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Affidamento esclusivo confermato alla madre

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Affidamento esclusivo confermato alla madre
ANNO 1 | NUMERO 2 | APRILE 2013
Spolverata
rosa
sui CdA
in Italia
DI
SENTENZA DELLA CASSAZIONE 11/01/2013 N. 601 E LA VALUTAZIONE IN CONCRETO DELL’INTERESSE DEL MINORE
Affidamento esclusivo confermato
alla madre omossessuale
e convivente con un’altra donna
IMMACOLATA TROIANIELLO
DI
Avvocato, Consigliere Ordine Avvocati di Napoli
ANNA GALIZIA DANOVI Avvocato, Presidente del Centro per la riforma del diritto di famiglia & RICCARDO PESCE Avvocato
l caso Numerosi sono stati i commenti alla sentenza della Corte di Cassazione Civile, 11 gennaio 2013 n. 601, che ha confermato l’affidamento esclusivo del figlio alla madre omosessuale e
convivente con una donna. In breve i fatti. La Corte
d’Appello di Brescia ha respinto l’appello proposto
avverso il decreto del Tribunale per i Minorenni di
Brescia che aveva disposto, tra l’altro, l’affidamento
esclusivo del figlio naturale dell’appellante alla
madre del minore, incaricando i Servizi sociali competenti di regolamentare gli incontri con il padre incontri da tenersi inizialmente con cadenza almeno
quindicinale in ambiente protetto - con facoltà ai
Servizi stessi di ampliare le frequentazioni sino a
giungere a incontri liberi in caso di evoluzione favorevole della situazione.
La decisione della Corte Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione il padre,
articolando tre motivi. Con il primo motivo egli ha
censurato la delega ai Servizi Sociali in ordine
all’ampliamento delle visite, osservando che il Tribunale avrebbe dovuto regolamentare direttamente le
modalità degli incontri.
La Cassazione ha ritenuto questo motivo inammissibile, per carenza di interesse del padre a censurare una disposizione a lui favorevole. Infatti il Tribunale aveva previsto la possibilità che il diritto di visita del padre fosse ampliato a opera dei servizi
I
randi novità per i rinnovi dei Consigli di amministrazione delle quotate in borsa che stanno avvenendo
in questi mesi.
Infatti,in base alla legge
Golfo_Mosca approvata nel giugno del 2011 i Consigli di
amministrazione delle società quotate in borsa, le partecipate e per ultime anche le non quotate devono avere nei
loro consigli di amministrazione una percentuale di donne
di un quinto rispetto alla composizione del consiglio di
amministrazione.
La quota sale nei successivi rinnovi in quanto dovranno
essere pari almeno ad un terzo nel 2022.
La legge ha una precisa scadenza interna ovvero è in vigore per soli 10 anni. L’intervento legislativo, adottato dopo
due anni dalla proposta di legge bipartisan Golfo-Mosca,
persegue principalmente lo scopo di assicurare una maggiore rappresentatività delle donne nelle cariche direttive e
di controllo delle società quotate e a controllo pubblico,
allineando la normativa italiana alle discipline analoghe già
introdotte in altri paesi europei3.
L’articolo 1 della Legge 120 è andato a modificare gli articoli 147-ter4 e 1485 del Testo Unico della Finanza attinenti le modalità di nomina e alla composizione degli organi di
amministrazione e di controllo delle Società Quotate,prescrivendo la modifica degli statuti sociali delle Società Quotate per prevedere che il riparto
degli amministratori e sindaci da
eleggere sia effettuato in base ad un
criterio, da applicarsi per tre mandati consecutivi,che assicuri per
entrambi gli organi l’equilibrio tra i
generi. Gli statuti dovranno assicurare che il genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo degli
amministratori e dei sindaci effettivi
eletti. Gli Statuti dovranno inoltre disciplinare le modalità di
formazione delle liste e i casi di sostituzione in corso di
mandato al fine di garantire il rispetto del criterio di riparto. In caso di violazione dei criteri di composizione del consiglio di amministrazione o del collegio sindacale previsti
della Legge 120, è applicabile un regime sanzionatorio.
L’articolo 3 della Legge 120 estende l’applicazione delle
norme da essa prescritte anche alle società italiane controllate ai sensi dell’art. 2359, primo e secondo comma del
codice civile,da pubbliche amministrazioni. Le nuove disposizioni introdotte dalla Legge 120 si applicheranno a decorrere dal primo rinnovo degli organi di amministrazione e
degli organi di controllo delle Società Quotate successivo
ad un anno dalla data di entrata in vigore della Legge
120,avvenuta il 12 agosto 2012.
La legge nasceva dall’ analisi dei dati relativi alla presenza
femminile nei consigli di amministrazione delle quotate.
Nel 2010, secondo il rapporto annuale di Assonime ed
Emittenti, le 272 società quotate in Italia alla data del 31
marzo 2010 avevano complessivamente 2.815 consiglieri;
di questi,2.646 erano uomini e 169 donne (pari al 6% del
totale), dato – quest’ultimo – in lieve aumento rispetto al
passato: erano infatti 166 nel 2009,158 nel 2008, 136 nel
2007, 125 nel 2006. La rappresentanza femminile nel
2010 veniva registrata nei consigli di amministrazione di
127 società quotate (erano 124 nel 2009, 120 nel 2008,
105 nel 2007, 93 nel 2006), pari al 47% del totale. In relazione invece agli organi di controllo delle società quotate,
nel 2010 su un totale di 817 sindaci, 762 erano uomini e
55 donne (pari al 7% del totale); questo dato risultava in
flessione (erano 59 nel 2009, 41 nel 2008, 32 nel 2007.
Nel 2011 si è assistito a numerosi rinnovi degli organi di
amministrazione e controllo delle società quotate e a controllo pubblico, le donne elette nei consigli di amministrazione rappresentano il 7,2% del totale dei componenti,
mentre quelle chiamate a far parte degli organi di controllo sono il 6,9% del totale degli eletti.
G
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sociali, fermo restando la possibilità del genitore
non collocatario di rivolgersi al Giudice per lo stesso motivo. Con il secondo motivo il padre ha denunciato: a) la pretesa contraddittorietà della sentenza
impugnata nella parte in cui implicitamente riconosce che l’ampliamento delle frequentazioni paterne
spetta al Giudice, e b) l’insufficienza della motivazione circa il diniego all’affidamento condiviso,
posto che la Corte d’Appello avrebbe dovuto motivare l’idoneità del nucleo familiare della madre,
composto da due donne legate da relazione omosessuale, ad assicurare sotto il profilo educativo
l’equilibrato sviluppo del minore.
La Suprema Corte ha ritenuto inammissibili anche
tali ragioni di ricorso, non avendo ravvisato nell’impugnata sentenza alcuna contraddittorietà o carenza di motivazione. In particolare, la Corte ha ritenuto di aderire alla motivazione della Corte d’Appello
di Brescia secondo la quale il rigetto della domanda proposta dal padre di ottenere l’affidamento
condiviso del figlio era apprezzabile «in considerazione dell’interesse del minore, il quale aveva assistito a un episodio di violenza agita dal padre ai
danni della convivente della madre, che aveva provocato in lui un sentimento di rabbia nei confronti
del genitore irrilevante essendo che la violenza non
avesse avuto ad oggetto la madre, bensì la sua convivente, la quale pur sempre, proprio in quanto tale,
una persona familiare al bambino, mentre la dedotta difficoltà dell’appellante di accettare, data la sua
origine e formazione culturale, il contesto familiare
in cui suo figlio cresceva e veniva educato non poteva alleviare la gravità della sua condotta, considerata appunto la reazione che aveva provocato nel
bambino; e del resto non era neppure contestato
che l’appellante si fosse allontanato dal figlio da
circa dieci mesi, sottraendosi anche agli incontri
protetti ed assumendo, quindi, un comportamento
non improntato a volontà di recupero delle funzioni
genitoriali e poco coerente con la stessa richiesta di
affidamento condiviso e di frequentazione libera del
bambino».
Con il terzo motivo il ricorrente ha lamentato il
mancato approfondimento da parte del Tribunale
dell’idoneità della madre a garantire l’equilibrato
sviluppo del bambino, e ciò in ragione del fatto che
la stessa, ex tossicodipendente, aveva una relazione
sentimentale e conviveva con una ex educatrice della comunità di recupero in cui era stata ospitata.
Inoltre, il padre ha denunciato l’impossibilità di
educare il minore «secondo i principi educativi e
religiosi di entrambi i genitori. Fatto questo che non
poteva prescindere dal contesto religioso e culturale del padre, di religione musulmana».
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Si è costituita la Camera Minorile
e delle Relazioni Familiari di Napoli
SOCI FONDATORI: FABRIZIA BAGNATI, LUISA ERRICO, MANUELA PALOMBI, COLOMBA ECCELLENTE, CECILIA GARGIULO,
ANTONIO PANARESE, GIULIA DE LERMA, GIORGIO COPPOLA, CORINNA ALOTTI, TIZIANA RUGGIERO
l giorno 1 febbraio 2013 è stata costituita la Camera Minorile e delle Relazioni Familiari di Napoli, associazione di avvocati che operano in maniera prioritaria nell’ambito del diritto minorile e di famiglia sia civile che penale. Scopo dell’associazione è quello di assicurare la centralità della tutela del minorenne, alla
luce della normativa nazionale ed internazionale. La Camera Minorile e delle Relazioni Familiari di Napoli è stata ammessa a far parte dell’Unione Nazionale delle Camere Minorili, Associazione riconosciuta dall’OUA come fra quelle maggiormente rappresentative nel campo del diritto minorile e di famiglia, associazione per
otto anni presieduta dall’avv. Fabrizia Bagnati odierno presidente della costituita Camera Minorile e delle Relazioni Familiari di Napoli. Al fine di raggiungere gli scopi associativi, oltre ad attività convegnistiche e incontri di studio (sono previsti tre gruppi di lavoro: civile, penale ed internazionale), verranno istituiti anche a Napoli corsi di formazione già riconosciuti dall’OUA a partire da quelli di carattere deontologico, fondamentali in una materia che inerisce alla vita dei soggetti che vivono la fragilità dovuta all’età e a momenti particolari della propria esistenza. Possono associarsi esclusivamente avvocati che si occupano di diritto di famiglia e minorile e praticanti avvocati che svolgono la propria formazione in quell’ambito. Per informazioni: [email protected]
I
S O M M A R I O
PENALE
PENALE
RIPETIAMO PER
I CONCORSI - CIVILE
RIPETIAMO PER
I CONCORSI - PENALE
RIPETIAMO PER
I CONCORSI - AMMINISTRATIVO
Modifiche
al Codice
Antimafia
Rilievo nullità
tra tradizione
e nuove nullità
La revisione
delle tabelle
millesimali
La legittima
difesa
domiciliare
La motivazione
del provvedimento
amministraivo
SERVIZIO A PAGINA 3
SERVIZIO A PAGINA 7
SERVIZIO A PAGINA 20
SERVIZIO A PAGINA 21
SERVIZIO A PAGINA 22
SPIAalDIRITTO
2
APRILE 2013
Civile
La mediazione
nella riforma
del condominio
Spunti di riflessione
notizia apparsa sul quotidiano “Il Mat- - La domanda di mediazione deve essere pretino” che il direttore dell’Agenzia delle
sentata, a pena di inammissibilità, presso un
Entrate, Attilio Befera, alla luce dei priorganismo di mediazione ubicato nella cirmi risultati ottenuti con la Mediazione Tributacoscrizione del tribunale nella quale il conria, abbia azzardato una ipotesi di estensione
dominio è situato.
del campo di applicazione dell’istituto con un - Al procedimento è legittimato a partecipare
innalzamento del tetto previsto di euro
l’amministratore, previa delibera assemblea20.000,00.
re da assumere con la maggioMa diamo uno sguardo ai
ranza di cui all’articolo 1136,
numeri per capire la portata
secondo comma, del codice.
innovativa dell’istituto che
Se i termini di comparizioapplicato in campo tributario ha
ne davanti al mediatore non condato sorprendenti risultati,
sentono di assumere la delibera
ovvero, una riduzione del flusso
di cui al terzo comma, il mediatodi nuove controversie relative
re dispone, su istanza del condoad atti dell’Agenzia delle Entraminio, idonea proroga della prima
te, rispetto al corrispondente
comparizione.
periodo del 2011, pari al
La proposta di mediazione
DI FLAVIA
46,4%. Stà di fatto che, tale
deve essere approvata dall’asAVALLONE
mediazione, è nata quale -obblisemblea con la maggioranza di
Avvocato
gatoria- nei casi previsti e stabicui all’articolo 1136, secondo
Foro di Napoli
Giornalista Pubblicista
liti da legge e pertanto, essendo
comma, del codice.
dell’Ordine Regionale
un passaggio ineludibile e non
Se non si raggiunge la predei Giornalisti
facoltativo, era prevedibile uno
detta maggioranza, la proposta si
della Campania
storno del contenzioso in tale
deve intendere non accettata.
ambito che tutto sommato
Il mediatore fissa il termine
riguarda controversie di tipo “formale”, “mecper la proposta di conciliazione di cui all’arcanico” molto lontane dalle questioni “umaticolo 11 del decreto legislativo 4
ne” e “di afflato corale” di tipo condominiale.
marzo 2010, n. 28, tenendo conto della
E pertanto, chissà quale nuovo modo di gestinecessità per l’amministratore di munirsi
re le controversie in tale ambito segnerà la
della delibera assembleare”.
svolta che prende le mosse dalla riforma del Ovvero, pare di capire, che vi sarà un largo
Condominio di cui alla legge 11 dicembre ricorso all’istituro della mediazione civile, tra
2012, n. 220, recante “Modifiche alla discipli- l’altro nelle more, arrestato nella sua modalità
na del condominio negli edifici”, pubblicata in obbligatoria della Consulta, che come a tutti
Gazzetta ufficiale n. 239 del 17 dicembre oramai noto, ha bocciato il d.lgs. n. 28 del
2012. Le norme ivi contenute, come noto, 2010 nella parte in cui: “Il denunciato eccesso
entreranno in vigore decorsi sei mesi dalla di delega, dunque, sussiste, in relazione al
pubblicazione in Gazzetta ufficiale (ovvero il carattere obbligatorio dell’istituto di concilia18 giugno 2013).
zione e alla conseguente strutturazione della
Questo il testo dell’art. 25 della citata legge relativa procedura come condizione di procediche modifica le Disposizioni di Attuazione del bilità della domanda giudiziale nelle controverCodice Civile e Disposizioni Transitorie, ove al sie di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del
n. 71-quater, è inserito il seguente dettato nor- 2010”.
mativo: “ - Per controversie in materia di con- A questo punto, viene da chiedersi come opedominio, ai sensi dell’articolo 5, comma reranno tutti i mediatori ed i centri chiamati ad
1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, intervenire? Sulla base di quale normativa? E
n. 28, si intendono quelle derivanti dalla vio- c’è da aspettarsi un intervento legislativo che
lazione o dall’errata applicazione delle disposi- crei un auspicabile raccordo tra i continui altazioni del libro III, titolo VII, capo II, del codice e lenanti dictum normativi?
degli articoli da 61 a 72 delle presenti disposi- La riproposizione, senza se e senza ma, del
zioni per l’attuazione del codice.
ripristino dell’obbligatorietà del ricorso alla
E’
mediazione, prima di adire il giudice ordinario,
nella materia condominiale, sembra aver di fatto superato e sostituito la presunta censura di
eccesso di delega da parte della Consulta.
Governo e Parlamento, giudici, avvocati,
amministratori ed operatori del settore, infatti,
non potranno differenziarsi da quanto già deliberato con la riforma del condominio, in verità
già in atti, come legge dello Stato.
Secondo il nuovo art. 71 quater c.p.c., comma
1, per controversie in materia di condominio si
intendono quelle liti derivanti dalla violazione
o dall’errata applicazione delle disposizioni: del
libro terzo, titolo VII, capo II, del codice civile
(artt. 1117-1138 c.c.); degli artt. 61-72 delle
disposizioni di attuazione del codice civile.
La nuova disciplina stabilisce (art. 71 quater,
c.p.c. comma 2) la competenza territoriale della circoscrizione del tribunale nella quale il
condominio è situato, ciò, peraltro, a pena di
inammissibilità della domanda di mediazione.
A norma del comma 3 del nuovo art. 71 quater c.p.c. in commento, la legittimazione dell’amministratore condominiale a partecipare al
procedimento di mediazione in rappresentanza del condominio è subordinata al volere del
condominio: approvazione di una delibera
assembleare con la maggioranza di cui all’art.
1136 c.c., comma 2, maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edifico.
Il successivo comma 4 del medesimo art. 71
quater c.p.c. prevede che nel caso i termini di
comparizione davanti al mediatore non consentano di assumere detta delibera venga concessa una proroga del primo incontro di
mediazione: “il mediatore dispone, su istanza
del condominio, idonea proroga della prima
comparizione”.
La proposta di accordo dovrà essere necessariamente approvata dall’assemblea condominiale (con la stessa maggioranza sopra richiamata di cui all’art. 1136 c.c., comma 2); in
caso contrario la proposta si intende non
accettata. Così dispone il successivo comma 5,
art. 71 quater c.p.c. Il mediatore è tuttavia, a
norma del seguente comma 6, tenuto a fissa-
re il termine per la proposta di conciliazione,
tenendo conto della necessità per l’amministratore di munirsi della richiamata delibera
assembleare.
Ciò posto, occorre considerare che il nuovo art.
71 quater c.p.c. fa esplicito riferimento, nel
definire le controversie in materia di condominio, all’art. 5, comma 1 d.lgs. n. 28 del 2010;
tuttavia, come detto, l’art. 5, comma 1, d.lgs. n.
28 del 2010, è stato dichiarato incostituzionale (C. Cost. n. 272 del 2010).
Ciò considerato, occorre porsi in una duplice
avveneristica visuale onde capire cosa potrà
accadere. Sul punto, da un lato si può osservare che, la mediazione obbligatoria, è stata
dichiarata illegittima per eccesso di delega
legislativa, pur tuttavia, il nuovo art. 71 quater
c.p.c. è una legge, la n. 239 del 2012, approvata -successivamente- alla pronuncia della
Consulta, e pertanto, il legislatore potrebbe
aver voluto ribadire la propria intenzione (tramite lo strumento della legge e non un decreto legislativo) di assoggettare le controversie
anzidette alla disciplina della mediazione
obbligatoria.
Al contrario, è pur doveroso osservare che, il
nuovo art. 71 quater c.p.c. non prevede, a rigore, la mediazione obbligatoria in materia di
condominio, ma, richiamando esplicitamente
la norma dichiarata incostituzionale, ne definisce solo l’ambito applicativo, con la conseguenza che, venuta meno l’efficacia di tale ultima disposizione in ragione della pronuncia
della Consulta, il mero richiamo a tale norma,
addotto dal nuovo art. 71 quater c.p.c. non
può conferire nuovamente efficacia all’art. 5,
comma 1 d.lgs. n. 28 del 2010 che, in ragione
della sentenza C. Cost. n. 272 del 2012, rimane incostituzionale. Ad ogni modo, le disposizioni dettate dal nuovo art. 71 quater c.p.c.
valgono sicuramente per tutta la disciplina della mediazione di cui al d.lgs. n. 28 del 2010
(disciplina, è bene ricordarlo, ancora in vigore
ad eccezione delle disposizioni dichiarate incostituzionali) e, dunque, per la mediazione
“facoltativa” e quella “demandata” del giudi-
ce, dovendosi ivi applicare le nuove norme
(con riferimento, in particolare, al tema della
competenza territoriale degli organismi di
mediazione, della legittimazione dell’amministratore di condominio e della proposta conciliativa). La mediazione si definisce “facoltativa” e cioè scelta dalle parti, nel caso in cui, nell’ambito dei diritti disponibili, le parti decidano
spontaneamente, a lite insorta, ovvero, in forza
di una clausola di mediazione, di avvalersi del
procedimento di mediazione. Nessuno è obbligato a partecipare al tentativo di conciliazione.
Qualora questo si svolga, l’incontro può essere
interrotto in qualsiasi momento in cui le parti
ritengano che non sia possibile raggiungere
un’intesa. Le parti, quindi, vere autrici e protagoniste della mediazione, sono libere di decidere se tentare la conciliazione o se invece
rifiutare, in qualsiasi momento, questa opportunità. La mediazione si definisce “delegata”
quando è demandata, ovvero, quando il giudice, cui le parti si siano già rivolte, invita le stesse a tentare la mediazione, rilevando l’improcedibilità della causa non oltre la prima udienza. E’, dunque, il giudice il vero artefice della
possibilità di dare l’avvio all’attivazione di una
procedura di mediazione sulla scorta dell’esistenza di determinati presupposti, liberamente
ed autonomamente valutati e per effetto dell’adesione delle parti destinatarie dell’invito. È
allora giunto il momento di vincere la resistenza e considerare la mediazione come una nuova “tradizione” e non solo come mera “alternativa” per risolvere le controversie. Guardare
allla mediazione come nuova tradizione consentirà agli operatori del settore ed ai rappresentanti delle società coinvolte di trovare soluzioni ottimali per la risoluzione delle controversie civili e commerciali, sulla scia di nuove leggi e procedure che via via nel solco dei già
avviati sistemi europei ed americani ed in ossequio e nel rispetto dei tradizionali principi di
economia processuale e ragionevole durata
del processo, di cui all’art. 111 Costituzone, si
affermano nel nome del nativo “favor mediationis”.
Avvocato - Amministratore di
condominio: due professioni incompatibili?
iovedì 14/02/20l3 il Cnf, aggiornando le FAC (Frequently Asked Questions) sulla legge 247/20l2
che regolamenta il nuovo ordinamento professionale forense, ha dichiarato la incompatibilità dell'esercizio della professione forense con l'attività di amministratore di condominio, sovvertendo l'impostazione antecedente.
In effetti il Cnfin precedenti pareri (nr. 26/2009,
104/2000 e 18/95) si era sempre espresso per la compatibilità in quanto “l’attività di amministratore di condominio si configura come una attività di gestione di rapporti giuridici in favore dei condomini; l'amministratore è
nominato dall'assemblea dei condomini e può essere da
questa revocata in ogni tempo” quindi “non sussiste
alcun vincolo di subordinazione tra il mandante ed il
mandatario e pertanto l'attività inerente all’incarico
gestorio può essere svolto dall'amministratore in forma
completamente indipendente, ossia in modo compatibile con la condizione di avvocato”.
Oggi il raffronto tra la normativa espressa dall'art. 18
della L. 247/l2 e la L. 4/2013 avrebbe portato il Cnf a
dichiarare che "la L. 4/2013 conferisce dignità e professionalità alle categorie dei professionisti senza albo” per
cui “sebbene non vengano meno i requisiti di autonomia
e dipendenza, che hanno fin'ora consentito di considerare compatibile l'attività di amministratore di condominio
con l'esercizio della professione, la riforma ha innovato
DI
MARIA GRAZIA PETRONE Avvocato
G
profondamente la disciplina vigente, escludendo che
l'avvocato possa esercitare qualsiasi attività di lavoro
autonomo svolta continuamente o professionalmente,
con eccezioni indicate in via tassativa nell'art. 18 della L.
247/2012”.
L’orientamento espresso dal Cnf ci lascia oltremodo perplessi e non possiamo esimerci dall'evidenziare che assodato quanto statuisce l'art. 18 della L. 247/l2 - è
proprio invece la normativa espressa dalla L.4/20l3, si
badi successiva alla L. 247/20l2, che smentisce le argo-
mentazioni rese dal Cnf.
Infatti mentre l'art. l della Legge chiarisce cosa debba
intendersi per professione non organizzata in ordini o
collegi e determina quali siano quindi le categorie professionali ricomprese (in tali categorie indubbiamente
rientrano gli amministratori di condominio), l'art. 2 al
comma 6 testualmente recita: “Ai professionisti di cui
all'art. 1, comma 2, anche
se iscritti alle associazioni di cui al presente articolo, non
è consentito l'esercizio delle attività professionali riser-
vate dalla legge a specifiche categorie di soggetti, salvo
il caso in cui dimostrino il possesso dei requisiti previsti
dalla legge e l'iscrizione al relativo albo professionale".
Appare alquanto evidente - dalla sola lettura della norma che si risottolinea essere successiva alla L. 247/2012
- che sia consentito alle figure professionali regolamentate dalla L. 4/2013, dimostrare il possesso dei requisiti
previsti dalla legge per l'iscrizione in appositi albi professionali. Quindi i professionisti di cui all'art. 1 comma 2,
nella fattispecie gli amministratori di condominio, se ne
hanno titolo possono essere iscritti nell'albo degli avvocati.
Devo dire che la questione non ci è apparsa di difficile
interpretazione, ma quello che ci ha lasciato perplessi è
stata la immediatezza con la quale il Cnf ha acconsentito a mettere nuovi paletti e maggiormente circoscrivere
la professione forense che oggi risente non poco del difficile momento congiunturale.
Quello che auspichiamo è che oggi, di fronte ai tanti problemi che il nostro ordine deve affrontare, non ultimo
quello del riassetto statuito da una normativa che da
subito ha mostrato non pochi limiti, è che tutta la classe
forense, in uno con gli organi istituzionali che la rappresentano, si faccia portavoce, nelle sedi e nei modi deputati, anche per trovare nuovi spazi per tutti noi e soprattutto per i tanti giovani che oggi si affacciano all'avvocatura.
SPIAalDIRITTO
Penale
Modifiche al Codice Antimafia
Legge di Stabilità articolo 2 commi da 189 al 206
on la legge di stabilità, ed in particolare all’art. 2,
commi da 189 a 206, sono state apportate rilevanti modifiche sia al d.lgs 159/2011 (c.d. Codice
Antimafia) sia alla disciplina della tutela dei terzi creditori per il periodo antecedente alla entrata in vigore dello stesso Codice. Difatti la Legge di Stabilità ha modificato l’art. 24, comma 2, del Codice Antimafia, che aveva introdotto i termini perentori di efficacia del procedimento di prevenzione, stabilendo che ove al massimo
entro due anni e mezzo dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’Amministratore Giudiziario
in primo grado, o dalla data di deposito del ricorso in
appello, non fosse intervenuta la confisca, tutto il procedimento di sequestro sarebbe divenuto inefficace.
L’indicazione dei termini perentori aumentava il rischio
di indurre il Tribunale della prevenzione ad una istruzione e una decisione con caratteri di sommarietà per evitare il decorso del termine perentorio. Inoltre, il dies ad
quem di due anni e mezzo, sia per il giudizio di primo
grado sia in sede di gravame, non appariva compatibile:
- con le esigenze probatorie e di garanzia del procedimento di prevenzione
- con i carichi di lavoro e con le carenze di organico dei
Tribunali, atteso che sono pochissime le sezioni specializzate penali di misure di prevenzione.
La legge di Stabilità, facendo proprie le soluzioni proposte anche in sede legislativa per ovviare ai suesposti
inconvenienti, ha in modo condivisibile previsto la
sospensione ex lege dei suddetti termini di efficacia per
il tempo nel quale si svolgono gli accertamenti peritali
sui beni nella disponibilità del proposto.
Modifica dell’art. 12 sexies D.L. 306/1992
La Legge di Stabilità ha altresì opportunamente modificato l’art. 12 sexies del D.L. 306/1992, che disciplina la
c.d. confisca allargata, alla quale si applicavano le norme previste per il sequestro preventivo ai sensi dell’art
321 c.p.p.
La novella invece, modificando l’art. 4 bis dell’art. 12
sexies, ha esteso la applicazione delle norme contenute
nel Codice Antimafia anche alla suddetta tipologia di
confisca.
Conseguentemente, l’Agenzia Nazionale coadiuva l’autorità giudiziaria nell’amministrazione e
nella custodia dei beni sequestrati sino al provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare
e, successivamente a tale provvedimento, amministra i beni medesimi secondo le modalità previste dal d.lgs 159/2011, restando comunque salvi i
diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al
risarcimento del danno.
Nel Codice Antimafia è stato inoltre aggiunto, all’art.
51, il comma 3-ter che stabilisce, che qualora sussista
un interesse di natura generale, l’Agenzia può richiedere, senza oneri, i provvedimenti di sanatoria, consentiti
dalle vigenti disposizioni di legge, delle opere realizzate
sui beni immobili che siano stati oggetto di confisca
definitiva, eliminando cosi la paralisi dell’uso del patri-
C
3
APRILE 2013
DI
ALBERTO CAPUANO
Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Napoli
monio abusivo caratterizzato proprio dalla assenza del
provvedimento concessorio.
La legge di Stabilità ha altresì introdotto 5 commi dopo
l’art. 40 del Codice Antimafia, disciplinando l’uso e la
vendita dei beni mobili sequestrati.
In particolare, l’art. 40 comma 5-bis stabilisce che i beni
mobili sequestrati, anche iscritti in pubblici registri, possono essere affidati dal Tribunale in custodia giudiziale
agli organi di polizia che ne facciano richiesta per l’impiego nelle attività istituzionali o per esigenze di polizia
giudiziaria, ovvero possono essere affidati all’Agenzia,
ad altri organi dello Stato, ad enti pubblici non economici ed enti territoriali per finalità di giustizia, di protezione civile o di tutela ambientale.
Si osserva al riguardo che la citata disposizione ha il
medesimo contenuto dell’art. 48, 12° comma del d.lgs
159/2011, ora modificato, in materia di utilizzo dei beni
confiscati.
Conseguentemente, il legislatore ha voluto opportunamente anticipare, sin dalla fase del sequestro, la possibilità di uso del patrimonio mobiliare da parte degli
organi istituzionali per finalità pubbliche.
I commi 5-ter, quater e quinquies dell’art. 40, introdotti
dalla legge di Stabilità, disciplinano la vendita o la
distruzione dei beni non economicamente produttivi. In
particolare il Tribunale, se non deve provvedere alla
revoca del sequestro ed alle conseguenti restituzioni,
su richiesta dell’Amministratore Giudiziario o dell’Agenzia può destinare alla vendita i beni mobili sottoposti a sequestro se gli stessi non possono essere amministrati senza pericolo di deterioramento o con rilevanti
diseconomie. Inoltre se i beni mobili sottoposti a sequestro sono privi di valore, improduttivi, oggettivamente
inutilizzabili e non alienabili, il Tribunale può procedere
alla loro distruzione o demolizione. I proventi derivanti
dalla vendita dei beni affluiscono al Fondo unico giustizia (FUG) per essere versati all’apposito capitolo di
entrata del bilancio dello Stato e riassegnati per finalità
pubbliche.
Tale disciplina sembrerebbe non consentire la destinazione dei proventi delle vendite dei beni sequestrati alla
stessa Amministrazione Giudiziaria, quali utili di gestione per far fronte alle necessità economiche derivanti dal
sequestro con la evidente conseguenza che la destinazione degli stessi al FUG indebolisce ancor di più la finalità produttiva cui è rivolta l’attività dell’Amministratore
nella gestione dei beni in sequestro.
Ulteriore innovazione prevista dalla Legge di Stabilità è
rappresentata dalla sospensione, durante la vigenza dei
provvedimenti di sequestro e confisca - e comunque
fino alla loro assegnazione o destinazione - del pagamento di tutte le imposte, tasse e tributi sugli immobili.
Conseguentemente, l’Amministratore Giudiziario non
sarà tenuto, per quanto riguarda i cespiti immobiliari, a
corrispondere all’erario nessuna imposta, compresa
l’IMU e la TARSU, anche se si ritiene che, ove gli immo-
bili producano reddito, ad esempio perché locati, i proventi comunque rientrano nella dichiarazione dei redditi che l’Amministratore deve presentare in qualità di
sostituto di imposta.
La legge di stabilità all’art. 2 commi da 194 a 206 ha
introdotto delle rilevanti modifiche in materia di diritti
dei terzi creditori vantati antecedentemente all’entrata
in vigore del Codice Antimafia, cercando di disciplinare
normativamente un settore affidato sino ad oggi alla
decennale stratificazione giurisprudenziale
In particolare:
In primo luogo, è previsto che sui beni confiscati all’esito dei procedimenti di prevenzione per i quali non si
applica il Codice Antimafia (e quindi a tutti i sequestri
pendenti alla data del 13/10/2011) non possono essere
iniziate o proseguite, a pena di nullità, azioni esecutive,
salvo che il bene sia stato già trasferito o aggiudicato,
anche in via provvisoria, ovvero quando sia costituito da
una quota indivisa già pignorata.
Dall’analisi della norma, si evince che l’inibitoria delle
azioni esecutive riguardi esclusivamente i beni confiscati, con la conseguenza i pignoramenti sul patrimonio
sequestrato non possono essere sospesi e proseguono
sino all’eventuale ablazione definitiva .
Difatti il comma 194 dell’art. 2 fa riferimento al divieto
di esecuzioni per i soli “beni confiscati”, escludendosi
quindi qualsiasi inibitoria per le procedure mobiliari ed
immobiliari pendenti durante la fase del sequestro e
sino alla confisca definitiva.
Inoltre il Legislatore, all’art. 55 del Codice Antimafia, ha
espressamente richiamato il divieto di azioni esecutive
si beni sequestrati, sicchè il richiamo del citato comma
194 alla sola confisca rafforza la impossibilità di bloccare durante la fase del sequestro tutte le azioni esecutive.
L’art. 2 comma 197 della legge di Stabilità sancisce che
gli oneri e pesi iscritti o trascritti sui beni confiscati sono
estinti di diritto.
Il Legislatore quindi ha optato per l’acquisto del patrimonio confiscato da parte dello Stato a titolo originario
e non derivativo, con la conseguenza che tutte le trascrizioni di ipoteche e pignoramenti, ed in generale tutti i
pesi gravanti sui cespiti immobiliari vengono cancellati
con effetto retroattivo.
Tale norma ricalca la previsione dell’art. 53 del codice
Antimafia, secondo cui i crediti per titolo anteriore al
sequestro sono soddisfatti dallo Stato nel limite del 70
per cento del valore dei beni sequestrati o confiscati, risultante dalla stima redatta dall’amministratore o
dalla minor somma eventualmente ricavata dalla vendita degli stessi.
Inoltre si evidenzia che ai sensi dell’art. 2 comma 198
della Legge di stabilità possono essere soddisfatti, nel
limite economico sopra indicato, solo i creditori pignoranti, intervenienti o muniti di ipoteca anteriormente
alla trascrizione del sequestro di prevenzione, lasciando totalmente privi di tutela i creditori chirografari.
Riguardo il procedimento di verifica dei crediti, l’art. 2
commi 199 e 200 stabiliscono che entro 180 giorni dall’entrata in vigore della Legge di stabilità, o dal momento della confisca definitiva per i beni confiscati in data
successiva all’entrata in vigore della suddetta legge, i
titolari dei crediti ipotecari o pignoratizi devono, a pena
di decadenza, proporre domanda di ammissione del credito al Giudice della prevenzione secondo le forme dell’incidente di esecuzione.
Circa l’onere di comunicazione, è previsto che la Agenzia Nazionale deve comunicare ai creditori a mezzo
posta elettronica certificata, ove possibile e, in ogni
caso, mediante apposito avviso inserito nel proprio sito
internet:
a) che possono, a pena di decadenza, proporre domanda di ammissione del credito;
b) la data di scadenza del termine entro cui devono
essere presentate le domande di cui alla lettera a);
c) ogni utile informazione per agevolare la presentazione della domanda a seguito della presentazione delle
domande, Il Giudice, accertata la sussistenza e l’ammontare del credito, nonché la sussistenza delle condizioni di cui all’articolo 52 del d.lgs 159/2011 (buona
fede in capo al creditore e mancanza di strumentalità
illecita del proprio credito) lo ammette al pagamento,
con ordinanza impugnabile, dandone immediata comunicazione all’Agenzia Nazionale.
Il decreto con cui sia stata rigettata definitivamente la
domanda di ammissione del credito è comunicato alla
Banca d’Italia.
Viene quindi cristallizzata la prassi Giurisprudenziale del
previo esperimento dell’incidente di esecuzione avanti il
Tribunale della prevenzione, con la contestuale verifica
di buona fede del creditore, intesa come mancanza di
collegamento del proprio diritto con l’altrui attività criminosa ovvero, nell’ipotesi di sussistenza di un tale nesso, come affidamento incolpevole ingenerato da una
situazione di apparenza che rende scusabile l’ignoranza
o il difetto di diligenza
L’art. 2 comma 201 e 202 della legge di stabilità disciplinano il procedimento di liquidazione dei beni confiscati, ed al riguardo criticabile è il principio secondo cui
il ricavato della liquidazione dei beni per la satisfazione
del ceto creditorio, al posto di essere erogato direttamente agli aventi diritto, viene invece versato al Fondo
unico giustizia e destinato a gestione separata per il
tempo necessario alle operazioni di pagamento dei crediti. Difatti, nella pratica applicativa, le lungaggini burocratiche per lo svincolo delle somme gestite dal FUG
(come nel caso di restituzione delle somme dissequestrate) allungano ed appesantiscono i tempi di effettiva
liquidazione di quanto spettante ai creditori ammessi,
con ulteriore sfiducia nei confronti nell’Istituto delle
misure di prevenzione, che invece dovrebbe caratterizzarsi per dinamicità delle verifiche e tempestività nella
soddisfazione dei soggetti cui sia stata verificata la regolarità ed esistenza della propria ragione creditoria.
SPIAalDIRITTO
Penale
Corruzione e concussione:
siamo entrati in confusione
DI
ELIO PALOMBI
Avvocato, Professore di Diritto Penale e Diritto Processuale Penale - [f.r.] Università degli Studi di Napoli, Federico II - Facoltà di Scienze Politiche
a Corte Suprema di Cassazione con sentenza depositata in data 12 marzo 2013
ha affrontato il problema di successione di leggi penali ex art. 2 c.p., a seguito
dell’entrata in vigore della legge 6 novembre 2012, n. 190, che ha “spacchettato”
l’originaria ipotesi della concussione, prevista dall’art. 317 c.p., in cui venivano parificate le condotte di costrizione e di induzione a dare o promettere l’indebito. Sono state, così, create due nuove ipotesi di reato: la
prima, disciplinata dall’art. 317 c.p., conserva i caratteri della precedente fattispecie
della concussione per costrizione, limitata,
però, quanto alla qualifica soggettiva, al
solo pubblico ufficiale, e con un aumento
del limite edittale minimo della pena, mentre con la seconda ipotesi di reato la condotta di induzione è stata scorporata dall’art.
317 c.p., per essere regolata dall’art. 319
quater c.p., con la denominazione di “induzione indebita a dare o promettere utilità”.
Nel caso esaminato, la Corte Suprema,
inquadrati giuridicamente i fatti contestati,
ha dovuto stabilire in che misura sugli stessi abbia influito la subentrata legge n. 190
del 2012. In altri termini, essendo stato condannato l’imputato per concussione per
induzione, oramai fagocitata dalla ipotesi di
reato di cui all’art. 319 quater c.p., si trattava di chiarire se, a seguito della novella del
2012, sia ipotizzabile una abolitio criminis,
ai sensi dell’art. 2 comma 2 c.p., ovvero una
mera successione di leggi penali nel tempo
regolata dall’art. 2 comma 4 c.p. La Corte,
avendo riconosciuto una continuità di tipo di
illecito tra il precedente reato di concussione per induzione ed il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità,
ha ritenuto di dover optare per la seconda
delle indicate soluzioni, valorizzando, per un
verso, “l’esito del confronto strutturale tra le
due considerate disposizioni”, e, puntando,
per altro verso, sulla “analisi del giudizio di
disvalore che qualifica le due fattispecie,
risultante identico in entrambe le norme,
essendo egualmente colpite – fatta salva la
riduzione, con la nuova legge, del trattamento sanzionatorio – vicende criminose identiche, consistenti nell’iniziativa di induzione
illecita posta in essere da pubblici ufficiali o
incaricati di pubblico servizio”.
Le elucubrazioni teoriche, come al solito, difficilmente risultano comprensibili se non si
sottopone ad analisi il caso concreto preso
in esame dai giudici di legittimità. Nella specie, l’imputato, per una prima vicenda, era
stato condannato in primo grado per tentata concussione, per avere, abusando delle
sue funzioni di Capo ufficio diporto di un
Ufficio circondariale marittimo, cercato di
indurre la vittima a corrispondergli una
imprecisata somma di denaro per agevolare
la rapida evasione di due pratiche di immatricolazione natanti che la titolare dell’agenzia di pratiche nautiche aveva depositato in
quell’ufficio con la richiesta di iscrizione
urgente delle imbarcazioni, rappresentandole altrimenti un allungamento dei tempi
burocratici. L’imputato veniva, altresì, condannato per concussione per avere, in altra
vicenda, nella medesima veste e abusando
delle stesse funzioni, costretto ovvero indotto il titolare di altra agenzia di pratiche nautiche, a consegnargli indebitamente, per circa trenta volte, cento euro per ciascuna pratica, per dare alle stesse sollecita esecuzione.
La Corte d’appello riqualificava i fatti di cui
alla prima contestazione in termini di istigazione alla corruzione propria, dato che la
titolare dell’agenzia aveva rifiutato di dare
seguito alle sollecitazioni di consegna di
somme di denaro, mentre per la seconda
vicenda veniva confermata la configurazione
del reato di concussione per induzione,
L
4
APRILE 2013
tenuto conto che l’imputato aveva assunto
una posizione di preminenza nei confronti
del privato, la cui volontà era risultata coartata, sottostando così alle pretese indebite
del pubblico ufficiale.
Proprio in relazione a questa contestazione
la Corte di Cassazione ha affrontato il problema della continuità normativa tra la concussione per induzione e la fattispecie di cui
all’art. 319 quater c.p., nel frattempo subentrata, risolvendolo, come si è detto, con una
succinta motivazione, alla luce del principio
della successione di leggi penali nel tempo
regolata dall’art. 2 comma 4 c.p.
Le certezze della Suprema Corte, peraltro,
contrastano con i dubbi e le perplessità che
l’Ufficio Studi della stessa Cassazione, nell’imminenza della entrata in vigore della legge, aveva avanzato in una Relazione in cui si
la fattispecie di induzione indebita a dare o
promettere dovrebbero confluire tutte quelle forme induttive in cui l’iniziativa è presa
dal pubblico agente, prescindendo dal contesto in cui si svolgono i rapporti col privato.
In tal modo, la mera iniziativa finisce per
diventare elemento fondante del nuovo reato, anche ove, in concreto, sia stato il privato a spingere il pubblico agente alla intrapresa illecita in un clima di merciminio e di
corruttela generalizzata. Per distinguere la
concussione dalla corruzione si ritorna, così,
al criterio formale dell’iniziativa, che trascura di considerare le motivazioni di fondo che
hanno determinato e spinto – pubblico
agente o privato – a prendere l’iniziativa.
In effetti, nel cercare di risolvere la complessa problematica di differenziazione tra concussione e corruzione, bandendo ogni crite-
un’agenzia di pratiche nautiche che veniva
avvantaggiata dal mancato rispetto dei tempi burocratici.
La riprova che nella specie tra le parti si era
instaurato un rapporto di vera e propria corruttela è data dal fatto che la Corte d’appello non aveva esitato a riqulificare il primo
episodio di tentata concussione in termini di
istigazione alla corruzione propria, dato che
il privato aveva rifiutato di dare seguito alle
sollecitazioni rivoltegli dal pubblico ufficiale di consegna di somme di denaro per il
disbrigo delle pratiche di immatricolazione
nautiche.
Ne consegue che se il rifiuto ad aderire alla
illecita richiesta ha comportato il corretto
inquadramento del fatto nel reato di istigazione alla corruzione, non si vede come,
invece, l’interessata adesione da parte del
nazione per il delitto di corruzione.
La sola iniziativa presa dal pubblico agente, inserita in un rapporto di vera e propria
corruttela, non consente di accordare al
privato sconti di pena del tutto ingiustificati. Colui che sarebbe stato indotto indebitamente a dare o promettere utilità, ma
che si è mostrato interessato all’iniziativa
illecita, viene con la nuova legge punito
con la reclusione fino a tre anni, mentre,
trattandosi sostanzialmente di un corruttore, dovrebbe essere punito con la reclusione da quattro a otto anni.
La rottura dell’equilibrio del sistema penale, creato dai sommi ed autentici giuristi
che avevano elaborato il Codice Zanardelli,
è stata devastante, dal momento che per un
verso, la soppressione della concussione
per induzione impedisce oggi la punizione
osservava che “la diversa caratterizzazione
della nuova ipotesi di reato, rispetto alla fattispecie precedentemente contenuta nell’art. 317 c.p., di concussione per induzione,
rende tutt’altro che scontato il riconoscimento del rapporto di continuità normativa
tra le due previsioni incriminatrici”. Come si
vede, questa conclusione contrasta con l’assunto della Corte Suprema che, nel risolvere
il caso in esame, è partita dal presupposto
“dell’identità del disvalore che qualifica le
due fattispecie, trattandosi di vicende criminose identiche, consistenti nell’iniziativa di
induzione illecita posta in essere da pubblici
ufficiali o incaricati di pubblico servizio”.
Ma se la volontà della vittima, nel caso di
specie esaminato dal Supremo Collegio,
“era stata coartata tanto da dover sottostare alle pretese indebite del pubblico ufficiale”, non si vede come poi il fatto possa essere inquadrato nello schema dell’art. 319
quater c.p. che prevede l’induzione a dare
l’indebito basata sulla mera iniziativa presa
dal pubblico agente, al di fuori di qualsivoglia contenuto coattivo della condotta criminosa.
Secondo la novella normativa del 2012, nel-
rio interpretativo formalistico, bisogna rendersi conto che o la condotta di induzione
mira, attraverso le sue molteplici forme di
estrinsecazione, a coartare la volontà della
vittima e allora è vera e propria costrizione,
oppure nei suoi contenuti e nel suo significato è diretta a persuadere il privato in un
clima di reciproche intese illecite ed in tal
caso ci si muove nell’ambito della tipica attività corruttiva.
Tornando al caso esaminato dal Supremo
Collegio, pur partendo, sia i giudici del merito che quelli di legittimità, dal presupposto
che la volontà della vittima era stata coartata dal pubblico ufficiale, è stato agevole
applicare il principio della successione di
leggi penali nel tempo tra la concussione per
induzione e la nuova figura di indebita induzione a dare o promettere, giacchè nella
realtà fattuale tra il pubblico ufficiale e la
presunta vittima si era instaurato un vero e
proprio rapporto di mercimonio tipico della
corruzione. Da una parte veniva sollecitata
una rapida evasione delle pratiche di immatricolazione dei natanti, mentre dall’altra il
pubblico ufficiale intascava 100 euro a pratica, favorendo in tal modo la titolare di
titolare dell’agenzia di pratiche nautiche
alla richiesta dell’indebito possa configurare
il delitto di concussione e non piuttosto
quello di corruzione propria.
E’ stato facile, pertanto, per il Supremo Collegio, in punto di fatto, far trasmigrare l’ipotesi contestata di concussione nella nuova
figura di indebita induzione a dare o promettere denaro o altra utilità, che rappresenta un’ipotesi anomala, posta a cavallo
tra concussione e corruzione, ma sostanzialmente assimilata a quest’ultima figura di
reato, come è dimostrato dalla estensione
della punibilità al privato prevista dall’art.
319 quater c.p. Si sostiene a tal proposito
che il privato “non essendo costretto ma
semplicemente indotto alla promessa o
dazione, mantiene un margine di scelta tale
da giustificare una pena seppure in misura
ridotta rispetto al pubblico agente”. (Intervento del Ministro Paola Severino Di Benedetto ai lavori delle Commissioni I e II riunite del Senato, in data 5 luglio 2012). Ma se
il privato, benchè indotto, mantiene un margine di scelta, verosimilmente risulta interessato alla trattativa illecita, nel qual caso
non si vede come possa sfuggire all’incrimi-
della concussione fraudolenta, che in quel
codice veniva autonomamente disciplinata,
mentre, per altro verso, l’introduzione del
reato di indebita induzione, inserito nel
contesto dei reati di corruzione propria,
lascia fuori dalla previsione normativa
quelle ipotesi più insidiose di induzione
che, attraverso forme di minaccia implicita
o indiretta, mirano a coartare la volontà del
privato, a meno che non le si voglia far rientrare nella concussione per costrizione
secondo la nuova formulazione dell’art.
317 c.p. In questo caso, però, non si vede il
motivo dell’introduzione della nuova norma
di indebita induzione, dal momento che,
esclusa ogni forma di soggezione del privato alla volontà del pubblico agente, non
rimangono che quelle svariate forme di persuasione che trovano il privato interessato
all’iniziativa in un rapporto di intese reciproche che rientra per via maestra nel delitto di corruzione.
Si è finito, in tal modo, per creare una figura di reato generica, priva di uno spazio
autonomo di applicazione, non certo in
linea con il canone del rispetto del principio
di determinatezza della fattispecie penale.
Spia al diritto
Il mensile
dei giuristi
e non solo
SPIAalDIRITTO
5
APRILE 2013
Procedura Civile
Filtro in appello:
una riforma controversa
DI
GIUSEPPE MOLFINI
Dottorando in Tutela giurisdizionale dei diritti dell’ordinamento interno ed internazionale
l d.l. 22 giugno 2012, n.83, rubricato: “Misure
urgenti per la crescita del Paese”, e convertito con
modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n.134, ha
previsto, tra l’altro, al Capo VII, “ulteriori misure per
la giustizia civile”, aventi ad oggetto modifiche al
sistema delle impugnazioni ed al procedimento di cui
alla legge Pinto. Ciò sul presupposto che anche interventi relativi al nostro processo civile possano contribuire a conseguire maggiore sviluppo economico, evitando appunto che le sue eccessive lungaggini possano interferire con l’obiettivo di contenimento della
spesa pubblica e con il raggiungimento dei traguardi
della stabilità e crescita. Si è registrata, pertanto,
ancora una volta, una ingerenza del sistema economia nel processo civile, costituendo il saggio di legificazione, nella parte dedicata alla Giustizia, un intervento che non è apparso giustificato da esigenze
interne alla procedura, ma da obiettivi esterni, realizzati, indirettamente, mediante la manipolazione di
disposizioni che riguardano il sistema pubblico di
I
risoluzione delle controversie (G. Buffone, Processo
civile: le novità dopo il “Decreto sviluppo”, in Il Civilista, 2012, 5). In seno a detta riforma, nuovo terreno di confronto, o meglio di scontro, tra magistrati ed
avvocati è stato, senza dubbio, l’intervento sulla
disciplina dell’appello e, in particolare, l’introduzione
del c.d. “filtro”. La diatriba tra le due categorie, purtroppo però, come sovente accaduto negli ultimi tempi, non ha trovato origine nello scambio di argomentazioni giuridiche, come sarebbe stato auspicabile,
bensì nell’arroccarsi di ciascuna a difesa del proprio
ruolo professionale. E così, mentre la magistratura ha
salutato con favore quest’ennesima riforma, nella
speranza che possa contribuire a ridimensionare il
suo eccessivo carico di lavoro, l’avvocatura, anche in
relazione ai pregressi interventi legislativi (si pensi ad
esempio all’introduzione dell’oggi dichiarata incostituzionale mediazione obbligatoria), ha parlato addirittura di un “filtro ai diritti” (così B. Piacci nel suo
intervento alla “Giornata Europea della Giustizia
Civile” organizzata dalla Corte di Appello di Napoli il
24 ottobre 2012), sollevando la questione di una progressiva, preoccupante, riduzione delle garanzie
offerte a quel “malcapitato” che necessiti di ottenere tutela di una propria situazione sostanziale. In
realtà ci si sarebbe dovuti attendere una serena disamina dei molti aspetti controversi della riforma, sia
da parte dei magistrati che degli avvocati, scevra da
ogni condizionamento di “campanile”, perché molte
sono le censure cui la stessa è obiettivamente passibile, soprattutto con l’introduzione, nei nuovi articoli
348 bis e ter c.p.c., di un giudizio di inammissibilità
per gli appelli che non abbiano “ragionevole probabilità” di essere accolti.
Se, infatti, la finalità della riforma può essere condivisibile, non altrettanto lo sono il metodo utilizzato
dal legislatore nella sua realizzazione e le soluzioni
dallo stesso concepite. Giusta, dunque, appare la premessa: una seria riforma del processo civile (ammalato di irragionevole durata, n.d.r.) non può prescindere da una profonda revisione e ridimensionamento
del sistema delle impugnazioni, in quanto un secondo giudizio di fatto, come dovrebbe essere l’appello
SPIA AL DIRITTO
N. Registrazione 77 del 3/12/2012
COMITATO SCIENTIFICO
Andrea Abbagnano Trione
Giuseppe Amarelli
Benedetta Bruno
Gian Paolo Califano
Luigi Cannavale
Alberto Capuano
Geremia Casaburi
Luca Cestaro
Vincenzo Crasto
Anna Galizia Danovi
Maurizio de Tilla
Settimio Di Salvo
Alfonso Furgiuele
Ugo Grassi
Alessandro Limatola
attuale, non si giustifica, ciò perché il vero giudizio di
fatto è quello che si pone in rapporto di immediatezza con l’assunzione delle prove e discende da una
partecipazione diretta del giudice alle attività istruttorie (Denti, Riforma o controriforma del processo
civile? Un progetto per la giustizia civile, Bologna,
1982, 288). Del tutto opinabile, invece, è innanzitutto il fatto che il nostro legislatore abbia nuovamente
acriticamente calato nel nostro processo un istituto
previsto in altro ordinamento, stavolta importandolo
da quello tedesco, senza prendere nella dovuta considerazione le differenze esistenti tra un sistema e
l’altro. La più immediata fonte di ispirazione all’introduzione di un filtro di inammissibilità è stata, invero,
la riforma del 2001 del § 522, Abs. 2 e 3 ZPO, che,
tuttavia, si innestava in un disegno più generale che
non toccava solo l’appello, con l’introduzione del “filtro” al giudizio di secondo grado, ma anche la terza
istanza, nonché alcuni aspetti del giudizio di prime
cure, attraverso alcune novità dirette a migliorare la
cognizione in quel grado, in particolare mediante
l’ampliamento dei poteri officiosi del giudice. Il tutto
in una prospettiva di razionalizzazione dello svolgimento del processo ordinario di cognizione nel suo
complesso, al cui interno l’appello doveva porsi come
un giudizio di revisione, caratterizzato da un giudice
tendenzialmente vincolato alla ricognizione in fatto
compiuta in primo grado, la cui attività doveva indirizzarsi, in prima battuta, al controllo degli errori e
non più, come in precedenza, alla rinnovazione dell’accertamento, che non necessariamente conduce a
risultati più affidabili rispetto a quelli conseguiti in
primo grado. (R. Caponi, La riforma dei mezzi di
impugnazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2012,
1158 ss). È da dire, poi, che il legislatore italiano, nel
suo fervore riformista, non ha nemmeno tenuto in
conto del fatto che la detta disposizione era stata
oggetto di severe critiche da parte della dottrina, tanto da indurre il legislatore tedesco ad introdurvi dei
correttivi nel 2011 – soprattutto dopo che, nel 2006,
il Tribunale costituzionale federale l’aveva addirittura
dichiarata parzialmente incostituzionale – e, di poi,
come suo solito, ha inciso in modo atomistico e nient’affatto armonico rispetto al generale impianto del
nostro processo civile.
Ma non è tutto. Come in precedenza anticipato, le più
stringenti critiche devono essere rivolte soprattutto al
modo in cui è stato concepito il meccanismo che consente la rapida definizione del gravame mediante una
dichiarazione di inammissibilità per motivi di merito.
In primo luogo, il canone della “non ragionevole probabilità di accoglimento” è molto diverso da quello
preso in considerazione da altre disposizioni del codice di rito e, in particolare, non coincide con quello
della manifesta infondatezza, il quale ultimo presuppone che l’iniziativa impugnatoria mostri ictu oculi la
propria inanità. Viceversa la “non ragionevole probabilità di accoglimento” può aversi ogni qual volta
l’impugnazione non palesi immediatamente la sua
serietà, con una gamma di variabili ampia quanto è
ampia e sfuggente la nozione di ragionevolezza (G.
Impagnatiello, Crescita del Paese e funzionalità delle
impugnazioni civili: note a prima lettura del d.l.
83/2012, in www.judicium.it, 3), ed offre al giudice
dell’impugnazione un margine di apprezzamento
eccessivo, consentendogli di dichiarare inammissibile
un’impugnazione che pure abbia una probabilità di
essere accolta, sol che questa probabilità sia, a suo
giudizio, non “ragionevole” (Caponi, in Op. cit.,
1163. In tal senso anche M. De Cristofaro, Appello e
cassazione alla prova dell’ennesima “riforma urgente”: quando i rimedi peggiorano il male , in
www.judicium.it, 4. Contra: G. Buffone, in Op. cit.,
26, il quale ritiene che, eliminando dall’espressione
legislativa dell’art.348 bis c.p.c. l’aggettivo che qualifica la probabilità, il testo è univoco e il Collegio
dichiarerà la inammissibilità del gravame che “non
ha una probabilità di essere accolta”), evocando,
sembrerebbe, quel giudizio prognostico del fumus
boni iuris, rilevante, però, a tutt’altri fini. Tutto questo
potrebbe dischiudere spazi pericolosamente ampi di
applicazione della norma, destinati a dilatarsi od a
restringersi in dipendenza di fattori esterni, quali i
carichi di lavoro dell’ufficio, la maggiore o minore
scopertura di organico, l’incidenza dei procedimenti
Direttore Responsabile
Innocenzo Militerni
Claudia Maone
Monica Marrazzo
Cristina Maria Militerni
Gianluca Militerni
Luciano Moccia
Carlo Montella
Gianluigi Morlini
Domenico Luca Musto
ex legge Pinto, etc. (G. Impagnatiello, in Op. cit., 3).
In secondo luogo è da segnalarsi come l’obiettivo di
accelerare il giudizio di appello era stato già perseguito in modo più razionale appena alcuni mesi prima della riforma in esame, con l’introduzione della
possibilità di applicare anche in secondo grado il
modello decisorio a seguito di trattazione orale ex
art.281 sexies c.p.c. (che, però, può essere adottato
non solo per il caso del rigetto, ma anche dell’accoglimento), cosicché l’ultimo intervento, introdotto,
peraltro, senza nemmeno attendere di valutare l’impatto pratico delle precedenti modifiche del novembre 2011, potrebbe apparire, per lo meno dal punto
di vista della deflazione del giudizio di gravame,
come un vero e proprio doppione che potrebbe dar
vita a problemi di coordinamento. Infatti, di fronte ad
una evidente “debolezza” del gravame, la scelta
discrezionale della Corte sul provvedimento da adottarsi (sentenza di rigetto a seguito di trattazione orale ovvero ordinanza di inammissibilità), potrebbe avere delle ricadute sulla sentenza impugnata e sul successivo ricorso per Cassazione: nel caso di sentenza
di rigetto ex art.281 sexies, infatti, questa sostituirà
la sentenza di prime cure e sarà ricorribile presso la
S.C., mentre nel caso dell’ordinanza di inammissibilità, impugnabile in sede di legittimità sarà solo il
provvedimento di primo grado senza nemmeno che,
nell’ipotesi della c.d. doppia conforme, ovvero nell’ipotesi di inammissibilità dichiarata per le stesse
ragioni, inerenti al fatto, poste a base della decisione
impugnata, questo possa essere censurato per vizio
di motivazione.
Altra difficoltà discende, poi, dalla scelta del nostro
legislatore che, pur volendosi ispirare al § 522 della
ZPO, nella sua versione del 2001, non ha potuto
attribuire alla decisione della Corte di Appello – qualora il gravame non avesse una ragionevole probabilità di essere accolto – la veste di provvedimento di
rigetto non impugnabile, come nella disposizione
processuale tedesca, “ripiegando” per l’ordinanza di
inammissibilità. Questo in quanto nel nostro sistema
non sarebbe stato possibile inserire un provvedimento (preliminare) di rigetto del gravame che non fosse
impugnabile in Cassazione, ostandovi il disposto
l’art.111, VII, Cost. Di conseguenza, insistendo sulla
scelta della non impugnabilità del provvedimento, si
è inteso, con qualche astuzia, aggirare l’ostacolo,
mascherando come provvedimento di contenuto
endoprocessuale – l’inammissibilità – un provvedimento che è sostanzialmente di merito (G. Verde,
Diritto di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni, in www.judicium.it, 3). Ed il problema risiede proprio nella circostanza che l’ordinanza che dichiara
l’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art.348 bis
non sia impugnabile presso il Supremo Collegio
(quantomeno stando alla lettera dell’art.348 ter che,
assoggettando a ricorso in Cassazione la sentenza
appellata, parrebbe, appunto, voler negare un’autonoma impugnazione dell’ordinanza). Invero non si
può escludere che la stessa possa essere affetta da
vizi formali o sostanziali: potrebbe, per esempio, contenere un error in procedendo, tale da incidere direttamente sul contraddittorio o sul diritto di difesa delle parti, oppure un errore di fatto revocatorio. In questi casi sembra difficile sostenere che l’ordinanza che
abbia negato la trattazione dell’appello non sia autonomamente censurabile. Viepiù che l’eventuale cassazione della sentenza di primo grado non assicura
alla parte la celebrazione del giudizio d’appello
ingiustamente negato, ma, per espressa previsione
del nuovo ultimo comma dell’art.383 c.p.c., mette
capo ad un normale giudizio di rinvio (ancora G.
Impagnatiello, in Op. cit., 5). Per porre rimedio alla
questione dovrebbe quindi sostenersi che l’ordinanza
di inammissibilità è un provvedimento decisorio, da
ricondurre tra quelli per i quali è possibile il ricorso
per cassazione ai sensi dell’art.111, VII, Cost. E per
compiere una simile operazione “ortopedica” sarà
necessario dire che l’ordinanza di inammissibilità
incide sul diritto all’impugnazione (e quindi è decisoria) e che è possibile convogliare dinanzi alla S.C. il
ricorso avverso l’ordinanza di inammissibilità e quello avverso la sentenza di primo grado, in quanto il
primo ricorso pone una questione pregiudiziale
rispetto al secondo. Ciò, nonostante la Cassazione si
Direttore Scientifico
Lucio Militerni
Antonio Nardone
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Alfonso Quarto
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sia fin ora limitata solo ad affermare che è possibile
portare contemporaneamente al suo esame due decisioni emesse in gradi diversi, di cui l’una pregiudiziale all’altra. Tale questione, invero, si verifica nel caso
in cui la pronuncia pregiudicante riguarda alcuni elementi della fattispecie dedotta in giudizio, di talché la
decisione sulla pronuncia pregiudicata si lega necessariamente a quell’altra pronuncia, mentre nel nostro
caso la situazione è diversa: ciò in quanto l’ordinanza di inammissibilità ha esattamente la stessa res
iudicanda della sentenza di primo grado, per cui il
pregiudizio sta tra due valutazioni che riguardano
entrambe la fondatezza della pretesa il cui diniego
del primo giudice è stato confermato dal secondo per
“non ragionevole probabilità” di accoglimento. In
questa ipotesi, insomma, non si tratta di giudizio pregiudicante diverso da quello pregiudicato, ma proprio
del medesimo giudizio espresso da due giudici diversi e di cui il secondo è sovraordinato (G. Verde, in Op.
cit., 4).
In ultimo non può non rilevarsi che la riforma in commento, verosimilmente, si porrà in contraddizione con
tutti quegli interventi che, nell’ultimo periodo, sono
stati indirizzati al tentativo di contenere il contenzioso davanti alla Corte di Cassazione, al fine di restituirle, effettivamente, il ruolo di garante dell’uniforme
interpretazione della legge. A seguito di quest’ultima
novella, infatti, sarà facile prevedere addirittura un
aggravio del carico di lavoro della S.C.: la “abolizio-
ne” dell’appello, che sostanzialmente si avrebbe in
tutti i casi di pronuncia di inammissibilità, significherebbe, difatti, fare aumentare a dismisura il numero
dei ricorsi per Cassazione, in quanto questo sarebbe
l’unico rimedio ordinario attraverso cui dare sfogo
alla garanzia soggettiva dell’impugnazione (Caponi,
in Op. cit., 1162). In conclusione può dirsi che, se è
vero che un tal tipo di riforma, come da taluno auspicato, non può essere tacciata di incostituzionalità –
giacché il doppio grado di giurisdizione può essere
addirittura rimosso, non avendo copertura costituzionale generalizzata (C. Cost. ord. n.410/2007) e, quindi, a maggior ragione, il suo accesso “filtrato” da
verifiche preliminari tali da renderlo più restrittivo – è
vero anche che, in ragione di tutte le evidenziate problematiche ad essa connesse, la “cura” dalla stessa
prescritta sarà, con tutta probabilità, più dannosa
della “malattia”.
Ciò detto bisogna augurarsi che il legislatore, per il
futuro, accantoni finalmente l’idea di poter porre
rimedio alle endemiche disfunzioni del nostro ordinamento giurisdizionale attraverso continue, singole,
slegate misure “spot” a costo zero – sino ad oggi
rivelatesi sempre dei completi fallimenti – rendendosi finalmente conto che una sola è la via maestra per
il raggiungimento di un processo più celere, dalla
durata “europea”, ovvero il riordino strutturale del
sistema giustizia nel suo complesso che non può che
partire, come peraltro sottolineato dalla migliore dottrina, dall’investimento di più risorse al settore e dal
conseguente aumento degli organici di magistrati e
cancellieri, assolutamente sottodimensionati, giacché
non si può e non si deve dimenticare che il processo
“cammina” proprio sulle loro gambe.
Capo redattore
Manuela Militerni
Giovanni Contrada
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Alessandro De Santis
Valentina De Stefano
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SPIAalDIRITTO
APRILE 2013
Medicina Legale
Violazione della legge sulla privacy
e diffusione dei dati sensibili durante
le consulenze tecnico medico-legali
a Legge 675 del 31/12/96 “Tutela delle persone e di altri
soggetti rispetto al trattamento dei dati personali” garantiva in virtù degli accordi di Schengen che il trattamento
dei dati personali avvenisse nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità delle persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza e all’identità personale. Il
Decreto Legge n.196 del 30/06/2003 “Codice in materia di
protezione dei dati personali” ha abrogato la precedente legge, per la sopravvenuta complessità normativa che si è creata
in seguito all’introduzione e all’approvazione di diverse regole e disposizioni. Durante la trattazione dell’argomento, definiremo “CODICE DELLA PRIVACY” quanto citato del D.L.
n.196/03 in materia di protezione dei dati personali.Lo scopo
del Codice della Privacy è il riconoscimento del diritto del singolo individuo sui propri dati personali, e, conseguentemente,
la disciplina delle diverse operazioni di gestione dei dati per
quanto riguarda la raccolta, l’elaborazione, il raffronto, la cancellazione, la modificazione, la comunicazione o la diffusione.
La finalità è quella di evitare che il trattamento dei dati avvenga senza il consenso dell’avente diritto, ovvero in modo da
recargli pregiudizio. L’autorità nazionale di controllo che assicura tale diritto è quella del Garante (dotato anche di poteri
sanzionatori) che si affianca al Giudice Civile. Per dati personali s’intende qualunque informazione relativa alla persona
fisica, giuridica, ente o associazione, identificati od identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi
altra informazione, ivi compreso un numero d’identificazione
personale (art.4 comma 1, lett. b del Codice della Privacy). Per
dati sensibili s’intendono quei dati personali idonei a rivelare
l’origine razziale ed etnica, le convinzioni filosofiche, religiose
o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale (art.4, comma 1, lett. d del Codice della Privacy). Per dati giudiziari s’intendono quelle notizie
concernenti provvedimenti giudiziari inerenti l’individuo o il
soggetto giuridico. Per dati sanitari s’intendono, esclusivamente, i dati personali in ambito sanitario, e sono quelli idonei a rivelare lo stato di salute, ovvero tutte quelle notizie ed
informazioni positive e/o negative sulle condizioni corporali e
mentali di un individuo. Ai dati sanitari il Codice della Privacy
dedica particolare attenzione, relativamente alle cautele e
misure di sicurezza durante il loro trattamento; l’articolo 22,
comma 8 e l’articolo 26, comma 5, ne dispongono il divieto
di diffusione.
Il Consulente tecnico e la legge sulla privacy:
Il Codice della Privacy consente, però, che gli organismi pubblici e privati possano ottenere il consenso, per iscritto, al trattamento dei dati sanitari, dopo che l’interessato abbia letto l’
informativa (art.13 del Codice della Privacy).
Tuttavia l’art.47, comma 1, del Codice della Privacy dispone
che il trattamento di dati personali effettuato, per ragioni di
giustizia, presso uffici giudiziari di ogni ordine e grado, presso
il Consiglio Superiore della Magistratura e il Ministero della
Giustizia, non necessiti di richiesta di consenso da parte dell’interessato.
Ne consegue che i medici legali che assistono il giudice nel
giudizio civile e/o in quello penale, redigendo relazioni ed
essendo qualificabili come “ausiliari del giudice”, rientrino
nell’esenzione prevista dal suddetto art. 47, comma 1.
L’attività peritale sarà annoverata tra i trattamenti effettuati
per ragioni di giustizia (art.47, comma 2).
Il Consulente Tecnico d’ufficio potrà procedere all’esame di
tutto quanto sia necessario per una completa ed esaustiva
compilazione di una relazione medico-legale, in risposta ai
quesiti posti dal Magistrato, senza dover porre l’informativa
all’interessato dal procedimento giudiziario.
Meno agevole è la situazione per quanto riguarda, invece, i
medici legali che operano su incarico delle parti in giudizi civili e penali. Per essi, che non sono ausiliari del giudice, non
sono censiti orientamenti che consentano di affermare con
sicurezza che anche tali soggetti vadano compresi tra coloro
che effettuano trattamenti “per ragioni di giustizia”. E’ tuttavia sostenibile che l’attività di detti consulenti ricada in quest’
ambito, quando si ritenga che il trattamento da essi effettuato sia considerabile come direttamente correlato alla trattazione giudiziaria di affari e controversie. Va correlato, però, a tale
concetto, il dato essenziale che essi agiscano ed intervengano
nel processo previa “formale nomina” conferita dai difensori
delle parti.
A sostegno di quanto finora sostenuto c’è anche l’art. 26,
comma 4, lettera c del Codice della Privacy, secondo cui i dati
sanitari possono essere oggetto di trattamento, anche senza
il consenso, purché il diritto da tutelare in sede di svolgimento d’investigazioni difensive, o comunque da far valere o
difendere in sede giudiziaria, sia di “pari rango” a quello dell’interessato al trattamento.
Il principio, quindi, appare pienamente trasferibile ai consulenti di parte in sede civile, ove sono di norma contrapposti diritti risarcitori di segno inverso. Pertanto si potrebbe ipotizzare
valida l’attivazione dell’esenzione dal consenso prevista dall’articolo 26 quando il medico legale, esplicando attività professionale nell’interesse di una parte del giudizio risarcitorio,
debba trattare dati sanitari del contraddittore.
La Delibera n.46/08 del Garante:
Con la Delibera n.46 del 26/06/2008 il Garante per la protezione dei dati personali ha emesso le “Linee guida in materia
di trattamento di dati personali da parte dei Consulenti tecnici e dei Periti ausiliari del Giudice e del Pubblico Ministero”.
L
6
Le linee guida mirano a fornire precise indicazioni di natura
generale ai professionisti nominati dall’Autorità Giudiziaria
nell’ambito di procedimenti penali, amministrativi e civili.
Inoltre le regole dettate dalle linee guida devono essere
rispettate anche da parte di coloro che svolgono le attività
professionali di Consulenti delle parti private con riferimento
a procedimenti giudiziari.
Ricordiamo che la figura del Consulente Tecnico è sancita dall’art.61 del Codice di Procedura Civile: “Quando è necessario
il Giudice può farsi assistere, per il compimento di singoli atti
o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare
competenza tecnica. La scelta dei Consulenti deve essere normalmente fatta tra le persone iscritte in albi speciali a norma
delle disposizioni di attuazione al presente codice”.
Gli obblighi previsti per i Consulenti tecnici e periti contenuti
nella Delibera n.46/2008 richiamano in realtà la piena applicazione delle altre disposizioni contenute nel Codice della Privacy, in particolare il trattamento dei dati, che deve rispettare
due fondamentali precetti:
Il rispetto dei principi di liceità e correttezza che riguardano la
qualità dei dati di cui all’art.11.
Le misure di sicurezza idonee a preservare i dati da eventi tra
i quali accessi ed utilizzazioni indebite di cui all’art.31.
L’art.11, comma 1, lettera a, cita che i dati personali e sensibili devono essere trattati in modo lecito e secondo correttezza. Nella violazione della liceità rientra il comunicare ingiustificatamente a soggetti terzi, o comunque non regolarmente
definiti dalla procedura nella quale il professionista svolge il
proprio incarico su mandato dell’autorità giudiziaria, informazioni, dati e notizie o atti riguardanti la procedura stessa o dei
soggetti in essa coinvolti.
Il concetto di correttezza attiene alla qualità del comportamento da osservare e rispettare da parte del consulente,
improntato alle buone regole della morale e dell’educazione,
riguarda anche la necessità di evitare comportamenti che possano incidere sulla dignità del soggetto interessato, mediante
comunicazioni che palesino ad osservatori terzi o estranei il
contenuto dell’ azione operata dal consulente.
Si sottolinea, quindi, che è assolutamente da escludersi il riferimento d’informazioni personali relative a soggetti estranei al
procedimento.
L’articolo 31 sancisce che il trattamento dei dati, effettuato a
cura dei Consulenti tecnici e dei periti, deve avvenire con
l’adozione di misure di sicurezza tali da preservare il possibile
accesso e/o utilizzazione indebita. Tali misure riguardano condizioni organizzative relative a prassi e modalità di svolgimento del trattamento, e tecniche di prevenzione per la conserva-
zione e la comunicazione dei dati, sia informatici che cartacei.
È evidente il fondamentale principio di vigilanza che il Consulente tecnico o il perito debbano attentamente non diffondere dati sensibili e ulteriori informazioni raccolte nel corso delle operazioni a persone estranee ai fatti.
Ricevuto l’incarico e sino al momento della consegna delle
risultanze dell’attività svolta, incombono sugli ausiliari del giudice le responsabilità e gli obblighi relativi al profilo della sicurezza prescritti dal Codice della Privacy.
L’ausiliario è tenuto, infatti, ad impiegare tutti gli accorgimenti idonei ad evitare un’indebita divulgazione delle informazioni, adottando idonee misure di sicurezza, la cui mancata adozione costituisce fattispecie penalmente sanzionabile
(art.169 del Codice della Privacy).
In particolare il Consulente tecnico deve assicurarsi che le parti siano rappresentate nel procedimento medico-legale, attraverso i propri consulenti, con le modalità e nel rispetto dei
limiti fissati dall’attuale normativa.
L’articolo 201 del Codice di Procedura Civile:
Il Codice di Procedura Civile all’articolo 201 sancisce: “Il Giudice istruttore con ordinanza nomina il consulente e assegna
alle parti un termine entro il quale possono nominare, con
dichiarazione ricevuta dal cancelliere, un loro consulente tecnico”.
Le parti, presenti nell’udienza di conferimento dell’incarico al
Consulente tecnico, hanno la possibilità di farsi assistere nel
corso delle operazioni peritali da dei consulenti.
L’articolo 87 del Codice di Procedura Civile specifica, inoltre,
che la parte può farsi assistere da uno o più avvocati, ed
anche da un consulente tecnico di parte, nei casi e nei modi
stabiliti dalla legge. Il giudice chiede ai difensori se vogliono
nominare dei consulenti, precisando se intendono farlo nella
stessa sede o in un momento successivo.
Se i difensori procedono alla nomina durante la stessa udienza d’incarico del consulente tecnico, devono indicare nel verbale redatto le generalità del sanitario scelto, ben definendo il
suo domicilio, o recapito (art. 91 e 201 comma I del Codice di
Procedura Civile).
Se intendono, invece riservare la nomina a un momento successivo, il giudice li autorizza, ponendo solitamente come termine ultimo per formalizzare la nomina, la data fissata dal suo
ausiliare per l’inizio delle operazioni peritali.
Si ricorda che il termine per la nomina del Consulente di parte è un termine ordinatorio, con la conseguenza che:
prima della scadenza la parte interessata può instare per una
proroga, sempre che sussista un giustificato motivo.
Dopo la scadenza del termine non può essere né prorogato né
nuovamente concesso (Cass.1 sez.n.8976/92)
Nel caso di nomina all’atto del conferimento dell’incarico al
C.T.U., ovviamente, non vi sono ulteriori incombenze per la
parte, mentre, se la nomina avviene successivamente, il difensore deve provvedere al deposito di una specifica comunicazione di avvenuta nomina, da consegnarsi in cancelleria prima
della scadenza del termine fissato dal giudice.
E’ il Cancelliere che deve dare comunicazione al Consulente
di Parte regolarmente nominato delle indagini predisposte dal
Consulente d’Ufficio, perché vi possa assistere a norma degli
articoli 91, 194 e 201 del C.P.C.
Il Consulente tecnico del giudice, all’inizio delle operazioni
peritali, laddove i Consulenti di parte non siano stati indicati
all’atto del suo incarico, deve ricevere copia della nomina,
vidimata dalla cancelleria, ed inserirla nella documentazione
inerente al procedimento, riportando l’argomento nel verbale
che andrà a redigere durante la sua azione.
Si ribadisce che la nomina dei Consulenti di parte deve essere tassativamente presentata in cancelleria e non direttamente al CTU in sede di apertura delle operazioni peritali, pena la
nullità della nomina stessa.
La consegna o la semplice comunicazione verbale della nomina del consulente di parte, costituirebbe un passaggio delle
attività processuali dal Giudice al suo ausiliare, che è inammissibile e nullo. Il Consulente del giudice deve richiedere alle
parti, all’atto dell’apertura delle operazioni peritali la conferma, da verbalizzare, dell’avvenuta nomina, secondo il rituale;
mancando tale conferma il Consulente di parte nominato non
può essere ammesso alle operazioni.
Tale momento risulta di fondamentale importanza, in quanto
il Consulente del giudice ha l’obbligo, seguendo quanto cita il
Codice di Procedura Civile, di ammettere alle proprie operazioni solo ed esclusivamente persone che ricoprano un ruolo
ben preciso, ma soprattutto delineato secondo quanto citato
dall’art.201; il mancato rispetto della normativa condurrebbe
infatti, oltre alla nullità del procedimento peritale, anche
all’impropria divulgazione, verso soggetti estranei, di fatti e
notizie di carattere giudiziario, e, conseguentemente verso
sanzioni previste ai sensi dell’art.169 e 170. del Codice della
Privacy che tutela la protezione dei dati.
A maggior ragione risulta ancor più irrituale ed inammissibile,
come avviene a volte nella prassi, che la parte possa nominare un Consulente con facoltà di farsi sostituire o, addirittura
che sia lo stesso Consulente di parte a prendere l’iniziativa,
arrogandosi il diritto di delegare un suo sostituto.
Tale illecito comportamento da parte di un Consulente di parte oltre a violare quanto citato dall’art.201 del Codice di Procedura Civile, e, quindi in concreto il diritto di difesa dell’altra
parte (Cass.Sez.Lav.07/07/200 n.923), viola quanto previsto
dal D.L.n.196/03 in materia di protezione dei dati personali.
Un Consulente tecnico incaricato dal giudice ha il dovere di
vigilare nel rispetto dei due fondamentali precetti relativamente ai principi di liceità e correttezza che riguardano la
qualità dei dati di cui all’art.11 ed alle misure di sicurezza idonee a preservare gli stessi da eventi tra i quali accessi ed utilizzazioni indebite di cui all’art.31.
Venendo meno a tale compito l’ausiliare del giudice produce
un illecito penalmente perseguibile, secondo le sanzioni previste dalla legge sulla privacy, e in particolare secondo quanto
previsto dall’articolo 169 che sancisce “Chiunque, essendovi
tenuto, omette di adottare le misure minime di sicurezza previste è punito con l’arresto sino a due anni o con l’ammenda
da 10.000 a 50.000 Euro” e dall’art.170 che sancisce
“Chiunque, essendovi tenuto, non osserva il provvedimento
adottato dal Garante, è punito con la reclusione da tre mesi a
due anni”.
Conclusioni:
Al termine della nostra esposizione risulta chiara la duplice
funzione del Consulente Tecnico d’ufficio non solo quale
esperto valutatore del danno, ma anche come scrupoloso
osservatore e tutore della procedura giuridica e della legge
sulla privacy.
Nella sua qualità di ausiliare del Giudice, il Consulente Tecnico deve attentamente controllare la correttezza del procedimento peritale, assicurando un imparziale comportamento e un confronto paritetico e democratico alle parti
contrapposte.
Deve, inoltre, proteggere il diritto di riservatezza dei dati in
suo possesso, salvaguardandoli da improprie diffusioni a
figure che non siano state preventivamente inquadrate nei
ruoli di consulenti di parte, nel rispetto delle previsioni della Norma. Ciò al fine di rispettare pienamente quei principi
di liceità e di salvaguardia previsti dall’articolo 11 e dall’articolo 31 del Codice della Privacy ed evitando così di esporsi a procedimenti penali che la parte lesa nei suoi diritti,
potrebbe intraprendere nei suoi confronti.
Dr. Giovanni Cirillo
(Specialista in Medicina Legale e delle Assicurazioni,
Specialista in Medicina dello Sport, Dirigente I Livello
Medicina Legale ASL Napoli 1
Dr.Simeone Virgilio Rotondo
(Specialista in Medicina legale e delle Assicurazioni)
Dr.Vincenzo Verrengia
(Specialista in Medicina dello Sport, Specialista in Cardiologia)
Dr. Ivano Cirillo
(Dottore in Comunicazione d’impresa, Giornalista)
Paola Grumiro
(Studentessa universitaria in Giurisprudenza)
SPIAalDIRITTO
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APRILE 2013
Amministrativo
Il rilievo della nullità
tra tradizione e nuove nullità
dattamento dall’articolo “Il rilievo della nullità tra
tradizione e nuove nullità. Tipologie di nullità, oneri
delle parti e poteri del giudice” pubblicato in Altalex
Esami & Concorsi n. 4-2013
1. Premessa.
Questo breve articolo intende dar conto ai lettori di alcuni
questioni sorte in merito al regime del rilievo officioso delle nullità distinguendo tra nullità ‘ordinaria’ e nullità speciali (o di protezione) e fornendo le prime indicazioni sull’importante Sentenza delle Sezioni Unite del 04 settembre
2012 n. 14828 che ha costituito un ‘revirement’ sulla questione della rilevabilità di ufficio della nullità nel caso in cui
si sia azionato il rimedio della risoluzione del contratto.
A
2. I caratteri della nullità tradizionale e le nullità di
protezione.
La fenomenologia della nullità, intesa in senso tradizionale, è la seguente: la nullità è posta a presidio non di interessi settoriali o di parte, bensì di interessi generali della
collettività; - la nullità comporta la definitiva inefficacia del
negozio sin dall’origine (le eccezioni, pur presenti nell’ordinamento consistono principalmente: nel peculiare regime
della trascrizione che può comportare il consolidamento
dell’efficacia del contratto nullo; nella conversione del contratto; nella conferma della donazione e del testamento); conseguentemente, è sancita con Sentenza meramente
dichiarativa dell’inefficacia ex tunc del negozio (nel caso
dell’annullamento, invece, è richiesta una pronuncia costitutiva); - il negozio nullo è insuscettibile di convalida, ma
può esser convertito in altro negozio alle condizioni stabilite dell’art. 1424 c.c.; - la nullità è, inoltre, assoluta perché
può essere richiesta da tutte le parti oltre che dai terzi che
ne abbiano interesse (art. 1421 c.c.); - infine, di regola, la
nullità di singole clausole non importa la nullità dell’intero
contratto a meno che non risulti che le parti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è
colpita dalla nullità (art. 1419 c.c.).
Le cd. nullità di protezione (in particolare, quelle poste dalla legislazione consumeristica a tutela dei consumatori e, in
genere, quelle volte a proteggere il contraente che si trovi
in una posizione di sostanziale debolezza di fronte all’altro)
presentano una struttura parzialmente eccentrica rispetto
al modello appena menzionato. In primo luogo, infatti,
sono poste in via diretta e immediata a protezione dell’interesse di una sola parte (il cd. contraente debole), pur
coincidente con un interesse “generale” all’equità delle
contrattazioni. In secondo luogo, la nullità è sempre parziale perché colpisce la singola clausola illecita (in particolare,
le cd. clausole vessatorie, v. artt. 33 e ss. codice del consumo, D.lgs. 206/2005) senza possibilità di estensione all’intero contratto (se tanto avvenisse, il contraente tutelato ne
ricaverebbe uno svantaggio: si pensi a un contratto di
mutuo che dovesse essere dichiarato interamente nullo in
seguito alla vessatorietà solo di alcune clausole; il consumatore, in tal caso, non solo perderebbe il finanziamento
ma sarebbe obbligato a restituire quanto ricevuto). La
distinzione più rilevante, peraltro, risiede nel carattere ‘relativo’ della nullità in questione che, come si è detto, è posta
a tutela dell’interesse di una sola parte con ovvie inferenze sul regime del ‘rilievo’ della nullità in sede giudiziale.
3. Il rilievo “delle nullità” nella più recente giurisprudenza.
Cenni al regime della nullità tradizionale e di protezione
Le nullità di protezione, quindi, pur essendo rilevabili di
ufficio, operano «soltanto a vantaggio del consumatore»
(art. 36 co. 3 cod. consumo). In ragione di questo particolare regime, si ritiene che ‘i terzi’ (in quanto mai ‘interessati’) non possano farla valere in giudizio. Inoltre, essendo
posta a tutela di una sola parte, la nullità è rinunciabile dalla parte medesima con effetto, secondo alcuni, di tipo
“validativo”, mentre secondo altri la rinuncia in giudizio di
volersi avvalere della nullità da parte del consumatore (o,
comunque, del contraente cd. debole) avrebbe conseguenze solo sul piano processuale. L’adozione dell’una o dell’altra tesi comporta rilevanti effetti: se si adotta la prima,
l’eventuale estinzione del giudizio non incide sull’avvenuta
convalida, determinandosi, quindi, una definitiva preclusione ad invocare la nullità; la seconda tesi, invece, ritiene che
ad un’eventuale estinzione del giudizio, non consegua una
simile preclusione in quanto nessun effetto di convalida si
sarebbe determinato e, quindi, il consumatore potrebbe
ben invocare la nullità in un nuovo processo. Sulla possibilità di rinunciare alla nullità da parte del consumatore merita di essere segnalato l’intervento della Corte giustizia CE
sez. IV, 04 giugno 2009, n. 243 che ha stabilito che il giudice nazionale se considera abusiva una clausola, deve rilevarne d’ufficio la nullità, purché però il consumatore “non
vi si opponga”.
Del resto, il giudice non potrebbe rilevare d’ufficio la nullità (tanto tradizionale quanto di protezione) senza prima
aver consentito alle parti di interloquire sul punto (sul divieto per il giudice di sollevare questioni rilevabili di ufficio ‘a
sorpresa’, cioè senza averlo preannunziato alle parti, v.
Cass. 21108/05, nonchè l’art. 101 c.p.c., secondo comma,
aggiunto dall’art. 45, co. 13, della L. 18 giugno 2009, n.
69: «se ritiene di porre a fondamento della decisione una
questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione,
DI
LUCA CESTARO
Magistrato del T.A.R. Campania, Componente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa
assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non
inferiore a venti giorni e non superiore a quaranta giorni
dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di
memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione»). Il consumatore, quindi, dovrà sempre essere messo in
condizione di dichiarare di non volersi avvalere della nullità. Per quel che riguarda la nullità tradizionale, invece,
esclusa, di norma, la possibilità di qualsivoglia ‘sanatoria’,
si è molto discusso in merito all’ampiezza dei poteri di rilievo officioso da parte del giudice. In proposito, nel settembre del 2012, è intervenuta una pronuncia della Cassazione che ha modificato considerevolmente i termini del
dibattito.
Rimedi impugnatori e rilevabilità di ufficio della nullità
In passato, si riconosceva al giudice il potere di rilevare di
ufficio la nullità solo nel caso in cui si fosse esercitata
un’azione volta a far eseguire il contratto e non qualora si
fosse azionato un rimedio cd. impugnatorio del contratto
(annullamento, rescissione, risoluzione).
Si affermava che il potere di rilievo officioso da parte del
giudice doveva combinarsi con il principio dispositivo di cui
all’art. 112 c.p.c.: qualora l’azione la domanda fosse stata
diretta a fare dichiarare la invalidità del contratto o a farne
pronunziare la risoluzione per inadempimento, si riteneva
che «la deduzione (nella prima ipotesi) di una nullità diversa da quella posta a fondamento della domanda e (nella
seconda ipotesi) di una qualsiasi causa di nullità o di un
fatto costitutivo diverso dall’inadempimento» fossero
inammissibili e non rilevabili d’ufficio, «ostandovi il divieto
di pronunziare ‘ultra petita’» (cfr. ex plurimis: Cass. 6 agosto 2003 n. 11847; Cass. 14 gennaio 2003 n. 435; Cass.
17 maggio 2002 n. 7215).
Le argomentazioni a sostegno di questa tesi poggiavano
sulla considerazione che la nullità costituisce l’antitesi logico - giuridica della validità ed efficacia del negozio, di cui si
chiede l’esecuzione, «sicchè il possibile accertamento della
nullità di detto negozio investe in modo diretto ed immediato l’oggetto iniziale della controversia». Diversamente, a
seguito dell’instaurazione di un giudizio di annullamento,
risoluzione o rescissione, l’obiettivo è, all’opposto, di impedire l’esecuzione del contratto; non ricorrerebbe, pertanto
la ‘ratio’ sottesa alla possibilità del rilievo di ufficio ossia di
salvaguardare i «valori fondamentali del sistema», di impedire il formarsi del giudicato sulla validità del negozio (nullo) e, per altro verso, di «eliminare un atto idoneo a suscitare affidamenti assolutamente precari, salvaguardando
così l’ordinato svolgimento del traffico giuridico». Un’eventuale pronuncia sul punto, si affermava inoltre, avrebbe
potuto dar luogo solo ad una pronunzia incidentale, che
non avrebbe consentito il formarsi del giudicato sulla nullità, «con la conseguenza che l’escludere la rilevabilità
d’ufficio della nullità al di fuori delle ipotesi nelle quali essa
è diretta ad impedire - per effetto del giudicato - il formarsi di un indice caduco di efficacia del negozio (…) corrisponde anche ad un corretto procedimento ermeneutico
della norma (…), perchè evita una ingiustificata ingerenza
nel potere delle parti di disporre delle eccezioni e, più, in
generale di scegliere le modalità attraverso le quali fare
valere in giudizio le proprie ragioni» (Cassazione civile sez.
II, 06 ottobre 2006, n. 21632).
Tale indirizzo, maggioritario, era stato posto in discussione
da alcune pronunce della stessa Corte di Cassazione. Ad
esempio, con Sentenza Cass. Sez. III civ., del 22.3.2005 n.
6170 si è affermato che le domande di risoluzione e di
annullamento presuppongono la validità del contratto,
costituendo l’accertamento della nullità del contratto una
«pregiudiziale in senso logico della pronuncia richiesta». Il
giudice, quindi, avrebbe dovuto dichiarare d’ufficio la nullità negoziale in ogni caso e tale l’accertamento d’ufficio ex
art. 1421 c.c., avrebbe spiegato i propri effetti anche nei
successivi giudizi imperniati sul contratto dichiarato nullo,
perché «l’efficacia della decisione di detta nullità, pregiudiziale alla statuizione di rigetto della domanda, costituisce
giudicato implicito».
Il contrasto giurisprudenziale appena descritto ha reso
necessario l’intervento delle Sezioni Unite che, con Sentenza del 04 settembre 2012 n. 14828, ha aderito al secondo
orientamento (già preferito dalla dottrina maggioritaria)
con riferimento, però, al solo caso in cui è domandata la
risoluzione del contratto. In tale ipotesi, si mira, infatti, a
riconoscere vigore al contratto, e, quindi, non può negarsi
l’operatività della funzione oppositiva del potere-dovere di
cui all’art. 1421, che, «in questi limiti, resta sicuramente
nell’ambito del petitum».
Le Sezioni Unite hanno, poi, aggiunto alcune considerazioni degne di nota e hanno precisato il regime processuale
del rilievo officioso della nullità anche nel caso in cui l’attore abbia esercitato l’azione di risoluzione.
Quanto alla funzione della nullità, la Corte ha ribadito che
esso è un rimedio la cui «essenza» risiede «nella tutela di
interessi generali, di valori fondamentali o che comunque
trascendono quelli del singolo» e che, in virtù, di tale con-
siderazione il potere di rilievo officioso – che risponde alla
tutela di tali interessi come rilevato anche nella giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Sez. 4, 4 giugno 2009, causa 0243/08, cit. e sentenza
Asturcom, del 6 settembre 2009 in procedimento C40/08) – non può essere interpretato restrittivamente.
Inoltre - «tanto nel caso di nullità, annullamento, risoluzione o rescissione di un contratto, quanto in quello di qualsiasi altra causa che faccia venir meno il vincolo originariamente esistente - l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del
contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo»; l’accoglimento della richiesta restitutoria conseguente
alla declaratoria di nullità, quindi, non mutando la ‘causa
petendi’, non viola, neppure sotto questo profilo, il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Le Sezioni
Unite chiariscono, poi, quale sia il regime processuale del
rilievo officioso della nullità:
il giudice ai sensi dell’art. 101 c.p.c. dovrà stimolare il contraddittorio delle parti sulla questione che si intende rilevare d’ufficio; - le parti, quindi, potranno formulare la domanda che ne sia conseguenza (arg. ex art. 183 comma IV, ora
comma V) e, quindi, anche la eventuale domanda di risoluzione potrà essere convertita in (o cumulata con) azione di
nullità, anche mediante rimessione in termini, qualora il
rilievo avvenga in grado di appello. Ebbene, se le parti chiedono la conversione dell’azione di risoluzione in azione di
nullità, la pronuncia del giudice avrà valore di giudicato,
altrimenti, il giudice dovrà rigettare l’azione di risoluzione,
dichiarando incidentalmente la nullità, senza effetto di giudicato sul punto.
In conclusione, va precisato che la pronuncia della Corte
non risolve ogni contrasto sul punto in quanto, espressamente, si distingue l’ipotesi della risoluzione da quella dell’annullamento. Nel caso in cui si chieda l’annullamento
del contratto, infatti, non è postulata la validità del contratto, come, invece, avviene per la risoluzione, sicché, «sebbene la tradizione giurisprudenziale e dottrinale dell’orientamento favorevole al rilievo d’ufficio apparenti le ipotesi di
risoluzione, annullamento e rescissione, andrà a suo tempo verificato se sussistano i presupposti per questa equiparazione». Sulla questione, quindi, non resta che attendere
ulteriori sviluppi.
D’AMICO G., Nullità virtuale - nullità di protezione (variazioni sulla nullità), Contratti, 2009, 7, 732.
SPIAalDIRITTO
8
APRILE 2013
Tributario
Scissione parziale di società:
riflessi tributari
GENNARO DI MAGGIO Avvocato
MARIAGIULIA MONACO Avvocato
PAGINA A CURA DI
E
ambito di applicazione della disciplina in materia
di scissione parziale e, in particolare, delle norme
regolanti gli effetti di tali operazioni sulle imposte
e sul successivo procedimento di riscossione spontanea
o forzata delle stesse, rappresenta uno dei più evidenti
casi di vacanza normativa e di incertezza cui né il legislatore né, ad oggi, al giurisprudenza costituzionale o di
legittimità, sono riusciti ad offrire una risposta soddisfacente.
Brevemente rammentiamo la disciplina generale in
materia.
La scissione, ai sensi degli articoli da 2506 quater c.c.,
è un’operazione di carattere straordinario, concettualmente opposta alla fusione ma sostanzialmente analoga
per quanto riguarda il procedimenti e i profili fiscali,
mediante la quale una società, definita scissa, estinguendosi (scioglimento senza liquidazione) o rimanendo
in vita, trasferisce ad una società preesistente o di nuova costituzione, definita beneficiaria l’intero suo patrimonio o una parte di esso attribuendo ai soci della scissa azioni o quote della beneficiaria in modo proporzionale ovvero non proporzionale rispetto alla percentuale
di attribuzione sussistente presso la scissa. Nella scissione parziale la società scissa prosegue la propria attività
conservando la titolarità di determinati rapporti attivi e
passivi, sia pure con un patrimonio ridotto.
I suoi soci ricevono azioni o quote della o delle società
beneficiarie, proporzionalmente al valore del patrimonio
ceduto.
L’operazione, da un punto di vista della disciplina generale dei tributi e sulla riscossione degli stessi è regolamentata dall’art. 173 T.U.I.R. e, per quanto in questa
sede interessa, dai commi 11, 12 e 13 ove è disposto,
per quanto inerente l’argomento che qui interessa, che
“La scissione totale o parziale di una societa’ in altre
preesistenti o di nuova costituzione non da’ luogo a realizzo nè a distribuzione di plusvalenze e minusvalenze
dei beni della società scissa, comprese quelle relative
alle rimanenze e al valore di avviamento. 11. Ai fini delle imposte sui redditi, la decorrenza degli effetti della
scissione è regolata secondo le disposizioni del comma
1 dell’articolo 2506-quater del codice civile, ma la retrodatazione degli effetti, ai sensi dell’articolo 2501-ter,
numeri 5) e 6), dello stesso codice, opera limitatamente
ai casi di scissione totale ed a condizione che vi sia coincidenza tra la chiusura dell’ultimo periodo di imposta
della società scissa e delle beneficiarie e per la fase
posteriore a tale periodo. 12. Gli obblighi tributari della
società scissa riferibili a periodi di imposta anteriori alla
data dalla quale l’operazione ha effetto sono adempiuti
in caso di scissione parziale dalla stessa società scissa o
trasferiti, in caso di scissione totale, alla società beneficiaria appositamente designata nell’atto di scissione. 13.
I controlli, gli accertamenti e ogni altro procedimento
relativo ai suddetti obblighi sono svolti nei confronti della società scissa o, nel caso di scissione totale, di quella
appositamente designata, ferma restando la competenza dell’ufficio dell’Agenzia delle entrate della società
scissa. Se la designazione è omessa, si considera designata la beneficiaria nominata per prima nell’atto di
scissione. Le altre società beneficiarie sono responsabili
in solido per le imposte, le sanzioni pecuniarie, gli interessi e ogni altro debito e anche nei loro confronti possono essere adottati i provvedimenti cautelari previsti
dalla legge. Le società coobbligate hanno facoltà di partecipare ai suddetti procedimenti e di prendere cognizione dei relativi atti, senza oneri di avvisi o di altri adempimenti per l’Amministrazione.
Fin di qui la disciplina generale che, sin dalla prima lettura, manifesta palesemente le proprie lacune.
Infatti, nella ipotesi di scissione parziale è assunta dalla
norma generale una forma di responsabilità solidale solo
L’
successiva ed attenuta dalla applicazione e dal richiamo
alla norma del codice civile, avente portata generale, che
limita la responsabilità della società beneficiaria del progetto di scissione alla sola misura e quota di patrimonio
come conferito nel progetto di scissione che, sin troppo
spesse, appare o viene fatto apparire di scarsa consistenza e senza di una indicazione puntuale e prudenziale dell’eventuale debito tributario esistente o di prossima esistenza in capo alla società scissa. Da tanto, altresì, discende l’ulteriore difficoltà di procedere alla individuazione ed estensione delle responsabilità tributarie
conseguenti ai soggetti coobbligati in solido, da individuarsi nelle società beneficiarie.
Quanto al primo punto è dovuta una premessa: la problematica segnalata attiene, in via principale, alla difficoltà obiettivamente esistente di fare coincidere la limitazione civilistica più volte richiamata in tema di estensione di responsabilità alle società beneficiarie coobbligate in solido con il procedimenti di formazione della
fattispecie impositiva e con la unicità della imposta
come riferita alla complessità dei rapporti patrimoniali
imputabili al soggetto passivo d’imposta.
Infatti, l’unitarietà dell’obbligazione tributaria e la riferibilità della stessa all’integrità dei rapporti patrimoniali
instaurati in capo al soggetto originariamente debitore
principale, nonché la rilevanza di tali debiti tributari
rispetto ai valori di cui al progetto di scissione ed alla
successiva determinazione del valore del patrimonio netto attribuito nonché delle perdite di cui al progetto
medesimo, possono rendere, inopponibile la limitazione
di cui all’art. 2506 quater all’Ente impositore prima e,
successivamente, all’Agente della Riscossione.
Del resto, non può omettersi di considerare che proprio
al patrimonio originario ed ai rapporti di cui lo stesso si
compone, dal quale la quota netta conferita alla beneficiaria deriva, rappresenta l’oggetto della valutazione
dell’A.F. ai fini dell’individuazione delle eventuali violazioni e, in quanto tale, non può, successivamente all’individuazione della violazione in contestazione, non valutarsi lo stesso nella sua interezza, indipendentemente
dal soggetto che se ne assuma beneficiario pro quota.
Nel caso di specie il ruolo principale attiene il recupero
di una indebito credito di imposta per agevolazioni alle
attività imprenditoriali e, tali agevolazioni, erano valutate sulla base della complessità del patrimonio di cui alla
attività considerata; inoltre, anche ove tali agevolazioni
fossero state attribuite sulla base di singoli rapporti economici o patrimoniali, ugualmente il credito presunto
sarebbe maturato in relazione alla posizione tributaria
complessiva della scissa e, come tale, lo stesso deve
ugualmente essere valutato in maniera unitaria nella sua
fase di recupero indipendentemente dalla sussistenza o
meno ad oggi della integrità del patrimonio originariamente considerato in capo al debitore originario piuttosto che pro quota a favore di soggetti che gli siano succeduti nei singoli elementi patrimoniali.
Trattandosi di obbligazioni tributarie, le stesse non possono essere scisse dai rapporti patrimoniali generali della società, derivando dall’attività generale della società
scissa e, come tali, incidenti su tutti gli aspetti, organizzativi, patrimoniali, gestionali ed economici della vita di
una società.
È evidente, dunque, come le considerazioni svolte portino ad evidenziare la lamentata insufficienza del rischiamo svolto alle norme civilistiche nell’ambito di applicazione, soggettiva e temporale, di fattispecie impositive
che non possono soggiacere ai medesimi criteri interpretativi.
In questo ambito sembra essersi mossa recentemente la
Corte di Cassazione la quale, con recenti sentenza, ha
iniziato ad affrontare la difficile tematica della corretta
identificazione dell’oggetto delle controversie nascenti
dalle operazioni di scissione parziale, individuando, tuttavia, un differente approccio rispetto a quello mero della responsabilità per gli omessi versamenti.
Con pronunce quali la n. 49091 del 2012 la Cassazione
ha affermato che quando le operazioni di scissione parziale siano effettuate senza una corretta valutazione ed
esposizione del debito tributario pregresso ovvero al
solo fine di rendere non più riscuotibile un potenziale
debito tributario mediante divisione del patrimonio, tale
operazione configura una ipotesi di sottrazione fraudolenta del patrimonio alla riscossione ai sensi dell’art. 11,
del D. Lgs 74/2000.
Con esse il valore limitante del vincolo solidaristico di
natura civilistica viene superato dal superiore interesse
dell’Erario alla percezione dei tributi cui consegue una
garanzia patrimoniale generale dei beni dell’obbligato
per una fattispecie delittuosa di natura commissiva
potendosi concretizzare in qualsiasi operazione idonea a
ridurre od occultare la consistenza patrimoniale del contribuente facendo gravare su altri il debito d’imposta.
La unitarietà sia dell’imposta che della consistenza patrimoniale richiesta a garanzia, nella ipotesi richiamata,
nelle ipotesi in cui vi sia anche una sostanziale ricostruibile unitarietà soggettiva ovvero un legame funzionale
ed operativo concreto tra società scissa e beneficiarie/e,
riteniamo, proseguendo nel solco della interpretazione
giurisprudenziale predetta, rafforza la tesi della in conferenza di una eventuale eccezione di prevalenza per singolo soggetto della riscuotibilità del credito sulla base
del limite di cui al vincolo di solidarietà dettato dall’art.
2506 – quater del Codice Civile.
Ciò posto, e ad oggi acquisito come un consolidato
orientamento giurisprudenziale, si pone il problema della corretta individuazione e della notifica ai soggetti passivi d’imposta: questo aspetto apparirebbe in vero di
semplice soluzione ma in sé ha manifestato negli anni
differenti problemi con ripercussioni anche gravi sul processo tributario e sull’esito dei giudizi in materia instaurati.
La fase procedimentale che, in particolare, crea maggiori difficoltà agli interpreti del diritto tributario è quella
che attiene la iscrizione a ruolo e la successiva notifica
delle cartelle relative a debiti d’imposta i cui soggetti
passivi principali siano rispetto ai quali siano intervenuti atti di scissione parziale.
L’attività di iscrizione a ruolo è attività riservata all’Amministrazione Finanziaria la quale individua il soggetto
passivo d’imposta; quest’ultimo, in special modo quando la fattispecie da iscrivere a ruolo è quella propria
degli omessi od insufficienti versamenti d’imposta, è primariamente individuato nella società scissa a carico della quale viene iscritto a ruolo, e successivamente notificato, l’intero debito d’imposta oltre sanzioni ed interessi. Ma, nella ipotesi in cui l’Ufficio non proceda in via
autonoma alla individuazione dei coobbligati in solido
ed alla iscrizione a ruolo, secondo il criterio summenzionato, a carico delle società beneficiarie, quali sono le
procedure riconosciute a favore del Concessionario della riscossione per portare a compimento la propria attività, vincolata e necessaria, di riscossione del credito
erariale? Nella prassi si assiste frequentemente ad una
attività di ricostruzione dei soggetti connessi al debitore
principale ed al debito principale, svolta autonomamente dal Concessionario con conseguente notifica diretta
agli stessi in ruoli formati dall’Agente della Riscossione
a tutela del credito erariale.
Tale attività autonoma, tuttavia, necessita ed ha necessitato già di un supporto normativo ed interpretativo a
fronte di prevedibili eccezioni volte a contestare in capo
al Concessionario stesso il difetto di legittimazione attiva per avere proceduto ad una attività - quale quella della formazione dei ruoli - normativamente riservata
all’Ente impositore.
Tale giustificazione è stata rinvenuta attraverso due
diversi criteri: il primo ci riconduce alla indagine giurisprudenziale precedentemente svolta. Infatti, rammentiamo che la attività propria del Concessionario della
riscossione è quella della realizzazione del credito erariale mediante la attivazione di tutte le procedure che fruttuosamente possano condurre alla materiale percezione
dei tributi; tale attività è obbligatoria, necessaria e vincolata essendo, in caso di infruttuoso esperimento delle
procedure esattoriali, lo stesso Concessionario chiamato
a giustificare e rispendere del risultato negativo della
propria attività. Se dunque la attività di riscossione delle imposte è attività propria ed esclusiva dell’Agente della Riscossione e il mancato conseguimento del positivo
risultato della riscossione possa dipendere dal riscontro
di operazioni di scissione parziale che possano manifestare un intento di sottrazione fraudolenta di patrimonio
alla riscossione stessa, ne discende che conseguenza di
tale ricostruzione possa essere l’ampliamento dei poteri
riconosciuti al Concessionario in ragione delle proprie
finalità vincolate fino alla identificazione in via autonoma dei soggetti nei cui confronti attivare la riscossione
esattoriale a partire dalla notifica diretta delle cartelle.
Un ulteriore supporto verrebbe, a parere di chi scrive,
dalla interpretazione corretta dell’art. 15 del D. Lgs
472/1997; la norma è l’unica all’interno del complesso
e, come già manifestato, lacunoso sistema normativo
definente i riflessi tributari delle operazioni di scissione
parziale, ove si legga che esiste una solidarietà piena e
non limitata per le operazioni di scissione parziale tra
società scissa e beneficiaria/e: tuttavia, la norma è inserita all’interno del decreto che regola l’aspetto sanzionatorio delle violazioni tributarie e, in quanto tale, la stessa definirebbe una solidarietà piena solo ed eslcuisvamente in relazione alle sanzioni connesse alle violazioni
tributarie ascrivibili ad operazioni di scissione parziale.
Riteniamo che tale eccezione debba e possa essere
superata muovendo in via principale dalla natura propria
delle sanzioni e dal carattere accessorio delle stesse.
Queste, infatti, sono determinate con riguardo alla gravità delle violazioni commesse e delle predette violazioni seguono il destino potendo essere definite, ridotte od
annullate in particolari situazioni anche indipendentemente dall’imposta accertata ma non potendone essere
scisse nella determinazione di esistenza in ragione del
principio di soggettività dell’imposizione ex art. 2 del
medesimo decreto: ma la richiamata connessione oggettiva tra patrimonio e fattispecie impositiva comporta, a
nostro parere, necessariamente anche una connessione
obiettiva tra violazione tributaria ed applicazione della
sanzione. Ne consegue che il vincolo solidaristico più
ampio definito dal richiamato articolo 15 non possa
logicamente intendersi come limitato alle sole sanzioni
amministrative dovendo, a nostro parere, essere esteso
anche alle imposte principali con l’effetto di vincolare
l’Agente della Riscossione al raggiungimento del medesimo risultato, tanto per le sanzioni quanto per le imposte sulla scorta della norma di maggiore ampiezza ed
efficacia a tutela del credito erariale. Tuttavia, come già
esposto nelle premesse di questo nostro intervento, questa è solo una interpretazione delle norme esistenti e
della giurisprudenza, in vero non particolarmente ampia,
sul tema formatasi negli ultimi anni. È evidente la inadeguatezza del sistema normativo esistente a fronte di
operazioni sempre più articolate concesse ai contribuenti con le quali non appare difficile ipotizzare il realizzarsi di complesse fattispecie elusive rispetto alle quali limitati ed insufficienti appaiono gli strumenti messi a disposizione degli operatori del settore nella tutela e realizzazione del credito erariale e, viepiù, nella individuazione e
persecuzione efficace delle fattispecie delittuose.
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SPIAalDIRITTO
9
APRILE 2013
Attualità
Uso del cellulare
in automobile
Sezione amministrativa ed
impugnazione del verbale
di accertamento non
contestato immediatamente
DI
VINCENZO MARINO
Dottore in Giurisprudenza
uante volte capita di rispondere al cellulare mentre si è alla guida e alla vista di una pattuglia
abbassare il telefono?
Nonostante sia noto, che l’uso del cellulare in auto
determina un aumento considerevole dei tempi di reazione (distraendo il conducente dall’osservare la strada,
impedendogli di frenare in tempo a fronte di un pericolo, ecc.), numerosi sono gli incidenti stradali causati da
tale, frequente e inopportuna, condotta pericolosa.
Si comprende, pertanto, l’attenzione del legislatore nei
confronti di questo fenomeno che ha portato alla previsione di uno specifico illecito amministrativo contemplato nell’art. 173 del d.lgs. 30 aprile 1992 (Codice della Strada), il cui comma 2, nella formulazione attuale,
così recita: ”E' vietato al conducente di far uso durante
la marcia di apparecchi radiotelefonici ovvero di usare
cuffie sonore, fatta eccezione per i conducenti dei veicoli delle Forze armate e dei Corpi di cui all'art. 138,
comma 11, e di polizia". È consentito l'uso di apparecchi a viva voce o dotati di auricolare purché il conducente abbia adeguata capacità uditiva ad entrambe le
orecchie che non richiedono per il loro funzionamento
l'uso delle mani”. Il successivo comma 3-bis stabilisce,
inoltre, che: ”Chiunque viola le disposizioni di cui al
comma 2 è soggetto alla sanzione amministrativa del
pagamento di una somma da Euro 160 a Euro 641. Si
applica la sanzione amministrativa accessoria della
sospensione della patente di guida da uno a tre mesi,
qualora lo stesso soggetto compia un'ulteriore violazione nel corso di un biennio”.
In definitiva è consentito l´uso di telefono o di rice-trasmittenti dotati di apparecchi a viva voce per il cui funzionamento non occorre lasciare il volante e, cioè che
non richiedano l´impiego delle mani in nessuna fase
della comunicazione. In alternativa al viva-voce è
ammesso l´impiego di apparecchi radio-ricetrasmittenti
o telefonici dotati di auricolare. L´auricolare, infatti,
lasciando libere le mani, limita i rischi correlati all´uso
del telefonino, pur non escludendoli completamente,
Q
per la distrazione che, comunque, comporta l´utilizzo del
telefono, soprattutto per l´attenzione che richiede la
conversazione telefonica. L´uso dell´auricolare è,
comunque, escluso per conducenti con ridotta capacità
uditiva, anche da un solo orecchio. In mancanza di auricolare o viva voce, per rispondere al telefono, il conducente deve fermarsi senza costituire pericolo o intralcio
per la circolazione.
E’ opportuno evidenziare che, la violazione di cui all’art.
173 del codice della strada, spesso non è contestata
immediatamente: in tali circostanze è oggettivamente
molto difficile, da parte dell’operatore di polizia stradale, avere la prova certa che il conducente stava effettivamente facendo uso del telefono.
Al riguardo, interessanti sono le coordinate ermeneutiche offerte dalla Suprema corte di legittimità, che, in
diverse occasioni (vd. anche Cass. civ., sez. I, 10.7.1996
n. 6302 e 10.9.1997 n. 8896), ha affermato che, la
fede privilegiata, non si estende a quei fatti che, pur
avvenuti sotto la diretta percezione dell´organo di polizia stradale, si sono svolti con repentinità tale da non
consentire, alla persona di media capacità, di coglierne
il contenuto escludendo ogni possibilità di errore. Così,
l´accertamento dell´uso del telefono da parte del conducente di un veicolo in movimento rilevato da un operatore di polizia fermo sul bordo della strada, ben può
essere oggetto di un significativo margine di errore di
acquisizione o di trascrizione e, perciò, non necessariamente può formare oggetto di valutazione con fede privilegiata. Questa posizione è stata in parte revisionata
dalle sezioni unite della Cassazione che con sentenza
24.7.2009 n. 17355 ha attribuito fede privilegiata, contestabile con querela di falso, anche ai fatti oggetto di
percezioni sensoriali. Alla luce dei principio affermato
da questa sentenza, l´automobilista sanzionato per utilizzo del cellulare durante la guida può impugnare il
verbale solo attraverso la querela di falso (Cass. civ., sez
VI, 2.3.2012 n. 3336). Avv. Vincenzo Marino Cell. 320
1105427
Aspetti giuslavoristici del
Decreto legislativo n. 231/01
l D.Lgs. 231/01 ha introdotto nell’ordinamento
giuridico italiano una nuova forma di responsabilità degli enti, qualificata come amministrativa,
ma sostanzialmente di natura penale, per alcune
tipologie di reati commessi dai propri amministratori e dipendenti, nonché da soggetti che agiscono in
nome e per conto – o comunque nell’interesse – dell’ente stesso.
La suddetta norma si collega con numerose altre leggi e di particolare interesse è l’intreccio con il testo
unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro entrato in
vigore il 15/05/08.
L’attuale sistema normativo previsto dal D.Lgs.. 231
consiste nella costruzione di un modello organizzativo, fatto di ruoli, precise funzioni e responsabilità,
obblighi di intervento e vigilanza aggiungendo così
all’attuale impostazione organizzativa di matrice
lavoristica quella propria concepita dal decreto sulla
responsabilità amministrativa di impresa.
Ne consegue che se il modello organizzativo d’impresa ex D.Lgs 231/01 è conforme ai criteri indicati
nel TUS (art 30) la sua adeguatezza è data per certa, che ci sia la presunzione assoluta che il datore di
lavoro abbia adempiuto all’obbligo di vigilanza sulle
attività delegate, che venga esclusa la responsabilità
dello stesso per eventuali mancanze od omissioni dei
I
preposti in ambito antinfortunistico nonsalvaguardia della salubrità dell’amché che vi sia la responsabilità dell’imbiente, al fine di minimizzare i rischi
presa nelle ipotesi dei reati antinfortunid’incidente e conforma le proprie scelte
stici (omicidio colposo e lesioni gravi)
a diversi principi che costituiscono la via
causati da violazioni di norme in mategiusta da portare avanti per la prevenria.
zione e la riduzione degli infortuni sul
La gestione operativa dell’azienda, nel
lavoro e delle malattie professionali,
sistema organico dell’impianto 231 è
perseguendo un vero risparmio econoresponsabile amministrativamente nelmico e sociale.
l’autonomia della responsabilità dell’enI principi fondamentali sono quelli relaDI MARIA ANTONELLA
te ma anche penalmente sulla base del
tivi alla eliminazione dei rischi, alla valuNARDONE
legame funzionale esistente tra l’ente e
tazione degli stessi che non possono
Componente
gli autori del reato
essere evitati, alla riduzione dei rischi
Commissione
osservatorio per le
Elemento fondamentale è l’inversione
alla fonte, alla utilizzazione al minimo
sanzioni penali
dell’onere della prova con la conseguendegli agenti nocivi, alla individuazione
ed amministrative
za che il pubblico ministero sarà chiamadei criteri di scelta delle mansioni, delle
sul territorio
to a provare, in caso di reato penale, i
attrezzature ed i metodi di lavori volti
due elementi costitutivi della responsaad attenuare il lavoro ripetitivo o monobilità e cioè l’interesse o vantaggio dell’impresa nel- tono ed a ridurne gli effetti sulla salute, all’adeguala commissione del reato e l’assenza di un adeguato mento al progresso tecnico, alla sostituzione di ciò
modello amministrativo volto a prevenire i reati com- che è pericoloso con ciò che non lo è o che è meno
messi.
pericoloso, alla programmazione di attività della preL’ente, attraverso il novero di soggetti che sono lega- venzione dei rischi, alla scelta di misure di protezioti a vario titolo all’organizzazione aziendale ex ne collettive rispetto alle misure individuali, alla limiD.Lgs. 231/01, nell’ambito della salute e della sicu- tazione al minimo del numero di lavoratori che sono
rezza sul lavoro stabilisce regole e procedure per la o che possono essere esposti a rischio, alla garanzia
di un miglioramento del livello di protezione, alla
integrazione delle misure di prevenzione e protezione con quelle tecnico-organizzative aziendali, alla
previsione di adeguati programmi di formazione per
il personale.
Tutto ciò comporterebbe una maggiore certezza dell’attuazione della norma con una riduzione del
drammatico fenomeno degli infortuni sul lavoro di
cui un’altissima percentuale sono mortali.
Al triste fenomeno degli infortuni vi è da aggiungere quello altrettanto grave delle malattie professionali, sia tradizionali che legate ai nuovi processi produttivi.
Anche in questo settore l’applicazione del D.Lgs.
231/01 comporterebbe l’adozione di tutte le misure
di sicurezza per la salvaguardia della salubrità dell’ambiente di lavoro.
Infatti solo una costante azione di vigilanza da parte degli organi preposti ed una attenta e capillare
opera di prevenzione, rendendo efficace il D.Lgs
231/01 comporterebbe una riduzione degli infortuni
sul lavoro e delle malattie professionali, perseguendo un vero risparmio economico e sociale, in un paese che stenta ancora ad adeguarsi ad un sistema
legislativo teso a prevenire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio.
SPIAalDIRITTO
Attualità
“Figli” senza aggettivi
La riforma introdotta con la L. 219/2012 uniforma tutti i figli
attribuendo loro, tra l‘altro, il privilegio di aver zii, fratelli e nonni
a XVI legislatura ha approvato la legge 219/2012
che ha eliminato dall’ordinamento la distinzione
tra figli legittimi e naturali, affermando il principio
dell’“unicità“ dello stato giuridico dei stessi.
La riforma prevede disposizioni sostanziali e processuali in materia di filiazione naturale e riconoscimento,
che traggono fondamento dall’assunto in virtu’ del
quale: “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”.
La novella coinvolge istituti cardine del diritto di famiglia e che tuttavia, in parte, sono stati sì modificati, ma
pur sempre nell’ottica di successivi provvedimenti
attuativi da parte del Governo, che dovrà emendare le
residue disposizioni tuttora vigenti e che mantengono
la discriminazione tra figli legittimi, naturali e adottivi.
Destinati a completare l‘iter innovatore del legislatore
sono le disposizioni che riguardano la ridefinizione del
riparto di competenze tra tribunali ordinari e tribunali
per i minorenni, in materia di procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli.
E’ bene ricordare, che alcune delle proposte di legge,
come quella avente ad oggetto la “riduzione dei tempi per lo scioglimento del matrimonio“ e l’“attribuzione del cognome“ ai coniugi ed ai figli, sono rimaste
allo stato embrionale, allo stesso modo del tanto agognato “Tribunale della Famiglia“.
Con la l.219 dunque, i figli non vengono piu’ distinti in
base allo status giuridico dei loro genitori, in quanto il
nuovo articolo 325 c.c. ne equipara le condizioni (art.
7 legge 10.12.2012 n. 219) ordinando (art. 11) di
sostituire la parola “figli” a quelle esistenti di “figli
naturali” o “figli legittimi”, in qualsiasi punto del codice civile tali locuzioni si trovino.
Senza dubbio le anzidette modifiche sono evocative di
una diversa sensibilità rispetto a quella che ha contraddistinto il codice del 1942 e che ha mantenuto ben
delineata la linea di confine tra i figli nati fuori dal
matrimonio e quelli invece, nati da genitori sposati,
garantendo la famiglia basata esclusivamente sul
matrimonio e lasciando nell’ombra le semplici “convivenze”.
Del resto è collocata un trentennio piu’ tardi, la legge
del 1 dicembre 1970 n. 898 che ha disciplinato lo scioglimento del matrimonio, successivamente integrata
con la l. del 1 agosto 1978 n. 436 e che ha fatto crollare il principio dell’indissolubilità del vincolo coniugale.
Ma la prima svolta storica risale al 1975, quando il
legislatore ha avuto cura di riformare interamente l’humus del diritto di famiglia, soprattutto rispetto al contenuto del codice civile del’42, all’interno del quale
erano di tutta evidenza le differenze tra i cosiddetti
iusti (figli legittimi) e vulgi concepti (figli naturali).
Proprio con la l. 151/1975 il legislatore ha dato attuazione all’art.30 della Costituzione che al primo comma
recita segnatamente:ӏ dovere e diritto dei genitori
mantenere, istruire e educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio“; di seguito il terzo comma recita: “la
legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni
tutela giuridica e sociale, compatibilmente con i diritti
dei membri della famiglia legittima“.
L’attuazione dei principi richiamati ha implicato la
modifica di molte disposizioni del codice civile che, nella generalità, hanno parificato i figli legittimi a quelli
naturali in prospettiva dei diritti e doveri derivanti dalla Carta Costituzionale, con riferimento al legame di
filiazione.
Nonostante tutto, molte differenze sono state mantenute e sulle quali solo a distanza di un trentennio circa, ha inciso la recentissima l.219/2012.
Importante è il cambiamento della definizione di
“parentela” e della materia che la regola, tant’è che
l’art.1 della l. 219 novellando l’art.74 c.c. ha statuito
che il <rapporto di parentela s’instaura con le persone
che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in
cui la filiazione sia avvenuta al di fuori del matrimonio,
sia in caso di figlio minore adottivo>. Tale aspetto, ha
un risvolto di grande impatto in quei casi nei quali un
minore resti privo dei genitori, esponendosi all’alea di
un’adozione per il solo fatto di non avere parenti che
la legge riconosca in quanto tali.
Tale impostazione è una conferma che il legislatore
abbia inteso escludere qualsiasi differenza tra figli, che
trovi origine esclusivamente nello status giuridico dei
genitori (sposati oppur no), e la stessa disciplina contenuta nell’art. 74 c.c. ha una portata più ampia, riconoscendo di fatto la figura della famiglia naturale;
alcune delle innovazioni, trovano giustificazione proprio grazie al riconoscimento (implicito) di tale forma di
legame.
Come si è avuto modo di affermare in precedenza, l’intentio legis non è solo circoscritta alla distinzione tra
figli legittimi e naturali ma si estende anche ai figli
adottivi; tant’è che all’art. 2 v’è la previsione della
delega al Governo affinchè emetta provvedimenti che
eliminino ogni distinzione tra figli (naturali e legittimi)
e figli adottivi.
Cio’ tuttavia, si sostanzia in una vera riscrittura di
L
10
APRILE 2013
DI
TIZIANA TOMEO
Avvocato, Presidente della sede di Avellino di CamMiNo - Camera Nazionale Avvocati per la famiglia e i Minorenni
un’intera parte del codice civile riguardante i figli, che
ha giustamente richiesto lo strumento della delega e
che non potrà non riguardare anche le
successioni mortis causa e le competenze dei vari tribunali.
Tra le novità significative è certamente da annovera
l’eliminazione dell‘istituto della “commutazione“,
disciplinato dall’art. 537 ultimo comma c.c. e che permetteva ai figli legittimi di soddisfare in denaro o in
beni immobili ereditari, le porzioni spettanti ai figli
naturali, con un evidente difformità di trattamento, a
discapito di quest’ultimi in caso di chiamata all’eredità.
Il cambiamento in prospettiva dell’equiparazione degli
status ha determinato anche la modifica dell’art. 250
c.c. sul riconoscimento del figlio, che apre ad una procedura semplificata.
La riforma dell’art. 38 delle disposizioni di attuazione
del codice civile e le disposizioni a garanzia dei
diritti dei figli agli alimenti e al mantenimento, hanno
contribuito ulteriormente alla reformatio del diritto di
famiglia, in particolare, laddove viene precisato e chiarito quali siano le materie che restano di competenza
dell’Organo Specializzato (ovvero il Tribunale per i
Minori) e quali invece, sono oggetto di trasferimento di
giurisdizione innanzi al Giudice Ordinario.
I procedimenti invece, aventi ad oggetto la valutazione
di condotte pregiudizievoli dei genitori ex art.333 c.c.,
sono di esclusiva competenza del Tribunale ordinario
quando penda tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o un giudizio ai sensi dell’articolo 316
del codice civile; ogni tipo di provvedimento per tutta
la durata del processo, resta del giudice ordinario.
A tal proposito il legislatore, prevede de residuo che
di fatto erano certamente in netta minoranza e quasi
per nulla garantite, rispetto alle unioni matrimoniali; in
tal modo appariva giusto e coerente attribuire la crisi
dei rapporti matrimoniali al Tribunale ordinario presente sul territorio in ogni città, per riservare conseguentemente al Tribunale per i minorenni, unico per un territorio molto piu’ vasto invece, anche le competenze in
materia di provvedimenti che avrebbero dovuto regolamentare le eventuali crisi insorte tra conviventi rispetto ai figli naturali.
Oggi la situazione è ribaltata; sono senza dubbio maggiori le convivenze rispetto ai matrimoni ed il dato è
destinato a crescere.
La nuova realtà sociale che ha determinato un mutamento inevitabile anche giuridico, non è senza ripercussioni.
La semplice previsione della norma infatti, non puo’
Alla nozione di figlio naturale si sostituisce quella di
figlio nato fuori dal matrimonio che, come accadeva
nella disciplina previgente, puo’ essere riconosciuto
dalla madre o dal padre anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento.
Il consenso del figlio è la condicio sine qua non“ che,
questa volta, può anche essere quattordicenne o del
genitore che per primo ha riconosciuto il figlio che non
abbia già raggiunto i quattordici anni.
Il rifiuto di chi per primo ha effettuato il riconoscimento comporta il ricorso al giudice e l’inevitabile instaurazione di un procedimento giudiziario definito dall’art.250 quarto comma c.c..
La mancata opposizione entro trenta giorni dalla notifica, invece, dà luogo alla pronuncia del giudice che
sostituisce il mancato consenso; nell’ipotesi di opposizione, assunte le opportune informazioni, il giudice
dispone l’audizione del minore che abbia compiuto i
dodici anni o anche di età inferiore se capace di discernimento, adottando provvedimenti provvisori ed
urgenti, per favorire la relazione con il presunto padre
e che dovrebbe almeno prevedere la statuizione del
diritto di visita e il contributo economico.
:”sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria“.
L’art. 3 della 219 con la sua indicazione dei procedimenti residuanti in capo al Tribunale per i minorenni,
innovativamente trasferisce tutti i provvedimenti aventi ad oggetto la crisi delle coppie di fatto con figli, al
Tribunale ordinario applicando per le stesse la procedura in Camera di Consiglio ex art. 737 e ss. c.p.c..
L’effetto della riforma è dirompente poiché ex abrupto
è spostato tutto il settore dei procedimenti giudiziari in
materia di diritto di famiglia tra le coppie conviventi
more uxorio, determinando un significativo alleggerimento del lavoro del Tribunale per i Minori a tutto
discapito del Tribunale ordinario che, al contrario, vedrà
notevolmente incrementata la sua mole di lavoro.
Tale assunto è giustamente motivato dal fatto che precedentemente alla novella, le questioni riguardanti
l’affidamento, il collocamento, l’assegnazione della
casa ed il mantenimento della prole delle coppie di fatto con figli, spettava al Tribunale per i minori.
Del resto, vigendo il codice civile del 1942, le famiglie
bastare a garantirne la precisa e puntuale applicazione, atteso che si dovrebbe verificare contestualmente
anche un rafforzamento delle sezioni che si occupano
del diritto di famiglia nei Tribunali ordinari e che attualmente non potrebbero affrontare un raddoppiamento
di procedimenti, in particolare, considerando che la
“celerità“ caratterizza l’adozione delle statuizioni in
tale settore.
Il Governo ha ancora tanto da fare per rendere operativa a 360° la recente riforma, sia in materia di successioni che di donazioni e puo’ farlo prevedendo una
disciplina che assicuri la produzione di effetti successori riguardo ai parenti, anche per gli aventi causa del
figlio naturale premorto o deceduto nelle more del
riconoscimento. Il legislatore dunque, ha affidato al
Governo la funzione di adeguare tutto l’impianto normativo alle modifiche ispirate unicamente dal principio
assoluto di “unicità dello stato di figlio”.
È pur vero che una materia così delicata e con sviluppi
mai prevedibili, auspicabilmente andrebbe attribuita
ad Organi Specializzati come il “Tribunale per la Famiglia“. Aspettando Godot ci si apre favorevolmente a
tali storici cambiamenti.
SPIAalDIRITTO
APRILE 2013
11
Attualità
“Uno slancio in avanti
per la giovane avvocatura”
l momento storico che stia- perdita di significative quote
mo vivendo non è del tutto
di mercato in favore di nuove
incoraggiante. Ed allora,
figure professionali;
senza passare in rassegna le
- formazione insufficiente;
innumerevoli circostanze che
- specializzazioni ridotte a realhanno determinato tale fase
tà di nicchia;
“depressiva” a tutti i livelli,
- eccessiva diffusione di studi
occorre concentrare le forze
mononucleari e scarsa capacità
per tracciare un programma
di aggregazione;
che ci proietti verso nuove pro- scarsa conoscenza delle linDI ALFONSO
spettive: è giunto il momento
gue;
QUARTO
di smetterla di parlare sempre
- limitata conoscenza delle nuoAvvocato
e solo al “nostro” interno dei
ve tecnologie;
Presidente AIGA
“nostri” problemi, di parlare
- incapacità di una efficace inciTribunale di
Santa Maria
sempre e solo di Avvocatura
sività sulle scelte legislative;
Capua Vetere
nei termini che conosciamo,
d. com’è cambiata la proper cominciare, al contrario, un
fessione legale
lavoro di “rilancio” della figura
- abbandono della figura dele della funzione di Avvocato nella società in l’avvocato generalista;
chiave moderna. Per realizzare tale obiettivo, - apertura alle nuove tecnologie;
bisogna partire da una serie di considerazio- - aggregazione di avvocati;
ni preliminari che elenco in via esemplificati- - acquisizione di capacità di tipo imprenditova:
riale (comunicazione, marketing, etc);
a. l’analisi attuale dello stato della - necessità di conoscenza della lingua inglegiurisdizione e fattori di criticità
se; Fatta una attenta disamina di tutti questi
- crisi comparto giustizia (carenza organico profili è possibile procedere con lo sviluppo
magistrati e personale, inefficienza degli uffi- di una piattaforma di nuovi spazi di mercato
ci giudiziari, lungaggini giustizia penale e che si possono trovare sia nell’ambito della
civile, etc…);
giurisdizione che al di fuori di essa.
- riforme a macchia di leopardo con forte OBIETTIVI
disomogeneità;
Nell’ambito della giurisdizione:
- erosione della giurisdizione;
- specializzarsi nelle materie sostanziali e
- aumento esponenziale dei costi di accesso processuali del diritto, con abbandono delalla giustizia;
l’avvocato generalista
b. l’analisi attuale del mercato di rife- - specializzarsi nelle Custodie Giudiziarie e
rimento e fattori di criticità
nelle Deleghe alle Vendite Giudiziarie, nelle
- crisi economica;
Curatele Fallimentari e nelle procedure con- mercato interno con forte contrazione dei corsuali
consumi e della domanda di servizi;
FUORI DALL’AMBITO DELLA GIURISDI- spinta verso le liberalizzazioni delle profes- ZIONE:
sioni;
- in mediazione
- maggiore concorrenza interna per l’elevato - nelle materie ambientali e nel settore delle
numero di avvocati;
energie rinnovabili
- minore fidelizzazione dei clienti;
- competenza alla stipula di atti di compra- diffusione delle nuove tecnologie;
vendita con modifica dell’art.2703 c.c.
- carenza di misure, fiscali e di welfare, a - consulenza ed assistenza legale in favore di
sostegno delle libere professioni;
Banche e di Istituti di Credito e di privati per
- mercato globale con concorrenza delle l’accesso al credito
laws firms;
- consulenza ed assistenza legale in favore di
- richiesta di profili professionali specifici, piccole, medie e grandi imprese anche per i
altamente specializzati con richiesta della finanziamenti europei
conoscenza della lingua inglese;
- consulenza ed assistenza legale in favore
c. il corretto inquadramento dello sta- della P.A.
to e dei limiti dell’Avvocatura e - consulenza ed assistenza legale in favore
soprattutto della Giovane Avvocatura del comparto immigrazione
rispetto alla giurisdizione, rispetto al - specializzazioni per soddisfare la domanda
mercato di riferimento e rispetto ai di specifici settori del mercato interno: ad es.
rispettivi fattori di criticità
giurista d’impresa, avvocato esperto in assi- incapacità di essere protagonisti nella stenza e consulenza legale in materia di presocietà civile;
videnza pubblica e privata, in responsabilità
- insufficiente controllo e verifica di tipo medica, in reati informatici e diritto della
disciplinare;
rete, etc…
I
LINEE PROGRAMMATICHE
Per realizzare anche solo una parte degli
obiettivi - sopra elencati in via del tutto
esemplificativa - è necessario avviare tutta
una serie di contatti che si tramutino in conferenze, incontri bilaterali, etc… con le associazioni d’impresa, con Confindustria, con
l’ABI, con il Ministero degli Esteri, con la
P.A., promuovendo intese e protocolli che
possano facilitare ed, anzi, creare corsie preferenziali per l’avvocatura piuttosto che per
altre professioni intellettuali.
Gli obiettivi dovrebbero essere quelli di:
1. convincere le categoria di riferimento che
l’assistenza e la consulenza legale non costituiscono solo dei costi ma rappresentano la
garanzia di una migliore efficienza nel medio
e lungo periodo e di un risparmio in termini
di contenzioso, con un risparmio nei costi di
gestione;
2. fare in modo che la Giovane Avvocatura
abbia una esclusiva attraverso l’alta professionalità del servizio offerto.
3. creare immediatamente dei canali preferenziali che possano consentirci di tramutare
un fattore di forte criticità quale l’attuale
impostazione economica di liberalizzazione
delle professioni intellettuali in opportunità:
paradossalmente la competenza in materia
di stipula di atti di compravendita non può
che trovare terreno fertile proprio in una
nuova compagine parlamentare composta
per lo più da esponenti che sono contro le
rendite di posizione. Non si può, poi, pensare di non affrontare con le forze politiche e
con il prossimo Governo, in particolare, le
tematiche del welfare e degli incentivi fiscali per l’Avvocatura, argomenti non più rinviabili che hanno, del resto, uno stretto
legame con l’attualità della crisi economica.
Occorre, poi, ripensare agli strumenti per
perseguire l’obiettivo della formazione e
della specializzazione, che dovranno necessariamente concentrarsi in ambiti non tradizionali, ma piuttosto nei settori sopra evidenziati, per consentire all’Avvocatura di
rendersi interprete dei tempi, di poter aspi-
rare a riacquistare un ruolo nella società
civile di tutto rispetto, a ridiventare una forza intellettuale necessaria ed imprescindibile, non sussidiaria né interscambiabile. Riassumendo, i nuovi spazi di mercato passano
attraverso tre direttive: l’una di carattere
sostanziale e cioè la formazione e la specializzazione di settore, le altre attraverso lo
sviluppo e la creazione di sinergie con
determinati comparti del mondo economico
e sociale, senza trascurare il rapporto con il
mondo della politica. Non è pensabile un
agire, d’ora in poi, secondo il motto “escogito ergo sum”, ossia secondo un’arte di
arrangiarsi che, spesso, purtroppo, ha caratterizzato l’arte italica ed anche, ahimè, quella legale. Oggi è necessario ed indispensabile promuovere e battersi per un’Avvocatura
che sia protagonista del suo tempo e non
semplice spettatrice e tale spinta propulsiva
deve provenire dalla Giovane Avvocatura
che più di tutte le altre componenti dell’Avvocatura tradizionale sa interpretare i tempi
ed intercettarne i segnali.
Proposte di Welfare attivo per l’avvocato giovane
L’
avvocatura sta affrontando un periotà di mantenere aperto lo studio profesdo particolarmente difficile, determisionale negli anni più complessi che sono
nato dalla necessità di cambiare radiindividuati nei primi anni di professione ed
calmente il modo di porsi nei confronti delanche nel periodo della fine della gravila società civile.
danza e del primo puerperio attraverso il
Questo cambiamento è particolarmente
supporto (tipicamente ispirato al principio
doloroso per alcune fasce individuabili nei
di solidarietà) di un collega che si sostituigiovani che si accingono ad accedere all’atsca alla collega in maternità, affiancandotività professionale. In quest’ ottica in Casla temporaneamente. Si è immaginata la
sa Forense la Commissione pari Opportunifigura del sostituto di studio che perDI IMMACOLATA
tà, ha proposto un progetto definito” welmette di mantenere l’attività in essere
TROIANIELLO
fare attivo”
senza dover affrontare scelte dolorose e
Avvocato
La finalità del progetto è di offrire una polidifficili tra maternità e lavoro, peraltro
Consigliere Ordine
tica di sostegno attivo alla giovane avvoonerosissime.
Avvocati Napoli
Commissione
catura,a coloro i quali credono nel proprio
L’idea di fondo si concretizza nella possiPari
futuro e decido nodi investire tutte le probilità di offrire alla collega un sostegno
Opportunità
prie energie per migliorare le proprie comattivo temporaneo compatibile con l’idea
petenze ed offrirsi come partner vincente a
che lo studio è e resta dell’avvocato in
fianco al proprio cliente.
maternità, il cliente non subisce alcun “danno” dal norAlle avvocate nel momento delicato della male svolgersi della vita privata, la difesa è garantita
maternità/adozione per consentirle di essere economi- con lo stesso identico profilo di competenza e autonocamente forti nel momento di più grande debolezza per mia.
la carriera della libera professionista.
Si tratta di una scelta, una possibilità che viene offerta,
Le proposte sono perciò indirizzate esclusivamente ai che non si sostituisce al diritto di chiedere ed ottenere il
giovani avvocati.
rinvio delle attività di udienza (civili e penali) per legitL’obiettivo può consistere nel migliorare la propria cul- timo impedimento che tale resta.
tura giuridica frequentando corsi di alta specializzazio- Totalmente diverso lo spirito delle proposta del sostitune in tal caso la meta finale consiste nell’ indirizzare i to di studio rispetto ad un altri progetto presentato
nuovi ingressi nell’avvocatura in aree sempre più spe- che non prevedono la necessaria presenza di un reddicialistiche e di forte contenuto attuativo nell’ area geo- to significativo da parte della la professionista e pergrafica ove vivono, per esemplificare, nell’ area Napole- tanto abbia uno studio professionale autonomo. Questi
tana rafforzare la conoscenza del diritto della navigazio- ultimi sono da inserire negli interventi assistenziali veri
ne, visto l’esistenza di un porto commerciale.
e propri.
Per le donne si vuole sostenere il reddito e la possibili- La terza proposta si rivolge ai giovani che vogliono inve-
stire nella migliore qualificazione del proprio studio professionale con l’ acquisto di attrezzatura per elevare la
qualità lavorativa, indirizzando la loro scelta all’acquisto di banche dati,di materiale tecnologicamente avan-
iscrizione coincidente Albo/Cassa.
Ritengo che se la Cassa Forense recepirà l’ idea di welfare attivo, essa possa diventare il punto di riferimento e di sostegno della giovane avvocatura per favorirne
zato ecc. con un prestito d’ onore da restituire,senza
interessi nei 10 anni successivi il prestito d’onore sarebbe erogato agli iscritti che non abbiano compiuto il
trentacinquesimo anno di età e nel solo primo anno di
il passaggio verso la nuova tipologia di professione che
le normative recenti,sia quelle imposte dagli ultimi vari
governi sia la nuova legge professionale, hanno ormai
imposto agli avvocati tutti.
SPIAalDIRITTO
APRILE 2013
12
L’Avvocato Risponde
Il Consiglio dell’Avvocato
entile Avvocato, sono un signora di 47
anni ed ho ricevuto dai miei genitori, per
fortuna ancora in vita, la donazione di un
immobile. Ho intenzione di venderlo, ma sto
avendo delle difficoltà, poiché i potenziali
acquirenti non riescono ad ottenere dei mutui
per l’acquisto e non si fidano ad acquistare un
bene donato. Mi può spiegare il motivo della
loro sfiducia? Come mai le Banche fanno problemi?
Grazie.
Emma C.
G
Gent.ma Sig.ra Emma,
se un genitore dona un
immobile ad un figlio è
come se gli anticipasse una
quota di eredità. Il donante
però, con il suo restante
patrimonio deve riuscire a
soddisfare anche le esigenze
dei legittimari cioè gli altri
avente diritto all’eredità
DI MANUELA
(figli, coniuge, genitore).
MILITERNI
Può verificarsi l’ipotesi in cui
MAIL:
[email protected] il donante muoia nullatenente ed abbia con donazioni varie, anche o esclusivamente ad estranei, dissipato l’intero patrimonio. In tal
caso il codice civile interviene per tutelare i legittimari.
Infatti l’art. 536 ss. c.c. garantisce loro la quota di legittima dell’asse ereditario che si calcola tenendo conto
del numero e della qualità dei legittimari su tutti i beni
relitti nel patrimonio del de cuius più i beni dallo stesso donati, sottratti i debiti.
Tornando al suo caso, Lei vuole sapere perché le sono
stati sollevati i problemi cui faceva riferimento. La soluzione sta negli artt. 561 e 563 c.c. Ed allora. I legittimari, al momento dell’apertura della successione, possono
proporre azione di riduzione (a tutela della loro quota di
legittima) e trascriverla, meglio se entro 10 anni dalla
morte del donante; in questa ipotesi se sono trascorsi
20 anni dalla trascrizione dell’atto di donazione, senza
che gli aventi diritto (coniuge e parenti in linea retta del
donante) abbiano fatto opposizione alla donazione,
presumibilmente lesiva, il terzo acquirente può stare
tranquillo. Il decorso del ventennio dalla donazione,
senza opposizione, rende sicuri ed inattaccabili gli
acquisti per donazione. Del resto questo era lo scopo del
legislatore nel 2005 quando riformò la disciplina!
Per farLe un esempio pratico, supponiamo che Tizio doni
a Caio nel gennaio 1991 un bene immobile e che la
donazione sia trascritta subito; Caio lo rivende a Sempronio, che subito trascrive, nel dicembre 1992. Tizio
muore nel 2013. Gli eredi legittimari di Tizio, per avere
quanto di loro spettanza propongono azione di riduzione e la trascrivono poco dopo la morte di Tizio. In questa ipotesi essi pur avendo proposto la riduzione non
potranno tangere l’acquisto di Sempronio, essendo dallo stesso trascorso il famoso ventennio senza alcuna
opposizione da parte degli aventi diritto (i legittimari
stessi). Essi in questo caso si rifaranno sul donatario e
per equivalente, ma non sul terzo ed in natura!
In caso contrario, quando cioè entro il ventennio dalla donazione gli aventi diritto (di cui sopra) facciano
opposizione, ovvero se è già morto il donante propongano azione di riduzione, i legittimari possono chiedere
la restituzione (dopo aver esperito azione di riduzione)
dei beni donati nei confronti di chi ha ricevuto il bene in
donazione; se questi non lo ha nel frattempo alienato, i
legittimari possono recuperarlo libero da pesi
e/o ipoteche; se il donatario lo ha, invece, alienato a
terzi, i legittimari possono agire per ottenere l’equivalente in danaro dal donatario. In questo secondo caso e
per l’ipotesi in cui l’escussione sia infruttuosa, allora si
procederà nei confronti dei terzi acquirenti, i quali possono liberarsi dall’obbligo di restituire in natura le cose
donate pagando l’equivalente in danaro.
Nell’esempio di cui sopra, si supponga:
che dopo la donazione da Tizio a Caio nel 1991 uno
degli aventi diritto faccia opposizione e che Tizio muoia sempre nel 2013. In questa ipotesi l’opposizione
sospende il ventennio e quindi Sempronio che prima
era salvo, ora non lo sarebbe più!
Che Tizio doni a Caio nel 1991 e nessuno si opponga,
ma che Tizio muoia nel 2000. In questo caso gli eredi
legittimari possono esperire subito l’azione di riduzione ed indipendentemente dall’aver proposto o meno
l’opposizione non essendo trascorso il ventennio dalla
donazione (ovviamente trascritta), la soluzione non
cambia da quella di cui sub a).
La legge vuole dunque tutelare i soggetti legittimari
ecco perché acquistare un bene donato è cosa assai
complicata. L’acquirente deve verificare, per stare tranquillo, che al momento dell’acquisto siamo decorsi 20
anni dalla trascrizione della donazione senza opposizione degli aventi diritto e 10 anni dall’apertura della
successione senza che risulti trascritto contro il donatario venditore azione di riduzione. Quanto alle Banche, la ritrosia a concedere i mutui garantiti da ipoteca su beni di provenienza donativa si giustifica, per
quanto accennato sopra, perché l’art. 561 c.c. consente al legittimario che agisca con l’azione di restituzione entro 20 anni dalla trascrizione della donazione di
riottenerli liberi da pesi e/o ipoteche. In ciò sta la
risposta al perché le Banche evitano, per quanto possibile, di prendere ipoteche su beni donati.
SPIAalDIRITTO
13
APRILE 2013
Speciale
Rieducazione e diritto minorile
Comunità Jonathan: “Dare ordine alle cose per dare ordine alla vita” L
PAGINA A CURA DI
FABIANA COPPOLA & ALESSANDRO DE SANTIS DottorI in Giurisprudenza
Rieducare: aiutare a comprendere il proprio sbaglio e correggere un modo di vivere. Aiuto e correzione sono funzioni complementari. Nessuna può essere, infatti, portata utilmente avanti, se anche l’altra non lo è. Tutti capiscono lo
sbaglio fatto ma non tutti desiderano, sul serio, cambiare vita. Quindi, al di la di belle parole e buone leggi, è innegabile il fondamentale ruolo di “strutture di vita” che riescono, o comunque cercano, di realizzare un’idea rieducativa. E così, la piena concretizzazione di una tale idea può realizzarsi compiutamente con un intervento che tenda,
anche attraverso contatti con l’esterno, al reinserimento e alla “rinascita” sociale .
na villetta circondata dal verde: un
orto,un campo da calcio, un giardino.
Crediamo di essere giunti nel posto
sbagliato e invece l’indirizzo è quello giusto:
siamo alla Comunità Jonathan.
Ad attenderci c’è la direttrice Silvia Ricciardi,
che subito ci apre le porte di “casa sua” chiedendoci, nel dettaglio, cosa vogliamo sapere
della Comunità.
Avevamo pronto un foglio con alcune domande, domande che credevamo potessero raccontare il suo impegno, il suo lavoro e i successi che hanno reso Jonathan, un modello da
seguire.
“La Comunità non ha intenti salvifici”, esordisce Silvia Ricciardi, per poi dire “venite con
me”.
Siamo condotti in un piccolo salotto, aperto
su una sala da pranzo da cui arrivano due
ragazzi che si presentano e ci chiedono se
gradiamo un caffè, che ben volentieri accettiamo.
“Silvia”, semplicemente così la chiamano i
ragazzi, ci chiede se abbiamo voglia di guardare un documentario, lasciandoci spiazzati
per l’andamento di quella che doveva essere
una formale intervista. Invece ci troviamo
seduti su un divano blu, mentre Enzo, uno dei
figli di Jonathan, ci porta il nostro caffè.
Il titolo del documentario è “I giorni buoni” e
il regista è Andrea Branzini.
Inizia a profilarsi davanti ai nostri occhi, un
breve scorcio della realtà che si cela dietro al
lavoro di Jonathan, una realtà che fa conoscere volti, nomi e storie dei suoi protagonisti.
Tutti ragazzi, tutti giovani, tutti fautori inconsapevoli di un sistema perpetrato dall’assenza di regole sociali, perchè come spiega senza molti giri di parole Francesco, “oggi guappo è facile diventare, ci vogliono palle e prestazioni. Palle e prestazioni significa che ti
U
metti sopra alla motocicletta, con una pistola
e riesci a sparare”.
Ragazzi senza un’identità, che per essere
accettati da un gruppo si uniformano anche al
modo di vestire del momento. Ragazzi con
radici marce, abituati a pranzare tra dosi di
eroina da spacciare e denaro sporco di sangue.
Perchè come dice Giulio, “se tu mi chiedi
dopo cinque mesi perchè l’ho fatto, io non so
rispondere perchè”.
Finito il documentario, finisce l’idea di poter
raccontare Jonathan con quattro domande e
l’intento di Silvia Ricciardi appare chiaro: lei
non presenta le sue vittorie, ma presenta la
realtà. Presenta i suoi ragazzi e le loro storie,
senza fare bilanci perchè bilanci non possono
essere fatti.
Giulio, Francesco, Angela, Enzo. Ognuno di
loro ha un vissuto, ognuno di loro un carattere e ognuno di loro avrà un futuro, un futuro
diverso, in base a chi sceglierà di essere.
Ma a tutti, qui, viene data una possibilità.
La possibilità di una “giornata normale”, con
il rispetto di piccole regole quotidiane che,
però, quasi tutti i ragazzi, ignorano.
“La giornata tipo ha inizio con la sveglia delle ore 7.30”, ci spiega Silvia Ricciardi, “ed
entro le ore 8.00 i ragazzi devono recarsi nell’
area comune, altrimenti dovranno rinunciare
alla colazione”.
L’esistenza di regole e il loro rispetto, sono il
fino alle 23.00, per poi andare a letto, salvo
rare eccezioni in cui si trattengono oltre l’orario consentito per vedere la fine di un film,
perché, come ci viene detto, “la Comunità
non è un carcere, ma nemmeno un albergo”.
Il sabato è il giorno dei colloqui con i familiari, che durano un’ora e mezza e seguono rigide regole, che vietano, ad esempio, l’introduzione di alimenti, sia per evitare il mancato
rispetto delle regole interne, sia per evitare
discriminazioni su base economica.
La settimana si chiude con una domenica “di
svago” per i ragazzi, che possono essere
accompagnati al cinema, al teatro o anche ad
una gita culturale, ma spesso è una semplice
passeggiata in uno dei comuni limitrofi, ad
primo insegnamento impartito ai ragazzi, i
quali, durante la mattinata, sono impegnati in
attività diverse, tutte finalizzate a riempire le
loro giornate con esperienze assolutamente
nuove.
Così le loro 24 ore possono essere scandite
da attività di laboratorio o, in alternativa, da
assistenza ai bisognosi presso la mensa della
Caritas di Marigliano e ciò non esclude che,
alcuni di loro, la mattina frequentino la scuola superiore.
Come in ogni famiglia che si rispetti, alle ore
14.00 si rientra in comunità per il pranzo e, a
turni, i ragazzi sparecchiano e lavano i piatti,
imparando cosa vuol dire “vivere insieme”,
perché, come precisa la Ricciardi, “molti di
questi ragazzi non sanno cosa vuol dire stare
seduti a tavola”.
L’altra parte della giornata vede impegnati a
scuola i ragazzi che non hanno la licenza
media, mentre gli altri possono svolgere attività ricreative del più vario genere, dalla cura
dell’orto della Comunità, alle partite di calcetto all’interno della stessa.
Segue la cena alle ore 21.00, e, terminata la
stessa, i ragazzi possono vedere la televisione
impegnare il loro fine settimana. Sono sette
giorni “come tanti”, scanditi da tante piccole
regole che tentano di dare ai ragazzi ciò che
non hanno avuto: la disciplina. Una disciplina
che permetterà loro di imparare, se vorranno,
le regole del saper vivere bene, prima con se
stessi e poi con gli altri.
Ma Jonathan non si ferma qui: offre, a seconda dei casi e delle predisposizioni, la possibilità di intraprendere dei corsi di apprendistato
lavorativo presso botteghe ed esercizi commerciali locali, nonché presso la nota azienda
Indesit, operante nel settore degli elettrodomestici.
Ma, come tiene a sottolineare Silvia Ricciardi
“Non basta dare un lavoro ai ragazzi per salvarli”, perchè ciò che manca loro è, prima di
tutto, un approccio diverso alla vita. Ed ecco
che Jonathan fa ancora “qualcosa in più”.
Coinvolge i ragazzi, li coinvolge in progetti
che possano entusiasmarli ma, al tempo stesso, insegnargli spirito di sacrificio e voglia di
fare.
Su questi presupposti nasce, e da quattro anni
si ripropone, “Il progetto Jonathan-Vela” che
si presenta come progetto di crescita che pos-
Comunità
Jonathan
a comunità Jonathan, fondata nel
1993 a Scisciano, nasce quale progetto operativo dell’ Associazione
Jonathan Onlus, costituita all’ inizio
degli anni ’90, su iniziativa di un gruppo di operatori sociali, con la specifica
finalità di fornire un apporto concreto
al recupero della devianza adolescenziale. L’ Associazione, difatti, svolge, in
favore dei minori “problematici”, attività di sostegno, recupero e formazione, avvalendosi di un nucleo di professionisti che delinea scientificamente i
programmi di intervento da attuare; la
realizzazione di tali programmi è
attuata operatori sociali qualificati,
operatori del servizio civile e gruppi di
volontari. Inoltre, l’Associazione è
iscritta all’ albo regionale del Ministero della Giustizia, attraverso i Centri
per la giustizia minorile e si configura
quale Agenzia Territoriale Integrata,
impegnata nella lotta all’ emarginazione sociale giovanile, e attiva sul territorio con quattro comunità residenziali, tra le quali spicca la summenzionata Comunità Jonathan. La Comunità
ospita, difatti, minori sottoposto a
misura cautelare o a provvedimento
amministrativo – civile, di età compresa tra i 14 ed i 21 anni.
Alessandro de Santis
sa lasciare un ricordo, ma soprattutto un
esempio di collaborazione, per i ragazzi che
partecipano.
Ed eccoci alla fine della nostra giornata qui. E
ora, dopo aver capito quante cose ha da dire
una villetta dell’entroterra vesuviano, abbiamo percepito, almeno in piccola parte, la forza di questa Comunità. Jonathan non ha la
presunzione, ne la pretesa di dare una seconda vita, ma semplicemente (si fa per dire!),
offre una strada alternativa, una strada di
cui molti dei ragazzi che arrivano qui, non
immaginano neanche l’esistenza.
Jonathan da una chance da giocarsi, quella
possibilità reale e concreta, per i suoi
“figli”, di poter cambiare vita, di poter
costruire una propria personalità con valori
da spendere e in cui credere anche, e principalmente, al di la del cancello della Comunità: nel lavoro, per strada e, prima ancora,
in famiglia.
Jonathan è l’esempio che, in un mondo di
persone che si accontenta di guardare
superficialmente e da lontano la realtà, limitandosi a criticarla, c’è chi, da vicino, decide
di insinuarvisi, offrendo un’opportunità.
La vela come metafora della vita
Guardare sempre avanti, fissare un obiettivo. Fare le cose
per bene e farle insieme. Questa è la vela di Jonathan
er il quarto anno consecutivo, l’Associazione Jonathan onlus propone il
Progetto Jonathan-Vela - “Regata dei
Tre Golfi” .
Anche per quest’anno, l’iniziativa si propone di realizzare interventi educativi attraverso la pratica dello sport velico, in collaborazione con la Marina Militare.
L’equipaggio è composto da cinque ragaz-
P
zi, giovani adolescenti dell’area penale,
seguiti da un team di esperti formato da
uno skipper professionista e da due tutor
dell’associazione Jonathan. I giovani
saranno impegnati in un vero e proprio
percorso di apprendimento tecnico, sia di
preparazione fisica, sia di affinamento psicologico-comportamentale. Sveglia all’alba, colazione, attività marinaresche di
base, attività velica, preparazione cena e
pernottamento in rada nei giorni in cui è
eventualmente previsto. Collaborazione e
condivisione: queste le parole d’ordine di
questa esperienza, che sarà documentata
tramite un diario di bordo, questionari di
ingresso e di uscita, filmati, fotografie. Ad
esito di questa attività di preparazione all’
esercizio della vela, i ragazzi parteciperanno alla celebre “Regata dei tre golfi”,
evento che riunisce equipaggi provenienti
da tutta l’ Italia, utilizzando un’ imbarcazione della Marina Militare (confiscata ad
uno dei gruppi criminali operanti sul territorio) e guidati dal comandante Costigliola. Lo scenario risulterà senz’ altro suggestivo, dal momento che la partenza della
regata avverrà in notturna, alle ore 00.00,
dal molo del Circolo Italia e la navigazione
si protrarrà per i successivi due giorni,
attraversando i golfi di Gaeta, Napoli e
Salerno. La vela di Jonathan insegna l’importanza del rispetto delle regole offrendo, ai suoi ragazzi, la possibilità di imparare la responsabilità nel lavoro di squadra,
il riconoscimento di gerarchie e ruoli, rappresentanti risorse indispensabili per la
sicurezza del gruppo e per il raggiungimento degli obiettivi comuni.
Fabiana Coppola
SPIAalDIRITTO
14
APRILE 2013
Civile
Fondo Patrimoniale
A) NOZIONE Il fondo patrimoniale, come dispone l'art.
167 c.c., consiste nella imposizione convenzionale, da
parte di uno dei coniugi o di entrambi o di un terzo, di un
vincolo in forza del quale determinati beni, immobili o
mobili iscritti in pubblici registri o titoli di credito, sono
destinati a far fronte ai bisogni della famiglia. Il vincolo di
destinazione che deriva dal fondo patrimoniale comporta
l'assoggettamento dei beni dei coniugi ai bisogni della
famiglia, nonché ad un potere di amministrazione cumulativa e di parziale inalienabilità e ad un conseguente
regime speciale di responsabilità patrimoniale, garantendo i beni del fondo solo una ristretta cerchia di creditori.
Tale strumento permette la realizzazione di un duplice
scopo: innanzitutto, dà maggiore forza o concretezza alla
funzione da parte della comunità familiare dei beni conferiti nel fondo e dei frutti degli stessi; inoltre, accanto alla
previsione di un vincolo di inalienabilità, convenzionalmente definibile nel suo contenuto, consente da una parte di porre i beni oggetto del fondo al di fuori di rischi
discendenti da una non oculata gestione delle vicende
patrimoni ali dei coniugi e, dall’altra, di agevolare la possibilità di accedere al credito per la soddisfazione di esigenze di tipo strettamente familiare. Ne consegue che la
destinazione dei beni ai bisogni della famiglia, realizzata
attraverso il vincolo obbligatorio imposto ai coniugi di
devolvere le relative utilità a vantaggio dell'intera famiglia, viene assicurata attraverso limitazioni e divieti
all'alienazione discrezionale dei beni da parte dei coniugi
(art. 169 c.c.), Parimenti la garanzia offerta dai beni del
fondo, applicabile solo ad una circoscritta categoria di
creditori del soggetto che abbia contratto il relativo debito (art. 170 c.c.), deroga al principio generale posto dall'art. 1372 c.c., secondo il quale il contratto non può avere effetti negativi ed a quello di cui all'art. 2740 c.c.
secondo il quale il debitore risponde delle obbligazioni
con tutti i suoi beni presenti e futuri. Invero, quando l'obbligazione sia stata contratta dal singolo coniuge, in conformità delle regole del fondo (art. 168 c.c.), il creditore
potrà aggredire, non solo il patrimonio del suo debitore,
ma anche i beni del fondo per intero, l nonostante che
essi risultino di spettanza anche del Coniuge non debitore contraente; al contrario, i beni del fondo non possono
essere mai aggrediti dai creditori dei coniugi - neppure nel
caso in cui l'obbligazione sia stata contratta congiuntamente - quando la pretesa creditoria si fondi su di una
obbligazione che risulti essere stata contratta per scopi
estranei alla famiglia.
B) FUNZIONE E NATURA GIURIDICA
Il Fondo patrimoniale si costituisce a mezzo di atto pubblico e non abbisogna di accettazione quando è fatto da
uno dei coniugi. La pubblicità cui l'atto deve essere sottoposto è costituita da una annotazione a margine dell 'atto di matrimonio e se esso contempla degli immobili deve
essere anche trascritto presso i registri immobiliari. Esso
crea un patrimonio di destinazione privo di soggettività
giuridica, anche se non mancano coloro che lo affiancano
concettualmente al patrimonio separato, al trust o addirittura al patrimonio autonomo. In dottrina si discute sulla
sua natura di atto negoziale. Di regola, salvo che provenga da un terzo che lo realizzi in adempimento di un obbligo contrattuale esterno, è reputato, sin dai primi commentatori, un atto di liberalità; ciò fa sì che, in quanto
compatibili, si applichino le norme sulla donazione, cosicché si può affermare, ad esempio, che i beni costituiti in
fondo possono essere oggetto di collazione ereditaria.
C) LA PUBBLICITÀ
La costituzione del fondo patrimoniale, prevista dall'art.
167 c.c. e comportante un limite alla disponibilità di
determinati beni con vincolo di destinazione per fronteggiare i bisogni familiari, va compresa tra le convenzioni
matrimoniali; pertanto, essa è soggetta alla disciplina di
cui all'art. 162 c.c. e 2647 c.c. In particolare, l'ultimo comma del citato art. 162 c.c. disciplina l'inopponibilità ai terzi delle convenzioni matrimoniali, ove le stesse non siano
state all1lotate a margine dell'atto di matrimonio, mentre
l'art. 2647 c.c. espressamente dispone, tra l'altro, la trascrizione dell'atto costitutivo del fondo patrimoniale
avente per oggetto beni immobili. Ne consegue che l'entrata in vigore della L. 19.5.1975 n.151, ci ha posto
difronte a due diverse forme di pubblicità: l’annotazione
(ove esplicitamente si 2 parla di opponibilità ai terzi) e la
trascrizione (ove è stato abrogato il riferimento alla opponibilità ai terzi). La duplicazione delle forme di pubblicità
prevista per le convenzioni matrimoniali ha, quindi, determinato la necessità di delimitare gli ambiti di operatività
delle due norme ed in particolare il loro coordinamento.
Ci si domanda se per l'opponibilità ai terzi debba farsi
riferimento all’annotazione, ovvero alla trascrizione.
ANNOTAZIONE
A norma dell'art. 162 c.c., su tutte le convenzioni matrimoniali e sulle loro modifiche, compresa la risoluzione
consensuale, grava l'onere pubblicitario dell' Annotazione
(a cura dell'Ufficiale dello Stato Civile) a margine dell'atto di matrimonio ai fini della loro opponibiIità ai terzi.
Essa va eseguita, negli atti dello Stato Civile del Comune
ove è stato celebrato il matrimonio o del Comune ove il
matrimonio è stato trascritto nell'ipotesi che esso sia stata celebrato all'estero. (art. 24 R.D. 9.7.39 n.1238). L'oggetto dell'annotazione non è in generale il contenuto della convenzione, bensì il mero fatto della intervenuta stipu-
DI
LUCIO MILITERNI
Avvocato
lazione con l'indicazione di una serie di elementi che consentano agli interessati di procurarsi dal notaio rogante
copia autentica della convenzione, rilevandone così il contenuto. E' pacifico che le convenzioni sono opponibili ai
terzi. Le convenzioni non ancora annotate sono inopponibili ma non prive di effetti nei confronti dei terzi. In tal
senso, l'annotazione è stata definita una forma di pubblicità notificativa (cfr. Bianca); per il De Paola, invece, si tratta addirittura di efficacia costitutiva; si ritiene, perciò,
adducendo a sostegno l'art. 2193 c.c., che la convenzione non annotata sia comunque opponibile al terzo in
mala fede, cioè al terzo che si dimostri essere a conoscenza della convenzione stessa al momento dell'acquisto del
suo diritto, salva in ogni caso l'applicabilità dell'art. 170 e
ss. c.c..
TRASCRIZIONE
L'art. 2647 c.c. (modificato dall'art. 206 L. n.151/75 che
ha soppresso proprio il IV co. che condizionava alla trascrizione l’opponibilità del regime patrimoniale ai terzi),
stabilisce che devono essere trascritti, se hanno ad oggetto beni immobili, la costituzione di fondo patrimoniale e
l'ingresso nel fondo di nuovi beni. (art. 2647, I e II co.
c.c.). 3 La giurisprudenza di merito e la dottrina prevalente attribuiscono alla trascrizione del vincolo, il puro ruolo
di pubblicità notizia in ciò confortate dall'abrogazione del
IV co. dell'art. in esame in cui era espressamente indicato
quale effetto primario della trascrizione l'opponibilità ai
terzi delle convenzioni matrimoniali. Il ruolo di pubblicità
dichiarativa, compete allora all'annotazione nei registri
dello Stato civile, in forza del già richiamato art. 162, IV
co. c.c. sull'opponibilità ai terzi delle convenzioni matrimoniali. Per completezza è necessario evidenziare che la
Corte di Cassazione con sentenza n. 8824 del 1987,
affrontando per la prima volta la questione, affermava che
la funzione che la legge ha espressamente attribuito all
'annotazione ex art. 162 c.c. e la mancata riproduzione
del IV co. dell'art. 2647 C.C., inducono a ravvisare nell'annotazione dell'atto costitutivo del fondo patrimoniale a
margine dell' atto di matrimonio, l'unica formalità pubblicitaria rilevante agli effetti dell’opponibilità della convenzione ai terzi. Questa interpretazione, è stata condivisa
anche dalla Corte Costituzionale con provvedimento del 6
aprile 1995. n.111.
IL PROBLEMA DEL COORDINAMENTO TRA I DUE
REGIMI PUBBLICITARI.
Le argomentazioni giuridiche di cui sopra, seppur seguite
dalla giurisprudenza di merito e dalla dottrina prevalente,
comunque sono oggetto di incisivi rilievi critici, proprio da
altra parte della dottrina ma anche dalla giurisprudenza.
Innanzitutto, non si ritiene che la trascrizione abbia generica funzione pubblicitaria e che l'efficacia dichiarativa
andrebbe espressamente prevista; basta, infatti, scorrere
le nonne dedicate alla trascrizione (artt. 2643, 2646,
2648 codice civile) per verificare che l'efficacia dichiarativa costituisce la regola, e quella di pubblicità notizia l'eccezione. Inoltre, la natura dichiarativa della trascrizione realizza maggiore certezza dei rapporti giuridici, risolvendo eventuali conflitti sulla base
della priorità di esecuzione della formalità. Non solo, ma
la trascrizione costituisce l’unico strumento pubblicitario degli atti modificativi della consistenza
patrimoniale del fondo (art. 2647, comma secondo,
c.c.) con cui si reinvestono i frutti dei beni assoggettati al
fondo o il ricavato della loro alienazione; in tal caso, infatti, non modificandosi la convenzione, non vi sarebbero i
presupposti per l'annotazione (art. 163, comma terzo,
c.c.), a meno di considerare il nuovo acquisto come un 4
nuovo fondo patrimoniale. Infine, l'importanza della trascrizione è confermata dall'obbligo del conservatore a provvedervi d'ufficio nel caso di costituzione testamentaria del fondo patrimoniale (art.
2647, ult. comma, c.c.). Secondo una parte consistente della più recente dottrina, timidamente seguita da una
parte della giurisprudenza di merito, sembra dunque che
l'apparente contrasto dell' art. 162 con l'art. 2647 Codice civile possa comporsi considerando il carattere complementare dei due strumenti pubblicitari: l'annotazione
consente di opporre ai terzi il regime convenzionale, la
trascrizione rende invece opponibile ai terzi il vincolo sui
beni e gli atti destinati a disciplinarlo. Quindi, nel caso in
esame, la mancanza dell'annotazione comporterebbe l'inopponibilità della convenzione quale
regime patrimoniale, ma non del vincolo sui singoli beni, assicurato dalla tempestiva trascrizione.
Del resto, anche da un punto di vista pratico, la trascrizione consente una maggiore conoscibilità del vincolo,
accertabile mediante una semplice visura, rispetto all'indagine realizzata presso i registri dello stato civile, “meno
facilmente accessibili, meno affidabili" e meno completi.
Può, quindi, affermarsi che ciascuno strumento di pubblicità risponde ad una propria funzione tipica. Sembra più
coerente al sistema, benché minoritaria, l'opinione che
riconosce efficacia dichiarativa ad entrambe le forme di
pubblicità, ritagliando alle stesse un diverso ambito operativo. In definitiva, annotazione e trascrizione si integrano al fine di tutelare maggiormente il vincolo d'indisponibilità nascente dalla convenzione, tanto da potersi ritenere sufficiente, per l'opponibilità ai terzi, che l'atto costitutivo del fondo "sia stato, alternativamente, o solo trascritto, o solo annotato”.
D) IL PROCEDIMENTO FORMATIVO DELL'ANNOTAZIONE
L’annotazione va eseguita negli atti dello stato civile del
Comune ove è stato celebrato il matrimonio o del Comune ove il matrimonio è stato trascritto nell'ipotesi che esso
sia stato celebrato all'estero (cfr. art. 124, r.d. 9.7.1939,
n.1238). 5 L’annotazione prevista dalla norma in commento rientra tra quelle dell’art. 172 r.d. 9.7.1939,
n.1238 che va, perciò, eseguita d'Ufficio. Sul notaio che
ha rogato la convenzione grava l'obbligo ex art. 34 disp.
atto di richiedere entro 30 giorni dall'Ufficiale dello Stato
civile l'annotazione della convenzione stessa o dell 'atto
di modifica. Il termine di trenta giorni decorre dalla data
della convenzione se questa è successiva al matrimonio,
ovvero, se questa è anteriore, dal giorno in cui il notaio ha
avuto conoscenza delle nozze. L'omissione della richiesta
di annotazione configura un’ipotesi di responsabilità professionale del notaio verso le parti per il danno che esse
abbiano subito dall’inopponibilità della convenzione ai
terzi. Il dovere di chiedere l'annotazione incombe anche
sul console in quanto abbia esercitato la funzione notarile. Non incombe invece alcun dovere sul celebrante col
riguardo alla scelta del regime di separazione espressa
all'atto delle nozze; in tal caso sopperisce il dovere d'ufficio del preposto alla tenuta dei registri dello Stato civile.
(art. 173, r.d. 9.7.1939 n.1238). E' evidente che sia l'annotazione che la trascrizione sono il risultato finale di un
articolato procedimento amministrativo che ha inizio, nel
caso dell'annotazione, con la richiesta del notaio, ex alt.
34 disp. atto cod. civ. oppure delle parti interessate ex art.
173 r.d. 9.7.1939 n.1238. Ne consegue, quindi, che l'iter
procedi mentale non esclude, il verificarsi di effetti prodromici di cui il richiedente è titolare indipendentemente da
quelli che sono i tempi necessari per concludere il procedimento, il quale, nella esclusiva gestione della P.A., non
può nuocere al privato adempiente che, ottemperati gli
obblighi di legge, acquisisce una legittima aspettativa
all'annotazione quale atto dovuto che non può certo arrecare pregiudizio di alcun genere. Pertanto gli effetti favorevoli per i soggetti interessati si producono sin dal
momento in cui viene depositata agli uffici competenti la
richiesta di annotazione. Ciò premesso in diritto, in fatto
ove la richiesta per la annotazione sia stata depositata
ritualmente presso gli uffici competenti, è dalla data del
deposito che si realizzano gli effetti favorevoli per i beneficiari, specie ove sussista la trascrizione di cui all'art.
2647 c.c. 6 L'annotazione, è un mero formalismo il qua-
le, al più, può determinare da parte dei beneficiari un'inversione dell'onere della prova nel dimostrare il momento
temporale nel quale egli ha depositato all'ufficio dello
Stato civile l'atto da annotare, con conseguente immediata produzione di effetti giuridici in termini di opponibilità
ai terzi della convenzione matrimoniale già ritualmente
trascritta.
E) LA TRASCRIZIONE E L'AMBITO DI APPLICAZIONE
DELL’ART. 170 C.C.
Al fine di salvaguardare la speciale destinazione dei beni
costituiti in fondo patrimoniale, per soddisfare cioè i bisogni della famiglia, il nuovo testo dell'art. 170 cod. civ. ha
disposto che l'esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di
essi n. 1 può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni
della famiglia”. Il creditore, quindi, deve conoscere l'estraneità dell'obbligazione alle esigenze della famiglia. Non
basta la mera conoscibilità astratta o la dimostrazione che
il creditore con la diligenza ordinaria avrebbe conosciuto
una siffatta alienità. Né è sufficiente un semplice stato di
non conoscenza o di ignoranza del creditore, magari a
causa della neutralità dell'obbligazione in questione. La
prova di tale conoscenza, anche mediante semplici presunzioni, grava sui coniugi; in particolare, costoro dovranno provare la non corrispondenza, in modo oggettivo, dell'obbligazione sorta nei confronti dell’esecutante ai bisogni del loro nucleo familiare e la conoscenza da parte del
creditore. Il principio giuridico così come specificato nell’art. 170 c.c. deve comunque essere specificato. Occorre innanzitutto inquadrare la fattispecie negoziale e distinguere la natura prettamente privatistica della contrattazione da quella, invece, squisitamente commerciale e tener, pertanto, conto della qualità e la natura
del creditore: (privato, imprenditore, grosso operatore
economico), nonché dei mezzi di pubblicità legale, essenziali e basilari nelle trattazioni commerciali. Nell'ipotesi in
cui si tratti di una vicenda prettamente civilistica, intercorrente tra due privati, è necessario che il regime probatorio sia valutato dal giudice con particolare rigore anche se
non può escludersi il ricorso alle presunzioni. L'importanza degli effetti giuridici - derogatori rispetto a quanto
dispone l'alt. 2740 c.c.- impongono ai coniugi di fornire
la prova concreta e specifica della 7 conoscenza da parte
del creditore della estraneità dell'obbligazione alle esigenze della famiglia. Ove invece interessati alla vicenda
giuridica siano un imprenditore e/o grossi operatori economici, per costoro la valutazione dell' onere probatorio
deve assumere ambiti di operatività diversi in riferimento
alla maggiore dimestichezza e frequenza da patte di questi creditori di utilizzare mezzi di pubblicità cui spesso
sono sottoposti i beni che si intendono aggredire a garanzia di un credito. Non è credibile che un imprenditore o
grosso operatore economico non svolga indagini immobiliari su quei soggetti con i quali entra in contatti commerciali, "esplorando", innanzitutto, le loro consistenze patrimoniali attraverso i vali uffici tra cui la (Conservatoria dei
registri immobiliari onde verificare lo "status" di un bene
e la sua eventuale aggredibilità. È la correttezza e diligenza commerciale. E' noto che la trascrizione è il procedimento con il quale si rendono conoscibili da parte di tutti, mediante iscrizione in pubblici registri, certi titoli di
acquisto o di costituzione, modificazione o estinzione di
diritti, specialmente reali. Essa attua una forma di pubblicità legale, in quanto i terzi, allorché si è effettuata la trascrizione di un titolo, non ne hanno per ciò stesso la conoscenza effettiva, ma la possibilità di conoscerlo, consultando i pubblici registri, secondo la diligenza media nella
prassi commerciale. La sua funzione è essenzialmente di
pubblicità dichiarativa, in quanto, a norma dell' art. 2644,
comma 10, c.c. risolve a vantaggio di chi per primo ha trascritto l'atto a proprio favore eventuali conflitti tra titolare di diritti sul medesimo bene. Quindi la trascrizione
esaurisce la propria funzione nel rendere opponibili ai terzi gli atti che per legge vi sono soggetti.
Ne consegue che nelle ipotesi in cui su beni immobili venga imposto un vincolo di destinazione, in quanto destinato ai “bisogni della famiglia”, si determina l'opponibilità
del vincolo sui beni, prescindendo dalla opponibilità o
meno della costituzione del fondo patrimoni anche, quale forma di regime patrimoniale dei coniugi, deve essere
anche annotato. E' opportuno, a tal punto, “individuare"
quella che la dottrina qualifica come pubblicità notizia. 8
Invero per alcuni atti la trascrizione è richiesta dalla legge
ai fini di pubblicità notizia: così per gli atti di divisione (art.
2646 c.c.), di accettazione di eredità (art. 2648): atti che
sono pienamente opponibili ai terzi anche se non trascritti. Pertanto la loro trascrizione interessa essenzialmente i
futuri aventi causa del bene, agli effetti dell'osservanza
del principio della continuità della trascrizione.
È evidente, quindi, che per taluni atti, di per sé apponibili
ai terzi anche se non trascritti, la trascrizione ha la funzione specifica di rendere conoscibile ai futuri aventi causa
del bene tal une vicende giuridiche che interessano quel
bene agli effetti della osservanza del principio di continuità.
Si deve, quindi, ritenere che la c.d. pubblicità-notizia ha
un ambito di operatività ben circoscritto, riferendosi a
vicende essenzialmente future, al contrario della trascrizione del vincolo imposto su di un bene immediatamente
opponibile ai terzi, prescindendo dalI’opponibilità della
convenzione familiare nel suo complesso che per essere
“in toto” opponibile dovrà essere autonoma”.
SPIAalDIRITTO
15
APRILE 2013
Attualità
Filiazione: i criteri direttivi della Legge delega
per le modifiche delle azioni di stato
DI
Avvocato
rima di enunciare e analizzare - ancorchè sommariamente dopo una prima lettura - i principi e i criteri
direttivi caratterizzanti la legge 219/12 di modifica
delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, ritengo
opportuno rilevare, con doglianza, che, ancora una volta,
l’esigenza di una complessiva ed organica normazione in
materia minorile, ancorchè allo studio anche dell’ultimo
Legislatore, abbia derogato a favore di un ennesimo
intervento settoriale.
E che quello della legge sulla filiazione sia un intervento
normativo sul “diritto minorile” pare indubbio per la molteplicità degli aspetti presi in considerazione dalla stessa,
e mi sembra confermarlo la modificata norma di cui
all’art. 74 c.c. che esclude la parentela nel caso di adozione di persone di maggiore età, ponendo un’eccezione
allo stato giuridico di figlio, ancorchè maggiorenne, nella
probabile applicazione di un criterio fondante sulla diversa ratio della normativa in tema di adozione di persone di
minore età.
Alla luce dei principi che informano il contenuto della
novella, e in particolare di quelli indicati dall’art. 2 della
stessa, nonché di segnalati criteri direttivi, il governo
dovrà adottare, entro un anno dalla entrata in vigore della legge n. 219 (dunque 1° gennaio 2014), uno o più
decreti legislativi di modifica delle disposizioni vigenti in
materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità al fine di eliminare ogni discriminazione tra i figli,
anche adottivi e cd. incestuosi, nel rispetto del principio
espresso dall’art. 30 della Costituzione.
Quella della delega è stata una scelta imposta al Legislatore proprio in ragione delle innumerevoli disposizioni
che si dovranno modificare, talvolta anche solo nella forma, disposizioni che saranno quelle previste nel codice
civile, nelle sue disposizioni di attuazione, nella legge sul
diritto internazionale privato, ed ogni altra legge vigente
che abbia riferimenti alla filiazione e alla responsabilità
genitoriale.
Si tratta, dunque, di una delega molto ampia che toccherà altre materie ed altri rami del diritto direttamente o
indirettamente collegate allo status di figlio.
Si pensa alla materia delle successioni e delle donazioni,
esplicitamente richiamate dalla delega, e altre come –
per esempio - quella dei reati di famiglia, che necessiteranno anch’essi di un intervento, essendosi modificata la
nozione di parentela.
Così come bisognerà modificare la normativa sull’adozione, non solo in ordine alla “specificazione della nozione
di abbandono”, come previsto nella delega, ma, proprio
P
Relazione dell’avvocato Bagnati per il Convegno organizzato presso
il Tribunale di Napoli, dalla Scuola Superiore della Magistratura, ufficio
del referente per la formazione decentrata, Napoli il 25 marzo 2013 su:
La nuova disciplina della filiazione (L.n.219/12)
Nuovi orizzonti e occasioni mancate
in ragione della estensione della parentela, alle ipotesi di
adozione ex art. 44 Legge adozione.
E’ peraltro indubbio che non può che accogliersi con
favore una legge che – finalmente – dichiara l’equiparazione fra lo status giuridico dei figli, quelli nati dentro o
fuori del matrimonio, quelli adottati, e quelli frutto di rapporti incestuosi (piuttosto parentali), e da tale equiparazione ne fa discendere un progetto normativo fondato sul
principio di non discriminazione. Legge da troppo tempo
attesa, più volte solo annunciata in legislature cessate
“prima dell’esito” – come peraltro l’ultima - e auspicata
dalla evoluzione giurisprudenziale, anche quella della
Corte Costituzionale.
E soprattutto auspicata a livello comunitario fin dalla
Convenzione Europea sullo statuto giuridico dei figli nati
fuori del matrimonio resa a Strasburgo nell’ottobre del
1975, proprio quando in Italia l’entrata in vigore del nuovo diritto di famiglia, pur segnando un’apertura, era
ancora lontana dall’affermazione del principio del valore
in sé della filiazione, principio morale e culturale prima
ancora che giuridico.
Dobbiamo attendere il riconoscimento del minorenne
come persona soggetto di Diritto per arrivare alla non più
derogabile necessità di riconoscere i suoi diritti, ad iniziare da quello all’identità personale, normativamente sancito fin dalla Convenzione di New York del 1989 all’art.
8. E’ la Giurisprudenza e gli ultimi interventi normativi
che prestano attenzione non più al riconoscimento degli
interessi (allora ancora neppure diritti) del minorenne in
quanto appartenenza debole di un gruppo sociale e familiare, ma piuttosto, - attenuando la matrice giusnaturalistica dei diritti umani – non solo riconosce la persona
minorenne come titolare di diritti, ma riconosce proprio in
quei gruppi sociali e familiari i luoghi di realizzazione della sua personalità.
Se dunque è indubbia la portata innovatrice della novella, è pur vero che non limitandosi la stessa ad un intervento ristretto alla unificazione dello status filiationis
rimane l’amarezza di dover constatare che ancora una
volta viene arretrata la realizzazione di una riforma organica, a partire da quella processuale che intervenga meno
frettolosamente sui diritti dei figli partendo necessariamente dal riconoscimento, anche giuridico, della famiglia
non coniugale. In ogni caso, l’esame delle norme già
modificate nonché quello delle indicazioni programmatiche e dell’ambito in cui dovranno muoversi i decreti legislativi, evidenzia sicuramente un passo in avanti verso la
traduzione normativa di quei principi, a partire da quello
costituzionale di cui all’art. 30, ormai divenuti di inderogabile applicazione anche in ragione del comune sentire
fra gli operatori e i destinatari del cd. “diritto minorile”.
Termine quest’ultimo improprio e sicuramente atecnico
dal momento che tutti sappiamo che non esiste “un diritto minorile”, ma terminologia che usiamo per individuare tutto il quadro normativo che interessa la persona
minorenne e dunque anche la disciplina della filiazione
prevista nel codice civile al titolo VII del libro primo; quella sulla potestà genitoriale; le norme contenute nelle
disposizioni di attuazione del codice civile; quelle sulla
adozione di cui alla legge n. 184/83 e succ. modificazioni; quelle di diritto internazionale privato (218/95); quelle sull’affidamento condiviso (54/2006); quelle sull’ordinamento dello Stato civile (396/2000) ed ogni altra. Si
rende dunque necessario, e proprio in forza di nuovi
interrogativi di natura sostanziale e processuale posti dalla novella legislativa – a partire da quando la stessa è
efficace nella sua completezza-, un importante lavoro di
approfondimento anche nella individuazione dei principi
e delle direttive di cui all’art. 2 legge 219/12. Quest’ultima, dopo aver all’art. 1 affermato solennemente il principio dell’unicità dello stato di figlio, ne evidenzia l’altro,
fondamentale, ma di diversa natura, della centralità del
figlio nella tutela dei suoi diritti. Ne sono espressione le
norme già modificate e previste nell’art. 1 e in maniera
pregnante quella introdotta dall’art. 315 bis che afferma
il: Diritto del figlio alla cura materiale e morale;
Diritto del figlio al riconoscimento delle relazioni familiari e il conseguente diritto alla effettività delle stesse;
Diritto del figlio alla libera espressione del proprio pensiero nelle procedure che lo riguardano (diritto all’ascolto).
A chiarirci e confermarci in questa “proclamazione” chiaramente puerocentrica non gioca solo l’enunciazione dei
diritti del figlio, peraltro incompleta, ma anche la ratio che
detta i doveri degli stessi verso i genitori ...
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L’esercizio dell’attività medico chirurgica
necessaria ed urgente nei confronti
del paziente dissenziente: il caso Welby
esercizio dell’attività medico – chirurgica, laddove si sostanzi in un intervento chirurgico o in un
intervento diagnostico invasivo, di regola, determina un’alterazione anatomica o funzionale dell’organismo del paziente.
Pertanto, nel corso dell’ultimo cinquantennio, la giurisprudenza si è notevolmente affaticata nel rinvenire un
fondamento logico – giuridico per la liceità penale di
tale attività, fondamento attualmente identificato nell’art. 51 c. p.. Si è sostenuto, difatti, che il sanitario che
agisce nel perseguimento di finalità terapeutiche, in
ottemperanza alle regole dell’“ars medica”, nonché in
presenza di un consenso del paziente, esercita un diritto attribuitogli dall’ordinamento giuridico, e ciò, in particolare, in considerazione del valore fondamentale che
il bene “salute” detiene in sede costituzionale, come
desumibile dall’art. 32 della “Grundnorm”.
Pertanto, possono ritenersi oramai superate le risalenti impostazioni teoriche che giustificavano l’esercizio
dell’attività medica sulla base del mero consenso dell’avente diritto (art. 50 c. p.) o, addirittura, ricorrendo
alla prospettazione, di matrice tedesca, dell’“azione
socialmente adeguata”. Allo stato attuale, il consenso
informato, validamente manifestato dal paziente,
acquisisce rilievo soltanto quale presupposto di liceità
della condotta medica.
I giudici di legittimità, inoltre, non hanno mancato di
sottolineare che, laddove l’intervento si renda necessario per far fronte ad un imminente e grave pericolo per
la salute o vita del paziente (cd. necessità ed urgenza
terapeutica), la condotta del medico, in quanto adempimento di un dovere salvifico imposto dall’art. 32
Cost., è da reputarsi scriminata anche in assenza di
uno specifico consenso del paziente stesso.
Vale nondimeno ribadire che il consenso non deve
reputarsi necessario neanche nell’ipotesi in cui il sani-
L’
FABRIZIA BAGNATI
DI
ALESSANDRO DE SANTIS
Dottore in Giurisprudenza
tario proceda alla realizzazione di un intervento terapeutico obbligatorio per legge, posto che, in tale circostanza, il legislatore si sostituisce al paziente nell’effettuazione delle relative valutazioni, e ciò nel perseguimento di finalità di carattere superindividuale. Ancora
una volta, dunque, l’attività del medico dovrà ritenersi
giustificata ai sensi dell’art. 51 c. p..
Ben più problematico risulta, invece, l’inquadramento
penalistico della condotta del sanitario, qualora lo
stesso abbia agito per far fronte ad una necessità ed
urgenza terapeutica, ma in presenza di un esplicito dissenso manifestato dal paziente. Può considerarsi
emblematico, a tal riguardo, il rifiuto di emotrasfusioni
“salvavita” frequentemente opposto dai testimoni di
Geova.
In tali ipotesi, il sanitario si trova dinanzi ad una drammatica alternativa: rispettare la libertà di autodeterminazione del paziente, provocando la lesione della sua
integrità o della sua vita, o salvaguardare il bene
“salute” realizzando un’ ingerenza nella sua sfera personale e svilendone le convinzioni etico - morali, filosofiche o religiose.
Per un corretto approccio alla questione, è necessario
ricostruire brevemente le diverse posizioni elaborate
negli anni dai giudici della Cassazione.
Secondo un primo orientamento, minoritario e rigoristico, in presenza di una situazione patologica di siffatta tipologia, incomberebbe sul sanitario l’obbligo di
agire, disattendendo l’eventuale “rifiuto di cure”
opposto dal paziente. E ciò in considerazione del valore fondamentale detenuto dal bene “salute” nel nostro
ordinamento, di talchè le esigenze di tutela dello stesso devono considerarsi idonee a derogare al “principio
di autodeterminazione terapeutica”, di cui all’art. 32,
comma 2, Cost., il tutto senza dimenticare la posizione di garanzia rivestita dal medico nei confronti del
paziente.
Tale impostazione interpretativa viene ulteriormente
avvalorata con il richiamo agli inderogabili principi di
“solidarietà sociale” e di “dignità sociale”, ricavabili
dagli artt. 2 e 4 Cost., e ritenuti idonei ad imporre al
paziente il cd. “dovere di vivere”, orientato al soddisfacimento di esigenze della collettività; d’ altra parte,
il carattere assolutamente prioritario assunto dalla salvaguardia della vita umana, all’interno del nostro contesto ordinamentale, risulta testimoniato da ulteriori
dati normativi: in particolare, l’art. 5 c. c., l’art. 54 c. p.,
(stato di necessità) la cui funzione è proprio quella di
giustificare condotte rese necessarie dalla tutela della
persona, nonché le norme contenute nella parte speciale del codice penale che puniscono l’omicidio del
consenziente e l’agevolazione al suicidio.
La dottrina più avvertita, tuttavia, ha manifestato molteplici elementi di perplessità relativamente a questa
ricostruzione. Si è evidenziato, difatti, che il dovere
solidaristico, cui fanno richiamo gli artt. 2 e 4 Cost. è
oggetto di una formulazione eccessivamente generica,
perché possa considerarsi derogatorio dell’art. 32,
comma 2 Cost., che risulta, invece, particolarmente
puntuale nel sancire la libertà di autodeterminazione
in materia sanitaria, concepita quale diritto fondamentale dell’individuo, legato all’esplicazione della sua
personalità; peraltro, tale principio, in quanto dotato di
rilevanza costituzionale, non può certamente essere
derogato da disposizioni di legge ordinaria.
Ne consegue che il diritto alla salute, concepito quale
valore fondamentale del nostro contesto economico –
sociale, non può essere considerato un “dovere alla
salute” di imposizione statale, finalizzato a garantire la
contribuzione del singolo ai bisogni della collettività,
ma, piuttosto, va concepito quale pretesa solidaristica
avanzabile dal cittadino nei confronti delle istituzioni,
al fine di ottenere la concreta salvaguardia della propria sfera psico – fisica.
Nel recepimento di queste conferenti osservazioni, la
giurisprudenza della Cassazione ha elaborato un differente indirizzo teorico, attualmente seguito in maniera
maggioritaria. Nel dettaglio, i giudici della Suprema
Corte hanno affermato l’illiceità penale dell’intervento
medico – sanitario realizzato in spregio dell’esplicito
dissenso manifestato dal paziente, in quanto lesivo
della libertà di autodeterminazione (libertà morale)
dello stesso, e, dunque, integrante una violazione dell’art. 610 c. p.. (violenza privata). Ne deriva la possibilità di mandare esente da responsabilità penale, ai
sensi dell’art. 51 c. p. (adempimento del dovere) il
sanitario che, pur in presenza di una situazione necessitata ed urgente, abbia omesso la realizzazione di
interventi terapeutici contrari alla volontà espressa dal
paziente.
Non si manca di segnalare altro orientamento, seguito
da parte della dottrina, a guisa del quale, in siffatte
ipotesi, il “rifiuto delle cure” determinerebbe il venir
meno della posizione di garanzia normalmente facente capo al sanitario, con contestuale impossibilità di
configurare una sua responsabilità omissiva, determinandosi, conseguentemente, il venir meno della tipicità penale della fattispecie. Per completezza espositiva,
è opportuno segnalare un ultimo orientamento teorico,
di matrice giurisprudenziale, che si attesta su posizioni
moderate, nel tentativo di salvaguardare tutti i valori
costituzionali in conflitto. In particolare, i sostenitori di
tale ricostruzione hanno ritenuto che, nelle situazioni
di urgenza terapeutica, accompagnate dal dissenso del
paziente, il medico ha la mera facoltà di astenersi,
risultando la sua condotta eventualmente omissiva
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SPIAalDIRITTO
16
APRILE 2013
Ordini
L’Associazione Nazionale Giudici di Pace
chiede al prossimo governo la riforma: 15 milioni
di procedimenti definiti negli ultimi 10 anni
DI
VINCENZO CRASTO
Presidente Associazione Nazionale Giudici di Pace
Associazione nazionale giudici di pace chiede che tra i primi atti del nuovo
governo vi sia la riforma dello status giuridico del magistrato di pace, che
attualmente è in patente contrasto con la Carta costituzionale, le direttive
comunitarie in materia di trattamenti riservati ai giudici onorari, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Carta di Strasburgo e con la Raccomandazione del 17 novembre 2010 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa
CM/Rec (2010)12. Invero, i giudici di pace non godono di alcuna tutela previdenziale ed assistenziale, in caso di maternità, malattia e infortuni sul lavoro, né di
ferie retribuite. Inoltre, la permanenza nelle funzioni dipende da un atto discrezionale del governo, che si estrinseca in una proroga anche semestrale attraverso un decreto legge.
I dati forniti dalla Commissione Europea della Giustizia relativi all’anno giudiziario 2008/2009 dimostrano che se il funzionamento della giustizia è costato caro
L’
pace trattano circa il 50% delle cause civili, in gran parte aventi ad oggetto la
tutela dei diritti dei consumatori, il 25% delle cause penali e l’intera materia dell’immigrazione clandestina, operano in tempi estremamente celeri (un giudizio in
media dura meno di anno), a costi notevolmente ridotti e con un impegno di
mezzi e strumenti molto limitato. Sono pressoché inesistenti i risarcimenti per l’irragionevole durata del giudizio.
L’attuale meccanismo di proroga lede gravemente la dignità del magistrato di
pace, su cui gravano i medesimi doveri dei giudici di carriera. E’ incostituzionale
la sottoposizione di fatto ad un altro potere dello Stato, ovvero all’esecutivo. Riteniamo che solo la previsione della continuità dei mandati assicuri la necessaria
autonomia ed indipendenza, come è già avvenuto per i magistrati tributari nel
2005 (certamente giudici onorari) e per i magistrati onorari minorili nel 2010.
Proponiamo di attuare un sistema eminentemente meritocratico, forse unico nel
e l’immissione nelle funzioni avveniva senza alcun percorso formativo.
Il legislatore del 1999 ha ridotto l’età di reclutamento da 50 a 30 anni ed ha
inserito quale ulteriore requisito del concorso il conseguimento dell’abilitazione
all’attività forense: la figura dell’anziano pensionato è oggi del tutto superata e
lo Stato si avvale di valenti professionisti, per lo più avvocati, particolarmente
qualificati e motivati, preferendo per l’esercizio delle funzioni giovani di almeno 30 anni, già esercenti la professione forense o ex magistrati onorari di tribunale. Per la maggioranza dei giudici di pace il compenso percepito per l’attività
di magistrato costituisce l’unica fonte di reddito, in quanto l’impegno è assorbente ed ormai esclusivo ed a cagione delle severe incompatibilità con l’esercizio di altre attività professionali, anzitutto con la professione forense. In particolare risulterebbe inaccettabile per un paese civile la condizione femminile.
Attualmente le donne giudici di pace non hanno alcun tipo di sostentamento
all’Italia, ovvero 4,2 miliardi, il giudice di pace è costato al paese solo 83 milioni
di euro. Oggi l’Italia spende 200 milioni di euro annui per i risarcimenti per la violazione del termine di ragionevole durata del processo ai sensi della legge Pinto
e secondo il ministero dell’Economia nei prossimi anni, rebus sic stantibus, vi sarà
una crescita esponenziale dei costi sino ad arrivare a 500 milioni di euro. La giustizia di pace costituisce una risorsa per fermare tale deriva. Basterebbe aumentare le sue competenze per ridurre drasticamente i tempi del processo. L’agilità
dei riti a disposizione consentirebbe di abbattere le lungaggini. L’approvazione di
una buona riforma della giustizia di pace è dunque nell’interesse del Paese.
La condizione dei magistrati di pace, giudice di primo grado appartenente all’ordine giudiziario è divenuta però insostenibile: dal dicembre 2013 pressoché per
la totalità di essi sarà necessario richiedere una proroga delle funzioni se non
interverrà la riforma, attesa da oltre un decennio.
La magistratura di pace ha contribuito ad evitare la bancarotta della giustizia,
definendo nell’ultimo decennio oltre 15 milioni di procedimenti. Oggi i giudici di
nostro Paese, con una valutazione quadriennale sulle modalità di esercizio delle
funzioni giurisdizionali. La conferma del magistrato avverrebbe all’esito di una
duplice verifica di professionalità da parte del Consiglio superiore della Magistratura e dei Consigli giudiziari presso le Corti d’Appello, rimuovendo l’attuale limite dei tre mandati quadriennali. La continuità delle funzioni eviterebbe disparità
di trattamento tra i magistrati entrati in servizio nel 1995 e quelli che li hanno
seguiti nel 2002: i primi sono in servizio da 18 anni, i secondi scadrebbero dopo
soli 12 anni. Tale previsione, inoltre, consentirebbe di non disperdere professionalità formatesi in quasi 20 anni di esercizio della giurisdizione. Non vi sarebbe
alcuna violazione della Costituzione: la Corte di Cassazione con la sentenza 3
febbraio 2011, n. 4410 ha confermato che la nomina dei magistrati di pace
avviene attraverso un concorso e che persino le procedure di conferma quadriennale hanno natura paraconcorsuale. La normativa di riferimento è stata progressivamente modificata, determinando un mutamento quasi ontologico della figura. In origine ai fini della nomina era sufficiente la sola laurea in giurisprudenza
per il periodo della gravidanza, per cui, essendo la magistratura di pace retribuita a “cottimo”, accade di frequente che restino in servizio fino a pochissimo
tempo prima del parto e riprendano a lavorare dopo alcuni giorni dello stesso,
onde evitare di restare prive di sostentamento economico. La collega Roberta
Tesei, presidente distrettuale delle Marche in occasione della festa delle donne
dell’8 marzo ha redatto un rapporto sulla condizione femminile. Ella ha vissuto
sulla propria pelle un enorme disagio: dopo dieci anni di esercizio delle funzioni di giudice di pace è stata costretta ad abbandonare del tutto la professione
di avvocato; nel corso di tale periodo ha avuto due gravidanze (la prima terminata nel maggio 2006, la seconda nel dicembre 2012) ed in entrambi i casi,
onde assicurarsi un sostentamento economico, ha svolto le udienze fino all’inizio del nono mese, rimanendo a casa nei tre mesi successivi al parto senza percepire alcuna indennità.
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SPIAalDIRITTO
17
APRILE 2013
Ordini
Dialogo aperto con il Presidente dell’Ordine
degli Avvocati di Nola, Francesco Urraro:
ruolo dell’avvocatura ed emergenza del settore giustizia
DI
VINCENZO MARINO
Avvocato
onsapevole delle difficoltà esistenti
nell’attuale momento storico (caratterizzato dalla massima criticità per le
professioni - e per l’avvocatura in particolare) e scettico delle soluzioni prospettate dalle forze politiche del nostro paese, mi sono
chiesto in più occasioni quale fossero i disagi, le preoccupazioni e soprattutto le risposte
che il circondario del Tribunale di Nola fornisse a temi così importanti. In tale prospettiva, chiarimenti e delucidazioni mi sono
offerte da fonte autorevole, quale quella del
Presidente del Consiglio dell’Ordine degli
Avvocati di Nola, Francesco Urraro, profondamente impegnato nella ricerca di soluzioni in grado di soddisfare in primis i cittadini,
ossia coloro che dall’attuale sistema giustizia, subiscono i danni più gravi con serio pregiudizio della tutela effettiva dei loro diritti.
C
“Presidente, come si pone il C.O.A.
Nola circa le esosità delle spese che lo
stato pretende in termini di contributo
unificato, nonché sui gravi ritardi conseguenti alla lungaggine dei processi?”
“In merito alla lungaggine dei processi ed
alle disfunzioni del sistema giustizia del circondario, il C.O.A. Nola si è posto in prima
linea nell’affrontare l’emergenza, orami conclamata, attraverso la costituzione di un
tavolo inter-istituzionale con tutte le componenti (magistrati, avvocati, istituzioni locali)
per discutere dell’imponente sottodimensionamento degli organici dei magistrati e degli
amministrativi, in un territorio composto da
34 comuni ed oltre 600.000 abitanti, con
una realtà socio-economico-criminale molto
delegata. Pertanto, il ruolo dell’avvocatura e
la funzione sociale dell’avvocato, impongono di battermi per i diritti dei cittadini, che
sono i primi ad essere penalizzati soprattutto con particolare riferimento a determinati
settori cardine del vivere civile, quali, il lavoro, la previdenza, la famiglia, i minori e il
commercio. È evidente che le criticità esistenti portano a fissazioni di prime udienze a
distanza di molto tempo (anche un anno dal
deposito del ricorso alla Sez. lavoro e previdenza); alla fissazione dell’udienza presidenziale in materia di separazione e divorzi a
distanza di molti mesi dal deposito del ricorso e spesso in situazioni di conflittualità tra i
coniugi con gravi ripercussioni sociali.
L’emergenza giustizia incide fortemente sulla già delicata congiuntura economica delle
nostre aree in quanto le lungaggini, dettate
dalla carenza di cui sopra, rendono difficoltosi i recuperi dei crediti spesso conducendo
molte aziende creditrici al fallimento.
“Presidente, l’avvocatura è stata
oggetto di numerosi provvedimenti
legislativi negli ultimi anni culminati
con la riforma organica di cui alla L.
247\12, che avvocatura ne è uscita?”
“L’avvocatura nell’ultimo quinquennio è stata oggetto di una serie di provvedimenti,
anche attraverso lo strumento della delegificazione e quindi con l’emanazione di regolamenti che, non tenendo conto del ruolo e
della funzione costituzionalmente garantita
della professione forense, ne hanno minato
fortemente la struttura. Il C.O.A. Nola, unitamente agli altri ordini forensi nazionali, al
C.N.F., ed all’ O.U.A., ha condotto una strenua battaglia, sfociata talvolta anche in
azioni giudiziarie attraverso la proposizione
di ricorsi al T.A.R. Lazio (vd. Ricorsi avverso
D.M. 140\12, 137\12, 155\12) ed alla fine
ne siamo usciti fuori con una riforma organica adottata finalmente con legge dello stato
che attendevamo da almeno 80 anni; e quindi con un vero e proprio statuto dell’avvocatura che rilancia la professione sociale del
professionista e rinnova sotto molteplici profili, quali formazione, tirocinio, disciplina e
accesso. Allo stato ci troviamo in una delicata fase di applicazione della stessa L. 247\12
in cui è essenziale fornire un contributo alla
stesura dei primi regolamenti attuativi (sportello del cittadino, pari opportunità, parametri tariffari, specializzazioni).
“Questa norma è intervenuta dopo
quali “attacchi” all’avvocatura cui si
riferiva?”
Le misure assolutamente penalizzanti per il
ruolo dell’avvocatura sono state e sono: l’introduzione della media-conciliazione obbligatoria di cui al D.lgs. n. 28/12 senza la previsione dell’assistenza tecnica dell’avvocato
sin dalla fase conciliativa, fortunatamente
eliminata dalla corte costituzionale con la
previsione della facoltatività della stessa;
l’eliminazione delle tariffe forensi e l’introduzione di nuovi parametri tariffari con l’abbattimento dei compensi degli avvocati fino
al 60%; i tentativi di liberazione selvaggia,
spesso inserendo l’avvocatura in misure di
stabilizzazione finanziaria; la nuova geogra-
gliano, Ottaviano, Cicciano, Acerra, tutte con
l’ufficio di G.d.P. di Nola, senza allo stato
sapere quale strutture e condizioni ospitare
l’afflusso che perverrà. Ma la cosa che più
duole, è stato il difetto assoluto di metodo,
senza la doverosa concertazione con l’avvocatura che è sempre mancata al momento
dell’adozione di scelte cosi importanti per la
tutela dei diritti dei cittadini.”
“Presidente a fronte di tali disfunzioni
come si riesce a svolgere serenamente
la funzione della giurisdizione in questo tribunale?”
“L’esercizio della funzione giurisdizionale,
fortemente compromesso, si svolge con un
sacrificio immane ed una pazienza dell’avvocatura Nolana chiamata quotidianamente a
svolgere, oltre al delicato ruolo professionale, un ruolo di supplenza dello stato rispetto
a precise disposizioni di legge; in particolare
per gli avvocati civilisti che devono supplire
rispetto al dettato delle disposizioni del
C.P.C.. Non va sottovalutato neppure il ruolo di
supplenza della magistratura onoraria che
tende a sopperire le
carenze di organico.”
fia giudiziaria con
la soppressione e
l’accorpamento di
31 tribunali 120
sez. distaccate e
quasi 700 uffici
“In ordine agli spazi
G.d.P.. Proprio su
e alle disfunzioni
quest’ultimo punlogistiche, quali tipi
to, abbiamo più
di iniziative sono stavolte rappresentato
te intraprese?”
che, la soppressio“Sul punto posso dire
ne e l’accorpamenche è proficua la collato effettuate per la
borazione con il Presispending review a
dente del Tribunale ed il
Nola è, di fatto, già
Procuratore
della
avvenuta nel 1994,
Repubblica nell’impeal momento delgno per la ricerca di
l’istituzione dello
nuovi spazi da utilizzare,
stesso tribunale
a partire dagli archivi.
che aveva accorpaMa le menzionate diffiIl Presidente Francesco Urraro
to le ex preture di
coltà non possono che
Nola, Marigliano, Ottaviano, Cicciano, Acer- condurre alla individuazione di spazi esterni
ra, Santa Anastasia, Pomigliano D’arco, per e diversi dagli attuali plessi giudiziari allo
un ambito geografico molto ampio che ha stato già saturi; il tutto con la necessaria colcondotto ad uno stato della giustizia prossi- laborazione della amministrazione comunale
mo ad una condizione di irreversibilità. La di Nola e di altri Enti del circondario di Nola
situazione peggiorerà, anche perché a parti- per cui a breve parteciperò ad un’ apposita
re dal 13 Settembre 2013 saranno disposti commissione di manutenzione convocata ad
gli accorpamenti delle serie di G.d.P. di Mari- hoc”.
AV E L L I N O
Ordine di Avellino:
“Impegno Solenne”
Stage presso la Weschester Court di New York
proposta dal Consiglio dell’Ordine di Avellino
iniziativa sorge dalla proposta Maria
Ludovica de Beaumont dello Studio
Legale de Beaumont, che fa da trait
d’union tra l’Italia e gli Stati Uniti. Tre giovani
praticanti avvocati saranno i protagonisti di
questa nuova esperienza dai profili comparatistici promossa dal Consiglio dell’Ordine.
L’iniziativa consiste in uno stage di sei settimane presso la Supreme Court del Westchester County, New York. Il progetto si inserisce
in quello già esistente presso la Corte per le
Law Schools americane e consiste in un’attività paragonabile a quella dell’uditorato nel
percorso dei magistrati in Italia. La mattina,
infatti, i tre giovani colleghi parteciperanno
alle udienze e il pomeriggio a tutto il lavoro
prodromico alla redazione delle decisioni dei
giudici americani. I nostri ragazzi avranno la
possibilità di scegliere una materia da approfondire (civile, penale, famiglia o gestione del
patrimonio) e la possibilità di acquisire una
conoscenza generale del sistema americano.
In tal modo essi avranno modo di apprendere
non solo la fase processuale in generale, ma
anche come vengono scritte le sentenze in un
altro Paese e il ragionamento logico-giuridico,
Avvocato Maria Ludovica De Beaumont
che, si capisce, in un Paese di Common Law
può essere molto diverso dal nostro. A ciò si
aggiunga che la Westchester County è tra le contee lino è il primo a promuoverla quest’anno. Speriamo
più ricche degli Stati Uniti d’America dove risiedono che l’iniziativa possa risultare positiva ed essere riprofamiglie quali quella Trump e dove dunque le questio- posta anche negli anni a venire, grazie sempre ovviani trattate, sia dal punto di vista civile che penale, sono mente alla disponibilità proposta dallo staff della
di notevole rilievo. Le selezioni dei giovani sono state Supreme Court del Westchester e dai magistrati locali
difficili, in quanto un’iniziativa del genere non esiste in che metteranno a disposizione dei nostri giovani colleItalia ed il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Avel- ghi il loro sapere.
L’
Fabio Benigni, Presidente Ordine degli Avvocati di Avellino
l momento del giuramento per i nuovi avvocati
rappresenta, certamente, l'inizio di un percorso
professionale ed umano. Un percorso professionale caratterizzato da tanti sacrifici, da tempo da
dedicare allo studio e all'approfondimento delle
questioni giuridiche ma anche ricco di gioie e di
soddisfazioni. Un percorso umano nuovo che com-
I
porta una molteplicità di interazioni quotidiane,
con i clienti, con i Collehi, con i magistrati, con i
cancellieri e con gli ufficiali giudiziari. Il legislatore ha inteso sottrarre questo momento alla magistratuia, riservandolo all'Avvocatura e restituendo, in qualche modo, piena ed incondizionata
dignità alla professione forense”.
SPIAalDIRITTO
18
APRILE 2013
DIRITTO CIVILE
FAMIGLIA DI FATTO E TUTELA
DEL CONVIVENTE
NON PROPRIETARIO DELLA CASA
Cassazione Civile, Sez. II,
21 marzo 2013 n. 7214
La Suprema Corte ha dichiarato, richiamando
alcune pronunce della Consulta, che dal momento
che “la famiglia di fatto è compresa tra le formazioni sociali che l’art. 2 della Costituzione considera la sede di svolgimento della personalità individuale, il convivente gode della casa familiare, di
proprietà del compagno o della compagna, per
soddisfare un interesse proprio, oltre che della coppia, sulla base di un titolo a contenuto e matrice
personale la cui rilevanza sul piano della giuridicità
è custodita dalla Costituzione, sì da assumere i connotati tipici della detenzione qualificata”. La Cassazione ha in particolare affermato che il convivente non è un “ospite” e che dunque non doveva
essere messo alla porta all’improvviso. Ciò beninteso, precisa la Suprema Corte, “non significa pervenire ad un completo pareggiamento tra la convivenza more uxorio e il matrimonio, contrastante
con la stessa volontà degli interessati, che hanno
liberamente scelto di non vincolarsi con il matrimonio proprio per evitare le conseguenze legali che
discendono dal coniugio”. Detto questo, la Cassazione dice chiaramente che “questa distinzione non
comporta che, in una unione libera che tuttavia
abbia assunto, per durata, stabilità, esclusività e
contribuzione, i caratteri di comunità familiare, il
rapporto del soggetto con la casa destinata ad abitazione comune, ma di proprietà dell’altro convivente, si fondi su un titolo giuridicamente irrilevante quale l’ospitalità, anziché sul negozio a contenuto personale alla base della scelta di vivere insieme
e di instaurare un consorzio familiare, come tale
anche socialmente riconoscibile”. “D’altra parte, osserva ancora la sentenza - l’assenza di un giudice della dissoluzione del ménage non consente al
convivente proprietario di ricorrere alle vie di fatto
per estromettere l’altro dall’abitazione, perché il
canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle
situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che, cessata l’affectio, intenda recuperare,
com’è suo diritto, l’esclusiva disponibilità dell’immobile, di avvisare il partner e di concedergli un termine congruo per reperire altra sistemazione”
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DENUNCIA CONTRO LA PROPRIA AZIENDA
ED ILLEGITTIMITÀ DEL LICENZIAMENTO
Cassazione Civile, Sez. Lav.
15 marzo 2013 n. 6501
È illegittimo il licenziamento del lavoratore che
denuncia fatti illeciti che si sono verificati in azienda senza preavvertire il datore, il dovere di fedeltà
previsto dal codice civile, infatti, non può diventare “dovere di omertà”. Lo ha stabilito la Corte di
cassazione, con la sentenza 6501/2013, accogliendo il ricorso di un dipendente licenziato per
aver presentato un esposto alla procura della
Repubblica di Napoli in cui si denunciavano irregolarità che sarebbero state commesse in relazione
ad un appalto per la manutenzione di semaforo.
La Cassazione ha infatti dichiarato che “Va escluso in punto di diritto che il denunciare od esporre
all’A.G. fatti potenzialmente rilevanti in sede penale sia contegno extralavorativo comunque idoneo
a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra
lavoratore e datore di lavoro, vuoi perché si tratta
di condotta lecita e certamente non contraria ai
doveri civili (è addirittura penalmente doverosa
nelle ipotesi di obbligo di denuncia o di referto: cfr,
artt, 361 e ss. c.p.), vuoi perché il rapporto fiduciario in questione concerne l’affidamento del datore
di lavoro sulle capacità del dipendente di adempiere l’obbligazione lavorativa e non già sulla sua
capacità di condividere segreti non funzionali alle
esigenze produttive e/o commerciali dell’impresa”.
La Cassazione ha pertanto sancito che: “Non
costituisce giusta causa o giustificato motivo di
licenziamento l’aver il dipendente reso noto
all’A.G. fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l’azienda in cui lavora né l’averlo fatto
senza averne previamente informato i superiori
gerarchici, sempre che non risulti il carattere
calunnioso della denuncia o dell’esposto”. Neppure “costituisce giusta causa o giustificato motivo
di licenziamento l’aver il dipendente allegato alla
denuncia o all’esposto documenti aziendali”.
Pronunce sotto la Lente
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LA DIFFAMAZIONE CONTRO
UN MAGISTRATO PUÒ COMPORTARE
LA NEGAZIONE DEL RUOLO ISTITUZIONALE
DELLA CATEGORIA
SULLA TEMPESTIVITÀ DELL’OPPOSIZIONE
A DECRETO INGIUNTIVO
Cassazione Civile, Sez. III,
5 marzo 2013 n. 5383
Accusare i magistrati di portare avanti “una
guerra” contro Silvio Berlusconi comporta “la
negazione” del loro “ruolo istituzionale” e lede
“il cuore della funzione giurisdizionale, come
imparziale e indipendente”. Lo sottolinea la
Cassazione nella sentenza 5383/2013 con cui la
Terza Sezione ha confermato un risarcimento di
100 mila euro a favore del procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini da parte de “il Giornale” per un articolo dal titolo “Colpevole a tutti i costi” pubblicato nel 1999. La sentenza conferma il risarcimento attribuito al magistrato
dalla Corte di Appello di Brescia, che aveva raddoppiato quello quantificato in primo grado in
50 mila euro. Nell’articolo a firma di Salvatore
Scarpino si attribuiva ai magistrati della procura
della Repubblica di Milano, tra i quali la Boccassini - spiega la sentenza depositata oggi - di
essersi assunti “il compito di rivoltare il Paese e
di guidarlo”; di aver “selezionato con criteri
politici e ideologici” Silvio Berlusconi come
“indagato in pianta stabile”; di seguire “rigidi
criteri politici e ideologici”. Si affermava che il
Pm Boccassini aveva “spacciato” come trascrizione di rituale registrazione “un rudimentale...
origliare”, per il quale era stata inquisita dal
Consiglio Superiore della Magistratura che aveva preferito “more solito archiviare”. Nel motivare la decisione la Suprema corte riprende la
decisione dei giudici di merito secondo cui i
“fatti, descritti in termini diffamatori nell’articolo”, erano risultati, invece, rispondenti “a una
doverosa attività dell’ufficio”. Giustificando poi
il risarcimento attribuito, la Cassazione sottolinea come “il maggiore importo” sia fondato
“sulla ritenuta maggiore gravità della lesione e
del pregiudizio sofferto”, basando “tale maggiore gravità sul particolare interesse leso, costituito dall’esercizio della funzione di magistrato”.
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DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO
IN CASO DI ASSICURAZIONI
CHE FANNO “CARTELLO”
Cassazione Civile, Sez. VI,
4 marzo 2013 n. 5327
L’assicurato può ottenere il risarcimento del danno patito a causa dell’incremento dei premi
dovuto ad un “cartello” messo in piedi dalle
compagnie assicuratrici, accertato e sanzionato
dall’Antitrust. Secondo la Cassazione, infatti, gli
atti del procedimento dall’Autorità per la tutela
della concorrenza costituiscono “prova privilegiata” a favore del consumatore. Non solo,
“L’assicurato ha il diritto di avvalersi della presunzione che il premio corrisposto sia stato
superiore al dovuto per effetto del comportamento collusivo della compagnia assicuratrice
convenuta, in misura corrispondente all’aumento
dei premi rispetto alla media europea”. La compagnia può ovviamente difendersi, qualora però
abbia riportato una condanna ad opera dell’Antitrust, “non può limitarsi a considerazioni generali attinenti ai dati influenti sulla formazione dei
premi” ma deve fornire “precise indicazioni di
situazioni e comportamenti specifici dell’impresa” idonei a rappresentare che “il livello del premio non è stato determinato dalla partecipazione all’intesa illecita ma da altri fattori”. E dunque che “la compagnia assicuratrice ebbe a
discostarsi dal trend degli aumenti accertato dall’Agcm e comune alle altre; o che la compagnia
versava in peculiari difficoltà economiche, che le
hanno imposto determinate scelte di prezzo; o
che il contratto copriva particolari rischi, normalmente non inclusi nella polizza; o che si riferiva
ad assicurati il cui comportamento era caretterizzato da abnorme sinistrosità; e così via”. Infine,
la prova dell’interruzione del nesso causale fra
illecito anticoncorrenziale e danno deve essere
articolata “sugli aspetti non definiti nel provvedimento amministrativo di accertamento”.
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Tribunale di Piacenza,
28 febbraio 2013
Al fine di valutare la tempestività dell’opposizione
a decreto ingiuntivo la parte che richiede la notifica dell’atto di opposizione deve attivarsi, qualora
provveda tramite Ufficiale Giudiziario, entro il termine perentorio con consegna dell’atto per tale
incombente anche all’ultimo giorno ma, pur sempre, entro l’orario regolamentare dell’ufficio
addetto alla notifica. Qualora l’Ufficiale Giudiziario attesti per iscritto di aver ricevuto l’atto da
norificare ad una certa ora, oltre l’orario d’ufficio,
grava sulla parte notificante, fornire rigorosa prova che detta attestazione è relativa solo al superamento dell’orario per il ricevimento delle notifiche
urgenti e non già per il ricevimento degli atti non
urgenti, pertanto, effettuato tempestivamente al
fine di contrastare l’eccezione di improcedibilità.
Tale prova può essere fornita anche mediante certificazione integrativa dell’Ufficio competente che
indichi gli orari di apertura al pubblico per il ricevimento degli atti urgenti ovvero degli atti non
urgenti.
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CONCORDATO PREVENTIVO
E FALLIMENTO
Tribunale di Terni,
26 febbraio 2013
In tema di rapporti tra procedimento per dichiarazione di fallimento e di concordato preventivo, va
osservato che il tribunale può precludere al debitore la facoltà (ampiamente riconosciuta - ed oggi
anzi incentivata - dall’ordinamento) di coltivare
l’ammissione al concordato preventivo, dando invece la precedenza all’istanza di fallimento proposta
dal creditore (o dal p.m.), solo laddove la domanda
di ammissione a concordato preventivo, alternativamente: I) non sia rituale e completa, ai sensi degli
artt. 160 e 161, R.D. n. 267/1942 (legge fallimentare); II) configuri una evidente forma di abuso dello strumento concordatario, anche attraverso condotte penalmente sanzionabili (ad es. bancarotta
fraudolenta per distrazione, ex art. 216, n. 1, R.D. n.
267/1942 (legge fallimentare), ovvero bancarotta
semplice ex art. 217, n. 3 e 4, R.D. n. 267/1942
(legge fallimentare), per aver compiuto operazioni
di grave imprudenza per ritardare il fallimento,
ovvero aggravato il proprio dissesto astenendosi
dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento); III) pregiudichi, definitivamente e in concreto,
una più proficua liquidazione fallimentare, in danno della massa dei creditori (ad es. per il consolidamento di un’ipoteca, o la maturazione medio tempore della prescrizione di eventuali azioni di massa
esperibili dal curatore). Il favore del legislatore per
la soluzione concordataria rispetto a quella della
dichiarazione di fallimento si manifesta in modo
ancora più marcato nel concordato con riserva, nell’ambito del quale il debitore può beneficiare di un
apposito spatium deliberandi anche nell’ipotesi in
cui sia già pendente un procedimento prefallimentare. Il tribunale, infatti conserva margini di discrezionalità solo all’interno di una forbice temporale
predeterminata, posto che il sistema normativo
delineato dall’art. 161, R.D. n. 267/1942 (legge fallimentare), si limita a prevedere una contrazione da
120 a 60 giorni del termine massimo da fissare in
prima battuta al debitore che presenti domanda di
concordato con riserva, senza escludere la possibilità di una successiva proroga di ulteriori 60 giorni.
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DIRITTO PENALE
RESPONSABILITÀ DEL MEDICO
PER OMICIDIO COLPOSO
Cassazione Penale, Sez. IV,
20 marzo 2013 n. 12923
Omicidio colposo per il medico di famiglia che in
prima battuta si rifiuta di andare a visitare un giovane di 18 anni e poi sbaglia la diagnosi – insufficienza respiratoria acuta con polmonite bilaterale - minimizzando le condizioni di salute del
paziente, escludendo il coinvolgimento dei polmoni e effettuando una prescrizione del tutto inadeguata. La Corte territoriale con una giudizio
immune da vizi e condiviso dalla Cassazione infatti non solo ha affermato: “Ora non occorre essere
particolarmente esperti in materia per rilevare che,
nel duemila, la morte di ragazzi diciottenni, a causa di polmonite sia evenienza statisticamente irrilevante, atteso che trattasi di malattia che, se diagnosticata in tempo, guarisce nella quasi totalità”,
avendo anche “congruamente effettuato il giudizio controfattuale e preso ampiamente In considerazione le diverse conclusioni sul punto del consulente medico della difesa”. La Cassazione rammenta che “l’esistenza del nesso causale richiede
una condicio sine qua non, un antecedente senza
il quale l’evento non si sarebbe verificato, da valutare sulla base del criterio della elevata credibilità
razionale o probabilità logica, conformemente
all’insegnamento delle Sezioni unite”Dunque,
secondo la Corte territoriale “se l’imputato avesse
operato in maniera diversa, si sarebbero evitate le
conclusioni infauste”.
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GIUDIZIO ABBREVIATO, INTEGRAZIONE
PROBATORIA E RICOSTRUZIONE
STORICA DEL FATTO
Cassazione Penale, Sez. III,
20 marzo 12842
Nel giudizio abbreviato, l’integrazione probatoria
disposta dal giudice ai sensi del quinto comma
dell’articolo 441 cod. proc. pen., può riguardare
anche la ricostruzione storica del fatto e la sua
attribuibilità all’imputato, atteso che gli unici limiti a cui è soggetto l’esercizio del relativo potere
sono costituiti dalla necessità ai fini della decisione degli elementi di prova di cui viene ordinata
l’assunzione e dal divieto di esplorare itinerari probatori estranei allo stato degli atti formato dalle
parti. Secondo la Cassazione, in particolare,
l’orientamento scelto “si fa espressamente carico
della necessità di rivedere quelli contrari in ragione della evoluzione dell’istituto del rito abbreviato
per effetto degli interventi di modifica succedutisi
nel tempo e si conforma in sostanza a quello già
sostenuto dalla Sezione 3 del 17/5/2009 n. 39718
che, per un verso, aveva sottolineato anche le analogie rinvenibili tra l’art. 507 Cpp e l’art. 441 co. 5
Cpp. e, per altro verso, nell’escludere assenti profili di incostituzionalità della disposizione, aveva
ribadito il diritto dell’imputato a richiedere nuove
prove in relazione a quanto emerso dalla integrazione disposta del Gup”. “Né - conclude la sentenza - è previsto da alcuna disposizione che l’integrazione debba seguire alla discussione finale e
peraltro non si vede in che modo tale determinazione possa negativamente incidere sui diritti della difesa”.
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REATO DI COLLUSIONE E MOMENTO
PERFEZIONATIVO
Cassazione Penale, Sez. VI,
19 marzo 2013 n. 12821
Nei casi collusione il reato di turbata libertà degli
incanti si perfeziona con la presentazione delle
offerte, non è dunque necessario attendere l’aggiudicazione finale dell’appalto , atteso che il turbamento si è già verificato. La Suprema corte ha in
particolare sottolineato il principio di diritto secondo cui “il delitto di turbata libertà degli incanti si
consuma nel momento e nel luogo in cui, con
l’uso di uno dei mezzi previsti dalla legge, viene
impedita o turbata la gara, non essendo sufficiente il mero accordo tra i partecipanti per determinarne l’esito, che potrebbe tutt’al più integrare
un’ipotesi di tentativo; con la conseguenza il delitto deve considerarsi consumato nel luogo in cui
sono state presentate le offerte concordate al fine
di favorire l’aggiudicazione dell’appaIto alle
imprese prestabilite”.
Conclude la Cassazione: “Ne deriva che, laddove il
mezzo impiegato per turbare la gara sia stata la
collusione, così come non basta il mero accordo
per reputare consumato il reato (che, come si è
anticipato, dovrà eventualmente ritenersi integrato allo stadio del tentativo), non è neppure necessario il riferimento al momento dell’adozione finale del’aggiudicazione dell’appalto, atteso che il
turbamento si è già verificato per il salo fatto della presentazione delle offerte, sicché l’aggiudicazione finisce così per rappresentare un mero post
factum irrilevante ai fini della configurabilità del
reato in esame”.
SPIAalDIRITTO
19
APRILE 2013
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RESPONSABILITÀ DELL’IMPRENDITORE
IN CASO DI DELEGA
Cassazione Penale, Sez. III,
13 marzo 2013 n. 11835
Il legale rappresentante e presidente del consiglio
di amministrazione di una azienda non può essere
considerato responsabile del mancato rispetto dei
requisiti igienici e sanitari della merce qualora l’impresa sia organizzata in reparti e strutture territoriali autonome. Secondo la Corte, infatti: “La riconduzione della responsabilità all’imputato, che per
le sue menzionate attribuzioni verticistiche era
risultato essere la persona fisica organicamente
rappresentante la società, si è basata su argomentazioni astratte e formalistiche, che ponendo a
carico del predetto un’omissione di intervento per
dotare la struttura locale di porte a chiusura ermetica e una generica culpa in eligendo, si sono tradotte in definitiva nell’inammissibile applicazione,
in campo penale, di presunzioni di colpa a vero e
proprio titolo di responsabilità oggettiva ed in violazione del fondamentali principi della personalità
della responsabilità penale”. Dunque, per la Cassazione: “Va ribadito, al contrario, il principio
secondo il quale nei casi (come quello in esame) in
cui l’apparato commerciale di una società sia articolato in più unità territoriali autonome, ciascuna
affidata ad un soggetto all’uopo investito di mansioni direttive, il problema della responsabilità connessa al rispetto del requisiti igienici e sanitari dei
prodotti commerciali va affrontato con riferimento
alla singola struttura aziendale, all’interno della
quale dovrà ricercarsi li responsabile del fatti, commissivi od omissivi, integranti la colpa contravvenzionale in concreto contestata senza dovere necessariamente esigere la prova specifica di una delega ad hoc da parte del legale rappresentante (o
della persona che riveste una posizione organizzativa apicale) al preposto alla singola struttura o
settore dl sevizio”.
tre ad un candidato sono stati concessi 33 giorni
per la preparazione, agli altri candidati sono stati
dati 25 giorni, ove risulti che lo “spostamento” in
avanti della prova orale del primo candidato sia
avvenuto unicamente per il fatto che è stato convocato per la data delle prove un candidato che
per errore era stato inserito tra gli esaminandi e
tale causa di “forza maggiore” abbia imposto, proprio in sede di esame orale di tutti gli altri candidati, una nuova convocazione. Neppure è configurabile, in tal caso, una violazione della regola della par condicio per la semplice ragione che a tutti
i candidati, è stato comunque concesso un termine di almeno venti giorni per sostenere la prova
orale, così come previsto dall’art. 6, comma 3, del
d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487. Il Consiglio di Stato
ha, altresì, affermato che nei concorsi pubblici i
componenti delle commissioni esaminatrici hanno
l’obbligo di astenersi solo ed esclusivamente se
ricorre una delle condizioni tassativamente previste dall’art. 51 del codice di procedura civile, senza che le cause di incompatibilità previste dalla
predetta norma possano essere oggetto di estensione analogica. Per tali ragioni non determina una
situazione di incompatibilità tale da dare luogo
all’obbligo di astensione il fatto che della commissione di concorso faccia parte un componente che
appartiene allo stesso ufficio di due candidati classificatisi ai primi posti e dall’essere questi ultimi
legati al primo da rapporti di subordinazione
gerarchica. Infatti l’appartenenza allo stesso ufficio e il rapporto di subordinazione nel lavoro, non
è riconducibile ad alcuno dei casi previsti art. 51
del codice di procedura civile: non alle ipotesi di
cui al comma 3 (causa pendente, rapporti di credito e debito, grave inimicizia) e neppure alle ipotesi di cui al comma 5 (tutore, curatore, datore di
lavoro di una delle parti); né, comunque, è stata
provata l’esistenza di una relazione tra i due candidati e il componente della commissione contrassegnata dai caratteri di sistematicità e di intensità,
tale da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio
idoneo ad imporre l’obbligo di astensione.
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ESTORSIONE AGGRAVATA
ED INTERESSE PUBBLICO
Cassazione Penale, Sez. II,
8 marzo 2013 n. 10995
L’art 629 c.p. richiede, ai fini della configurazione
del delitto di estorsione, il requisito dell’ingiustizia
solo con riferimento all’elemento del profitto e non
anche con riferimento al danno. Se ne deduce che
la minaccia rilevante ai sensi dell’art. 629 c.p. possa avere ad oggetto la prospettazione di un male
giusto, cioè anche l’esercizio di un diritto o di una
facoltà legittima da parte del soggetto attivo. In tal
caso la minaccia diviene contra ius quando, pur
non essendo antigiuridico il male prospettato, sia
fatta non già per esercitare un diritto ma con il
proposito di coartare la volontà di altri per ottenere scopi non consentiti o comunque risultati non
dovuti rispetto a quelli conseguibili attraverso
l’esercizio del diritto che viene appunto strumentalizzato per scopi diversi da quelli per i quali esso è
riconosciuto. Il trattamento dei dati personali può
avvenire senza il consenso dell’interessato solo
qualora esso sia attinente all’esclusivo perseguimento delle finalità di informazione pubblica da
parte di un giornalista: solo tali finalità, infatti,
consentono l’affievolimento del diritto di disporre
dei propri dati personali in vista del soddisfacimento di interessi, normativamente predeterminati,
altrettanto meritevoli di tutela. La sussistenza o
meno di tale finalità è una questione che, se sorretta da motivazione corretta, non è censurabile in
cassazione.
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DIRITTO AMMINISTRATIVO
CONCORSI: CONTESTUALITÀ
DELLE DATE E OBBLIGO DI ASTENSIONE
DELLA COMMISSIONE
Consiglio di Stato, Sez. IV,
19 marzo 2013 n. 1606
Concorso, prove orali, concessione di un termine
(per la preparazione) maggiore ad un candidato,
obbligo di astensione
Non possono ritenersi illegittime le prove orali di
un concorso, per violazione del generale principio
di contestualità delle prove, per il fatto che, men-
MOBBING NEL SETTORE PUBBLICO:
NOZIONE ED INDIVIDUAZIONE
Consiglio di Stato, Sez. IV,
19 marzo 2013 n. 1609
Il danno da mobbing è una fattispecie che va fatta risalire, quanto alla natura giuridica, alla
responsabilità datoriale, di tipo contrattuale, prevista dall’art. 2087 del codice civile che pone a carico del datore di lavoro l’onere di adottare nell’esercizio di impresa tutte le misure necessarie a
tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del
prestatore di lavoro. Il concetto di mobbing sia in
punto di fatto che in punto di diritto è alquanto
indeterminato, ancorché, quanto ad una ragionevole sua definizione, possa considerarsi tale quell’insieme di condotte vessatorie e persecutorie del
datore di lavoro o comunque emergenti nell’ambito lavorativo concretizzanti la lesione della salute
psico-fisica e dell’integrità del dipendente e che
postulano, ove sussistenti, una adeguata tutela
anche di tipo risarcitorio. Attesa la indeterminatezza della nozione, la giurisprudenza si è preoccupata di indicare una serie di elementi e/o indizi caratterizzanti il fenomeno del mobbing dai quali far
emergere la concreta sussistenza di una condotta
offensiva nei sensi sopra esposti, come tradottasi
con atti e comportamenti negativamente incidenti
sulla reputazione del lavoratore, su i suoi rapporti
umani con l’ambiente di lavoro e sul contenuto
stesso della prestazione lavorativa. Per aversi mobbing, l’azione offensiva posta in essere a danno del
lavoratore deve essere sistematica e frequente
posta in essere con una serie prolungata di atti e
avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi. Di contro, non si ravvisano gli estremi del
mobbing nell’accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell’ambiente
di lavoro e che per loro stessa natura non sono
caratterizzati da volontà persecutoria essendo in
particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono frequenti nel mondo del lavoro. Non può configurarsi la sussistenza di una condotta di mobbing
suscettibile di una pretesa risarcitoria nel caso in
cui il dipendente pubblico sia stato solo destinatario di una serie di provvedimenti che hanno inciso
negativamente sulle sue posizioni giuridiche soggettive e alcuni dei quali sono stati censurati come
illegittimi in sede giurisdizionale. In particolare, i
Pronunce sotto la Lente
provvedimenti recanti sanzioni disciplinari e l’attribuzione di una valutazione in sede di rapporto
informativo ingiustificatamente peggiorativa,
non possono rilevare di per sè alcun indizio sintomatico del mobbing e cioè l’esistenza di un
atteggiamento sistematicamente persecutorio o
vessatorio, a nulla rilevando che l’interessato
abbia avuto un aspecifica “percezione” che tali
vicende manifestino l’intento dell’Amministrazione di emarginarlo ed essendo gli episodi sottesi ai provvedimenti adottati a suo carico unicamente riconducibili al clima di conflittualità esistente tra il personale.
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OBBLIGO DI MOTIVAZIONE
E ANNULLAMENTO D’UFFICIO
Consiglio di Stato, Sez. IV,
19 marzo 2013 n. 1605
Non può ritenersi illegittimo un provvedimento
amministrativo per mancata valutazione di una
memoria inoltrata nel corso del procedimento
dall’interessato, nel caso in cui il provvedimento
stesso dia atto espressamente atto degli scritti
“difensivi” prodotti; tale circostanza vale da sé a
mandare esente il provvedimento finale adottato
dal vizio denunciato, posto che non incombe sull’Amministrazione l’onere di confutare in maniera analitica le osservazioni presentate. L’annullamento d’ufficio di un provvedimento amministrativo è il risultato di un’attività discrezionale dell’Amministrazione e non deriva in via automatica dall’accertata originaria illegittimità dell’atto,
essendo altresì necessaria una congrua motivazione in ordine alla sussistenza dell’interesse
pubblico alla reintegrazione del preesistente stato di legalità; l’interesse alla reintegrazione dell’ordine pubblico deve essere specificato e
dimensionato in relazione alle esigenze concrete
ed attuali, avuto riguardo anche gli interessi privati che militano in senso opposto, senza peraltro ricorrere in sede di motivazione a clausole di
stile.
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LEGITTIMAZIONE AD APPELLARE
DA PARTE DELLA P.A. E CONSEGUENZE
DELL’ORDINANZA CAUTELARE
Consiglio di Stato, Sez. III,
14 marzo 2013 n. 1534
E’ legittimata ad appellare una sentenza l’Amministrazione resistente nel giudizio di primo grado
anche nel caso in cui il ricorso sia stato dichiarato improcedibile, atteso che la sopravvenuta
estinzione dell’interesse azionato, che di tal
declaratoria è il presupposto, ha un regime ben
diverso dalla rinuncia, ai sensi del combinato
disposto dell’art. 34, c. 3 e dell’art. 35, c. 1, lett.
c), c.p.a. Nel processo amministrativo, infatti, la
declaratoria di improcedibilità per sopravvenuto
difetto di interesse può essere pronunciata al
verificarsi di una situazione di fatto o di diritto
nuova, che comunque muta radicalmente la
situazione esistente al momento della proposizione del ricorso e che sia tale da rendere certa
e definitiva l’inutilità della sentenza, per aver
fatto venir meno per il ricorrente o per l’appellante qualsiasi residua utilità della pronuncia
sulla domanda azionata, foss’anche soltanto
strumentale o morale. Dunque la carenza sopravvenuta va accertata e dichiarata dal Giudice
amministrativo e non è nella solitaria determinazione potestativa del ricorrente, spettando al primo indagarne i presupposti con il massimo rigore, e non al secondo a pretenderne la pronuncia,
per evitare che la declaratoria d’improcedibilità
si risolva in una sostanziale elusione dell’obbligo
di pronunciare sulla fondatezza, o meno, della
domanda. I giudici di Palazzo Spada hanno affermato, altresì, che il provvedimento amministrativo adottato in esecuzione di un’ordinanza cautelare del G.A. non implica di per sé il ritiro dell’atto impugnato ed oggetto della pronuncia stessa
e ha una rilevanza solo provvisoria in attesa che
la decisione di merito accerti se l’atto stesso sia,
o no, legittimo. La misura cautelare, infatti, non
configura di norma una radicale consumazione
della potestà amministrativa e l’effetto caducante dell’eventuale sentenza definitiva si estende
comunque a tutti gli ulteriori atti adottati dalla
P.A. a seguito dell’adozione dell’ordinanza cautelare.
*******
D.I.A. ILLEGITTIMA E RISARCIMENTO
IN FORMA SPECIFICA
Consiglio di Stato, Sez. IV,
14 marzo 2013 n. 1526
Nel caso in cui sia ritenuta illegittima una d.i.a. perché l’opera è stata progettata da un geometra
nonostante che la stessa non rientrasse nelle competenze professionali di quest’ultimo, non può essere accolta la domanda di risarcimento dei danni per
equivalente, ove non emerga un danno effettivo
dalla redazione progettuale da parte del geometra;
appare infatti difficilmente dimostrabile che, al contrario di quanto accade nel caso di costruzione in
violazione di altezze, distanze e volumi (che determinano un detrimento della fruibilità a carico della
proprietà limitrofa), la predisposizione da parte di
tecnico non abilitato di un progetto di intervento poi
realizzato possa di per sé arrecare un danno al soggetto confinante. Diversa sarebbe l’ipotesi in cui l’illegittimo affidamento al tecnico non abilitato abbia
condotto a vizi progettuali poi tradottisi in carenze
strutturali della costruzione realizzata, poiché in tal
caso questa situazione rappresenterebbe oggettivamente una minaccia per l’incolumità di beni e persone posti ed operanti nella confinante proprietà
ricorrente, riducendone conseguentemente, quanto
incontestabilmente, il valore.
*******
DANNO DA RITARDO DELLA P.A.
Consiglio di Stato, Sez. IV,
7 marzo 2013 n. 1406
Il ritardo nell’emanazione di un atto amministrativo
è elemento sufficiente per configurare un danno
ingiusto, con conseguente obbligo di risarcimento,
nel caso di procedimento amministrativo lesivo di
un interesse pretensivo dell’amministrato, ove tale
procedimento sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario; ciò in quanto il
risarcimento del danno ingiusto cagionato dalla P.A.
in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa
del termine di conclusione del procedimento presuppone che il tempo è un bene della vita per il cittadino ed il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento ha sempre un costo. La richiesta
di accertamento del danno da ritardo ovvero del
danno derivante dalla tardiva emanazione di un
provvedimento favorevole, se da un lato deve essere ricondotta al danno da lesione di interessi legittimi pretensivi, per l’ontologica natura delle posizioni
fatte valere, dall’altro, in ossequio al principio dell’atipicità dell’illecito civile, costituisce una fattispecie sui generis, di natura del tutto specifica e peculiare, che deve essere ricondotta nell’alveo dell’art.
2043 c.c. per l’identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità; di conseguenza, l’ingiustizia
e la sussistenza stessa del danno non possono, in
linea di principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell’adozione
del provvedimento amministrativo favorevole, ma il
danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli
elementi costitutivi della relativa domanda. Nel caso
di danno da ritardo della P.A., occorre verificare la
sussistenza sia dei presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di quello di
carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante): in sostanza, il mero “superamento” del termine
fissato ex lege o per via regolamentare alla conclusione del procedimento costituisce indice oggettivo,
ma non integra “piena prova del danno”. La valutazione è di natura relativistica e deve tenere conto
non solo della specifica complessità procedimentale, ma anche - in senso negativo per le ragioni dell’Amministrazione - di eventuali condotte dilatorie.
Non sussiste il danno da ritardo nel caso in cui non
sia ravvisabile alcuna colpa nell’operato dell’amministrazione e la tempistica procedimentale (nella
specie relativa al rilascio di una permesso di costruire) consenta agevolmente di comprendere che la
pluralità di modifiche presentate al progetto, i successivi esami che si sono resi necessari e le integrazioni documentali predisposte dal richiedente escludono un atteggiamento dilatorio in capo alla P.A.
(ha aggiunto la sentenza in rassegna che nel caso di
procedimento caratterizzato dalla continua interlocuzione tra le parti - come è bene che sia, al fine di
evitare il proliferare di inutili e dispendiosi contenziosi - non può certo affermarsi la speciosità o dilatorietà delle richieste di chiarimenti della P.A.).
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APRILE 2013
20
Ripetiamo per i Concorsi
SCHEMA DIRITTO CIVILE
La revisione delle tabelle millesimali
tra vecchia e nuova disciplina
DI VALENTINA
DE STEFANO
Dottore in Giurisprudenza
1. NOZIONE
2. FONDAMENTO
3. NATURA GIURIDICA
4. MODIFICA E APPROVAZIONE
DELLE TABELLE
1) NOZIONE
Le tabelle millesimali quantificano il valore delle singole proprietà
esclusive, individuando il diritto di ciascun condominio sui beni e
servizi comuni, ai sensi dell’art.1118 c.c.
2) FONDAMENTO
Le tabelle millesimali rappresentano uno strumento di gestione del
condominio. Esse esprimono, appunto in millesimi, il rapporto tra
il valore delle singole unità immobiliari e l’intero edificio, non soltanto ai fini della ripartizione delle spese, ma anche ai fini della
formazione della volontà dell’organo assembleare.
3) NATURA GIURIDICA
a) Negozio di accertamento; in quanto tali sono idonee ad incidere sui diritti dei singoli condomini (Cass. n. 14037/1999; n.
1307/1966).
b) Atto ricognitivo; si limitano ad esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari
condomini, senza incidere in alcun modo su tali diritti (Cass., sez.
un., n. 18477/2010).
4) APPROVAZIONE E MODIFICA
La natura giuridica delle tabelle millesimali si riflette immediatamente sulla competenza dell’assemblea ad approvarle. Si riscontra
al riguardo un contrasto di orientamenti.
a) Approvazione e la modifica delle tabelle fuori dalla
competenza dell’assemblea
Orientamento risalente ha considerato le tabelle alla stregua di
negozi di accertamento, come tali suscettibili di incidere sui diritti
dei singoli condomini. I giudici hanno ritenuto non possibile, pertanto, l’approvazione delle tabelle millesimali se non attraverso
accordo unanime tra tutti i condomini (cfr. Cass. n. 14037 del
1999; n. 1307 del 1966). In caso di mancanza di consenso unanime, alla formazione delle tabelle provvede il giudice su istanza
degli interessati, in contraddittorio con tutti i condomini (Cass
sent. 2008 n. 14951; 19 ottobre 1988 n. 5686;1980 n. 5593).
Contro tale orientamento si è posto il filone, invece, favorevole a
riconoscere la competenza dell’assemblea, sulla considerazione
che le tabelle siano semplicemente uno strumento di gestione della vita condominiale.
b) Adozione del criterio maggioritario o unanimitario collegata alla natura delle tabelle millesimali
Le tabelle millesimali presentano duplice natura:
b1) natura convenzionale, laddove le tabelle sono accettate di
comune accordo dagli iniziali acquirenti e sono sottoscritte e allegate da tutti nei contratti d’acquisto delle singole unità; in tale
caso le tabelle possono essere modificate con il consenso unanime dei condomini, oppure per atto dell’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 69 delle disp.att.c.c.
b2) natura assembleare, laddove sono approvate dall’assemblea; in tale caso le tabelle possono essere modificate dall’assemblea con la maggioranza prevista nel 2° comma dell’art. 1136 c.c.
(in relazione all’art.1138, 3° comma c.c.), ovvero con atto dell’autorità giudiziaria ex art. 69 delle disp. att. citato.(cfr. Cass. n.
11960/04)
c) Tesi a favore dell’approvazione e modifica delle tabelle a maggioranza assembleare (Cass., Sez. Un., n.
18477/2010)
Le Sezioni Unite della Corte Suprema si sono espresse a favore
della regola della maggioranza. Diverse le argomentazioni poste
alla base di siffatta conclusione.
c1) natura giuridica: l’atto di approvazione delle tabelle millesimali è qualificato quale atto meramente ricognitivo. Le tabelle millesimali non costituiscono un negozio di accertamento, ma servono solo ad esprimere, in precisi termini aritmetici, un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari condomini, senza incidere in alcun modo su tali diritti (in tal senso Cass. n. 431/1990;
n. 298/1977). La approvazione delle tabelle è atto di mera natura valutativa del patrimonio, volto alla ripartizione delle spese
condominiali, nonché alla misura del diritto di partecipazione alla
formazione della volontà assembleare del condominio. La deliberazione che approva le tabelle millesimali, dunque, non si pone
come fonte diretta dell’obbligo contributivo del condomino (prevista dalla legge all’ art.1123 c.c.), ma solo come parametro di
quantificazione dell’obbligo, determinato in base ad un valutazione tecnica.
c2) l’art. 68 disp. att.c.c.: la norma stabilisce soltanto che i millesimi sono espressione del valore di ciascun piano (o porzione di
piano), ma nulla dispone relativamente alla loro determinazione o
revisione. La Corte Suprema sulla basa di una interpretazione letterale della citata norma, sostiene la impossibilità di ritenere la
legge (nella specie l’art. 68 disp.att. c.c. e non anche la delibera
assembleare) l’unica ed idonea fonte atta a determinare i valori
della proprietà di ogni condomino e della sua espressione in millesimi.
c3) critica dell’orientamento precedente (di cui al n.4 punto b): La
Corte afferma che non è sufficiente riconoscere natura contrattuale alle clausole per il solo fatto che siano allegate ad un regolamento contrattuale; occorre, piuttosto, comprendere sul piano
sostanziale se le clausole del regolamento limitino, o comunque,
incidano sui diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni (solo in tali circostanze, la clausola potrà dirsi contrattuale con
conseguente assoggettamento alla regola dell’unanimità). Le
tabelle millesimali, pertanto, pur annesse al regolamento condominiale di tipo “convenzionale” (quello predisposto dall’originario
proprietario-costruttore), ben potrebbero non avere natura con-
trattuale; per aversi natura contrattuale, ed essere, quindi, modificate con il consenso unanime dei condomini, è necessario che gli
stessi deroghino al regime legale di ripartizione delle spese
mediante l’approvazione di una “diversa convenzione”, ai sensi
dell’art. 1123, comma 1 ultima parte, c.c.; di contro, in mancanza
di espressa deroga in tal senso, non sussisterà il carattere contrattuale delle tabelle, con conseguente assoggettamento al criterio
maggioritario ai fini della loro approvazione/modifica.
d) Tesi dell’unanimità
La nuova riforma sul condominio n. 220 del 2012 all’art 23 riformula l’art 69 disp.att.c.c., enunciando che “la modifica o rettifica dei valori proporzionali espressi nelle tabelle millesimali è possibile solo all’unanimità”.
Tuttavia, la disposizione citata prevede espressamente due ipoesi
in cui la revisione o modifica delle tabelle avviene maggioranza:
d1) “quando sono conseguenza di un errore”. Al riguardo si
pone un interrogativo sulla tipologia di errore rilevalente.
Tesi dell’errore quale vizio del consenso: in caso di tabella cd contrattuale, l’errore non rileva nella sua oggettività, ma solo in quanto abbia determinato un vizio del consenso; in tal caso non è esperibile l’azione di cui all’art. 69 disp.att.c.c., vecchia formulazione,
ma solo l’ordinaria azione di annullamento del contratto (Cass.
n.2253/2000; n. 7908/2001).
Tesi dell’errore quale errore tecnico: l’errore che giustifica la revisione delle tabelle millesimali non coincide con l’errore vizio del
consenso, ma consiste nella obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari e il valore proporzionale ad
esse attribuito nelle tabelle. Pertanto, la possibilità di impugnare
le tabelle millesimali sotto il profilo dell’errore sussiste anche qualora siano state corrisposte dall’originario costruttore ed accettate
dagli acquirenti delle singole porzioni di piano.(Cass, sez.un., n.
6222/1997; Cass. n. 7300/2010)
d2) “quando, per le mutate condizioni di una parte dell’edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle
unità immobiliari, è alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell’unità immobiliare anche di un solo
condomino”. Al riguardo occorre osservare che il legislatore ha
soppresso l’avverbio “notevolmente” riferito alle alterazioni,
lasciando posto a un criterio oggettivo. Il riformulato art. 69
disp.att.c.c., infatti, richiede una modifica di un quinto del valore
proporzionale dell’unità immobiliare anche di un solo condomino;
il legislatore, pertanto, adotta un criterio numerico e preciso che
non lascia spazio al potere discrezionale del giudice.
Si osserva che la riforma, con l’introduzione dell’inciso di cui al 1°
comma dell’art.69 disp.att.c.c. non sembra confutare l’orientamento accolto dalla Corte di Cass, sez. un., n. 18477/2010, sopra
richiamata. Il legislatore, piuttosto, è intervenuto, al fine di circoscrivere la regola della maggioranza e limitare il criterio dell’unanimità ai casi di variazioni aventi natura negoziale, che sono, dunque, espressione del consenso di tutti gli interessati.
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21
APRILE 2013
Ripetiamo per i Concorsi
SCHEMA DIRITTO PENALE
La legittima difesa domiciliare
[Art. 52.2 e 3 codice penale]
DI ENRICO MEZZA
Dottore in Giurisprudenza
1. NOZIONE
2. FONDAMENTO
3. NATURA GIURIDICA
4. PRESUPPOSTI APPLICATIVI
1) NOZIONE
La legge n. 56/2006 ha introdotto due commi all’articolo 52 del codice penale, innovando l’impianto originario della legittima difesa.
L’istituto in esame, così come novellato, recita: “non è punibile chi ha
commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa
ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”; specificando al secondo ed al terzo comma che: “nei casi previsti dall’articolo
614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui
al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:a) la propria o altrui
incolumità;b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è
pericolo d’aggressione. La disposizione di cui al secondo comma si
applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni
altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”
2)FONDAMENTO
L’istituto della difesa legittima è presente in ogni ordinamento giuridico. Nel nostro codice sostanziale la legittima difesa è rubricata nel Titolo III del Libro I, concernente le disposizioni generali sul reato.
a) autotutela: la legittima difesa si fonda sul principio dell’autotutela. Lo Stato consente, entro certi limiti, di reagire personalmente ad
un’aggressione, derogando il monopolio pubblico dell’uso della forza(FIANDACA- GAROFOLI- MANTOVANI).
b) interesse prevalente: la norma in esame non ha natura fondante, ma disciplina il principio generale del bilanciamento degli interessi.
Lo Stato confronta il bene aggredito ed il bene verso cui si indirizza la
reazione, facendo prevalere il primo. A fronte di questo bilanciamento,
l’ordinamento legittima la reazione difensiva, anche se lesiva di un
bene giuridico dell’aggressore.
c) mista: nella legittima difesa coabitano i principi dell’autotutela e
dell’interesse prevalente, limitati dal rapporto di proporzionalità
(Roxin).
3)NATURA GIURIDICA
a) ipotesi speciale di difesa legittima: la legge 56/2006 introduce un’ipotesi speciale di legittima difesa, che deroga la disciplina ordinaria di cui al primo comma, in forza del contesto in cui avviene l’aggressione (FIORE-FIANDACA-PALAZZO).
b) nuova causa di giustificazione: la legittima difesa domiciliare
configura una scriminante autonoma, del tutto eterogenea alla disposizione di cui al primo comma. Rispetto alla legittima difesa ordinaria,
l’articolo 52.2 presenta elementi del tutto autonomi, quali l’irrilevanza
del rapporto di proporzione e la cd. “natura doppiamente propria”
(PADOVANI)
4)PRESUPPOSTI APPLICATIVI
a)Nei casi previsti dall’art. 614 c.p.: l’istituto de qua è applicabile per le aggressioni perpetrate nei luoghi previsti dall’articolo 614
c.p., cioè in un luogo di privata dimora, compresi gli spazi di sua appartenenza, così come il giardino o l’androne (Cassazione n. 6962/1987).
L’articolo 52.3 parifica il domicilio a “qualsiasi altro luogo dove è svolta l’attività commerciale”. A guisa di ciò, parte della dottrina rileva che
non sia necessario che nei suddetti luoghi l’attività commerciale si
svolga attualmente, integra quindi i presupposti della scriminante
anche l’offesa perpetrata durante l’orario di chiusura (FLORA).
b)Sussiste il rapporto di proporzione:a differenza della disciplina
della legittima difesa ordinaria, con la legge n. 59/2006il legislatore ha
inteso stabilire una presunzione legale di proporzionalità, anche nel
caso in cui la difesa avvenga per mezzo di un’arma da fuoco legittimamente detenuta. Quando le aggressioni sono realizzate nei luoghi ex
art. 52.2-52.3 c.p.,il giudice non dovrà compiere nessuna verifica circa il bilanciamento dei beni lesi dall’aggressione e dalla reazione e,
inoltre, non dovrà valutare la congruità dei mezzi utilizzati dall’aggredito per difendersi. (Cass. pen. sez V., n. 25653/2008).
b1) presunzione assoluta: secondo un primo orientamento, la presunzione in esame ha natura assoluta. A giustificare l’invincibilità della
presunzione sarebbero le indicazioni contenute nei lavori parlamentari e, inoltre, evitare che il soggetto che reagisce sia esposto ai “rischi
del processo” (FORTE).
b2) presunzione relativa: secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, la presunzione contenuta nell’art. 52.2 ammette prova contraria. Data l’estensione della difesa domiciliare legittima ai beni
patrimoniali, ammettere una presunzione invincibile comporterebbe la
possibilità che sia sacrificato il bene vita dell’aggressore per difendere
il bene patrimonio aggredito, condizione che è in contrasto con la
costituzione e con la CEDU(FIANDACA-MUSCO). È stato ritenuto,
altresì, che riconoscere la natura assoluta stravolgerebbe in toto l’impianto della legittima difesa, perché sarebbe postulato il rapporto di
proporzione anche nei casi in cui manchi in concreto(MANTOVANI).
c) Necessità: a fronte della presunzione di proporzionalità, assume
particolare rilevanza il requisito della necessità della reazione, che non
è testualmente richiamato nel secondo comma. Un’azione è necessaria quando risulta essere inevitabile, cioè non sostituibile con una
meno dannosa. A guisa di ciò, la giurisprudenza ha individuato come
limite minimo per procedere alla reazione legittima l’impossibilità di
un commodus discessus, cioè la praticabile fuga dell’aggredito dalla fonte di pericolo. La modifica del rapporto di proporzionalità ex legge 59/2006 ha lasciato invariato il presupposto della necessità (Cass.
pen. sez V., n. 25653/2008).
c1) Secondo un diverso orientamento dottrinale, a fronte del mancato richiamo testuale e della presunzione di proporzionalità introdotta
con il secondo comma, non è ammissibile una ricostruzione costituzionalmente orientata della legittima difesa domiciliare che parte dal
requisito della necessità (FIORE).
d) Attualità: la novella n. 59/2009 riguarda solo il concetto di proporzione, fermo restando la necessaria attualità dell’aggressione.
L’unica difesa giustificata è quella che si pone un’ottica di attualità
rispetto all’offesa, diversamente sono punibili quelle condotte dell’aggredito compiute una volta terminata del tutto l’attività aggressiva
(Cass. pen. sez V., n. 25653/2008).
d1) Parte della dottrina, valorizzando l’espressione “quando non vi è
desistenza e vi è pericolo d’aggressione”, ha inteso diversamente il
requisito dell’attualità. Secondo quest’impostazione, vi è attualità
anche nel caso in cui sia mantenuta una condotta illecita verso il patrimonio, giustificando la vittima dell’aggressione ad utilizzare l’arma da
fuoco (INTINI – MARRA: gli autori esemplificano l’assunto con la figura del ladro che scappa con la refurtiva). Simile impostazione non trova conforto né in giurisprudenza, né in dottrina.
d2) Secondo un indirizzo minoritario, è possibile reagire anche al “tentativo d’aggressione”, cioè in tutte le ipotesi in cui l’aggressore stia
per entrare nel domicilio, ma si trovi ancora all’esterno dello stesso
(FLORA).In senso critico si osserva che la ricostruzione testé richiamata non si concili con il requisito testuale “all’interno di”; a fronte di un
tentativo di irruzione, potrebbe semplicemente configurarsi una legittima difesa comune (MARINUCCI-DOLCINI).
e) Usa un’arma legittimamente detenuta:il legislatore ha inteso
limitare l’ambito di operatività dell’art. 52.2 ad un doppio requisito di
liceità. In aggiunta alla legittima presenza sul luogo[vedi a) ], l’arma
utilizzata per la difesa deve essere detenuta in conformità ad un titolo autorizzativo ex legge n. 895/1967.
e1) Secondo parte della dottrina, la detenzione legittima deve essere
valutata in senso oggettivo, cioè indipendentemente dal fatto che il
fruitore dell’arma ne sia il formale intestatario (GAROFOLI).
f) Al fine di difendere la propria o altrui incolumità:in continuazione con una linea interpretativa già seguita in giurisprudenza, il
rapporto tra il bene vita dell’aggressore e dell’aggredito deve svolgersi in concreto, mediante una valutazione ex-ante di natura dinamica
(Cass. pen. n. 6979/1997).
g) Al fine di tutelare beni propri o altrui, quando non vi è
desistenza e vi pericolo d’aggressione: data la presunzione di
proporzionalità tra difesa ed offesa, la dottrina e la giurisprudenza si
sono interrogate circa la possibilità che, al fine di difendere un interesse patrimoniale, si possa attentare all’incolumità dell’aggressore
g1) Non essendo parificato il bene patrimonio a quello dell’incolumità fisica, non è possibile reagire attentando direttamente all’incolumità fisica dell’aggressore. Chi intende difendersi da un’aggressione al
bene patrimonio ha l’obbligo di provocare la desistenza dell’aggressore, intimando quest’ultimo a fermarsi. Secondo i sostenitori di questa
tesi, la procedura suddetta fa sì che chi attenta al bene patrimonio percepisca la potenzialità dell’offesa difensiva (GAROFOLI).
g2) La riforma del 2006 ha l’intento di parificare l’offesa patrimoniale a quella perpetrata avverso l’incolumità fisica, quindi è da considerarsi non conciliabile con i valori costituzionali. La mancata desistenza
è un requisito necessario della legittima difesa, implicito dell’attualità
dell’offesa. Durante i lavori preparatori della suddetta novella, è stata
esplicitamente accantonata la possibilità di inserire una clausola che
contemplasse l’obbligo del soggetto aggredito di proporre un “invito
a desistere” all’aggressore, ne deriva che tale procedura non trova fondamento (FIANDACA – MUSCO).
g3) Il legislatore non ha voluto operare un’equiparazione di interessi.
La legittima difesa domiciliare che attenti alla vita dell’aggressore è
ammessa solo se vi è un rischio concreto di un pregiudizio attuale per
l’incolumità fisica, propria o altrui (Cass. pen. sez. I, n.16677/2007).
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APRILE 2013
22
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SCHEMA DIRITTO AMMINISTRATIVO
La motivazione del
provvedimento amministrativo
DI ALESSANDRO
DE SANTIS
Dottore in Giurisprudenza
1. NOZIONE
2. FONDAMENTO
3. NATURA GIURIDICA
4. AMBITO OPERATIVITÀ
5. STRUTTURA
6. CONSEGUENZE DEL VIZIO DI
MOTIVAZIONE E PREAVVISO DI RIGETTO
7. L’INTEGRAZIONE EX POST DELLA MOTIVAZIONE
8. CONOSCENZA DELLA MOTIVAZIONE E TERMINE
DECADENZIALE
9. REITERABILITÀ DEL DINIEGO SULLA SCORTA DI
NUOVI MOTIVI
1) NOZIONE
Ai sensi dell’art. 3 della L. 241/1990, “ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve
essere motivato(…).La motivazione deve indicare i presupposti di
fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione
dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria.”
La motivazione può essere contenuta anche in altro atto dell’amministrazione, che deve essere indicato e reso disponibile insieme
con la comunicazione del provvedimento che lo richiama.
2) FONDAMENTO
A) Consentire ai soggetti interessati la comprensione delle ragioni di fatto e di diritto che hanno condotto all’emanazione del provvedimento amministrativo.
B) Portare l’interessato a conoscenza delle informazioni indispensabili nella prospettiva dell’accesso alla tutela giurisdizionale, così
evitando la proliferazione dei cd. “ricorsi giurisdizionali al buio”.
C) Garantire il rispetto dei principi di pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa.
3) NATURA GIURIDICA
A) tesi del vizio sostanziale: l’obbligo di motivazione ha il compito insurrogabile di garantire il rispetto del diritto di difesa, nonché
il sindacato diffuso dei privati sull’attività amministrativa; ne consegue che il vizio di motivazione non rientra nei vizi formali o procedimentali di cui all’art. 21octies, comma 2, L. 241/1990. (TAR
Campania, Napoli, 7386/2006).
B) tesi del vizio formale: l’art. 3 della L. 241/1990 impone un
obbligo di carattere formale, compreso nell’ambito applicativo dell’art. 21octies, comma 2, L. 241/1990, con conseguente limitazione della potestà caducatoria del giudice amministrativo (TAR Lombardia, Milano, 1173/2006).
4) AMBITO DI OPERATIVITÀ
A) atti normativi: l’art. 3, comma 2, della L. 241/1990 ne esclude
la sottoposizione all’obbligo di motivazione, in quanto atti latu
sensu politici, non idonei ad incidere direttamente su situazioni
giuridiche soggettive.
B) atti a contenuto generale: l’art. 3, comma 2, L. 241/1990 ne
esclude la sottoposizione all’obbligo di motivazione, in quanto, in
virtù della generalità del loro contenuto, è impossibile individuarne aprioristicamente i destinatari. Tuttavia, parte della dottrina ha
evidenziato che, non di rado, tali atti sono dotati di immediata lesività; in questi casi, devono ritenersi operanti gli specifichi obblighi
motivazionali derivanti dalla natura dell’atto (CORRADINO). In tale
categoria, sono tradizionalmente ricompresi gli atti di pianificazione urbanistica anch’ essi suscettibili, tuttavia, in alcune ipotesi, di
incidere su singoli rapporti giuridici (ad es: varianti ad oggetto specifico).
C) atti di alta amministrazione: gli atti di alta amministrazione
sono formalmente e sostanzialmente amministrativi, e quindi sottoposti all’obbligo di motivazione. In proposito, la giurisprudenza
ha precisato che deve consentirsi il controllo giurisdizionale relativamente alla correttezza, logicità e congruità dei criteri e dell’iter
logico seguito dall’amministrazione nell’emanazione di tali atti
(TAR Lazio, Roma, 1336/2007).
D) atti non provvedimentali: l’art. 3, L. 241/1990, fa riferimento ad
“ogni provvedimento amministrativo”; se ne inferisce la non operatività dell’obbligo di motivazione relativamente agli atti endo –
procedimentali dotati di efficacia meramente interna.
E) atti vincolati: la giurisprudenza maggioritaria afferma la necessità della motivazione anche per questi atti, pur sottolineandone la
differente consistenza quantitativa e qualitativa rispetto alla motivazione degli atti discrezionali; si considera, difatti, sufficiente la
mera indicazione dei presupposti fattuali richiesti dalla legge per
l’emanazione del provvedimento e della norma giuridica della
quale si è fatta applicazione (TAR Lazio, Roma, 1938/1991). Vale
nondimeno ribadire che, secondo una giurisprudenza minoritaria,
di fronte ad un esercizio vincolato del potere non occorre neppure
l’indicazione dei presupposti anzidetti, risultando sufficiente la
menzione della norma che giustifica il potere stesso (Cons. St.,
174/1992).
F) atti favorevoli: secondo l’opinione attualmente maggioritaria, la
cui elaborazione è anteriore all’entrata in vigore della L.
241/1990, l’atto amministrativo ampliativo richiede la motivazione soltanto laddove si debba comparare l’interesse privato con
l’interesse generale; in assenza di tale comparazione, la motivazione risulterebbe in re ipsa (Cons. St., 205/1977).
Parte della dottrina ha manifestato elementi di perplessità al
riguardo, evidenziando come l’adesione all’indirizzo di cui sopra
comprometterebbe la tutela degli interessi generali e particolaristici confliggenti con quello dell’interessato al rilascio del provvedimento favorevole (CIMELLARO).
G) atti collegiali: è pacifica la vigenza dell’obbligo di motivazione;
perché lo stesso sia ottemperato non è sufficiente riportare la mera
successione degli interventi realizzati dai componenti del collegio,
ma è necessario esplicare il ragionamento seguito dall’organo nel
suo complesso (Cons. St., 484/1999).
vare dal privato con le osservazioni ed i documenti stessi. In caso
contrario il provvedimento sarà annullabile per violazione di legge
(secondo alcuni eccesso di potere).
5) LA STRUTTURA
La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e di diritto che
hanno determinato la decisione. I presupposti di fatto sono gli elementi raccolti e valutati dall’amministrazione durante lo svolgimento della fase istruttoria. I presupposti di diritto sono, invece, i
principi e le norme giuridiche applicate dall’amministrazione nell’emanazione del provvedimento. La giurisprudenza ha individuato i criteri in base ai quali valutare la conformità della motivazione
alla legge: la sufficienza e la congruità. La motivazione è sufficiente laddove fornisca i dati fattuali e giuridici necessari per dissipare
i dubbi relativi alla ragionevolezza e correttezza della stessa. La
motivazione è congrua se esplica in maniera puntuale e comprensibile il percorso comparativo e valutativo seguito dall’amministrazione per pervenire all’emanazione del provvedimento (TAR Lombardia, Milano, 680/2003). La struttura della motivazione è caratterizzata da flessibilità in relazione al carattere vincolato o discrezionale del provvedimento. Inoltre, la puntualità e complessità della motivazione è inversamente proporzionale alla consistenza dell’attività istruttoria svolta, dovendo colmare le eventuali lacune
fattuali o giuridiche lasciate da quest’ ultima (Cons. St.,
2281/2002).
8) CONOSCENZA DELLA MOTIVAZIONE
E TERMINE DECADENZIALE
A) tesi formale: la mera conoscenza della portata lesiva dell’atto,
desumibile dal solo dispositivo, è idonea a determinare il decorso
del termine decadenziale di 60 giorni per l’impugnazione (Cons.
St., 1275/2003).
B) tesi sostanziale: perché inizi la decorrenza del termine di 60
giorni per l’impugnazione, è necessario che il destinatario sia
venuto a conoscenza di tutti gli elementi essenziali del provvedimento, individuabili in relazione alla sua motivazione (Cons. St.,
6029/2007).
6) CONSEGUENZE DEL VIZIO DI
MOTIVAZIONE E PREAVVISO DI RIGETTO
A seguito dell’entrata in vigore della L. 241/1990, la mancanza o
l’insufficienza della motivazione determina l’annullabilità del provvedimento per violazione di legge. La contraddittorietà, illogicità
ed irragionevolezza della motivazione, invece, sono considerate
dalla giurisprudenza maggioritaria indici sintomatici dell’eccesso
di potere (TRGA Trentino Alto Adige, Trento, 503/2001). Qualora il
privato, a seguito del preavviso di rigetto (art. 10bis, L. 241/1990),
abbia presentato osservazioni e documenti, l’amministrazione è
tenuta a motivare l’eventuale scelta finale di diniego tenendo conto di quanto sostenuto nel preavviso, nonché di quanto fatto rile-
7) L’INTEGRAZIONE EX POST DELLA MOTIVAZIONE
A) tesi tradizionale: a seguito dell’impugnazione del provvedimento per vizio di motivazione, la P. A., non può nel corso del giudizio,
integrare il contenuto della motivazione; e ciò in quanto il giudizio
amministrativo ha carattere meramente demolitorio, non potendosi ampliare l’oggetto d’ indagine del giudice con l’introduzione di
elementi sopravvenuti all’emanazione dell’atto stesso. Inoltre, la
soluzione opposta determinerebbe, a danno del ricorrente, la violazione del principio della parità delle armi, con conseguente
rischio di soccombenza in giudizio. Si violerebbero, infine, i principi di pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa (Cons. St.,
4368/2008).
B) tesi moderna: l’amministrazione può integrare ex post la motivazione, in quanto la cognizione del giudice amministrativo deve
ormai considerarsi estesa all’intero rapporto giuridico sottostante
al provvedimento impugnato. Vale nondimeno ribadire che non si
riscontra alcuna violazione del principio della parità delle armi,
posto che il privato può contestare le nuove ragioni di fatto e di
diritto addotte tramite lo strumento del ricorso per motivi aggiunti (TAR Abruzzo, Pescara, 394/2005). D’altra parte deporrebbe in
tal senso anche l’introduzione, all’interno della L. 241/1990, dell’art. 21octies, comma 2, che esclude l’annullabilità del provvedimento di natura vincolata, per vizi formali o procedimentali, laddove sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere differente. Tuttavia, a tal proposito, si ripropone il summenzionato dibattito relativo alla natura giuridica della motivazione (Cons. St., 5271/2007). Il dibattito interpretativo di cui sopra
vale anche in relazione alla configurabilità del potere della P. A. di
emanare, durante il giudizio, un provvedimento “sanante” di quello impugnato per vizio di motivazione.
9) REITERABILITÀ DEL DINIEGO
SULLA SCORTA DI NUOVI MOTIVI
A) tesi positiva: non è ravvisabile, in capo alla P. A., un obbligo di
motivazione integrale; di guisa che la stessa potrà, a seguito della
caducazione del provvedimento impugnato, emanare un nuovo
provvedimento negativo fondato su motivi differenti (TAR Sicilia,
Catania, 330/2006).
B) tesi della formazione progressiva del giudicato: al fine di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, il giudice dell’ottemperanza potrà integrare l’originario disposto della sentenza con
statuizioni attuative, risultando ricondotte a tale giudizio tutte le
questioni relative al rapporto controverso che sorgano anche successivamente all’annullamento dell’originario provvedimento
(Cons. St., 1143/2001).
C) tesi dell’esame integrale: dopo un giudicato di annullamento, la
P. A., laddove voglia riesercitare il potere deve riesaminare l’affare
nella sua interezza, sollevando tutte le questioni che ritenga rilevanti (Cons. St., 136/1999).
SPIAalDIRITTO
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APRILE 2013
SEGUE DALLA PRIMA PAGINA
La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile anche questo motivo,
in quanto generico e privo di ogni specificazione delle ripercussioni
negative sul processo educativo e di crescita del bambino, dell’ambiente familiare in cui questi viveva presso la madre, così esprimendosi:
«Alla base della doglianza del ricorrente non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pregiudizio che sia dannoso
per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia
incentrata su una coppia omosessuale. In tal modo si dà per scontato
ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto
familiare per il bambino, che dunque correttamente la Corte d’Appello
ha preteso fosse specificatamente argomentata».
La Corte ha quindi respinto il ricorso.
PROFILI DI INTERESSE La Corte è intervenuta con chiarezza su un
tema ampiamente dibattuto a livello politico e sociale, cioè se i nuclei
familiari omogenitoriali costituiscano o meno un ambiente idoneo per
la crescita e lo sviluppo del minore.
Come è noto, l’Organizzazione mondiale della sanità si è anche recentemente espressa nei seguenti termini: «Vi è consenso professionale
sul fatto che l’omosessualità rappresenta una variante naturale della
sessualità umana, priva di effetti intrinsecamente dannosi sulla salute
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SEGUE DALLA PRIMA PAGINA
In definitiva dall'analisi sulla presenza di donne nei consigli di amministrazione, nei consigli di gestione e nei consigli di sorveglianza delle società quotate al momento della promulgazione della legge emergeva che in 138
società (pari al 50% del totale) non era presente nessuna donna, in 95 società (il 35% del totale) era presente una donna, in 24 società (il 12% del totale) erano presenti due donne e
in 7 società (il 3% del totale) erano presenti tre o più donne; per quanto
concerne i 263 collegi sindacali delle società quotate, in 209 società (pari
al 79% del totale) non era
presente nessuna donna, in 51 società (il 19% del totale) era presente una
donna e in 3 società (l’1% del totale) erano presenti due donne. In
Europa,secondo i dati pubblicati da Il Sole 24 Ore del 28 giugno 2011, la
Svezia ha adottato nel 2006 la prima legge sulla parità di accesso delle
donne alle cariche direttive e di controllo con l’obiettivo, raggiunto nel
2008, di assicurare alle stesse il 40% dei seggi. Nel 2007 è intervenuta la
Spagna che ha fissato lo stesso obiettivo del 40% da raggiungere entro il
2015. Nel 2011 è stata adottata la nuova legge francese che obbliga le
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SEGUE DALLA PRIMA
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giustificata ai sensi dell’art. 51 c .p.. Tuttavia, qualora decidesse di intervenire, la sua condotta potrebbe considerarsi egualmente scriminata, in
quanto realizzata in presenza di uno “stato di necessità” riconducibile
all’art. 54 c. p..
Alla luce delle coordinate dogmatiche fin qui delineate, è possibile esaminare il dibattuto caso che ha coinvolto Piergiorgio Welby, analizzando i criteri ermeneutici applicati dai giudici nell’esame della tragica vicenda.
E’ opportuno, tuttavia, effettuare un preliminare inquadramento della fattispecie concreta. Piergiorgio Welby è stato un attivista politico, giornalista,
pittore e scrittore, affetto, fin dall’età di 16 anni, da una grave forma di
distrofia muscolare. Al fine di trovare parziale sollievo dalle tremende sofferenze, Welby, negli anni sessanta, settanta ed ottanta, fece un notevole
uso di sostanze stupefacenti, uso che, con il trascorrere del tempo, determinò un ulteriore peggioramento della sua situazione patologica, oltre che
una forte dipendenza psico – fisica dalle sostanze stesse.
La graduale progressione della malattia, durante gli anni novanta, gli provocò la perdita della capacità di parlare ed effettuare qualsiasi movimento
(al di fuori dei movimenti labiali ed oculari), pur non intaccando la sua piena lucidità mentale. Dunque, il Welby, costretto su un letto d’ospedale,
vedeva la sua permanenza in vita garantita dal collegamento perpetuo ad
un respiratore artificiale.
Questa tragica ed insanabile situazione patologica, consolidatasi definitivamente nel 1997, a seguito di una crisi respiratoria, condusse il Welby, in
molteplici occasioni, a chiedere che gli fosse “staccata la spina”, al fine di
sottrarsi alle atroci sofferenze sopra descritte, ma, tale richiesta fu più volte rifiutata dai sanitari, in quanto reputata contrastante con la legislazione
in vigore, caratterizzata da estrema lacunosità in merito.
Nel settembre del 2006, Welby inviò una lettera al Presidente della Repubblica, chiedendo il riconoscimento del diritto all’eutanasia, nonché auspicando un confronto politico in materia che chiarisse la questione legislati-
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SEGUE DALLA PRIMA
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Attualmente è a casa con la seconda nascitura di due mesi e tra un mese,
nonostante l’impegno dell’allattamento materno, sarà costretta a riprendere il servizio per esigenze economiche.
Ma vi è di più: si sono verificati casi di donne giudici di pace con gravidanze a rischio nei confronti delle quali è stato instaurato un procedimento
disciplinare in cui si è contestata la scarsa laboriosità del giudice in questione, che in alcuni casi ha determinato anche la decadenza dall’incarico,
in altri la mancata nomina a coordinatore in quanto i ritardi accumulati in
quel determinato periodo sarebbero stati prova di incapacità organizzativa ed in quanto tali ostativi alla nomina!
Il problema della maternità dei giudici di pace è sorto in tempi relativamente recenti, quando – nel 1999 - è stata abbassata l’età prevista per
accedere al concorso e, quindi, quando questa è stata portata da 50 anni
a 30 anni.
Su tale nuova problematica non esiste alcuna disciplina normativa.
La legge 374/1991, istitutiva della figura di giudice di pace, non contempla tale materia ed il T.U. 151/2001 nulla dice su questa categoria di donne. Per questo, poco dopo l’introduzione del testo unico sulla maternità, è
sorto il dubbio dell’applicabilità di tale nuova disciplina ai magistrati di
pace.
Il problema è stato affrontato dal CSM in una risoluzione consiliare del
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Continua
[ Affidamento esclusivo confermato alla madre omossessuale e convivente con un’altra donna ]
delle persone omosessuali o dei loro prossimi. In nessuna delle sue
manifestazioni l’omosessualità costituisce un disordine o una malattia,
e dunque non richiede cure.
Per questa ragione l’omosessualità è stata rimossa dall’elenco delle
malattie alcuni decenni fa». Questa l’evidenza scientifica attuale, in
forza della quale correttamente i Supremi Giudici hanno ritenuto un
“mero pregiudizio” il danno che il minore avrebbe subìto da questa
decisione.
Questo pensiero era già stato espresso dalla costante giurisprudenza
della Corte: «perché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso occorre che risulti, nei confronti di uno dei genitori, una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale
appunto da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per
il minore, con la conseguenza che l’esclusione della modalità dell’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione non più
solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in
negativo sulla inidoneità educativa del genitore che in tal modo si
escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale» (cfr. Cassazione
civile sez. I, 17 dicembre 2009 n. 26587). In mancanza della prova del
pregiudizio dell’affidamento alla madre nel caso di specie, la Corte ha
quindi confermato la decisione di merito che aveva disposto l’affida-
mento esclusivo del figlio minore alla madre stessa, e ciò anche in forza dei comportamenti assolutamente negativi del padre nei confronti
del figlio.
La Corte lascia peraltro intendere che non si possa escludere in linea
di principio che l’educazione di un bambino in ambiente omosessuale
possa essere per lui di pregiudizio, così come non si può escludere in
linea di principio un pregiudizio qualora il minore si trovi in un ambiente familiare eterosessuale; solo, ha inteso che tale pregiudizio debba
essere dimostrato nel caso concreto in relazione alle varie caratteristiche di personalità, ai comportamenti e alle modalità di relazione.
Coerentemente la Corte, proprio in ragione della concretezza dei comportamenti dell’altro genitore (abbandono e violenze), e della ritenuta
dannosità di tali condotte sullo sviluppo psicofisico del minore, ha confermato l’affidamento esclusivo alla madre, derogando alla norma che
prescrive l’affidamento condiviso, con la previsione di un regime di visita inizialmente ridotto e protetto al fine di preparare gradualmente il
figlio e il padre stesso all’auspicata normalizzazione dei rapporti. Non
rimane che augurarsi che il percorso indicato dalla Suprema Corte conduca a restituire al figlio da parte dei suoi genitori il diritto a uno sviluppo equilibrato e positivo, che fino a oggi è stato gravemente compromesso.
[ Spolverata rosa nei Consigli di Amministrazione in Italia ]
società quotate a passare dall’attuale 12% di presenze femminili negli
organi di amministrazione e di controllo al 20% entro il 2014 e il 40%
entro la fine del 2017.
In Germania, le società quotate sul DAX30 hanno l’obbligo di assicurare
entro il 2013 il 30% dei seggi alle donne e alla stessa soglia sono invitate
ad aderire entro il 2018 anche tutte le altre società quotate per evitare che
tale adeguamento venga imposto per legge.
A completamento dell’ iter legislativo intrapreso e’ stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Dpr 251, datato 30 novembre 2012, che disciplina i nuovi
criteri per la parità di accesso “agli organi di amministrazione e di controllo nelle società controllate da pubbliche amministrazioni non quotate in
mercati regolamentati”.
Per le prossime nomine in Cda e collegi di revisione, il rapporto tra donne e
uomini dovrà almeno essere pari a 1 su 5, mentre, quando le cariche saranno riassegnate, dovrà passare a 1 su 3 e ciò resterà valido per almeno tre
mandati consecutivi.
La sorveglianza sulla corretta applicazione delle norme dovrà essere appan-
naggio del Ministero delle Pari Opportunità, il quale avrà la facoltà di avviare ispezioni o verifiche qualora ravvisi irregolarità.
Le società, da parte loro, saranno obbligate, nell’arco di due settimane dall’insediamento, a comunicare la composizione dei propri organismi dirigenziali al fine di certificare il rispetto dei limiti minimi di parità imposti dalla
legge.
Il Ministero è deputato ad effettuare un ampio resoconto ogni triennio sullo stato della norma e la diffusione degli obblighi che essa impone, analisi
successivamente vagliata e approvata dal Parlamento.
Dovranno essere gli stessi Cda o collegi di revisione a certificare l’ avvenuta equiparazione ai dettati legislativi. In alternativa, in caso di omessa specifica, qualsiasi soggetto sarà deputato a segnalare la mancanza.
Varata la legge resta il grande interrogativo della legittimità costituzionale
della stessa alla luce dell’ art 3 della Cost.
Si stanno già affilando le armi da parte delle società che proprio non vogliono donne nei propri CDA. Solo le prime decisioni,qualora davvero ci siano
impugnative nell’ un senso o nell’ altro, potranno sciogliere il quesito.
[ L’esercizio dell’attività medico chirurgica necessaria ed urgente ... ]
va; non si fece attendere la risposta della Chiesa cattolica, che, tramite gli
interventi di alcuni suoi illustri esponenti, a più riprese, ribadì la sua assoluta contrarietà al riconoscimento di tale diritto, reputato palesemente contrastante con gli ideali cristiani.
Attesi i rifiuti oppostigli per iscritto dalla struttura sanitaria di riferimento,
Welby propose ricorso, ex art. 700 c. p. c., al Tribunale di Roma, che, in data
15 dicembre 2006, dichiarò lo stesso inammissibile, per via del surriferito
vuoto legislativo caratterizzante la materia e, conseguentemente, dell’impossibilità di azionare il diritto alla sedazione terminale in assenza di
un’esplicita disposizione legislativa.
Nel corso dei giorni immediatamente successivi, tuttavia, riuscì ad entrare
in contatto con un nuovo medico anestesista, che si dichiarò disposto a
dare esecuzione alla sua volontà di morire. Pertanto, verso le ore 23. 00 del
20 dicembre 2006, Piergiorgio Welby, congedati amici e parenti, richiese
ed ottenne la sedazione ed il distacco del respiratore artificiale, avviandosi verso la morte sulle note di “Like a rolling stone” di Bob Dylan, alla presenza della moglie Mina, della sorella Carla e dei compagni radicali dell’Associazione Luca Coscioni.
A seguito della richiesta di archiviazione formulata dalla Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Roma, un ordinanza del G. I. P., del 7 giugno 2007, disponeva l’imputazione coatta nei confronti del medico anestesista in relazione alla fattispecie di omicidio del consenziente, di cui all’art.
579 c. p..
Il G. U. P. di Roma, con sentenza del 27 luglio 2007, dichiarava il non luogo a procedere, utilizzando un percorso logico – argomentativo che si riallaccia all’orientamento seguito dalla giurisprudenza maggioritaria (vedi
sopra), che richiama l’operatività della scriminante dell’adempimento del
dovere. Con maggiore impegno esplicativo, il G. U. P. qualifica l’attività di
ventilazione artificiale come vero e proprio “trattamento sanitario”, da ciò
inferendo che il paziente, richiedendo il distacco di tale ventilazione, ha
effettivamente esercitato la sua libertà di autodeterminazione in materia
sanitaria, oggetto di riconoscimento in sede costituzionale.
D’altra parte, il diritto all’autodeterminazione è inquadrato nell’ambito dei
diritti fondamentali dell’individuo, e ciò non soltanto in virtù del esplicito
richiamo operato dall’art. 32, comma 2, Cost., ma anche in virtù del riconoscimento dell inviolabilità della libertà personale dell’individuo, effettuato dall’art. 13 Cost. Ad ulteriore suffragio di tale prospettazione si richiama, infine, la Convenzione di Oviedo che, all’art. 5, testualmente recita “un
intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo
che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato, configurandosi quale ulteriore recepimento della summenzionata libertà di
autodeterminazione.
Ciò posto relativamente al fondamento normativo del diritto di rifiutare le
cure, la sentenza in esame precisa che tale diritto, in considerazione dei
riconoscimenti comunitari e costituzionali, deve considerarsi perfetto, non
risultando necessaria, per il suo concreto esercizio, l’emanazione di una
specifica norma attuativa di rango secondario; nel dettaglio, esso si sostanzia in una pretesa di astensione o, alternativamente, di intervento, laddove
esso consista nell’interruzione delle terapie praticate, da parte di sanitari
professionisti. Sulla scorta di tali osservazioni, il G. U. P. conclude sottolineando che ciascun sanitario, in virtù del rapporto terapeutico che lega lo
stesso al paziente, è doverosamente tenuto a rendere possibile l’esercizio
del diritto all’autodeterminazione terapeutica, anche laddove ciò comporti
l’interruzione di una terapia che rivesta carattere fondamentale per la salvaguardia dell’integrità fisica o, addirittura, della vita del paziente. Dunque,
laddove si verifichino siffatte circostanze, la condotta del medico deve considerarsi pienamente compatibile con l’ordinamento penale, attesa la sua
riconducibilità alla scriminante dell’adempimento del dovere, di cui all’art.
51 c. p..; d’altronde, tali circostanze devono reputarsi pienamente verificate nella drammatica vicenda di Piergiorgio Welby.
[ L’Associazione Nazionale Giudici di Pace chiede ... ]
2006, con risposta negativa. Il Consiglio non ritiene applicabile tale normativa ai giudici di pace per cui ad oggi la donna – giudice di pace in
maternità – non gode di alcuna tutela di tipo economico, né dei medesimi
periodi di aspettativa. L’unico diritto che può vantare è l’astensione dalle
funzioni giurisdizionali per il periodo corrispondente all’aspettativa obbligatoria , ovvero per cinque mesi, ed il conseguente diritto alla proroga del
mandato per il periodo corrispondente (delibera del CSM del 06/07/2011).
Sul punto è indispensabile un intervento legislativo che riconosca la tutela della maternità anche alle donne giudici di pace, permettendo loro di
seguire il figlio nella fase delicata dei primi mesi di vita, con la facoltà di
astensione per un congruo periodo ed il riconoscimento di una forma di
sostegno economico.
E’ fortissima la contraddizione fra il riconoscimento a tutti i livelli dell’indispensabilità della figura del giudice di pace, con la trascuratezza totale che
lo Stato dimostra nei confronti delle persone che svolgono tale funzione.
Anche la carenza di copertura previdenziale merita una soluzione con la
massima urgenza anche al fine di evitare al nostro Paese prevedibili sanzioni in sede di giustizia europea. Attenti studi di settore hanno riconosciuto che è sufficiente la somma, assolutamente irrisoria, di circa 10 milioni
di euro per garantire un’adeguata copertura previdenziale.
I costi della tutela previdenziale potrebbero essere coperti attraverso la
riduzione del numero dei giudici in pianta organica dagli attuali 4690 fino
a 3.200, su cui anche la nostra associazione è d’accordo.
Altro intervento che chiederemo al nuovo governo di porre in essere hic et
nunc riguarda la riforma della geografia giudiziaria. Il giudizio dell’Associazione sulla chiusura dell’80% degli uffici (667 sedi sulle 846 esistenti)
è fortemente negativo, in quanto si effettuano tagli lineari rispetto ad un
magistrato virtuoso, snaturandolo ontologicamente ed allontanandolo dal
cittadino. Il 28 febbraio il ministero della Giustizia ha pubblicato la nota di
istruzioni per il mantenimento degli uffici del giudice di pace sul proprio
bollettino ufficiale e sul sito internet. Da tale data decorrono 60 giorni
entro i quali gli enti locali possono chiedere di mantenere in vita gli uffici,
con oneri a loro carico (scadenza 29 aprile).
L’aspetto di maggiore criticità è dato dal fatto che si è adottato un criterio
di tipo meramente economicistico, in quanto gli enti locali, pur con le
migliori intenzioni, potrebbero non avere risorse sufficienti per conservare
gli uffici. Riteniamo invece indispensabile un ripensamento a livello governativo (previsione che la legge espressamente contempla), mantenendo
molti più uffici, ricorrendo a un criterio ponderato basato sulla effettiva
necessità di una sede in un determinato territorio: un intervento inquadrato in logiche e principi di sistema e di tutela della legalità, come già chiesto dal Parlamento nel parere sulla riforma.
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