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Hegel, La dialettica del servo e del padrone

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Hegel, La dialettica del servo e del padrone
Hegel, La dialettica del servo e del padrone
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A. INDIPENDENZA E DIPENDENZA DELLA AUTOCOSCIENZA; SIGNORIA E SERVITÙ
1. L’autocoscienza è in sé e per sé, in questa misura e per questa via, che essa è in sé e per sé per
un’altra autocoscienza; vale a dire, essa è soltanto come un che di riconosciuto. Il concetto di questa sua
unità nel suo raddoppiamento, della infinità che si realizza nella autocoscienza, è un intreccio dai molteplici
aspetti e significati; sì che i suoi momenti in parte debbono essere accuratamente tenuti al di fuori l’uno
dall’altro; in parte, poi, debbono insieme esser presi e conosciuti, in quella distinzione, come non distinti,
ovvero sempre nel loro significato contrapposto. La duplicità di significato del distinto sta nell’essenza
dell’autocoscienza, di essere infinita, ovvero di essere, immediatamente, l’opposto della determinatezza in
cui è posta. La scomposizione del concetto di questa unità spirituale nel suo raddoppiamento ci rappresenta il
movimento del riconoscere.
[...] 10. Il rapporto tra le due autocoscienze è dunque così determinato, che esse danno conferma di
se stesse e si confermano a vicenda mediante una lotta in cui è questione di vita o di morte. Esse non
possono fare a meno di scendere in lotta giacché esse debbono elevare a verità nell’altra e in se stessa la loro
certezza, di essere per sé. Ed è unicamente col mettere a repentaglio la vita che può trovar conferma la
libertà, e il fatto che per l’autocoscienza l’essenza non è l’essere, non il modo immediato in cui essa
compare, non il suo esser immersa nello spiegarsi della vita; e solo in quel modo può trovar conferma il fatto
che in essa nulla è presente che non sia per lei momento che subito dilegua, e che essa è soltanto puro esserper sé. Certo, l’individuo che non ha arrischiato la vita può esser riconosciuto come persona; ma egli non ha
raggiunto la verità di questo esser riconosciuto come una autocoscienza indipendente. In pari maniera, come
ognuno mette a repentaglio la propria vita, così deve mirare alla morte dell’altro; perché l’altro non ha per lui
maggior valore di quanto ne abbia egli stesso; la sua essenza gli si presenta come un altro, esso è fuori di sé,
esso deve togliere il suo esser-fuori-di-sé; l’altro è coscienza impacciata da una molteplicità di legami e che è
immediatamente; esso deve vedere il suo esser-altro come puro esser-per-sé, come assoluta negazione.
[...] 13. Il signore è la coscienza che è per sé; ma non più soltanto il concetto di essa, bensì coscienza
che è per sé, e che è mediata con sé per mezzo di un’altra coscienza, e, precisamente, per mezzo di una
coscienza tale, che alla sua essenza compete di essere sintetizzata con l’essere indipendente, ovvero con la
cosità in generale. Il signore si rapporta ad entrambi questi momenti, ad una cosa come tale, all’oggetto
dell’appetito, e alla coscienza che vede la cosità come l’essenziale; ed essendo egli, a) come concetto
dell’autocoscienza immediata, relazione dell’esser per sé, ma b) essendo ormai, allo stesso tempo, come
mediazione o come un esser-per sé che è per sé solamente mediante un altro, allora si rapporta a)
immediatamente ad entrambi e b) mediatamente ad ognuno attraverso l’altro. Il signore si rapporta al servo
mediatamente attraverso l’essere indipendente, giacché appunto a questo è legato il servo; questa è la sua
catena, dalla quale egli non è stato in grado di astrarre nella lotta, e per questo si è mostrato dipendente, e ha
mostrato di avere la propria indipendenza nella cosità. Il signore è invece la potenza che domina su
quell’essere indipendente, giacché, nella lotta, egli ha mostrato che quello vale per lui solo come un che di
negativo; essendo egli la potenza che domina su questo essere, ed essendo questo essere la potenza che
domina sull’altro, allora in questo sillogismo egli ha l’altro sotto di sé. In pari maniera, il signore si rapporta
alla cosa mediatamente, attraverso il servo; come autocoscienza in generale, il servo si rapporta alla cosa
anche in maniera negativa e la toglie; però, essa è allo stesso tempo indipendente per lui, e perciò, negandola,
egli non può venirne a capo fino ad annientarla, ed egli la rielabora soltanto. Attraverso questa mediazione,
invece, la relazione immediata diviene al signore la pura negazione della cosa, ovvero il godimento; riesce al
signore quel che non riusciva all’appetito, di venirne a capo cioè, e di soddisfarsi nel godimento. All’appetito
questo non riusciva a cagione della indipendenza della cosa; ma il signore, che ha frapposto il servo tra la
cosa e sé, riesce con ciò a legarsi soltanto con l’aspetto della dipendenza della cosa, e la gode e basta;
abbandona invece l’aspetto dell’indipendenza al servo, che rielabora la cosa.
14. In questi due momenti si realizza per il signore il suo esser riconosciuto da un’altra coscienza;
questa infatti si pone in quei momenti come qualcosa di inessenziale, dapprima nel rielaborare la cosa, quindi
nella dipendenza da un esserci determinato; in nessuno dei due momenti essa può arrivare a dominare
l’essere, e pervenire alla negazione assoluta. Si ha qui quel momento del riconoscere, in cui l’altra coscienza
si toglie come esser-per-sé, ed opera con ciò essa stessa quel che la prima opera nei suoi confronti. Allo
stesso modo si ha l’altro momento, in cui questo operare della seconda è operare proprio della prima; giacché
quel che il servo opera è propriamente operare del padrone; agli occhi del padrone l’essenza è soltanto
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l’esser-per-sé; egli è la pura potenza negativa, per la quale la cosa non è nulla, ed è quindi il puro operare
essenziale in questo rapporto; il servo invece non è un operare puro, bensì inessenziale. Però, affinché si
abbia un vero e proprio riconoscimento, manca questo altro momento, che il signore faccia anche nei propri
confronti quel che fa nei confronti dell’altro, e che il servo faccia anche nei confronti dell’altro quel che fa
nei propri confronti. Da quanto precede è derivato quindi un unilaterale ed impari riconoscimento.
15. La coscienza inessenziale è qui per il signore l’oggetto che costituisce la verità della certezza di
se stesso. È chiaro però che questo oggetto non corrisponde al suo concetto, e che in questo termine in cui il
signore si è portato gli è risultato qualcosa di completamente diverso da una coscienza indipendente. Non
una simile coscienza indipendente è per lui, ma piuttosto una coscienza dipendente; egli non è quindi certo
dell’esser-per-sé come della verità, e la sua verità è piuttosto la coscienza inessenziale, e l’inessenziale
operare di questa.
16. La verità della coscienza indipendente è perciò la coscienza servile. Certo, questa appare
dapprima fuori di sé e non come la verità dell’autocoscienza. Però, come la signoria ha mostrato che la sua
essenza è il contrario di quel che essa vuol essere, così anche la servitù diventerà, al suo termine compiuto,
piuttosto il contrario di quello che è immediatamente; come coscienza risospinta in sé, essa rientrerà in se
stessa e si permuterà in vera indipendenza.
17. Abbiamo visto soltanto quel che la servitù è nel rapporto che ha con la signoria. Ma essa è
autocoscienza, e resta adesso da considerare quel che essa è in e per se stessa. Da principio, per la servitù
l’essenza è il signore; quindi la coscienza indipendente essente per sé è ai suoi occhi la verità, la quale
tuttavia per lei non è ancora in lei. Però, essa ha di fatto in se stessa questa verità della negatività pura e
dell’esser-per-sé; essa ha infatti sperimentato in lei questa essenza. Questa coscienza non ha avuto infatti
timore per questo o per quello, o in questo o quell’attimo, ma ha temuto per tutto il suo essere; ha infatti
sentito la paura della morte, il signore assoluto. In questa paura, essa è stata interamente disgregata, ha
tremato in se stessa fin nel profondo, e tutto ciò che in lei c’era di fisso è stato scosso. Ma questo puro
universale movimento, l’assoluto fluidificarsi di ogni cosa sussistente, è la semplice essenza
dell’autocoscienza, la negatività assoluta, il puro esser-per-sé, che quindi c’è in quella coscienza. Questo
momento del puro esser-per-sé è anche per lei, poiché quel momento è a lei il suo oggetto nel signore.
Inoltre, essa non è solamente questo universale dissolvimento in generale, ma, nel servire, essa lo porta
effettivamente a compimento; servendo, essa toglie in tutti i singoli momenti la sua soggezione dall’esserci
naturale; e lo elimina elaborandolo.
18. Sentire però la potenza assoluta, in generale e nei particolari del servizio, è soltanto la
disgregazione in sé, e, se pure il timore del signore è l’inizio della sapienza, la coscienza è in ciò per lei
stessa, non è l’esser-per-sé. È invece col lavorare che essa giunge a se stessa. Nel momento che, nella
coscienza del signore, corrisponde all’appetito, è parso in verità che alla coscienza servile fosse toccato
l’aspetto della inessenziale relazione alla cosa, poiché la cosa mantiene in quel rapporto con lei la propria
indipendenza. L’appetito si è riservato il puro negare dell’oggetto e con ciò l’immisto sentimento di sé.
Questo soddisfacimento è però esso stesso solo un dileguare; per questo motivo, che gli manca il lato
oggettuale, ovvero il sussistere. Il lavoro è al contrario appetito trattenuto, dileguare tenuto a freno; ovvero,
esso dà forma. Il porsi in relazione negativa con l’oggetto diventa forma di questo, diventa un qualcosa che
permane, perché proprio per colui che lavora l’oggetto ha indipendenza. Questo medio negativo, l’operare
che dà forma, è insieme la singolarità, ovvero il puro esser-per-sé della coscienza, che ora nel lavoro esce
fuori di essa nell’elemento del permanere; la coscienza che lavora giunge dunque con ciò all’intuizione
dell’essere indipendente come di se stessa.
19. Il formare non ha però solo questo significato positivo, che la coscienza che serve con ciò diviene
a sé, come puro esser-per-sé, essente; ha invece anche il significato negativo contro il suo primo movimento,
il timore. Nel dar forma alla cosa, infatti, la sua propria negatività, il suo esser-per-sé, le si fa oggetto solo in
virtù del fatto che essa toglie la forma opposta, essente. Ma questo negativo oggettuale è appunto l’essere
estraneo di fronte al quale essa ha tremato. Ora, invece, essa distrugge questo negativo estraneo, pone sé
come tale [come negativo], nell’elemento del permanere, e diventa con ciò per se stessa, un essente-per-sé.
Nel padrone, l’esser-per-sé è ai suoi occhi un altro, ovvero soltanto per lei; nel timore, l’esser-per-sé è in lei
stessa; nel dar forma l’esser-per-sé si fa per lei come il suo proprio esser-per-sé, e viene alla coscienza che
essa stessa è in sé e per sé. Con l’esser posta al di fuori, la forma non diventa ai suoi occhi un altro da lei;
giacché quella proprio è il suo puro esser-per-sé che così diventa ai suoi occhi verità. Mediante questo
ritrovarsi attraverso se stessa essa diventa dunque senso proprio, appunto nel lavoro, in cui sembrava essere
soltanto senso estraneo. Per questa riflessione sono necessari entrambi i momenti, del timore e del servizio in
generale, così come quello del dar forma, e, allo stesso tempo, entrambi in una maniera universale. Senza la
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disciplina del servizio e dell’obbedienza il timore resta formale e non si diffonde sulla consaputa realtà
dell’esservi. Senza il dar forma, il timore resta interno e muto, e la coscienza non diviene per lei stessa. Nel
caso che la coscienza formasse senza il primo assoluto timore, essa sarebbe allora soltanto un vano senso
proprio; giacché la sua forma o negatività non sarebbe la negatività in sé; e quindi il suo formare non
potrebbe darle la coscienza di sé come dell’essenza. E se essa non ha sofferto il timore assoluto, ma solo una
qualche paura, allora l’essenza negativa è restata per lei qualcosa di estraneo e la sua sostanza non ne è stata
contagiata da cima a fondo. Dal momento che non è stato reso vacillante ognuno dei contenuti che
appartengono alla sua coscienza naturale, essa appartiene ancora, in sé, all’essere determinato; il senso
proprio è ostinatezza, una libertà che resta ancora bloccata nell’ambito della servitù. E allora, come la forma
pura non riesce a divenire ai suoi occhi l’essenza, così quella pura forma, considerata come espandersi nel
singolare, non è universale dar forma, né concetto assoluto, bensì una abilità che ha potere solo su qualche
cosa, non sulla potenza universale e su tutto l’essere oggettuale.
(G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di M. Paolinelli, Vita e Pensiero, Milano 1977,
pp. 11-17)
C. Soave, Evoluzione. Ma la “sintesi moderna” è riduttiva
Le specie di organismi viventi presenti oggi sulla terra e quelle scomparse sono l’esito di
trasformazioni morfologiche e funzionali avvenute nel lungo periodo dalla comparsa della vita sulla
terra (più di 4 miliardi di anni), trasformazioni che non intaccano tuttavia il legame ultimo di parentela
che lega tra loro tutti i viventi presenti e passati. In queste parole sta il concetto di evoluzione
biologica, il percorso storico dei viventi dentro il quale gli organismi oggi presenti sulla terra
discendono da antenati vissuti nei tempi passati fino ad una o poche forme iniziali: una discendenza
con modificazioni come formulato per la prima volta in modo sistematico da Charles Darwin ne
L’origine delle specie del 1859. Le prove a favore dell’evoluzione degli organismi viventi sono tali
che l’evoluzione stessa si deve considerare un fatto, molto più che un’ipotesi, e la ricerca si concentra
sul percorso storico dei viventi, sui meccanismi che operano nelle trasformazioni, sulle forze che
dirigono l’evoluzione nell’intento di formulare teorie che compiutamente spieghino il come e perché
dell’evoluzione.
La cosiddetta “sintesi moderna” è la teoria corrente della biologia evoluzionista. Si veda ad
esempio quanto afferma Charlesworth (1996) al proposito: «Most evolutionary geneticists would
agree that the major problems of the field have been solved (...). We will never again come up with
concepts as fundamentals as those formulated by the founding father». In breve i pilastri della sintesi
moderna sono:
-la forma/funzione di un individuo dipende dai geni che possiede;
-le modificazioni indotte dall’ambiente nei geni non sono trasmesse alla progenie, cioè i
caratteri acquisiti non sono ereditabili;
-le variazioni dell’informazione trasmissibile sono le variazioni dei geni (mutazioni) cioè del
DNA che li contiene.
-la mutazione è un evento casuale, nel senso che non c’è nessun rapporto tra il variante che si
produce e la funzionalità del prodotto che si genera;
- la possibilità di continuare ad esistere nel corso delle generazioni di ogni variante è il
risultato della selezione naturale (processo fisico che porta alla sopravvivenza ed al successo
riproduttivo differenziale di quegli individui con varianti vantaggiose in un particolare ambiente) e
quindi la persistenza di ciascun carattere risponde a necessità strettamente adattative.
È quindi la selezione naturale che si incarica di fissare le forme/funzioni dei viventi,
trasformando gradualmente gli organismi e producendo sia modificazioni delle specie nel tempo (con
il passare delle generazioni) che nuove specie (quando una popolazione si stacca o per motivi genetici,
o ambientali, dalla specie cui appartiene e dà origine ad una nuova specie).
In ultima analisi quindi la “sintesi moderna”, con i suoi successivi aggiornamenti, afferma che
l’evoluzione biologica risulta dalla selezione naturale che conduce alla lenta, cumulativa, graduale
sopravvivenza non casuale di mutazioni geniche casuali. Ma vediamo se la ricerca scientifica più
recente ha modificato in tutto o in parte i pilastri della teoria. Una prima importante modifica deriva
dall’applicazione delle tecnologie moderne (genomica, proteomica, metabolomica, ecc.). Queste
tecnologie documentano che la forma/funzione (il cosiddetto fenotipo) di un organismo è il prodotto
non della somma delle azioni di tanti geni, ma è il network, l’insieme del genoma, che opera. Non c’è
il “gene per” (come tanto spesso si legge sui giornali), ma c’è un’insieme di tante azioni geniche
coordinate. Inoltre, la rilevanza e diffusione nei viventi della plasticità fenotipica (quante forme
diverse può assumere un determinato genotipo quando esposto ad ambienti diversi) porta ad una
concezione non deterministica del genoma, ma ad una concezione dove i geni ed il genoma
contengono l’informazione per fare strumenti e non prodotti. Cosa fare con gli strumenti messi a
disposizione dal genoma dipende dall’ambiente in cui l’organismo si sviluppa e vive e dalla storia dei
suoi predecessori.
L’informazione trasmissibile alla progenie poi non è solo l’informazione contenuta nel DNA,
ma sono anche trasmissibili alla progenie quelle informazioni acquisite durante la vita dell’individuo
come l’informazione epigenetica sul DNA e su altre molecole (ad esempio i prioni) e, in proporzione
di gran lunga predominante nei livelli evolutivi più elevati, l’informazione culturale mediata da
apprendimenti non imitativi o imitativi e da linguaggi simbolici (si veda al proposito Jablonka e
Lamb, 2007). Ed ancora, la variazione (mutazione) dell’informazione trasmissibile a livello del DNA
è casuale, ma anche non casuale (si veda ad esempio la “global and local induced hypermutation”,
Wright, 2000); anche la variazione epigenetica non è casuale, come ovviamente anche la variazione
dell’informazione culturale.
Quanto sopra esposto ci sembra scuota fortemente alcuni pilastri della teoria neodarwiniana,
in particolare l’origine casuale della variazione dell’informazione ereditaria e l’assunto che il DNA, e
solo il DNA, è il depositario dell’informazione biologica trasmissibile. Vuol dire che la teoria è tutta
da abbandonare? Assolutamente no. La variazione dei geni sotto l’azione della selezione naturale
descritta dalla sintesi moderna è un processo che avviene, come anche avviene la mutazione casuale.
Quindi certamente c’è caso e necessità: il caso tuttavia è sempre meno rilevante man mano che si sale
nella scala evolutiva: più si avanza, più altri meccanismi all’origine della variazione dell’informazione
trasmissibile, si manifestano. Anche la necessità ovviamente esiste: è necessario l’adattamento,
altrimenti la vita sparirebbe. È evidente quindi che la “sintesi moderna” va integrata, allargata, resa
più ricca e sofisticata in modo tale da includere la pluralità di modalità di organizzazione e
trasmissione dell’informazione biologica che si riscontra man mano che si sale nella scala evolutiva,
come dice Pigliucci (2006) nel suo commento a quanto emerso all’ “Evolution Meeting” del giugno
2006 (Stony Brook University): «Does all of this mean that a much-heralded new synthesis in
evolutionary theory is around the corner? I think so, because new empirical and conceptual
developments continue to enrich evolutionary biology far beyond the intellectual horizons delineated
by the founding fathers» (si veda anche la recensione “Modernizing the modern synthesis”, Pennisi,
Science 2008, 321, 196-197).
Charlesworth, B., (1996) Curr. Biol. 6, 220.
Jablonka, E., Lamb, MJ., (2007). L’evoluzione in quattro dimensioni, UTET.
Wright, B., (2000). J. Bacteriol., 182, 2993.
*Ordinario di Fisiologia vegetale all’Università degli Studi di Milano
Articolo pubblicato in «Tracce», febbraio 2009
H. Bergson, La durata
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Se voglio prepararmi un bicchiere di acqua zuccherata, checché faccia, debbo pur aspettare
che lo zucchero si sciolga. Questo piccolo fatto è ricco d’insegnamenti: giacché il tempo dell’attesa
non è più quel tempo matematico che varrebbe per tutto il corso della storia del mondo materiale,
anche se questa avesse a dispiegarsi in un sol tratto dello spazio: essa coincide con la mia impazienza,
cioè con una parte della mia durata, che non si può allungare o abbreviare ad arbitrio. Non è più
qualche cosa di pensato, è qualcosa di vissuto; non è più qualcosa di relativo, ma di assoluto. [...]
L’universo dura. Più approfondiremo la natura del tempo, più comprenderemo che durata
significa invenzione, creazione di forme, elaborazione continua dell’assolutamente nuovo.
[...]
La durata reale è quella che morde le cose e vi lascia l’impronta del suo dente. Se tutto è nel
tempo, tutto cangia interiormente, e la stessa realtà concreta non si ripete mai. Quindi, la ripetizione è
possibile solo nell’astratto: ciò che si ripete è questo o quell’aspetto che i nostri sensi e soprattutto il
nostro intelletto hanno scisso dalla realtà, appunto perché la nostra azione - verso la quale è teso tutto
lo sforzo della nostra intelligenza - può muoversi solo tra ciò che si ripete. Così, concentrandosi su ciò
che si ripete e preoccupandosi solo di collegare l’identico all’identico, l’intelligenza distoglie lo
sguardo dal tempo. Ciò che è fluido le ripugna: essa solidifica tutto quel che tocca.
Noi non pensiamo il tempo reale. Ma noi lo viviamo, perché la vita spazia in un ambito più
vasto di quello dell’intelligenza. Il sentimento della nostra evoluzione e dell’evoluzione di tutte le
cose nella durata pura è là, presente, che disegna intorno alla rappresentazione intellettuale
propriamente detta un alone indistinto che si perde nella notte. Meccanicismo e finalismo si accordano
nel tener conto soltanto del nucleo luminoso che brilla al centro: essi dimenticano che tale nucleo si è
formato, per condensazione, a spese del resto, e che per cogliere il movimento interiore della vita
bisogna servirsi di tutto: di ciò che è fluido quanto e più di ciò che è condensato.
[...]
Appena usciamo dagli schemi in cui il meccanicismo e il finalismo radicale tengon chiuso il
nostro pensiero, la realtà ci appare come uno zampillio incessante di novità, ciascuna delle quali non è
ancora sorta per formare il presente che è già rinculata nel passato.
(H. Bergson, L’evoluzione creatrice, a cura di P. Serini, Mondadori, Milano 1962, pp. 69-71,
102-103)
S. Freud, La scoperta rivoluzionaria dell’inconscio
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Con questo risalto dato all’inconscio nella vita psichica abbiamo però risvegliato gli spiriti più
maligni della critica contro la psicoanalisi. Non meravigliatevene, né crediate che la resistenza contro
di noi derivi solo dalla comprensibile difficoltà dell’inconscio o dalla relativa inaccessibilità delle
esperienze che ne provano l’esistenza. A mio parere la sua origine è più profonda. Nel corso dei
tempi l’umanità ha dovuto sopportare due grandi mortificazioni che la scienza ha recato al suo
ingenuo amore di sé. La prima, quando apprese che la nostra terra non è il centro dell’universo, bensì
una minuscola particella di un sistema cosmico che, quanto a grandezza, è difficilmente immaginabile.
Questa scoperta è associata per noi al nome di Copernico, benché già la scienza alessandrina avesse
proclamato qualcosa dei simile. La seconda mortificazione si è verificata poi, quando la ricerca
biologica annientò la pretesa posizione di privilegio dell’uomo nella creazione, gli dimostrò la sua
provenienza dal regno animale e l’inestirpabilità della sua natura animale. Questo sovvertimento di
valori è stato compiuto ai nostri giorni sotto l’influsso di Charles Darwin, di Wallace e dei loro
precursori, non senza la più violenta opposizione dei loro contemporanei. Ma la terza e più scottante
mortificazione, la megalomania dell’uomo è destinata a subirla da parte dell’odierna indagine
psicologica, la quale ha l’intenzione di dimostrare all’Io che non solo egli non è padrone in casa
propria, ma deve fare assegnamento su scarse notizie riguardo a quello che avviene inconsciamente
nella sua psiche. Anche questo richiamo a guardarsi dentro non siamo stati noi psicoanalisti né i primi
né i soli a proporlo, ma sembra che tocchi a noi sostenerlo nel modo più energico e corroborarlo con
un materiale empirico che tocca da vicino tutti quanti gli uomini. Di qui la generale ribellione contro
la nostra scienza.
(S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, trad. it. M. Tonin-Dogana e E. Sagittario,
Boringhieri, Torino 1978, lez. 18, pp. 258-259)
S. Freud, L’interpretazione di un sogno
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Un esempio di sentimenti egoistici veramente bassi che si celano dietro una tenera
sollecitudine è offerto dal sogno seguente:
Il mio amico Otto ha un brutto aspetto, è brutto in viso e ha occhi sporgenti.
Otto è il mio medico di casa e sarò sempre in debito con lui perché da anni bada alla salute dei
miei figli, li cura con successo quando si ammalano e per di più coglie ogni pretesto possibile per far
loro dei regali. Il giorno prima del sogno ci aveva fatto visita e mia moglie aveva osservato il suo
aspetto stanco e abbattuto. Ed ecco di notte il mio sogno che gli presta alcuni dei sintomi del morbo di
Basedow. Chi, nell’interpretazione, si libera dalle mie regole, intende questo sogno nel senso che sono
preoccupato per la salute del mio amico e che questa preoccupazione si realizza nel sogno. Ciò
contraddirebbe non solo l’affermazione che il sogno è un appagamento di desiderio, ma anche l’altra
affermazione, secondo cui il sogno è accessibile solo a impulsi egoistici. Ma chi interpretasse in
questo senso potrebbe forse spiegarmi perché nel caso di Otto temo il morbo di Basedow, alla cui
diagnosi il suo aspetto non offre il minimo pretesto? La mia analisi fornisce invece il seguente
materiale, che proviene da un episodio accaduto sei anni fa. Con una piccola compagnia, di cui faceva
parte anche il professor R., attraversavo nella più profonda oscurità il bosco di N., distante alcune ore
dal nostro luogo di soggiorno estivo. Il cocchiere, che non era perfettamente lucido, mandò la carrozza
giù per un pendio e fu proprio una fortuna se riuscimmo a scamparla. Dovemmo però pernottare nella
più vicina locanda, dove la notizia del nostro incidente ci procurò grande simpatia. Un signore che
presentava i segni non misconoscibili del morbo di Basedow - non il gozzo del resto, solo il colorito
bruno del volto e occhi sporgenti, esattamente come nel sogno - si mise a nostra completa
disposizione e chiese che cosa potesse fare per noi. Il professor R. rispose col suo fare brusco.
“Nient’altro che prestarmi una camicia da notte”. Al che il nobiluomo: “Mi dispiace, ma questo no” e
se ne andò.
Continuando l’analisi, mi viene in mente che Basedow non è soltanto il nome di un medico,
ma anche quello di un celebre pedagogo. (Ora, da sveglio, non mi sento molto sicuro di questa
nozione). Ma l’amico Otto è proprio la persona a cui ho chiesto di vigilare, nel caso mi succedesse
qualcosa, sull’educazione fisica dei miei figli, soprattutto nel periodo della pubertà (di qui la camicia
da notte). Vedendo ora in sogno l’amico Otto con i sintomi della malattia di quel nobile soccorritore,
voglio dire evidentemente: “Se mi succede qualche cosa, ci sarà da aspettarsi da lui in favore dei figli
altrettanto poco, quanto a suo tempo dal barone L., nonostante le sue gentili offerte”. A questo punto
l’impronta egoistica del sogno dovrebbe essere palese.
Ma dove sta in questo caso l’appagamento di desiderio? Non nella vendetta perpetrata contro
l’amico Otto, il cui destino è ormai quello di essere bistrattato nei miei sogni, ma nella relazione
seguente: rappresentando nel sogno Otto come barone L., io identifico contemporaneamente la mia
persona con quella di un altro, vale a dire quella del professor R., perché chiedo qualche cosa a Otto
come in quella circostanza R. al barone L. Ed è questo il punto. Il professor R., al quale di solito per la
verità non oso paragonarmi, si è fatto come me la sua strada da solo, fuori della scuola ed è giunto
soltanto in età avanzata al titolo che meritava da gran tempo. Ancora una volta dunque voglio
diventare professore! Anzi, persino “in età avanzata” è un appagamento di desiderio, poiché significa
che vivrò abbastanza a lungo per guidare io stesso i miei ragazzi nel periodo della pubertà.
(S. Freud, L’interpretazione dei sogni, trad. it. E. Facchinelli e H. Trettl, Boringhieri, Torino
1973, pp. 254-256)
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