). Il dollaro fluttua liberamente e il “tunnel” scompare. 2 gg. dopo l’Italia esce dal “serpente”; la Francia ne esce nel gennaio 1974, ma rientra, volontaristicamente, nel luglio 1975 per essere nuovamente costretta a uscire nel marzo 1976. Nel 1975 solo 7 paesi restano nel “serpente”, grazie all’ingresso della Svezia: aderiscono anche D, Dk (rientrata nell’ott. 1973), Nl, B, Lux, Norvegia. Dal 1 giugno 1974 il FMI usa come moneta di conto i DSP ormai equiparati a un paniere di valute dei paesi che partecipano al commercio mondiale con una quota > 1%. Il $, ancora la moneta dominante (33% degli scambi), è quotato giorno per giorno. L’incontro di Rambouillet, del dicembre 1975, fra le 6 maggiori economie nazionali sancisce la vittoria della posizione USA a favore di cambi fluttuanti sganciati dall’oro. Gli accordi della Giamaica (1976) e l’epilogo di Bretton Woods. L’abbandono dell’oro come strumento di pagamento Nel gennaio 1976 una conferenza riunita a Kingston introduce la seconda modifica degli statuti del FMI. Cessa la quotazione ufficiale dell’oro, totalmente demonetizzato. Il FMI può cedere 1/3 delle sue 4.650 t di oro: metà le restituirà ai membri in proporzione delle quote; metà andranno a un fondo fiduciario per la vendita in 4 anni. Il ricavato servirà a finanziare i paesi in cui il Pil pro capite è < $ 350. L’oro residuo potrà essere venduto grazie all’attribuzione di nuovi poteri al fondo. I DSP sostituiscono l’oro come riferimento. I criteri per determinarne il valore possono essere modificati solo da una maggioranza dell’85%. Quindi gli USA (16% circa dei diritti di voto) mantengono un diritto di veto. I membri del FMI possono scegliere, in linea di principio, il loro regime di cambio. Gli USA vedono sancita una totale autonomia. Ma nel 1984 ancora il 62% delle economie avevano cambi fissi; solo nel 1994 i paesi che hanno cambi fissi si sono ridotti al 38%. L’indebolimento del $ e le reazioni dei paesi OPEC per aumentare il ricavo che ottengono dal petrolio fino all’estate 1973 Il $ è debole ed è soggetto a pressioni speculative che ne accentuano la svalutazione. Ne deriva il miglioramento della bilancia dei pagamenti USA e, dopo un certo tempo, persino un relativo apprezzamento del $, prima di un declino nel 1977. Il $ resta valuta di regolazione internazionale in un regime di cambi fluttuanti. La svalutazione del $ determina una forte reazione da parte dei paesi aderenti all’OPEC nel 1973. L’Organizzazione è stata fondata nel 1960; i suoi membri obbediscono a lungo a esigenze diverse. Contrattano nei primi anni ’70 migliori condizioni: nel 1971 l’OPEC ottiene un aumento dei prezzi ufficiali dalle compagnie petrolifere. Altri aumenti, nel 1972 e nel giugno 1973 sono stati ottenuti per contrastare la svalutazione del $; il prezzo del petrolio viene indicizzato sulla quotazione del $ rispetto a 11 valute. Tra 1970 e 1973 diversi stati (Libia, Algeria, Iraq, Iran) nazionalizzano le risorse petrolifere. Nel 1973 i membri OPEC riescono a intendersi sulla riduzione dell’offerta di petrolio per provocare un netto aumento del prezzo. Allora controllano il 54% della produzione, il 70% delle riserve, l’81% delle esportazioni mondiali di greggio. Il progressivo incremento del prezzo del petrolio, 1973-1980 e la divaricazione dei prezzi applicati dai paesi produttori Dopo la guerra del Kippur l’Arab Organization of Arab Exporting Countries decide l’embargo sulle consegne di petrolio a Olanda, USA, Giappone, considerati sostenitori di Israele, e decide l’aumento unilaterale del prezzo del greggio ceduto alle compagnie petrolifere. Il 16 ottobre 1973 i prezzi vengono aumentati del 70%. Il 22 dicembre l’OPEC decide un ulteriore aumento del 130%. Il prezzo del barile di Arabian Light sale da 3 $ (inizi ottobre 1973) a 5,18 a fine ottobre e a 11,65 a fine dicembre. Tra 1974 e 1978 l’OPEC aumenta 3 volte il prezzo del petrolio. Ma nel dicembre 1976 i paesi OPEC non si accordano sulle scelte: Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti vogliono limitare l’aumento dei prezzi dal 1.1.1977 al 5% mentre altri 11 membri vogliono il 15% entro il luglio 1977. Solo in quella data i prezzi sono nuovamente unificati, con un aumento complessivo del 10% rispetto al 1976. Nel dicembre 1978 deciso l’aumento progressivo del 14,5% per il 1979: in ottobre il barile di petrolio saudiano sarebbe costato $ 14.546. Viene introdotto un premio di maggiorazione che poteva essere di $ 1,20. 28 giugno 1979: l’OPEC porta a $ 21 il prezzo, ma ammette differenze di prezzo fra i membri. Algeria, Libia e Nigeria applicano $ 23,50. Una domanda sostenuta permette di arrivare a $ 24 (Arabia Saud.) e a 30 (Libia). Nell’ultimo trimestre 1980 i prezzi salgono ancora: il prezzo medio OPEC diventa $ 36. La conferenza di Bali fissa un nuovo massimo a $ 41. Andamento del prezzo medio annuale in $ USA corr. di 3 varietà di petrolio, 1970-2015 Conseguenze del rincaro del petrolio grezzo del 1973 La fine del basso prezzo del petrolio causa una severa recessione e impone una profonda riorganizzazione dell’economia mondiale (1) per rimediare agli squilibri di bilancia dei pagamenti e (2) ridurre l’impatto degli alti prezzi del petrolio sui sistemi produttivi nazionali. Viene trovata una via d’uscita per realizzare un risanamento relativamente veloce delle bilance dei pagamenti dei paesi industrializzati che avevano sofferto del rincaro del petrolio. I paesi OPEC controllano ormai grandi disponibilità finanziarie che sono usate solo in misura limitata per aumentare le importazioni. Soprattutto gli stati del Golfo Persico e l’Arabia Saudita, con popolazione scarsa ed enormi surplus di bilancia dei pagamenti, realizzano investimenti di portafoglio e consistenti investimenti diretti nelle economie industrializzate. Contribuiscono così anche ad aumentare la liquidità dei sistemi bancari e dei mercati finanziari di alcune delle principali economie industrializzate. La bilancia dei pagamenti corrente dei paesi importatori di petrolio, in mld $, 1973-81 1973 1974-78 1979-81 Bilancia commerciale OCSE 8,2 -57,0 -143,0 -7,5 -124,0 -154,0 OCSE -9,7 71,0 85,0 Paesi in via di sviluppo -5,5 -47,0 -63,0 OCSE -8,2 -68,0 -69,0 Paesi in via di sviluppo -6,0 41,0 35,0 9,5 -54,0 -126,0 -7,0 -130,0 -182,0 Paesi in via di sviluppo Trasferimenti privati Trasferimenti pubblici Bilancia corrente OCSE Paesi in via di sviluppo Fonte:A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 a oggi, Bologna, 1998, p. 101. Aumento dei prezzi al consumo nei maggiori paesi OCSE, 1967-1982: tassi medi annui e tassi massimi e minimi 1967-1973 1974-1982 massimo anno USA 4,6 9,0 13,5 1980 5,7 1976 Giappone 6,4 8,4 23,2 1974 2,7 1982 Germania 3,9 5,0 7,0 1974 2,7 1978 Francia 5,4 11,5 13,7 1974 9,1 1978 UK 6,4 14,7 24,3 1975 8,3 1978 OCSE 5,0 10,1 13,3 1974 7,8 1978 Fonte:A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 a oggi, Bologna, 1998, p. 110. minimo anno Dall’inflazione alla deflazione. Conseguenze negative delle politiche di stabilizzazione del 1974-1975 e il rallentamento della crescita . Dopo la minaccia dell’inflazione, nei paesi sviluppati si profila il rischio di deflazione dovuto (1) a un eccessivo indebitamento di imprese e famiglie che (2) suggerisce alle banche di contrarre il credito per evitare insolvenze. Rallenta la crescita economica e di riflesso rallenta la crescita dei prezzi; gli operatori economici vedono diminuire i loro margini rispetto ai costi e tentano di contrarre la spesa per i salari; bloccano il turn over; licenziano. Così si verificano una riduzione dei redditi e il calo dei consumi e degli investimenti, con effetti cumulativi Se il processo cumulativo continuasse si arriverebbe alla depressione. C’è un correttivo possibile: l’espansione del commercio mondiale, dal momento che esso cresce più velocemente della produzione anche dopo il 1973. Ma nel 1975 e nel 1982 il volume degli scambi mondiali si contrae del 3%: l’efficacia della sua azione stimolante viene limitata. Inoltre lo scambio avviene in condizioni di maggiore concorrenza;l’incremento annuo del commercio fra 1973 e 1994 è minore rispetto al 1963-1972. Ritorna il dumping, nonostante il bando del Kennedy Round del GATT (1968). Crescono le sovvenzioni statali alle industrie e all’agricoltura. Si teme il ritorno del protezionismo: le tariffe doganali sono scese fra i membri GATT a 4%, ma crescono le restrizioni non tariffarie e le compensazioni bilaterali [countertrade] entro la fine degli anni 1980. Incrementi medi annuali dei prezzi al consumo nei maggiori paesi OCSE, 1981-94: l’inflazione è vinta entro metà anni 80 ed è sotto controllo agli inizi degli anni 90. 1981-1985 1986-1988 1989-1992 1993 1994 USA 3,7 3,2 4,3 3,0 2,7 Giappone 2,1 0,5 2,6 1,3 0,7 Germania 2,6 0,4 3,3 4,1 2,3 Francia 7,6 2,8 3,2 2,1 1,6 UK 5,2 4,2 6,7 1,6 2,9 OCSE 5,0 3,2 5,1 3,6 2,3 Fonte:A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 a oggi, Bologna, 1998, p. 110. Il rallentamento dell’inflazione dopo il 1983: nuova politica monetaria USA e riduzione del prezzo del petrolio Dal 1983 l’inflazione nei paesi OCSE rallenta nettamente. Germania e Giappone sono i paesi in cui l’aumento dei prezzi è più limitato; entro la fine del decennio 1980 anche Francia e Italia riescono a limitarlo. Gli scarti tra i tassi di incremento dei diversi paesi si attenuano. Paul Volcker, presidente della Fed, tra 1979 e 1982 adotta una politica di restrizione monetaria. Per riflesso i grandi paesi industrializzati applicano programmi imperniati sulla lotta all’inflazione. La riduzione del tasso d’inflazione è agevolata dalla caduta del prezzo del petrolio. La contrazione della domanda di petrolio genera un surplus di produzione di grezzo e costringe l’OPEC a calare il prezzo ufficiale del barile da $ 34 a $ 29. Tanto più che si sono sviluppati nuovi centri di produzione che non aderiscono all’Organizzazione. Si cercano fonti energetiche alternative. L’OPEC è resa durevolmente più fragile dalla guerra tra Iran e Iraq (1980-1988); dall’invasione irakena del Kuweit (1990); dall’acutizzarsi del conflitto di orientamenti tra Arabia Saudita, Algeria e Nigeria. Risulta impossibile limitare la produzione. Nel 1985 l’Arabia Saudita decide di aumentare la propria produzione; entro il luglio 1986 il barile è a $ 7: in termini reali vale la metà degli anni 1950. Nell’estate 1990 il petrolio valeva sostanzialmente come prima dell’ottobre 1973 in termini reali. L’esigenza di una riorganizzazione produttiva imposta dal rincaro del petrolio: limitare l’incidenza dei costi fissi, decentramento e diverso impiego della manodpera Il rincaro delle materie prime e soprattutto dei prodotti energetici insieme con la maggior rigidezza del mercato del lavoro sollecitano la riorganizzazione produttiva dei paesi industrializzati. L’esperienza delle imprese giapponesi di beni di consumo durevoli [auto in particolare] offre delle soluzioni considerate efficaci: (1) il coordinamento delle fasi del processo di produzione per abbattere gli immobilizzi legati alla gestione tradizionale del magazzino; (2) il ricorso sistematico al decentramento delle produzioni di semilavorati presso produttori a cui è richiesto di abbattere i costi del loro prodotto grazie alla specializzazione e alle economie di scala; (3) la regolazione dei rapporti con i fornitori (che sono spesso in posizione di dipendenza) per migliorare la tesoreria delle imprese committenti; (4) la richiesta ai propri dipendenti di svolgere il lavoro di montaggio accoppiandolo con il controllo della qualità dei prodotti per migliorare per aumentare la redditività del processo produttivo. È la produzione snella [lean production] che caratterizza il toyotismo. L’esigenza di una riorganizzazione produttiva imposta dal rincaro del petrolio: la ricerca di maggiore flessibilità produttiva I principi dell’organizzazione della produzione e del modo di compensare il lavoro secondo criteri fordisti restano largamente in uso, eventualmente conciliati con il toyotismo. Accanto alle produzioni di massa, spesso insostituibili, si avviano produzioni in piccola serie concepite per soddisfare segmenti di mercato più esigenti che richiedono prodotti meglio rispondenti alle richieste della clientela. Per questo scopo si sfruttano innovazioni tecniche che aumentano la flessibilità dei processi (per es. le macchine a controllo numerico, disponibili da metà anni ‘60). Il decentramento produttivo e la specializzazione delle produzioni per distretti favoriscono in alcuni sistemi economici lo sviluppo di imprese medie e piccole, coordinate su base territoriale, come aveva constatato Alfred Marshall a fine 800. Dimensioni ridotte delle imprese e radicamento locale modificano profondamente le relazioni industriali, possono limitare la sindacalizzazione della manodopera e soprattutto le rivendicazioni conflittuali; aumentano la flessibilità in termini di tempi di lavoro e mansioni. La tendenza al rallentamento dell’occupazione nei paesi OCSE, 1970-1994 [variazioni medie annuali] 1970-73 1974-75 1976-79 1980-82 1983-1990 1991-1994 USA 2,3 0,5 3,6 0,2 2,1 1,1 Giappone 1,1 -0,4 1,2 0,9 1,3 0,9 Germania 0,4 -2,0 0,4 0,6 0,8 -0,4 Francia 1,0 0,0 0,5 -0,1 0,3 -0,4 UK 0,1 -0,2 0,4 -2,1 1,5 -1,6 CEE 0,5 -0,2 0,3 -0,5 0,9 -1,0 OCSE 1,2 0,2 1,6 0,2 1,5 0,1 Fonte:A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 a oggi, Bologna, 1998, p. 107. La disoccupazione nei paesi OCSE in percentuale della popolazione attiva, 19671994 1967-73 1975 1982 1993 1994 Max. anno USA 4,6 8,3 9,7 6,8 6,1 9,7 1982 Giappone 0,9 1,9 2,3 2,5 2,9 2,9 1994 Germania 1,0 3,1 5,0 8,8 9,6 9,6 1994 Francia 2,5 4,2 8,2 11,7 12,6 12,6 1994 UK 2,5 3,7 10,4 10,2 9,4 11,8 1986 CEE 2,6 4,2 9,4 11,2 11,8 11,8 1994 OCSE 3,3 5,2 8,4 8,0 8,2 8,6 1983 Fonte:A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 a oggi, Bologna, 1998, p. 106. Sovvenzioni statali alle industrie nei paesi OCSE, 1970-1989 per favorire la riorganizzazione produttiva [in % del Pil] 1970-74 1975-79 1980-84 1985-89 USA 0,5 0,4 0,5 0,7 Giappone 1,2 1,3 1,4 1,1 Germania 1,8 2,1 2,0 2,2 Francia 2,1 2,5 2,8 3,0 UK 2,2 2,7 2,3 1,7 OCSE 1,2 1,5 1,6 1,6 Fonte:A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 a oggi, Bologna, 1998, p. 117. Riorganizzazione finanziaria delle imprese e modifica dei sistemi finanziari nazionali tra anni ’70 e ’80 (1) Negli anni 1980 si moltiplicano accorpamenti e fusioni fra grandi imprese. Offrono un ampio campo di lucroso lavoro alle banche d’investimento che curano per i clienti queste operazioni e spesso vi partecipano direttamente assumendo partecipazioni in proprio da liquidare successivamente. Sfuma la separazione tra banche generaliste e banche d’affari. I conglomerati industriali godono per alcuni anni di grande prestigio perché la diversificazione delle attività promette una migliore tutela contro le minacce di crisi e gli imprevisti che caratterizzano l’economia dopo il 1973. I risultati di un settore possono compensare quelli di un’altro. Si sviluppa anche la pratica di rilevare imprese in difficoltà per aggregarle in nuovi complessi o smembrarle e rivenderle. Sono operazioni che permettono profitti finanziari di grande entità; nel valutare la convenienza dell’operazione diventano trascurabili sia la vitalità industriale delle imprese, sia le conseguenze sul piano dell’occupazione dei processi di riorganizzazione. L’inflazione elevata gonfia le quotazioni dei titoli azionari e contribuisce ad aprire prospettive favorevoli per lo sviluppo di pratiche finanziarie nuove con una forte componente speculativa. Per es. il leveraged buy out, l’acquisto attraverso l’indebitamento. Con risorse relativamente limitate si possono ottenere alti profitti. Riorganizzazione finanziaria delle imprese e modifica dei sistemi finanziari nazionali tra anni ’70 e ’80 (2). Nuovi operatori e criteri operativi diversi dal consueto Si affermano nuovi tipi di operatori finanziari, non bancari, che dispongono di risorse abbondanti; la loro novità fa sì che siano libere da vincoli legali e si muovano con grande agilità fornendo servizi finanziari adatti a nuovi profili di investitori: per es. i fondi d’investimento. Lavorano con capitali propri, anche relativamente modesti, gestiscono patrimoni (a partire da soglie minime piuttosto alte) e possono assicurare profitti elevati rispetto agli impieghi diretti dei titolari dei patrimoni. In cambio ottengono elevate commissioni. I fondi pensionistici affermatisi nei paesi anglosassoni e cresciuti particolarmente dove è limitata la tutela assicurata da schemi pubblici spiccano perché dispongono di molte risorse; per proteggersi dall’erosione dei patrimoni dovuta all’inflazione devono cercare investimenti profittevoli e con un’ottica solo finanziaria. La crisi fiscale di diversi stati fornisce ulteriori stimoli allo sviluppo dei mercati finanziari attraverso la creazione di grandi quantità di debito pubblico con cui si finanziano livelli elevati di spesa, evitando revisioni politicamente pericolose dei sistemi di prelievo fiscale. Le spese alimentano in alcuni casi costosi programmi di investimenti infrastrutturali; in altri coprono alte spese ordinarie e i trasferimenti con cui si affrontano ristrutturazioni produttive ed esigenze di natura sociale, dalle provvidenze contro la disoccupazione all’estensione della scolarizzazione e delle tutele sanitarie monetarie e finanziarie. Questa evoluzione si verifica in un contesto di forte instabilità valutaria, accentuata dal comportamento del $, che condiziona pesantemente le scelte di politica finanziaria e monetaria anche in Europa. Il deprezzamento del $, 1976-1980: accordi con i paesi creditori e il collocamento all’estero di parte del debito federale USA Sotto la presidenza di Jimmy Carter il $ si indebolisce perché aumenta il deficit commerciale USA, si aggrava l’inflazione, il Congresso resiste alle proposte di legge dell’amministrazione per risparmiare energia e contenere l’importazione di petrolio. Inizi di novembre 1978: piano di salvataggio del $ elaborato con i paesi a moneta forte. Prevista la creazione di un Fondo d’intervento con $ 30 mld per combattere la speculazione con acquisti correttivi sul mercato. 1/3 era sottoscritto mediante prestiti in divise (DM, CHF, ¥). L’amministrazione statunitense colloca buoni del tesoro presso investitori esteri: 15 mld nel 1970, 105 nel 1979, grazie al ruolo internazionale del $. Il collocamento di titoli pubblici all’estero non subisce limitazioni a causa della revoca della convertibilità. Esso permette di compensare il deficit commerciale USA; la sottoscrizione di titoli diventa strumento per frenare la rivalutazione delle monete forti rispetto al $. Questa esigenza è particolarmente avvertita in Giappone che finiscecol diventareil principale creditore estero degli USA. L’apprezzamento del $, 1980-1985: benefici per l’economia USA, difficoltà per i paesi sviluppati che pagano le importazioni in $ Nella fase conclusiva dell’amministrazione Carter il nuovo presidente della Fed, Paul Volcker, esercita un controllo rigido sulla creazione di moneta e cerca di rialzare il tasso d’interesse. Grazie a questo indirizzo ottiene un aumento della quotazione del $ a partire dal 1980. L’arrivo di R. Reagan alla presidenza e il suo impegno per restituire forza e capacità d’iniziativa agli USA contribuisce a diffondere fiducia nella ripresa del $. E affluiscono capitali dall’estero, sostenendo il $. Il grave indebitamento dei paesi sottosviluppati accentua la domanda di liquidità, che cresce più della disponibilità di nuovi $. Il $ torna a essere moneta cara e rara. L’economia statunitense deve, come contropartita, accettare il netto peggioramento della bilancia commerciale. Ma la politica monetaria della Fed mette in difficoltà i paesi industrializzati: il $ caro e gli alti interessi del mercato finanziario americano sottraggono capitali agli altri mercati sviluppati. Per limitare l’esportazione di capitali le economie sviluppate devono mantenere alti tassi di interesse o alzarli, a scapito del finanziamento degli investimenti. Inoltre cresce l’onere delle importazioni i cui prezzi sono determinati in $: Giappone e Europa occidentale non riescono perciò a trarre completamente vantaggio dalla riduzione del prezzo del petrolio. Le loro economie continuano a essere minacciate da pressioni inflazionistiche a cui le rispettive autorità monetarie reagiscono con politiche restrittive. La politica finanziaria dell’amministrazione Reagan e l’incremento del debito federale La riduzione del prelievo fiscale introdotta nei primi anni 80 in USA (drastica riduzione dell’aliquota marginale massima, limitazione della progressività; esaltazione di una flat rate per la tassazione dei redditi) aumenta le disponibilità per impiego delle imprese e dei proprietari di grandi patrimoni. Viene stimolato l’afflusso di risorse al mercato finanziario, eventualmente attraverso gli hedge funds attivi negli USA. La riduzione del prelievo fiscale non è accompagnata da un’equivalente riduzione della spesa pubblica. Comincia ad accumularsi un consistente debito pubblico statunitense che è collocato in parte presso sottoscrittori esteri. Da una media annuale di $ 48 mld di debito pubblico tra 1979 e 1981 si passa a 212 nel 1985. I sottoscrittori esteri appartengono a paesi con bilance dei pagamenti attivi e monete forti; in primo luogo il Giappone. Esportando capitale correggono la posizione creditrice del proprio conto corrente e contrastano i rischi di rivalutazione. Così, però, si possono scoraggiare gli investimenti interni, tanto più perché i tassi d’interesse devono essere alti. Si profila una caratteristica della situazione finanziaria statunitense che dura fino a oggi: l’esistenza di un doppio deficit (della bilancia dei pagamenti e del bilancio federale), compensato dall’apporto di capitali esteri, provenienti da economie con forti attivi della bilancia dei pagamenti correnti. Il potenziale di instabilità che può derivarne è molto alto. La peculiare posizione del $ influisce sul flusso di capitali impiegati in attivi USA. La ricaduta del $ tra 1985 e 1995 Il $ tocca il valore massimo nel febbraio 1985. La sua sopravvalutazione crea difficoltà a agricoltori e industriali: R. Reagan accetta perciò di pilotare il cambio al ribasso, d’accordo con i grandi paesi industrializzati che sono preoccupati per le spinte protezioniste che si sviluppano negli USA. 22.9.1985: 5 paesi firmano l’accordo del Plaza per cui le rispettive banche centrali interverranno sul mercato per provocare una riduzione del cambio del $. Nel 1985 la riduzione è stata del 20% rispetto alla > parte delle valute; nel 1986 ha raggiunto il 21% su DM e ¥. Agli inizi del 1987 viene stipulato un nuovo accordo fra i 5 + il Canada per bloccare la discesa del $. Il 22 febbraio 1987 è concluso l’accordo del Louvre per stabilizzare il $ alle parità raggiunte. Fra 1985 e 1995 il $ perde oltre metà del valore e torna a un livello simile a quello del 1980 rispetto alle altre valute. Nonostante il ridimensionamento continua a essere moneta dominante. La crescita del mercato finanziario internazionale a partire da metà anni ’70: un orientamento fortemente speculativo e i crediti ai paesi in difficoltà per l’alto prezzo del petrolio Nuove opportunità di lavoro emergono in alcuni dei maggiori mercati finanziari nazionali. Sono favorite (1) dalla crescente perdita di incisività dei controlli sui movimenti di capitale; (2) dalla carenza di norme internazionali sulle riserve obbligatorie rispetto alle passività internazionali o di vincoli sul rapporto tra risorse proprie d quantità di prestiti erogati; (3) dalla dilatazione delle esigenze di finanziamento da parte di paesi non industrializzati che tentano di svilupparsi. Le grandi banche attive sui mercati internazionali cercano di impiegare le maggiori risorse liquide di cui dispongono dopo il 1974 promuovendo l’indebitamento delle economie emergenti, specie dell’America Latina e in particolare nei paesi che disponevano di giacimenti petroliferi (per es. il Messico), perché queste sono considerate una garanzia ai fini del rimborso dei debiti. Il debito dei paesi emergenti sale da $70 mld nel 1970 a 264 nel 1977. Anche i paesi dell’Europa orientale si indebitano: entro il 1978 hanno $ 60 mld di debito verso i paesi OCSE. Si tratta di una novità legata in parte all’evoluzione non positiva del loro assetto produttivo e al tentativo di ammodernare la loro economia, cercando di rimediare a forti tensioni sociali emerse nel passaggio fra anni 1960 e 1970. La crisi polacca del 1980-1981 mette in evidenza l’inaffidabilità di uno dei principali debitori tra i paesi dell’Europa orientale. Ragioni strutturali degli indirizzi speculativi e l’affermazione di nuovi operatori finanziari negli anni ‘80 Per ottenere rendimenti adeguati dei fondi a disposizione e non subire danni in una congiuntura connotata (1) da spinte inflazionistiche (che erodono i rendimenti reali e la consistenza patrimoniale degli operatori) e (2) da elevati rischi di insolvenza della clientela, gli operatori finanziari danno un connotato spiccatamente speculativo alle loro operazioni. Accanto agli operatori tradizionali (banche d’affari, imprese assicurative che hanno abbondanza di liquidità e, nei paesi anglosassoni, investitori istituzionali che gestiscono i fondi pensionistici) si attivano fondi di investimento che offrono ai risparmiatori pacchetti compositi di attivi che promettono la divisione dei rischi. Si affermano anche dei fondi per la gestione di patrimoni e liquidità secondo criteri innovativi, basati sul calcolo delle probabilità per ricavare rendimenti particolarmente elevati. I nuovi operatori finanziari ottengono un grande successo, specialmente in USA e UK, riducendo il campo operativo delle banche generaliste, rimaste importanti in Europa. I mercati finanziari assumono connotati accentuatamente speculativi entro gli anni ‘80. Cresce la loro volatilità e l’entità delle transazioni. Prendono piede le operazioni in derivati (che richiedono la disponibilità effettiva di somme relativamente limitate rispetto all’entità nominale delle transazioni). Cresce il ricorso all’indebitamento per finanziarsi. I cambi e i prezzi instabili offrono sia l’opportunità di speculare che l’esigenza di farlo per ricoprirsi dai rischi, diventati maggiori rispetto agli anni di stabilità 1950-60. Un indirizzo spiccatamente speculativo aumenta il rischio di inceppamenti e quindi di crisi. La crisi finanziaria dei paesi debitori, 19821985. L’applicazione di politiche di rigida deflazione come rimedio La prima crisi finanziaria successiva alle “crisi petrolifere” è quella dei paesi debitori. Le debolezze strutturali delle economie debitrici portano nel 1981-82 a insolvenze (impossibilità di pagare le rate di ammortamento e gli interessi sui debiti), quando la seconda crisi petrolifera del 1979 modifica ancora il quadro economico e finanziario introducendo rincari superiori a quelli del ’73. Vi contribuisce pesantemente la politica di alti tassi d’interesse e di rivalutazione del $ applicata dalla Fed negli USA per bloccare l’inflazione e rivalutare il $. Essa rende più fragile la posizione delle economie debitrici. I pagamenti erano più difficili se i debitori dovevano svalutare per rimediare a difficoltà di bilance dei pagamenti passive, o se i tassi di interesse aumentavano. La crisi colpisce in modo particolare Messico (in seguito alla riduzione del prezzo del petrolio del 1981), Argentina, Filippine, Polonia. Di riflesso, vengono messe in difficoltà le banche internazionali esposte verso tali economie. Le difficoltà sono proporzionali all’esposizione di ciascuna banca verso debitori poco affidabili. Di riflesso le banche riducono investimenti e prestiti nei paesi in via di sviluppo. Da $ 52 mld nel 1981 scendono a 7 mld nel 1991. Per i debitori si tratta di affrontare una dura deflazione. Tanto più che, fra 1984 e 1988, essi diventano esportatori netti di capitali a causa dei rimborsi dei prestiti e dei pagamenti degli interessi. Crisi finanziaria e FMI: la ripresa di importanza dell’ente e l’aumento degli stati aderenti La crisi rimette al centro del sistema finanziario internazionale, dopo anni di eclisse, il Fmi come coordinatore degli interventi e come promotore di soluzioni di politica finanziaria per i debitori. Il FMI gioca un ruolo nella concessione dei finanziamenti necessari per rimediare alla crisi dei paesi debitori. In corrispondenza con questa ripresa dell’attività, il FMI deve accrescere le proprie risorse e in primo luogo le quote. Cresce il numero dei membri e stati prima marginali diventano importanti (come l’Arabia Saudita) perché dispongono di fondi abbondanti. Dai primi anni 80 diversi paesi socialisti entrano nel FMI, alla ricerca di un’integrazione più stretta nel sistema economico mondiale (Cina 1980, Ungheria 1982, Polonia 1986); dal 1990 le richieste di adesione aumentano man mano che procede la trasformazione delle economie a pianificazione centrale in economie di mercato. Bulgaria e Cecoslovacchia aderiscono nel 1990, l’Albania nel 1991, le 15 repubbliche dell’ex URSS nel 1992. In quello stesso anno entra anche la Svizzera. Cambia il ruolo del FMI dopo la crisi petrolifera: si indebolisce la funzione monetaria, mentre si sviluppa l’azione di intermediazione finanziaria fra paesi poveri e ricchi perché eroga prestiti a tassi normalmente < a quelli di mercato. Di qui l’esigenza di aumentare le risorse proprie e di introdurre nuovi strumenti di finanziamento. Le soluzioni per incrementare le risorse del FMI a partire dagli anni 1970: DSP e crediti Il Fondo interviene per limitare gli effetti delle crisi utilizzando risorse proprie, ottenute dalle quote di partecipazione e dai DSP. Il suo capitale è passato da DSP 29 mld nel 1970 a 90 nel 1990, grazie alle nuove ammissioni e alle periodiche revisioni delle quote. Nel 1990 è deciso l’aumento del 50% delle quote, portandole a 135,2 mld. entro il 1992. Nel 1993 le quote salgono a 145 mld. Grazie a queste risorse il FMI può cedere divise convertibili contro monete nazionali fino al 25% delle quote dei singoli membri. I membri possono ricavarne DSP in proporzione, aumentando la disponibilità di divise. Nel 1978 è decisa l’emissione di DSP 12 mld in 3 anni. Nel 1992 ne circolavano in tutto 21,4 mld. L’aumento dell’emissione serviva a incrementare le riserve dei membri, soprattutto dei membri recenti che non avevano potuto godere dei precedenti stanziamenti. L’aumento di disponibilità di comporta tensioni fra i membri sia sull’entità delle emissioni che sulla ripartizione dei DST. I paesi sottosviluppati le contestano e giudicano insufficienti i DSP. Il FMI concede anche prestiti, dal momento che la disponibilità di divise convertibili attraverso le quote e i DSP risulta insufficiente e che la richiesta di fondi, con la crisi petrolifera, diventa particolarmente elevata. Dopo i primi rincari del petrolio di fine 1973 sono previste agevolazioni per i paesi di difficoltà. Vengono varati 2 prestiti: di 6,9 mld DSP nel 1974-75, rimborsato nel 1983 e 7,8 mld nel 1979, con fondi per 55% forniti dai produttori di petrolio. Il ricorso a fondi delle maggiori economie per rimediare alle difficoltà dei paesi sottosviluppati fra 1981 e 1993 Dal 1981 si prevede un aumento dei fondi che il FMI può concedere in prestito: un membro può prelevare per 3 anni fra 90 e 110% per anno della sua quota (in totale 270-330%). Le risorse sono fornite dai paesi industrializzati e dall’ Arabia Saudita. Nel 1983 viene sensibilmente aumentata la dotazione del general arrangement to borrow: il gruppo dei 10 e la Svizzera si impegnano a mettere a disposizione del FMI 17 mld DSP rispetto ai 6,4 del 1962, anno in cui era stato introdotto l’arrangement (Gab). Nello stesso anno i paesi OCSE (eccetto USA, Portogallo e Turchia) concedono al FMI DSP 3 mld. Nel dicembre 1986 il Giappone concede al Fondo un prestito quadriennale di DSP 3 mld. L’Arabia Saudita ne concede 11 nel 1981-1983 e accetta di metterne a disposizione ancora 1,5 alle condizioni del Gab. Nel marzo 1986 viene decisa la creazione di una facility (agevolazione) di aggiustamento strutturale. Consente di accordare prestiti di 5-10 anni al tasso di 0,50% ai paesi più poveri. Una facility rafforzata è prevista per i paesi poveri che applichino politiche di risanamento delle loro economie. Nell’aprile 1993 c’erano 89 accordi del primo tipo (FAS) e 68 del secondo tipo (FASR) per 13,5 mld DSP totali, finanziati da prestiti elargiti da alcuni membri del FMI. L’intervento del FMI per i paesi sottosviluppati è vitale: i prestiti bancari a loro favore sono calati da $ 52 mld nel 1981 a 7 nel 1991. Il controllo degli USA sul FMI e l’applicazione di ricette liberiste in caso d’intervento Gli USA, con l’appoggio di un ridotto numero di paesi, mantengono una posizione dominante nel Fmi, utilizzandolo come agenzia per promuovere politiche di rigore monetario e finanziario che possono avere importanti effetti recessivi sull’economia dei paesi che cercano un sostegno nei crediti del Fondo. Promuovere la solvibilità dei debitori significa normalmente favorire la capacità di recuperare i crediti da parte dei creditori, spesso banche USA. Il ruolo internazionale del $ appare senza rivali; i DSP, nonostante il loro incremento, giocano un ruolo limitato. Grazie al $ standard le autorità USA hanno un’ampia discrezionalità nell’aggiustare la parità di cambio in funzione di esigenze interne all’economia statunitense. Negli anni 1980 emergono in piena evidenza i rischi dello squilibrio internazionale e il peso dei condizionamenti internazionali sulle economie non sviluppate. Nel 1982 il Messico deve accettare misure pesanti: rigore di bilancio (che porta a un saldo attivo del bilancio federale) e monetario, privatizzazioni e apertura internazionale. Nel 1986 il Messico entra nel GATT; si accorda con USA e Canada per il NAFTA e riduce i dazi, entra nell’OCSE nel 1994; attrae capitali esteri e può nuovamente contare su un elevato indebitamento estero (nel 1994 $ 164 mld) e un tasso di inflazione del 10% nel 1992. 1994: svalutazione del peso e nuova crisi finanziaria. L’esperienza valutaria europea: la ricerca di soluzioni per l’ancoraggio dei cambi e il passaggio dal “serpente” allo SME Nel luglio 1978 il Consiglio europeo della CEE accetta di sostituire il serpente con un Sistema monetario europeo per aumentare l’indipendenza dal $ e dalla sua volatilità, rendendo monetariamente stabile l’Europa occidentale. Il Consiglio europeo approva ufficialmente lo Sme nel dicembre 1978 e esso entra in vigore nel marzo 1979. Come il vecchio sistema, si basa su parità reciproche delle diverse monete; utilizza come riferimento una Unità di conto europea, impiegata sul mercato delle obbligazioni e dei titoli pubblici. Il valore è definito in base al paniere di 9 monete della CE che aderiscono al sistema. Le diverse monete possono oscillare rispetto alla parità centrale (tasso base) ±2,25%. All’Italia è concesso il 6%, data la fragilità dei suoi conti con l’estero. Nei primi 4 anni si procede a 1 riallineamento ogni 8 mesi; poi fino al gennaio 1987 I riallineamenti si riducono a 1 l’anno. Vengono allentati i controlli sui movimenti di capitali nell’area europea. A differenza del “serpente” lo Sme prevede che gli interventi correttivi di eventuali squilibri non spettino solo ai paesi a valuta debole, ma anche a quelli con valuta forte. Ai 9 membri iniziali si aggiungeranno la Spagna nel giugno 1989; UK nell’ottobre 1990 (per euroscetticismo); il Portogallo nell’aprile 1992. tutti godono dell’oscillazione al 6%. Viene preparato un piano per istituire un Fondo monetario europeo (FME) e si ventila la riunificazione delle riserve nazionali in un solo fondo. L’unità di conto è valuta di riserva per il FME. La resistenza della Bundesbank al tentativo di limitare il suo potere nella politica valutaria europea e alla prospettiva di un’unificazione monetaria Lo SME era stato frutto di un accordo politico tra il presidente francese V. Giscard d’Estaing e del cancelliere federale H. Schmidt, che cercavano un rilancio del progetto europeo per ragioni diverse ma convergenti. La Francia avrebbe voluto che lo SME fosse incluso nel regime istituzionale comunitario. I cambi sarebbero stati una competenza e uno strumento operativo della Comunità e sulla loro gestione si sarebbe esercitata l’influenza politica francese, riducendo la preminenza della Bundesbank. Non lo ottiene. La Bundesbank si fa garantire dal governo tedesco di non dover intervenire se il governo non riusciva ad accordarsi con i partners sui piani di riallineamento valutario. Nel 1986 la sottoscrizione dell’Atto Unico rilancia la prospettiva di Unione economica e monetaria, perfezionata nell’accordo di Maastircht del 1992 che istituisce l’Unione Europea. Obiettivo è l’unione monetaria fra i 12 membri CEE in 3 tappe: (1) luglio 1990 liberalizzazione dei movimenti di capitale; (2) gennaio 1994 creazione dell’Istituto monetario europeo (IME), coordinamento delle politiche economiche e monetarie, (3) creazione di una banca centrale europea e adozione di una moneta unica fra gennaio 1997 e gennaio 1999. Fissate delle regole per la convergenza delle economie interessate riguardo a tasso di inflazione; deficit di bilancio, debito pubblico e tassi di interesse. La crisi dello SME, settembre 1992-maggio 1993. Difficoltà e incertezze nell’avvio verso una moneta unica europea. Dal settembre 1979 al settembre 1992 vengono realizzate 4 svalutazioni del Ff; 6 rivalutazioni del DM. L’assetto valutario europeo richiede frequenti aggiustamenti di segno diverso nei diversi paesi, benché la frequenza degli aggiustamenti cali dopo il 1986-87. Nel settembre 1992 precipita una drammatica crisi dei cambi in Europa in seguito a massicci attacchi al ribasso. Lo SME pare fragile per mancanza di coordinamento effettivo fra le politiche dei diversi membri e per la debolezza dei conti esteri di alcuni di loro. Peseta e lira vengono svalutate rispettivamente del 5 e 7%. La lira e la £ escono dal sistema. Per 5 mesi si succedono attacchi speculativi contro altre valute. Il franco evita la svalutazione grazie all’aiuto della Germania. Peseta e escudo sono ancora svalutati nel novembre 1992 e nel maggio 1993; la lira irlandese nel febbraio 1993. Nell’agosto 1993 viene deciso l’aumento delle fluttuazioni a ±15% (eccetto il cambio DM-fiorino olandese). L’incertezza sul cambio sembra fonte di distorsioni nei flussi commerciali interni alla CE: i paesi che hanno svalutato sono stati favoriti nelle esportazioni. L’incertezza costringe a politiche di alti tassi di interesse, con danno degli investimenti e rallentamento dell’economia. La tendenza è rafforzata dall’impegno tedesco per integrare l’ex DDR. Nel 1993 solo la Danimarca rispondeva ai criteri di convergenza di Mastricht. Il rallentamento dell’economia europea fra anni 70 e fine secolo. Tra 1973 e 1998 il Pil dell’Europa occidentale crebbe del 2,1% l’anno rispetto al 4,8 del 1950-1973 secondo Angus Maddison. In parte questo è il risultato di un rallentamento della crescita della popolazione da 0,7% l’anno a 0,3%, frutto di una generalizzata caduta delle nascite. Inoltre crebbe massicciamente la disoccupazione (11% della forza lavoro nel 1994-98, > agli anni 30 e 4 volte il 1950-1973). Infine si contrasse la produttività del lavoro, cresciuta del 2,3% l’anno in media rispetto al 4,8% del 1950-1973. Nonostante questo rallentamento, continuò il processo di avvicinamento agli USA anche dopo il 1973. Il livello della produttività in Europa occidentale salì dai 2/3 di quella USA nel 1973 a 4/5 nel 1998. L’avvicinamento della produttività fra economie sviluppate : il rapporto del capitale fisso lordo rispetto al Pil, 1950-1992, in 6 paesi industrializzati USA Francia Germania Olanda UK Giappone Parco macchine e impianti 1950 0,64 0,21 0,39 0,27 0,31 0,74 1973 0,65 0,50 0,62 0,61 0,52 0,58 1992 0,86 0,74 0,70 0,78 0,65 1,07 Infrastrutture escluse le abitazioni 1950 1,81 1,42 1,42 1,79 0,50 1,03 1973 1,47 1,05 1,32 1,36 0,80 1,16 1992 1,57 1,52 1,63 1,53 1,17 1,95 Stock del capitale fisso per salariato, escluse le abitazioni, 1950-1992, in 6 paesi industrializzati in $1990 USA Francia Germania Olanda UK Giappone Parco macchine e impianti 1950 15.150 2.325 3.948 3.878 4.699 3.234 1973 26.259 15.778 18.513 20.394 13.893 13.287 1992 39.636 33.930 31.736 30.044 23.095 40.243 Infrastrutture escluse le abitazioni 1950 42.673 15.795 14.364 25.686 7.556 4.518 1973 59.461 33.037 39.697 45.393 21.464 26.402 1992 72.625 69.232 70.119 57.918 41.797 73.135 Stock del capitale fisso per occupato, escluse le abitazioni, 1950-1992, in 6 paesi industrializzati in $1990 e in % degli USA 1950 1973 1992 1950 1973 Valori assoluti 1992 USA = 100 Francia 18.120 48.815 103.162 31 57 92 Germania 18.312 58.210 101.855 32 68 91 Olanda 29.564 65.787 87.962 51 77 78 UK 12.444 35.399 64.892 22 42 58 7.752 34.777 113.376 13 41 101 57.600 85.178 112.261 100 100 100 Giappone USA Il rallentamento della produttività negli anni 1980 secondo Manuel Castells “Estendendo il proprio raggio d’azione globale, integrando i mercati e massimizzando i vantaggi comparati di localizzazione, il capitale, i capitalisti e le imprese capitaliste hanno incrementato notevolmente la propria redditività, in particolare negli anni Novanta, ripristinando le precondizioni per l’investimento da cui l’economia capitalista dipende. Questa ricapitalizzazione del capitale può in parte spiegare l’evoluzione disomogenea della produttività. Per tutti gli anni Ottanta si assistette al massiccio investimento nell’infrastruttura delle informazioni/comunicazioni, che permise il movimento accoppiato di liberalizzazione dei mercati e globalizzazione del capitale. Le imprese e le industrie colpite in modo diretto da quella straordinaria trasformazione (come i settori della microelettronica, dei microcomputer, delle telecomunicazioni e della finanza) registrarono un’impennata nella produttività e nella redditività. Intorno a questo nucleo duro formato dalle nuove imprese capitaliste globali e dalle loro sussidiarie, gli altri strati di aziende e di industrie o vennero integrati nel nuovo sistema tecnologico, oppure gradualmente scomparvero. Pertanto è possibile che il lento movimento della produttività nelle economie nazionali nasconda tendenze contraddittorie, costituite dall’aumento esplosivo della produttività nelle industrie leader, dal declino delle imprese obsolete, dalla stabilità delle attività terziarie a bassa produttività”. [La nascita della società in rete, pp. 103-4] Europa occidentale e USA: convergenza di produttività e Pil pro capite, 1950-1998 Pil pro capite Pil per ora di lavoro incremento annuale medio composto 1950-73 1973-98 1950-73 1973-98 Francia 4,1 1,6 5,0 2,5 Germania 5,0 1,6 5,9 2,4 Italia 5,0 2,1 5,8 2,3 UK 2,4 1,8 3,1 2,2 12 paesi dell'Europa occid. 3,9 1,8 4,8 2,3 Irlanda 3,0 4,0 4,3 4,1 Spagna 5,8 2,0 6,4 2,9 USA 2,5 2,0 2,8 1,5 Europa occidentale e USA: convergenza di produttività e Pil pro capite, 1950-1998 Pil pro capite Pil per ora di lavoro Indice rispetto a USA = 100 1950 1973 1998 1950 1973 1998 Francia 55 79 72 46 76 98 Germania 41 72 65 32 62 77 Italia 37 64 65 35 67 81 UK 12 paesi dell'Europa occid. 72 73 68 63 67 79 52 73 72 44 68 83 Irlanda 36 41 67 29 41 78 Spagna 25 52 52 21 46 64 Fonte: Angus Maddison, The World Economy, Paris, OECD, 2006, p. 132, Europa occidentale e USA: convergenza di produttività e Pil pro capite, 1950-1998 Occupazione in % popolazione Ore di lavoro per unità pop. 1950 1973 1998 1950 1973 1998 Francia 47,0 41,1 38,6 905 728 580 Germania 42,0 44,9 44,0 974 811 670 Italia 40,1 41,5 42,3 800 669 637 UK 12 paesi dell'Europa occid. 44,5 44,6 45,8 871 753 682 43,4 43,3 43,5 904 750 657 Irlanda 41,1 34,7 40,6 925 698 672 Spagna 41,8 37,4 34,0 921 805 648 USA 40,5 41,0 49,1 756 704 791 Fonte: Angus Maddison, The World Economy, Paris, OECD, 2006, p. 132, Ritmo di crescita della produttività del lavoro (Pil per ora di lavoro) di paesi industrializzati,1950-1992 [media annuale composta] 1950-1973 1973-1992 Austria 5,9 2,5 Belgio 4,5 2,9 Danimarca 4,5 1,7 Finlandia 5,4 2,2 Francia 5,1 2,7 Germania 6,0 2,7 Italia 5,8 2,4 Olanda 4,8 2,2 Norvegia 4,2 3,2 Svezia 4,1 1,3 Svizzera 3,3 1,7 UK 3,1 2,2 Media aritmetica 4,7 2,3 Australia 2,9 1,5 Canada 3,0 1,5 USA 2,7 1,1 Giappone 7,7 3,1 Media aritmetica di Europa del sud 5,8 3,0 Media aritmetica di Europa orientale 3,6 0,1 Media aritmetica di America latina 3,3 0,3 Disoccupazione nei paesi OCSE, 1950-1993 in % della popolazione attiva 1950-1973 1974-1983 1984-1993 Austria 2,6 2,3 3,5 Belgio 3,0 8,2 9,6 Danimarca 2,6 7,6 7,8 Finlandia 1,7 4,7 7,0 Francia 2,0 5,7 10,0 Germania 2,5 4,1 6,2 Italia 5,5 7,2 11,1 Olanda 2,2 7,3 8,9 Norvegia 1,9 2,1 4,1 Svezia 1,8 2,3 3,2 Svizzera 0,0 0,4 1,0 UK 2,8 7,0 9,6 Media 2,4 4,9 6,8 Grecia 4,6 3,2 7,6 Irlanda 5,2 8,8 16,1 Portogallo 2,4 6,5 6,1 Spagna 2,9 9,1 19,0 Australia 2,1 5,9 8,4 Canada 4,7 8,1 9,6 USA 4,6 7,4 6,4 Indice dei prezzi al consumo nei paesi OCSE, 1950-1993 [media annuale dei tassi di crescita composti] 1950-1973 1974-1983 1984-1993 Austria 4,6 6,0 3,1 Belgio 2,9 8,1 3,0 Danimarca 4,8 10,7 3,7 Finlandia 5,6 10,5 4,7 Francia 5,0 11,2 3,6 Germania 2,7 4,9 2,3 Italia 3,9 16,7 6,4 Olanda 4,1 6,5 1,8 Norvegia 4,8 9,7 5,1 Svezia 4,7 10,2 6,3 Svizzera 3,0 4,3 3,2 UK 4,6 13,5 5,2 Media 4,2 9,4 4,0 Grecia 3,7 18,8 17,5 Irlanda 4,3 15,7 3,8 Portogallo 3,2 22,6 13,2 Spagna 4,6 16,4 6,9 Australia 4,6 11,3 5,6 Canada 2,8 9,4 4,0 USA 2,7 8,2 3,8 Giappone 5,2 7,6 1,7 Il calcolo della produttività complessiva dei fattori (TFP): uno strumento per contabilizzare la crescita (1) Secondo l’approccio marginalista neoclassico, la crescita economica può essere analizzata cercando di definire l’apporto di ogni fattore di produzione alla crescita. Per via empirica si è riscontrato che il tasso di crescita della produzione complessiva di un sistema economico nazionale non può essere interamente spiegato con un maggiore apporto combinato dei fattori fisici di produzione. Resta un residuo che ha un peso notevole nella spiegazione della crescita. Edward Denison ha elaborato in grande dettaglio l’approccio neoclassico alla spiegazione della crescita comparata di diversi sistemi economici (USA, Giappone, Europa occidentale). Why Growth Rates Differ. Postwar experience in nine western countries, Washington 1967, ha dato un forte impulso all’applicazione di questo metodo di ricerca. Monografie successive hanno esteso il periodo di applicazione del metodo, compatibilmente con la disponibilità di informazioni statistiche adeguate. Il calcolo della produttività complessiva dei fattori (TFP): uno strumento per contabilizzare la crescita (2) Denison tenta di misurare il contributo dei fattori fisici della produzione, capitale e lavoro non limitandosi alla semplice somma dei valori aggregati complessivi; cerca di valutarlo distinguere l’apporto delle singole componenti dei 2 fattori, identificate in base ai loro caratteri qualitativi. Per il lavoro tiene conto del numero medio di ore lavorate; del diverso rendimento dei diversi tipi di lavoratori secondo l’età e il sesso, secondo i livelli di educazione e di addestramento. Per il capitale distingue 4 sottogruppi: edilizia residenziale, edifici industriali e macchinari, scorte, investimenti esteri. Il residuo è attribuito ai progressi della produttività. Anch’esso e distinto in categorie diverse: (1) guadagni di produttività realizzati con un generale avanzamento di conoscenze tecnologiche o organizzative, alla frontiera della conoscenza applicata; Il calcolo della produttività complessiva dei fattori (TFP): uno strumento per contabilizzare la crescita (3) (2) guadagni di produttività realizzati attraverso un recupero di conoscenza: chi è più arretrato può approfittare degli avanzamenti altrui, copiandoli, e avvicinarsi all’ottimo conosciuto. Basta l’applicazione di tecniche già note, senza avanzamento del complesso delle conoscenze disponibili; (3) guadagni realizzati attraverso la migliore allocazione dei fattori fisici della produzione. C’è un uso ottimo quando i fattori sono applicati a settori e regioni che assicurano il ricavo massimo. L’allocazione può essere contrastata da forze sociali o politiche che difendono interessi costituiti o rendite di posizione. Ogni volta che l’attribuzione dei fattori fisici di produzione si avvicina all’ottimo, la produttività aumenta. Possono modificare la produttività: (a) lo spostamento di fattori dall’agricoltura all’industria; (b) lo spostamento da industrie piccole, arretrate, tradizionali, a industrie grandi, avanzate, innovative; (c) l’abbattimento degli ostacoli al commercio internazionale. (4) Guadagni possono essere realizzati con le economie di scala, eventualmente ottenibili attraverso un aumento di dimensioni del mercato locale (attraverso urbanizzazione e motorizzazione) o il consumo accresciuto di specifici beni. I beni di consumo durevoli, la cui elasticità al reddito è alta, sono adatti alla produzione di massa che usa tecniche efficienti. Il calcolo della produttività complessiva dei fattori (TFP): limiti del contributo di Denison Il metodo seguito da Denison non permette di tenere conto di tutte le variabili che possono ostacolare la migliore allocazione delle risorse quando non sono quantificabili. Per es. non prevede valutazioni specifiche dell’effetto di stimolo o di ostacolo alla produttività che deriva (a) dal comportamento delle organizzazioni sindacali dei lavoratori o degli imprenditori; (b) dall’atteggiamento più o meno intraprendente degli imprenditori; (c) dagli indirizzi di politica industriale dello stato. Denison prende in considerazione la produzione nazionale misurabile e il reddito nazionale misurabile. Così ignora i cambiamenti nella qualità di merci e servizi. Non considera l’effetto negativo che la crescita economica e l’aumento del benessere materiale possono rappresentare un costo (o un elemento negativo) per l’ambiente e per il benessere individuale. Nel primo caso si sottovalutano gli effetti della crescita e delle trasformazioni; nel secondo si sopravvalutano. E non riesce a tenere conto della sottoutilizzazione della capacità produttiva totale nelle recessioni. Come è tipico dell’approccio neoclassico, (1) si confrontano posizioni di equilibrio in momenti dati; (2) si assume che la crescita sia bilanciata e (3) che la mobilità dei fattori sia perfetta; (4) non ci sono processi cumulativi, compatibili solo con un permanente squilibrio. Le spiegazioni di Denison sulla differenza dei tassi di sviluppo e dei livelli di reddito tra paesi. Negli anni successivi la preminenza USA viene ridimensionata Giappone e Europa occidentale sono cresciuti più velocemente degli USA fra 1953 e 1971; lo scarto sarebbe > se non si considerasse UK. La crescita USA nel periodo è spiegabile più con l’aggiunta di lavoro e capitale che con guadagni di produttività. Questi furono favoriti dall’accelerazione del progresso tecnico dopo la seconda guerra mondiale (e in aumento fra 1969 e 1973), mentre gli incrementi di produttività realizzati con la migliore allocazione dei fattori o con le economie di scala risultano meno importanti. Hanno limitato la crescita della produttività anche gli interventi governativi per la protezione sociale e ambientale. In Europa occidentale l’influenza dell’uso aggiuntivo di capitale e lavoro (eccetto nella Bundesrepublik) è stata < dei guadagni di produttività che hanno inciso per 2/3 della crescita. Molto probabilmente per effetto (1) del recupero rispetto agli USA, (2) dell’influenza delle economie di scala (in parte legate all’aumento del reddito), (3) per la migliore allocazione dei fattori (assorbimento di disoccupazione nascosta). Il reddito per occupato in Europa nel 1960 è ancora il 59% degli USA: resta ampio spazio per lo sviluppo della domanda. La convergenza dei redditi cresce negli anni 1960. Li giustifica lo scarto di produttività assoluta. La produttività USA resta superiore: forse per diversità di gestione e fattori istituzionali? Argomenti principali e una scansione cronologica 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. La riflessione sull’esperienza della crisi e della recessione degli anni 1930. L’influenza di J. M. Keynes. Il lascito della seconda guerra mondiale: rapporti finanziari ed economici internazionali; la supremazia USA; nuovi orizzonti produttivi. La ricostruzione postbellica (1945-1950). I miracoli economici (1955-1964). L’integrazione economica e finanziaria internazionale La crescente instabilità del sistema internazionale dei pagamenti tra la seconda metà degli anni 1960 e il 1973. 15 anni di difficoltà e ristrutturazioni (1971-1985); la svolta neoliberista e monetarista e la crisi fiscale degli stati Un nuovo slancio e i progressi di un sistema globale (1985-1995).