Nuove forme di intercezione e di contra gestazione (Dignitas
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Nuove forme di intercezione e di contra gestazione (Dignitas
Nuove forme di intercezione e di contra gestazione (Dignitas personae, 23) Dentro il cammino con l’uomo via della Chiesa L’Istruzione Dignitas personae si colloca all’interno dello statuto ecclesiologico del popolo di Dio, che condivide. Infatti l’immagine ecclesiologica di popolo di Dio afferma la storicità e la realtà della Chiesa come avvenimento, realtà che fa la storia insieme a tutti gli uomini. Esso infatti non è una realtà al di fuori del mondo o di fronte a lui (cfr. lG 9). In continuità con la realtà biblica ed ebraica, la Chiesa continua ad essere un popolo pellegrinante non nella solitudine del deserto, ma nel legame profondo con tutti i popoli e tutti gli uomini. L’affermazione della dimensione storica del Popolo di Dio riprende la vocazione ecclesiale della sua comunione profonda e spirituale con la vita e la storia degli uomini, la sua volontà di raggiungere gli uomini nel cuore della loro esistenza (cfr. GS 11). Questo orizzonte ecclesiologico sta a fondamento dell’intervento della Congregazione che ha predisposto «una nuova Istruzione di natura dottrinale, che affronta alcune problematiche recenti alla luce dei criteri enunciati nell'Istruzione Donum vitae» (n. 2). Fra queste problematiche vi sono «nuove forme di intercezione e contragestazione. Accanto ai mezzi contraccettivi propriamente detti, che impediscono il concepimento a seguito di un atto sessuale, esistono altri mezzi tecnici che agiscono dopo la fecondazione, quando l’embrione è già costituito, prima o dopo l’impianto in utero. Queste tecniche sono intercettive, se intercettano l’embrione prima del suo impianto nell’utero materno, e contragestative, se provocano l’eliminazione dell’embrione appena impiantato» (n. 23). In una parola, «l’uso dei mezzi di intercezione e di contragestazione rientra nel peccato di aborto ed è gravemente immorale. Inoltre, qualora si raggiunga la certezza di aver realizzato l’aborto, secondo il diritto canonico, vi sono delle gravi conseguenze penali». L’Istruzione vi dedica tutto il n. 23, che costituisce appunto l’esposizione della presente riflessione L’itinerario Il contributo si articola nei seguenti punti: principalmente viene individuato il cammino dell’insegnamento ecclesiale sulla contraccezione ormonale dall’Humanae vitae a Dignitas personae; un secondo punto chiarisce i dinamismi indotti dall’assunzione dei diversi preparati e dei dispositivi intrauterini attualmente presenti sul mercato; un terzo specifica la natura morale dei diversi preparati, nella determinazione del peccato di aborto e delle sue eventuali conseguenze canoniche; un quarto affronta i temi etici correlati al ricorso alle metodiche di intercezione e di contragestazione, quali il consenso informato del Comitati etici, l’obiezione del medico e del farmacista, il tema pastorale della cooperazione del coniuge che volontariamente ricorre a mezzi contraccettivi con effetti abortivi; un quinto, quello conclusivo, spazia su alcune valutazioni di ordine ecclesiale, linguistico ed etico. Un cammino ecclesiale/materno: dalla Humanae vitae a Dignitas personae L’esordio del numero 23, affidato alla mia riflessione, pone il discorso delle tecniche intercettive e di quelle contragestative nel grande capitolo della contraccezione. In realtà specifica che tali tecniche si pongono «accanto ai mezzi contraccettivi propriamente detti». Una tale contestualizzazione dell’esposizione e della valutazione etica delle tecniche intercettive e di quelle contragestative, ci rimanda a considerare quale legame esiste tra la contraccezione da una parte e la intercezione e la contragestazione dall’altra, a motivo anche della indebita e ambigua inclusione di tali metodiche nei contraccettivi. Ciò allo scopo di sapere adeguatamente apprezzare sia la continuità che la discontinuità morale tra l’una e l’altra forma di intervento. Per cui, anche se in forma indiretta, a mio parere, Dignitas personae buca il periodo temporale di Donum vitae e ripropone l’attualità della stessa Humanae vitae, di cui, sia pure indirettamente, esalta il valore profetico e intende essere un aggiornamento. Infatti, tali tecniche si pongono dentro una pianificazione internazionale della regolazione della procreazione o del controllo della popolazione, assumendo l’aborto quale naturale compimento del fallimento della contraccezione strettamente intesa. Tanto più che questi nuovi prodotti e tecniche impiegati vengono erroneamente propagandati e inclusi tra i contraccettivi. Basterebbe esaminare il formulario del consenso informato dei Comitati etici, come avrò modo di osservare a conclusione di questo intervento. Si rivela così la radice comune della contraccezione strettamente intesa e dello stesso aborto quale metodo di controllo delle popolazioni con un’inquietante prospettiva strategica, che affonda le sue radici culturali agli inizi degli anni ’50 del XX sec.. Al momento della pubblicazione del documento profetico di Paolo VI, non si aveva certo la consapevolezza scientifica del legame intrinseco tra la contraccezione ormonale e la intercezione e la contragestazione, ovvero l’aborto. Ad essere più precisi, però, «già negli anni ’50, durante le prime sperimentazioni, era stato evidenziato come il meccanismo di azione della pillola estroprogestinica non fosse dovuto solo alla prevenzione dell’ovulazione e all’inibizione della capacitazione spermatica, ma anche all’alterato trasporto dell’embrione e all’impedimento del suo impianto e dello sviluppo». Ma gli studi sull’argomento individuavano principalmente la dimensione contraccettiva. Donum vitae, chiamata quasi vent’anni dopo, a rispondere sulle nuove tecniche di procreazione assistita, non ne fa per nulla menzione, centrata come è sulle nuove tecniche di riproduzione. Però, già nel 1986, l’Episcopato Britannico comincia a porre a tema il profilo morale diverso di tali contraccettivi dai contraccettivi strettamente intesi. In particolare, cominciano delle pubblicazioni scientifiche di primo piano, soprattutto ad opera di M.L. Di Pietro e dello staff del Gemelli, che su Medicina e Morale conducono un aggiornamento puntuale e scientificamente fondato. E ciononostante, la convinzione degli oppositori all’insegnamento di Humanae vitae, era riassunta nello slogan molto efficace dal punto di vista pubblicitario: «Prevention is better than abortion», con grave accusa alla Chiesa cattolica di favorire l’aborto, negando la liceità del ricorso alla contraccezione. Riuscendo così a spacciare che la contraccezione era mille miglia lontana dall’aborto, mentre lo covava e lo portava dentro. Quello che diviene certo agli occhi degli osservatori, è che tutte le ricerche mostrano lo stupore dei ricercatori dinanzi alla mancata diminuzione significativa del ricorso all’aborto nelle società ad alta percentuale contraccettiva con la facile conclusione che la fine volontaria della gravidanza non era necessariamente dovuto a un concepimento involontario, ma alla forzata e ingenerata convinzione dell’infallibilità della contraccezione, che in ogni caso non poteva mancare In realtà, il ricorso alla contraccezione soprattutto orale non si mostrò per nulla neutra, ma indusse principalmente una mentalità abortiva, ovvero di ricorso all’aborto quale via di regolazione delle nascite in caso di fallimento contraccettivo e cominciò a rilevare il suo profilo completo: la contraccezione ormonale non evitava in forma assoluta l’ovulazione e/o l’incontro dello spermatozoo con l’ovulo, ma interveniva anche sull’ovulo fecondato nei primissimi stadi di sviluppo, impedendone l’annidamento (azione intercettiva della contraccezione ormonale) o ne espelleva l’ovulo impiantato nell’endometrio (azione contragestativa). Il tema aborto quale prolungamento della metodica contraccettiva avveniva, dunque, a livello culturale, di induzione a considerare l’aborto quale pratica banale e normale di prevenzione delle nascite, ma anche a livello endogeno, ovvero del dinamismo biologico inscritto nella natura di tali metodiche. Come si esprime un documento del Pontificio Consiglio della Famiglia, elaborato dopo il Concistoro dei Vescovi del 1991, la connessione tra contraccezione e aborto passa da un piano squisitamente psicologico e sociocologico, ovvero culturale, a un piano di «natura biologica e operativa, talora indipendentemente dalla consapevolezza delle donne e, per certi preparati, anche al di là dell’avvertenza dei medici. La stessa mancanza di conoscenza si verifica spesso nei riguardi dei dispositivi intrauterini». Infatti, «oggi – oltre i mezzi meccanici (come la spirale) – vengono sperimentati e utilizzati su larga scala composti chimici che sono contemporaneamente contraccettivi e abortivi, oppure sono preparati e sperimentati come abortivi veri e propri» (EV 13/1612). Il primo documento che fa esplicito riferimento a tali metodiche, senza ancora impiegare la terminologia di intercettivi e di contragestativi, è il testo del Pontificio Consiglio per la Famiglia, Pubblicando questo testo del 25 marzo 1994[1]. Il Capitolo II della Seconda Parte è dedicato a “I metodi di controllo della popolazione”. Il tema è trattato principalmente a livello culturale programmatico come impegno di una «vasta rete internazionale di organizzazioni finanziariamente ben provviste che mirano alla riduzione della popolazione»[2]. Tali organizzazioni operano assieme a «compagnie che organizzano, producono e distribuiscono sostanze o dispositivi contraccettivi (come il dispositivo “intrauterino”), o che raccomandano la sterilizzazione o perfino l’aborto»[3]. Tali campagne vengono anche sostenute dai governi e sono promosse «in nome della salute e del benessere della donna e si indirizzano anche ai giovani sotto forma di programmi di educazione sessuale antinatalista»[4]. Oltre ai metodi tradizionali (meccanismi, coito interrotto) venivano menzionati, per la prima volta a livello ufficiale, i mezzi nuovi utilizzati, quale la contraccezione ormonale, di larga diffusione a livello internazionale, che assumevano due forme di configurazione sia di intercezione che di contragestazione, forme che creano e pongono problemi nuovi alla considerazione etica. Il documento non usa ancora i termini di “intercezione” e “contragestazione”, ma la sostanza è già ben sviluppata. Infatti, le pillole di prima generazione, le cosiddette estroprogestative tendevano essenzialmente a bloccare la liberazione dell’ovulo, rendendo impossibile il concepimento. Ma già le nuove pillole presentate come contraccettive in realtà alcune esercitano, secondo i casi, diversi effetti: «1. Essi modificano la struttura del muco cervicale rendendolo impenetrabile agli spermatozoi. 2. Essi modificano la mobilità della tromba di Falloppio impedendo il passaggio dell’ovulo fecondato dalla tromba alla cavità uterina. 3. Essi alterano lo sviluppo normale dell’endometrio, rendendolo inadatto all’insediamento dell’embrione. Questi ultimi due effetti sono abortivi e sono prevalenti quando la pillola estroprogestativa non riesce a bloccare l’ovulazione e conseguentemente a funzionare come contraccettivo». Prosegue il documento: «Così la pillola agisce sia per impedire il concepimento, sia per impedire l’annidamento dell’ovulo fecondato, cioè di un individuo della specie umana. In quest’ultimo caso, e a dispetto degli eufemismi che si usano in queste materie, queste pillole producono un aborto dell’ovulo fecondato» Ivi, nota 22. Il documento fa riferimento anche ad altri nuovi mezzi della contraccezione ormonale che vengono così specificati in nota: «Oltre alla pillola estroprogestativa, ci sono in commercio altri prodotti ormonali definiti ingiustamente come contraccettivi. Essi agiscono in realtà impedendo il proseguimento della gravidanza che si interrompe con un aborto. Si tratta di pillole o di sostanze iniettabili o impiantabili (come il Norplant) che alterano l’endometrio e la mobilità delle trombe, senza bloccare l’ovulazione e agiscono dunque come abortive. Tali sostanze possono essere somministrate alla donna in modo continuo o nel caso di rapporti che sono ritenuti atti a fecondare (“la pillola del giorno dopo”)»[1]. Pertanto una donna che ricorre a uno di questi farmaci, «non ha dunque mai la possibilità di sapere esattamente che cosa avviene, né, in particolare, di sapere se abortisce»[2]. L’anno successivo, ben riassume Giovanni Paolo II, in Evangelium vitate, n. 13: «Si afferma frequentemente che la contraccezione, resa sicura e accessibile a tutti, è il rimedio più efficace contro l'aborto. Si accusa poi la Chiesa cattolica di favorire di fatto l'aborto perché continua ostinatamente a insegnare l'illiceità morale della contraccezione». Aggiunge il pontefice: «L'obiezione, a ben guardare, si rivela speciosa». Di fatti per chi ricorre alla contraccezione la tentazione dell’aborto è forte, «di fronte all'eventuale concepimento di una vita non desiderata», l’aborto è vissuto quale unica possibile risposta risolutiva di fronte ad una contraccezione fallita. Anche se «contraccezione ed aborto, dal punto di vista morale, sono mali specificamente diversi …], essi sono molto spesso in intima relazione, come frutti di una medesima pianta». Nemmeno il Vademecum per i confessori del 12/2/1997 adotta la terminologia, mentre menziona mezzi contraccettivi con effetti abortivi dentro il tema della cooperazione al male al peccato del coniuge che ne fa uso (n. 14). Il 31 ottobre del 2000, a seguito dell’autorizzazione della vendita della pillola del giorno dopo, la Pontificia Accademia per la Vita, pubblica un Comunicato Come è noto, annoverando la capacità di intercezione (impedire che avvenga l’impianto dell’ovulo fecondato, cioè dell’embrione nella parte uterina) nel profilo etico dell’aborto e non di semplice «antinidatorio» che vorrebbe suggerire così una netta separazione tra aborto e intercezione (EV 19/354). Il tema viene ripreso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nella Notificazione Uno dei compiti riguardanti alcuni scritti del r.p. Marciano Vidal C.Ss.R., 22 febbraio 2001, dove si condanna la posizione dell’Autore secondo cui «i metodi intercettivi, vale a dire quelli che agiscono dopo la fecondazione e prima dell’impianto, non sono abortivi» (EV 20/292). Il 14 settembre del 2001, il Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, per gli Itineranti e i migranti, e per la Famiglia pubblicano una Nota congiunta La salute riproduttiva dei rifugiati. Una nota per le Conferenze episcopali, dove si prende posizione contro le proposte del Field Manual, libro pratico sulle modalità dell’assistenza ai rifugiati nell’ambito della cosiddetta salute riproduttiva, pubblicato nel 1999 dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR), in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA) e alcune Ong. Tale manuale presenta la pillola del giorno dopo o la c.d. contraccezione di emergenza come un contraccettivo. Specifica la Nota: «Ma la realtà è che non è solo contraccettiva, perché in caso di fecondazione avvenuta si produrrebbe un aborto chimico operato nei primi giorni della gravidanza. L’OMS relativizza lo statuto biologico dell’embrione nei primi giorni, chiamandolo “pre-embrione”, vale a dire un cumulo di cellule. Abbiamo qui un sofisma perché una tale denominazione non corrisponde a una base biologica precisa» (EV 20/1787). Si schiera anche contro «i mezzi di controllo della natalità promossa dal Field Manual, anche a causa del loro ben noto effetto abortivo (cap. VI): si tratta della pillola contraccettiva a base di progestinici (“mini-pillola”), dei contraccettivi iniettabili (Depoprovera) o di impianti sottocute (Norplant), e della spirale (IUD)» (EV 20/1788). Il n. 23 di Dignitas personae riassume il cammino fin qui percorso, assumendolo dentro l’ambito dell’insegnamento magisteriale strettamente inteso . Un rapido riassunto e transito Siamo così giunti a quel sommario proprio del n. 23 di Dignitas personae che riassume il percorso compiuto anche dalla riflessione ecclesiale, dando valore magisteriale strettamente inteso all’inserimento degli intercettivi e dei contragestativi all’interno del profilo etico dell’aborto. Non tanto si parla delle diverse tecniche ad azione contraccettiva, che impediscono (contra) in modo temporaneo il concepimento (cezione), intervenendo in modo che la cellula uovo non si incontri con lo spermatozoo nel terzo esterno della tromba di Falloppio (n. 1 della figura 1). Tale azione di controllo esteriore si ha alterando il rapporto sessuale con la contraccezione meccanica (profilattico, diaframma) o con la contraccezione ormonale che altera fisicamente il corpo dell’uomo o della donna in modo che l’atto coniugale non abbia conseguenze di concepimento. Ma la contraccezione ormonale non solo impedisce la fecondazione e l’inizio della gravidanza, ma, una volta che la gravidanza ha avuto inizio, interviene sull’ovulo fecondato bloccando il suo cammino e il suo sviluppo (metodi intercettivi: (n. 2 della figura 1) o provocando il distacco, la morte e l’eliminazione dell’embrione annidatosi (metodi contragestativi: n. 3 della figura 1). Tanto che da alcuni autori è stata proposta una nuova definizione di contraccezione: «l’opposizione all’evento di una gravidanza (e non di una fecondazione), tramite mezzi di efficacia temporanea»[1]. La loro azione potrebbe essere così configurata, secondo lo schema della figura che di seguito riporto: I metodi intercettivi e il loro meccanismo di azione. La Istruzione riporta in nota, la 42, fra i più noti metodi intercettivi la spirale o IUD (Intra Uterine Device) e la cosiddetta pillola del giorno dopo[1]. La spirale o IUD è un dispositivo intrauterino di plastica o di altro materiale (ad es., l’argento) di forma varia (a T, a zampa di oca, ecc.): ad alcune di queste attorno al supporto è avvolto a spirale (da cui il nome) un filo di metallo. Quelle a forma di T sono dotate di micro depositi contenenti, nel braccio corto, un progestinico a rilascio lento nella cavità uterina. La presenza del progestinico a rilascio lento, il metallo usato, potenziano l’azione della spirale di plastica, determinando l’ostilità dell’endometrio uterino all’embrione che non può impiantarsi. Si sostiene da alcuni autori che l’azione della spirale sia quella di un contraccettivo di barriera, che impedisce cioè la risalita degli spermatozoi. A conforto di tale posizione si avanza il mancato aumento della beta-hCG come ci si aspetterebbe all’inizio di una gravidanza. Ma gli studi hanno mostrato che nel 100% delle donne portatrici di spirale gli spermatozoi sono presenti sia nell’utero che nel lavaggio tubarico, mentre il dosaggio della beta-hCG quale indicatore di un avvenuto concepimento esitato poi in aborto è stato indagato in un periodo precoce della gravidanza non in grado di evidenziare un aumento di tale ormone. La convinzione dei più è che la spirale agisce sull’attività dell’endometrio uterino alterando l’attività del gene della citocina endometriale, implicata nei processi di moltiplicazione cellulare. Prova ne è anche il fatto che le portatrici di spirale subiscono la più elevata incidenza di gravidanze ectopiche, non uterine: l’embrione eventualmente concepito non è in grado, sia per ostacolo meccanico che per alterazione funzionale della tuba, di pervenire nella cavità uterina e quindi si impianta nella tuba stessa. In una parola la presenza della spirale determina una reazione infiammatoria da corpo estraneo. La spirale può essere messa in permanenza nell’utero della donna o inserita subito dopo un rapporto sessuale presunto fecondante, fino a 5-6 giorni dopo l’ovulazione. Anche in questo caso, avviene una modificazione repentina della struttura dell’endometrio uterino, ostile all’impianto dell’embrione e quindi con effetto abortivo. In questo caso viene inserita nella cosiddetta contraccezione post-coitale o di emergenza o di urgenza , di cui, però, il preparato meglio e comunemente conosciuto è quella della pillola del giorno dopo. La pillola del giorno dopo, ormone affine al progesterone, detto levonorgestrel, il cui nome commerciale è il Norlevo, non corrisponde alla RU486, di cui diremo nei metodi contragestativi: è costituita da tutti i preparati a base di ormoni (essa può contenere estrogeni, estroprogestinici, oppure solo progestinici) che vengono somministrati entro 72 ore da un rapporto sessuale presunto fecondante. Tale prodotto può agire sia da contraccettivo strettamente inteso se preso qualche giorno prima dell’ovulazione, inibendo l’ovulazione, sia, se assunto dopo l’ovulazione, ostacolando la fecondazione, sia rallentando il trasporto dell’ovocita, sia agendo sulla capacità spermatica. Viene così reso difficile l’incontro tra l’ovocita e lo spermatozoo. A tale azione strettamente contraccettiva, sono molti gli autori che sostengono invece il meccanismo intercettivo della pillola del giorno, perché induce sempre una modificazione nell’endometrio che ostacola l’impianto dell’embrione, impedendo l’annidamento della blastocisti nella mucosa della parete uterina. In particolare, quando è assunta ad ovulazione avvenuta, l’unica modalità di azione è propria quella antinidatoria, con l’espulsione dell’embrione con effetto abortivo. Ma, obiettano gli operatori del settore, la pillola riproduce un evento spontaneo osservato in natura: oltre il 50% degli embrioni manca l’impianto. Ciò non significa che vada imitato il fenomeno, provocandolo intenzionalmente: l’evento non è ancora un valore da prendere in senso normativo. Passando dall’essere al dovere essere (e al poter fare) si opera un salto in cui è facile ingannarsi, cadendo appunto nella fallacia naturalistica. Rimane certamente incerto quale meccanismo attivi l’assunzione della pillola del giorno dopo, a motivo che nessuno sa con precisione quando avviene l’ovulazione. Per questo in modo corretto, pertinente e chiaro, l’Istruzione precisa: « Per favorire la diffusione dei mezzi intercettivi, si afferma talvolta che il loro meccanismo di azione non sarebbe sufficientemente conosciuto. È vero che non sempre si dispone di una conoscenza completa del meccanismo di azione dei diversi farmaci usati, ma gli studi sperimentali dimostrano che l’effetto di impedire l’impianto è certamente presente, anche se questo non significa che gli intercettivi provochino un aborto ogni volta che vengono assunti, anche perché non sempre dopo il rapporto sessuale avviene la fecondazione. Si deve notare, tuttavia, che in colui che vuol impedire l’impianto di un embrione eventualmente concepito, e pertanto chiede o prescrive tali farmaci, l’intenzionalità abortiva è generalmente presente» (n. 23). A riguardo va osservato ancora dal punto di vista etico: lo stato di incertezza in cui si viene a trovare la coscienza, se si tratti di azione contraccettiva o abortiva, a motivo del valore in gioco, quello della vita umana, induce in ogni caso ad astenersi, propendendo per una posizione tuziorista. Inoltre, sul piano etico è aborto ogni azione intenzionale che si ponga anche come eventuale impedimento dell’annidamento nel caso in cui fallisca l’azione contraccettiva. Per cui, in questo caso, si compie il peccato di aborto, ma non si cade nella scomunica, perché non si è certi dell’effetto accaduto. Su ciò mi fermerò più avanti. Invece vale la pena soffermarci su due obiezioni che vengono poste anche nel caso che il levonogestrel impedisca l’annidamento: l’ovulo fecondato viene considerato una massa di cellule su cui potere operare con libertà assoluta e si utilizza una nuova definizione di gravidanza. Sia l’una che l’altra obiezione provengono dall’Organizzazione mondiale della Sanità e da altre associazioni/ONU. Come abbiamo già visto, l’OMS considera lo statuto biologico dell’embrione nei primi giorni una massa cellulare, coprendo tale decisione chiamandolo “pre-embrione”. Ma, a ben vedere, non è che una manipolazione del linguaggio. In realtà non esiste lo zigote, il pre-embrione, l’embrione e il feto, che costituiscono fasi di sviluppo di un vivente, ma l’individuo o l’essere umano nelle diverse fasi di zigote, embrione, ecc., che tutti abbiamo attraversato e attraversiamo. Per cui sotto il profilo etico tali stati successivi hanno un’identica rilevanza etica, senza alcuna gradualità di dignità. Perché «l’essere umano è da rispettare – come una persona – fin dal primo istante della sua esistenza» (Donum vitate, I,1: EV 10/1174, ripreso da Dignitas personae come uno dei capisaldi del ragionamento etico) Quanto alla definizione di gravidanza fino al 1985 la si definiva «come stato fisiologico della donna incinta che inizia con la fecondazione e termina con il parto». Da allora, un comitato della Federazione Internazionale dei Ginecologi, voluto dalla Organizzazione Mondiale della salute, ha definito la gravidanza come l’impianto dell’embrione nella parete uterina. Quest’ultima definizione prende atto della fecondazione artificiale extracorporea, che produce e mantiene in provetta nelle prime fasi dello sviluppo l’embrione, che quando viene trasferito nell’utero della madre dà inizio al periodo della gravidanza strettamente inteso con valore squisitamente antropologico e non meramente tecnico. Su tale assunto si obietta da molti che la prescrizione o la vendita di tali farmaci non sia un abortivo! Ma una tale definizione di lavoro, funzionale alle esigenze pratiche della clinica, non può dotarsi di una carica di portata antropologica ed etica. Per tre ragioni: primo, perché tale definizione distingue più propriamente tra inizio della vita umana, che avviene in ogni caso in provetta tanto che l’essere umano costituitosi si sviluppa per autonomia propria nell’inscrizione del suo genoma e affermandosi non come parte o materiale biologica della mamma, e inizio della gravidanza; secondo, il caso della pillola del giorno dopo realizza la prima definizione con tutta la sua portata umana ed etica: il rapporto che si instaura tra madre e figlio è immediato e interno, ponendo in tutta la sua drammaticità la complessa problematica dell’aborto; terzo, perché diversamente, a motivo della prescrizione di tale farmaco da parte del medico, la gravidanza muterebbe la sua fisionomia di stato di salute della donna configurandosi come malattia che una terapia, la pillola del giorno dopo, dovrebbe curare! I metodi contragestativi e il loro meccanismo di azione Sono considerati contragestativi un insieme di prodotti volti a interrompere la gravidanza dopo l’annidamento dell’embrione. Il loro utilizzo è alternativo all’aborto chirurgico, che, in tal caso, viene chiamato comunemente aborto medico, anche se, nei casi di fallimento, si associa a quello chirurgico. L’Istruzione annovera tra i principali metodi di contragestazione la pillola ru486 o Mifepristone, le prostaglandine e il Methotrexate. Comparsa in contemporanea con la pillola del giorno dopo, in realtà la pillola ru486 o Mifepristone è un prodotto commercializzato negli Stati Uniti a partire dal 24 settembre 2004. La sostanza attiva della ru486, il mifepristone, è un antiprogestinico, messo a punto agi inizi degli anni ’80 dai ricercatori del laboratorio francese Roussel-Uclaf, diretto da Étienne-Émile Baulieu. Il mifepristone agisce come antagonista del progesterone che viene secreto dal corpo luteo a seguito dell’ovulazione, nella fase luteinica del ciclo mestruale e fino a circa il 50° giorno della fecondazione. Permette la decidualizzazione dell’endometrio, necessaria per l’annidamento. Avvenuto l’annidamento, il progesterone, vero responsabile del prosieguo della gravidanza, rende il miometrio uterino poco responsivo a fattori stimolanti come le prostaglandine e l’ossitocina, assicura la chiusura del collo dell’utero, informando il sistema ipotalamo-ipofisario ove inibisce la liberazione di LH (Luteiningig-Hormone). Il cammino successivo della gravidanza è assicurato dal progesterone secreto del corpo luteo fino a quando ha inizio la secrezione placentare di progesterone (shift luteo-placentare). Il mifepristone penetra nei recettori del progesterone, interrompendo la loro attività e agendo come antiprogestinico. Quando ciò accade si hanno diverse alterazioni, a cominciare dalla decidua dell’endometrio, con lo sfaldamento, il sanguinamento e il distacco del trofoblasto. Tutto ciò causa la riduzione dei livelli di hCG (human Chorionic Gonadotropin) e la conseguente luteolisi e la riduzione dei livelli di progesterone. Le cellule endometriali in disfacimento liberano le prostaglandine e in specie la prostaglandina F2α e producono le contrazioni del miometrio determinando l’espulsione dell’embrione attraverso il canale cervicale, dilatato dall’azione del mifepristone. L’effetto abortivo del mifepristone avviene soprattutto nelle prime fasi della gravidanza quando i livelli di progesterone sono ancora bassi. Il protocollo di somministrazione prevede: il 1° giorno una singola dose di mifepristone; al 3° giorno dalla somministrazione del farmaco, un esame ecografico e/o clinico verifica se l’aborto è avvenuto; in caso negativo, si somministra una singola dose di misoprostolo, che è una prostaglandina, monitorando la donna almeno quattro ore; al 14° giorno dalla somministrazione di minoprostolo, si controlla se l’aborto si sia verificato. Nei capersi in cui l’aborto è incompleto o la gravidanza continua (tra 2-12%), la donna viene sottoposta all’aborto chirurgico per paura delle malformazioni che il misoprostolo potrebbe aver causato all’embrione. Il mifepristone viene sempre associato sia all’impiego delle prostaglandine che, in caso di fallimento, del ricorso all’aborto chirurgico. Anche le prostaglandine vengono prescritte a scopo abortivo anche oltre il 50° giorno dal concepimento. Somministrate per via endovenosa, intramuscolare o endovaginale, producono lo stesso meccanismo di riduzione della produzione di progesterone, sfaldamento dell’endometrio uterino, distacco dell’embrione già annidatosi e aumento della contrattilità del miometrio. Valutazione etica Il meccanismo di azione degli intercettivi è tale da non provocare un aborto ogni volta che vengono assunti, anche perché non sempre dopo il rapporto sessuale avviene la fecondazione. La sola probabilità prevista che questo possa avvenire rende l’intenzionalità di chi la prescrive e di chi la usa abortiva. Correttamente perciò – si legge al n. 23 della Istruzione Dignitas personae – «in colui che vuol impedire l’impianto di un embrione eventualmente concepito, e pertanto chiede o prescrive tali farmaci, l’intenzionalità abortiva è generalmente presente». Perciò la prescrizione e l’uso dei mezzi intercettivi rientra nel peccato di aborto, anche se, non potendo sapere dell’effetto ottenuto, chi lo prescrive e/o chi lo richiede e lo usa non cade nella scomunica latae sententiae prevista per l’aborto non solo attentato ma realmente accaduto, di cui si ha certezza. L’aborto, infatti, è ogni azione resa intenzionalmente atta a produrre la morte dell’essere umano fin dal suo concepimento fino al momento del parto, ovvero da una modalità di azione scaturente dalla propria libera volontà (come actus humanus). L’oggetto morale dell’azione si riferisce sempre a ciò che si fa quando qui e adesso si fa qualcosa con un’intenzione, che già specifica l’azione scelta liberamente. Tale visione dell’azione morale si deve anche all’intrinseca unità di corpo e spirito in cui si dà la sostanza della persona umana. Agostino in una fine analisi dell’unità psicofisica dell’uomo e in riferimento all’avvertenza di Gesù, che la sede del peccato è il cuore dell’uomo, da cui procedono tutte le azioni negative (cf Mt 23, 26; 15, 11, conclude: «Nulla (gli uomini) eseguono col corpo, nel campo dell’azione, se prima non si siano pronunciati col cuore. Ci sono pertanto molti peccati nelle scelte interiori dello spirito che non sono seguiti da opere esterne; mentre non ci sono peccati esterni di opere, che non siano preceduti da decisioni interne del cuore» Circa la valutazione etica dei contragestativi, che per definizione sono azioni non solo intenzionalmente abortive, che possono provocare l’aborto, ma sempre abortive perché interrompono la gravidanza dopo l’annidamento dell’embrione nella parete uterina, sia chi le prescrive che chi li richiede e li utilizza cade sempre nel peccato di aborto e incorre nella scomunica latae sententiae. Perché la sua dinamica richiede inevitabilmente l’aborto completo. Oltre al profilo etico dell’aborto, che si dà nel ricorso ai metodi intercettivi e contragestativi, pur con sfumature e accentuazioni diverse, vanno ben considerati gli effetti collaterali negativi per quanto riguarda la salute della donna. Dal punto di vista etico, restiamo nell’ambito della vita e della salute, ma in questo caso riguarda la donna stessa. Normalmente per i metodi suddetti la letteratura ama molto sottolineare i presunti vantaggi per la donna (assenza di complicanza per aborto chirurgico, maggiore privacy, maggiore disponibilità per il partner, ecc.). In realtà, già per la spirale, a seguito anche dell’esperienza pastorale del confessionale e della direzione spirituale, la maggiore libertà cui apre la sicurezza del metodo impiegato, conduce a uno sviluppo non virtuoso del rapporto coniugale, a una strumentalizzazione reciproca, specie del corpo della donna, e facilmente anche alla separazione e al divorzio. Inoltre, oltre a produrre sempre un aborto, perché impedisce l’impianto dell’embrione, i suoi effetti collaterali sono individuati in piccoli stillicidi ematici e talvolta in una certa dolorabilità. Come si è visto, si va incontro a qualche gravidanza extrauterina. Si verificano anche infezioni all’utero e, più raramente, l’accidentale “perdita” o l’inserimento in profondità della spirale stessa, tale da ostacolare la successiva rimozione. Si verifichino principalmente malattia infiammatoria pelvica e malformazioni o deformazioni uterine. Non è per nulla opportuno somministrarle a donne che ancora non hanno partorito. I contragestativi, oltre all’aborto procurato, incorrono nella stima etica negativa per gli avventi avversi che sono anche sottodimensionati o minimizzati. Una particolare attenzione va riservata alla chiarificazione etiopatogenetica delle emorragie e delle sepsi, dalle quali si sono riscontrati anche diversi decessi. Inoltre, il fatto che si tratti di aborto chimico o medico e non chirurgico, non modifica il carattere e la ricaduta psicologica dell’aborto stesso, che permane come una ferita o trauma psichico per la donna. A tutti è noto che il ricorso volontario all’aborto è una ferita grave per la donna. Purtroppo il modo scelto di abortire non esonera la donna dalla sindrome post/abortiva, i cui danni e sintomi possono manifestarsi a lungo termine, dopo diversi anni. Anzi proprio la privatizzazione può aumentare il senso di angoscia femminile a motivo dell’isolamento in cui lo vive e per il fatto che oltre a scegliere l’aborto deve anche decidere la modalità di intervento[1]. Gli studi hanno rilevato che la donna che in prima gravidanza ha abortito, è portata ad assumere sostanze d’abuso con una frequenza maggiore di cinque volte rispetto a donne che hanno regolarmente partorito e quattro volte maggiore rispetto a donne che hanno abortito per cause naturali. Tra le donne che hanno abortito volontariamente maggiore sembra essere il rischio di suicidio. Alcune donne, infine, che hanno scelto di ricorrere al mifepristono-misoprostolo, riferiscono un vissuto di problematicità per il fatto che non sanno quando e dove di fatto si avrà questa perdita emorragica, cioè l’aborto; il dato riferito più rilevante come negativo è che la donna «vede l’embrione abortito». Per cui i contragestativi non solo lasciano sul campo centinaia di migliaia di morti innocenti, ma anche le “sopravvissute”, a cui sembra di avere facilitato la vita, di fatto vivono con più intensità morale ed emotiva il trauma abortivo. Con una ricaduta negativa della loro presenza sociale nei diversi ruoli in cui la vita chiama ciascuno a svolgere e a tessere la rete delle sue relazioni. Temi etici correlati: il consenso informato e il comitato etico, l’obiezione di coscienza del medico e del farmacista, un tema pastorale Per un autentico consenso “condiviso” e non solo informato Una categoria che accomuna tutti i membri del Comitati etico è il cosiddetto consenso informato, su ci peraltro il Comitato etico, secondo la legislazione attuale, ha potere di intervento fino a chiedere di subordinare l’approvazione della sperimentazione alla modifica del consenso stesso. Un punto caldo del consenso è che se alla sperimentazione del farmaco vengono arruollate donne in età fertile si consiglia loro di ricorrere a una metodica contraccettiva di tutto rispetto. Fin qui il dettato del modulo del consenso non pone particolari problematiche di natura etica. Almeno formalmente. Il problema sorge quando lo stesso modulo – e tutti quelli che ho avuto modo di visionare cadono in un’affermazione ideologica – pone tra parentesi la semplificazione dei metodi contraccettivi (che in ogni caso nella visione cattolica non sono da accettare), includendo in forma asettica sia la spirale sia pillole estroprogestiniche, che non solo sono contraccettive ma anche intercettive, ovvero in grado di modificare la sede uterina in modo da non accogliere l’eventuale ovulo fecondato. In tal caso non si ha più un consenso informato ma un consenso ideologico, perché si dà per scontato che eventualmente l’espulsione dell’ovulo fecondato sia una semplice fuoriuscita di una massa biologica e non di un processo vitale di ominizzazione – la donna peraltro non se ne avvede se non per un ritardo, e per una maggiore consistenza di perdita mestruale-, e si fa letteralmente saltare o esplodere il principio di autonomia o di autodeterminazione della persona a favore di una forma di paternalismo del medico, che in questo caso – erroneamente, a mio parere -, si fa uscire dalla porta per farlo rientrare dalla finestra. Facendo passare per vero o, diciamo meglio, per assodato scientificamente che si tratti solo di contraccezione e non anche di aborto. Spetta ai membri del Comitato etico vigilare e richiedere la riformulazione del dettato del consenso informato su questo punto, ottenendo che l’approvazione del protocollo venga sempre subordinata alla chiarificazione della natura degli scopi dei diversi metodi contraccettivi proposti, sapendo chiarire gli anticoncezionali dagli abortivi. E ciò per due ragioni, una di ordine scientifico, una di ordine di rispetto delle convinzioni personali: la prima, è che diversa figura biologica ed etica assume rispettivamente l’ovulo non fecondato e l’ovulo fecondato; la seconda, perché le convinzioni etiche della persona vanno rispettate e non fuorviate. L’obiezione di coscienza dell’operatore sanitario La figura etica dell’obiezione di coscienza da parte dell’operatore sanitario all’aborto medico si rivela molto più sensibile di quanto possa apparire in prima battuta. A fondamento va posto il diritto/dovere dell’obiezione di coscienza dell’operatore sanitario, che non condivide la soppressione di una vita umana in modo da non costituirsi quale collaboratore formale e prossimo dell’aborto che costituisce materia moralmente grave[1]. E ciò indipendentemente dalla modalità scelta per l’intervento. Perché «ne sono moralmente responsabili anche coloro che, condividendone l’intenzione o meno, cooperassero con una tale procedura» sia dei metodi intercettivi che contragestativi. Quando agli intercettivi il problema sembra semplificarsi a motivo del rifiuto di prescrizione del farmaco o della prescrizione e posizionamento della spirale, perché si configurerebbe come collaborazione formale prossima al ricorso all’aborto. Sia la spirale poi e soprattutto la pillola del giorno dopo, che nel linguaggio medico possono essere definiti antinidatori e non abortivi, permettono di bypassare tutte le procedure legislative che la legge 194/78 prevede per accedere all’interruzione di gravidanza (colloquio previo, accertamento di gravidanza, determinazione dell’epoca dello sviluppo, periodo di ripensamento, ecc.), realizzando una forma di aborto del tutto nascosto e non registrabile da alcuna istituzione. Ponendo così, oltre il profilo morale dell’intervento prescritto e posto, anche aspetti legali in netta contraddizione con la corretta applicazione della pur contestata legge 194. In linea di principio, a motivo della verifica dell’effetto avvenuto, si può pensare che commettano peccato di aborto, ma non cadono nella scomunica latae sententiae. La questione etica dell’obiezione di coscienza si complica quando si tratti dell’aborto chimico dovuto alla somministrazione dei contragestativi. Per la legge 194/78 pensata per l’aborto chirurgico l’azione dell’aborto diventava un vero e proprio confine tra l’assistenza antecedente e quella successiva all’aborto, cui in ogni caso qualsiasi operatore sanitario è sempre tenuto (cfr. art. 9 legge 184/78). Per l’aborto chimico o medico non è così semplice stabilire quali delle complicanze faccia parte ancora dell’aborto o invece appartenga alla situazione o fase successiva. Possiamo, però, ragionevolmente argomentare che tutto il meccanismo di azione che innesta la somministrazione del mifepristone o dei contragestativi costituisce un tutto casuale. «L’aborto procurato in modo chirurgico, come intervento, non termina con la morte dell’embrione, ma l’intervento si estende fino alla rimozione e all’espulsione dell’embrione e, se necessario, alla revisione della cavità uterina. Allo stesso modo, l’aborto “medico” non termina con la somministrazione/assunzione delle prostaglandine o/e del mifepristone/misoprostolo, ma si estende all’espulsione dell’embrione/feto o alla sua rimozione mediante aborto chirurgico. Di conseguenza, l’attività dell’operatore sanitario che si pone in una delle fasi intermedie che vanno dalla somministrazione/assunzione di prostaglandine o di mifepristone/misoprostolo al ripristino fisico della situazione precedente al concepimento, non può considerarsi “assistenza conseguente all’intervento” ma parte integrante dello stesso» Dal punto di vista morale, anche il farmacista è tenuto all’obiezione di coscienza per la vendita dei contraccettivi intercettivi e tanto più di quelli contragestativi. Perché anche gli intercettivi non hanno effetti contraccettivi strettamente intesi e effetti intercettivi/abortivi che si possono ben separare. Ma quando si danno, possono darsi insieme e in maniera inseparabile. Per cui intenzionalmente essi si rendono responsabili del possibile effetto abortivo che, se l’ovulazione è avvenuta, è sempre presente. Egli è un operatore sanitario a tutti gli effetti ed è titolare del diritto di coscienza: come tale può e deve rifiutarsi di collaborare all’azione peccaminosa dell’altro. Il farmacista non è un semplice anello anonimo della distribuzione dei farmaci, quasi una macchina da sel/service. Ciò significherebbe deresponsabilizzare del tutto l’arte farmaceutica. Donare un farmaco assume la responsabilità di consegnare una medicina che migliori la salute della persona e non contribuisca all’eventuale morte di un altro ed anche di lesione della salute psicofisica della donna stessa. Per cui la sua azione di custodia e consegna del farmaco assume la responsabilità del risultato che si consegue con l’assunzione del farmaco. Il caso di «cooperazione al peccato del coniuge che ricorre a metodiche con effetti abortivi » Il «Vademecum per i confessori», n. 14, pone in termini generali il caso della «cooperazione al male quando si ricorre all’uso dei mezzi che possono avere effetti abortivi». Il caso va, come dice il testo, accuratamente valutato dentro la considerazione della cooperazione al peccato del coniuge. Tale cooperazione, si spiega già nel n. 13 in riferimento all’uso dei contraccettivi strettamente intesi, «può essere lecita quando si danno congiuntamente queste tre condizioni: 1. l’azione del coniuge cooperante non sia già in se stessa illecita; 2. esistano motivi proporzionalmente gravi per cooperare al peccato del coniuge; 3. si cerchi di aiutare il coniuge (pazientemente, con la preghiera, con la carità, il dialogo: non necessariamente in quel momento, né in ogni occasione) a desistere da tale condotta» (EV 19/206). A dire dell’allora mons. Carlo Caffarra, «non credo che si tratti di una cooperazione formale all'aborto. L'azione infatti compiuta da chi coopera per sua natura pone semplicemente le condizioni, ex parte sua, del concepimento di una nuova persona umana. […] che il concepito sia soppresso non dipende dall'atto compiuto dal coniuge cooperante. […]. Certamente i motivi per cooperare devono essere ben più gravi» Riflessioni conclusive La prima considerazione è il realismo dell’insegnamento ecclesiale: ci sono voluti ben 40 anni dall’Humanane vitae perché il magistero in maniera esplicita e autentica insegnasse che gli intercettivi e i contragestativi rientrano nel profilo morale dell’aborto. Infatti, solo con Dignitas personae i diversi pronunciamenti dei documenti precedenti non hanno valore magisteriale in senso stretto. Si tratta di una «Istruzione di natura dottrinale» (n. 1), emanata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e approvata espressamente dal Santo Padre Benedetto XVI. L’Istruzione, quindi, appartiene ai documenti che «partecipano al Magistero ordinario del Successore di Pietro» (Istruzione Donum veritatis, n. 18), da accogliere dai fedeli con «l’assenso religioso del loro spirito» (Istruzione Dignitas personae, n. 37). Mentre non fa riferimento ai vaccini antiabortivi che sono ancora allo stato sperimentale e perciò vengono lasciati alla riflessione dottrinale degli esperti e dei teologi. Il che non significa che il giudizio etico degli esperti e dei teologi non abbia valore vincolante, anche se di ben altra natura. Lo scivolamento dei contraccettivi verso gli abortivi collega strettamente la contraccezione con l’aborto, anche se «contraccezione e aborto, dal punto di vista morale, sono mali specificamente diversi» (Evangelium vitae, 13) e soprattutto esprime la mentalità culturale di ostracismo verso i bambini. Perfino le favole sono state trasformate in tale direzione. Per cui tornano a tema le parole di Giovanni Paolo II: «Bisogna prima cambiare il rapporto verso il bimbo concepito. Se è venuto inatteso, mai è un intruso, né un aggressore. È una persona umana, dunque ha diritto che i genitori non gli risparmino il dono di sé, anche se ciò richiedesse da essi un particolare sacrificio. Il mondo diventerebbe un incubo se gli sposi in difficoltà materiali vedessero in un loro figlio concepito, solo un peso e una minaccia per la loro stabilità; se, a loro volta, i figli benestanti vedessero nel figlio un accessorio della vita superfluo e costoso. Ciò significherebbe infatti che nella vita degli uomini l’amore non conta più. Ciò significherebbe che è stata completamente dimenticata la grande dignità dell’uomo, la sua vera vocazione e il suo definitivo destino». Va ben considerata la trappola o l’inganno del linguaggio attraverso cui si maschera la verità delle cose, tentando di prendere le coscienze dal viscerale e dalle situazioni compassionevoli, cambiando contenuto agli eventi e facendoli passare quali diritti della persona. Nel nostro caso si parla di antinidatori, di aborto medico, di aborto incompleto, di ovulo fecondato per indicare le primissime fasi dello sviluppo, di gravidanza che comincia al momento dell’annidamento, ecc. Tale manipolazione del linguaggio, con la complicità delle fiction televisive opera una vera e propria censura intellettuale. «en culpabilisant ceux qui ne seraient pas dans cette modernité langagiére» Cfr. C. PERRAULT, Cenerentola, Malipiero, Ozzano E. (BO), s.d., in fine. Ma se si fa riferimento alla verità delle cose, non si vede come gli intercettivi e i contragestativi possano essere presentati e prescritti come farmaci, che curano malattie. In tal caso si configura la gravidanza come una malattia. Il che, al di là che sia essa desiderata o indesiderata, nessuna donna l’ha vissuta come tale. Il ricorso a un cambiamento distorsivo del linguaggio costituisce un vero e proprio inganno e una manipolazione della la coscienza delle persone. Si opera così anche uno stravolgimento della figura e dell’arte medica. Si dice che la decisione dell’aborto – come di altre decisioni come quella di fine vita - bisogna lasciarla alla coscienza individuale, ma si dimentica l’acuta osservazione del compianto Umberto Scarpelli sul valore simbolico delle azioni individuali, che comprimono il principio di autonomia: «Il secondo svantaggio del laicismo è quello che, insistendo sull’autonomia dell’individuo e comprimendola solo quando possa derivare danno per gli altri, si muove con difficoltà su un terreno dove ogni scelta individuale ha implicanze simboliche intense e rilevanti conseguenze nazionali»: il tema dell’aborto non è una questione di etica individuale ma di quale tipo di società e di civiltà si intenda costruire non solo per noi ma anche per nostri figli. Così la contraccezione, specie intercettiva e contragestativa, diviene una questione sociale o di società, che ha fin dagli anni ’50 un vero e proprio progetto sociale: partendo dalla contraccezione intende giungere all’aborto, all’eutanasia, alla dittatura dei sani, ecc., quale approdo di una guerra pensata e vissuta da lontano .