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La politica locale fra decentramento

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La politica locale fra decentramento
LIBERA UNIVERSITA’ POPOLARE – REGGIO EMILIA
Il governo locale fra crisi e austerità
Carlo Baccetti – Università di Firenze
20 gennaio 2014
La politica locale fra decentramento,
ricentralizzazione e ruolo delle
Autonomie locali
La politica locale nella trasformazione
del sistema politico italiano
• Anni Settanta: nuovo impulso agli studi sulle politiche
pubbliche locali.
• Motivo: Trasformazione politica e sociale dell’Italia;
esplosione dei movimenti collettivi di protesta
• Reazione dei Comuni:
• - istituzionalizzazione degli ambiti di partecipazione
democratica (consigli di quartiere ecc.)
• - rivendicazione di maggiori competenze e autonomia
• - “invenzione” di nuovi servizi e nuove politiche (es.: medicina
sociale, politiche per la cultura…)
Territorio e politica: la svolta degli anni Novanta
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La politica locale ha acquistato una nuova centralità da quando il richiamo al
TERRITORIO è tornato ad essere un contenuto forte dell’IDENTITA’ POLITICA e
il LOCALISMO è stato assunto come base ideologica per l’organizzazione di
nuove formazioni politiche.
Importanza non solo fattuale ma anche normativa e simbolica del territorio.
INOLTRE:
Fallimento del modello istituzionale centralista e straordinario di sviluppo
economico, specie per il Sud. Insoddisfazione per una visione strettamente
economicista dei problemi dello sviluppo
Centralità dei “distretti industriali” – valorizzazione degli elementi non
economici dello sviluppo – Maggiore attenzione alla specificità dei contesti
locali - Capitale sociale
Sussidiarietà – Diffusione di politiche pubbliche “contrattualizzate”
Insomma:
la globalizzazione della politica non ha espunto il territorio dalla politica stessa
Il motore politico del decentramento: la
nascita delle Leghe
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In Italia, fino agli anni Ottanta i partiti storici, pur essendo i protagonisti della vita politica
locale, erano poco interessati ai temi locali della politica, ai quali anteponevano le grandi
problematiche di carattere generale e le discriminanti di valore universale: capitale/lavoro,
laicità religione, capitalismo/comunismo…
Il cammino verso il decentramento intrapreso negli anni Novanta non è stato una chiara
scelta ideologica dei partiti, ma fu dovuto a motivazioni politiche di carattere contingente,
a pressioni che hanno investito dall’esterno il sistema dei partiti.
1987-1992: crisi finale del sistema dei partiti, incapaci di rispondere alle sfide della
modernizzazione – 1992-1994: collasso dei partiti storici – ”Tangentopoli”
ESPLOSIONE DEL FENOMENO LEGHISTA – Le Leghe: associazioni politiche autonomiste a
base territoriale che avanzano rivendicazioni federaliste e di difesa delle identità regionali.
Le Leghe hanno “inventato” il TERRITORIO come riferimento prioritario dell’offerta politica
Lega Nord (dal 1991): contrappone il LOCALISMO – economico, istituzionale, culturale e
politico – alla partitocrazia. Esalta il territorio come ambito di specifici interessi e
specifiche identità.
Riemerge la frattura centro/periferia (“Roma ladrona”)
Regioni e governi locali nella trasformazione del
sistema politico italiano (I).
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A partire dagli anni Novanta una serie di riforme legislative ha scardinato la
consolidata struttura centralistica dello Stato italiano. Le riforme hanno
ridisegnato, in parte, l’architettura costituzionale all’interno della quale sono state
incrementate le competenze e le funzioni dei governi territoriali e si è innescata
una significativa redistribuzione del potere verso le istituzioni e gli attori della
politica locale.
Gli obiettivi di decentramento e di autonomia indicati con le riforme legislative
avviate negli anni Novanta erano ambiziosi. Sul piano delle politiche, si è cercato,
ad esempio, una nuova e più razionale distribuzione di funzioni e differenziazione
di ruoli tra Regioni ed Enti locali e tra i diversi livelli del governo locale, con
l’obiettivo di fare chiarezza nella distinzione tra compiti di legislazione e di
distribuzione delle risorse, propri delle Regioni, e compiti di amministrazione attiva
propri delle Province e dei Comuni.
Nello stesso tempo, si è stabilito che i criteri in base ai quali le Regioni dovevano
assegnare il potere di amministrazione agli Enti locali erano quelli dell’efficienza e
del risparmio economico; e che in nessun punto della catena amministrativa
avrebbero dovuto esserci due livelli di governo che svolgevano la stessa funzione.
Regioni e governi locali nella trasformazione del
sistema politico italiano (II).
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Sono stati introdotti incentivi alla cooperazione, all’unione tra i comuni e alle fusioni,
soprattutto per superare l’inadeguatezza dei comuni molto piccoli; si è ridefinito il ruolo delle
Province, affidando ad esse nuovi strumenti e competenze; si è cercato di promuovere
l’efficienza dei servizi pubblici locali, ammettendo per la loro gestione la costituzione di
società per azioni miste pubblico-private e aprendole progressivamente alla concorrenza e al
mercato.
Sul piano della politica e della capacità di governo, le riforme hanno mirato a rinnovare la
classe politica locale ─ introducendo nuovi percorsi di selezione e di ingresso nelle istituzioni
“direttamente dalla società civile” e riducendo il peso del canale d’accesso partitico ─ e,
contemporaneamente, a dare ai nuovi vertici degli esecutivi il massimo grado di
legittimazione popolare, il controllo sulle giunte e la garanzia di una solida maggioranza che
assicurasse stabilità e durata del mandato di governo.
E si sono rafforzati, al contempo, strumenti della democrazia partecipativa per favorire il
coinvolgimento dei cittadini e il confronto con gli amministratori (procedure d’accesso agli
atti facilitate, forum e consultazioni, referendum non solo consultivi…).
Più di altri livelli istituzionali, il governo locale è in grado di canalizzare un numero crescente
di domande politiche ed economiche, di promuovere iniziative innovative per inventare
nuove risposte ai nuovi problemi della collettività ed è chiamato a presenziare sui molteplici
scenari dove si prendono decisioni che influiscono significativamente sulla qualità della vita
dei cittadini.
Tab. 1. Decentramento ed autonomia nelle riforme legislative degli anni Novanta.
Fonte: Vandelli, 20052, p. 96.
Obiettivi della l. 142/1990
Strumenti e soluzioni indicati dalla Strumenti
e
soluzioni
l. 142
individuati dalle riforme
varate tra il 1993 e il 1999
Riconoscere agli enti locali
L’autonomia è limitata da una
l’autonomia statutaria (oltre a quella disciplina legislativa molto
regolamentare)
puntuale
La riforma del 1999
estende i contenuti dello
statuto, che trova limiti solo
in espliciti principi di legge
Avviare una nuova distribuzione di Un ruolo importante è affidato alla Le riforme del 1997-98
funzioni agli enti locali
Regione (che mantiene solo le
confermano le linee della
(differenziandone i ruoli)
funzioni di ambito regionale)
142 e avviano un ampio
processo di conferimenti
Sviluppare la partecipazione dei
cittadini
Superare
l’inadeguatezza
piccoli comuni
Ridefinire il ruolo delle Province
Procedimento e accesso,
referendum consultivo
Il referendum non è più
solo consultivo, se ne
facilita lo svolgimento
dei Incentivi alle fusioni e unioni dei Le riforme del 1997-98
piccoli comuni
puntano sui «livelli minimi»
di esercizio delle funzioni;
la riforma del ’99 rafforza e
agevola la cooperazione e
punta sulle unioni di
Comuni e sulle comunità
montane
Nuovi strumenti e competenze, tra Le riforme del 97-98
cui il Piano territoriale di rafforzano le Province, in
coordinamento
materia di territorio e di
attività produttive
Creare un sistema di governo per le La Regione delimita l’area, riordina i La riforma del ’99 punta sulla
aree metropolitane
Comuni,
ripartisce
le
funzioni; differenziazione: in ogni area
nell’area la Provincia si configura le scelte sulla delimitazione e
come autorità metropolitana
sull’ordinamento partono dal
basso
Promuovere efficienza nei servizi
pubblici locali
Si ammettono le Spa locali, purché a Il dl del ’99 apre decisamente
maggioranza pubblica
alla concorrenza e al mercato,
stabilendo obbligo di gara
Garantire autorevolezza e stabilità al
sistema di governo locale
Razionalizzazione dell’elezione del
sindaco da parte del consiglio;
sfiducia costruttiva
La riforma del ’93 ha introdotto
l’elezione diretta del sindaco;
la riforma del ’99 tende ad un
migliore equilibrio tra gli organi
Ridurre vincoli e controlli
I controlli del CORECO sono limitati
ai soli atti del consiglio
La riforma del ’97 riduce i
controlli a statuti, regolamenti,
bilanci
Rinnovare l’organizzazione degli enti
locali
Distinzione tra indirizzo (organi
elettivi) e gestione (funzionari);
ridefinizione dei compiti del
segretario, che resta funzionario
statale
Le riforme del ’97 precisano
espressamente i compiti dei
dirigenti; il segretario è scelto
dal sindaco che può anche
nominare un direttore
generale
Dopo il 2001: verso uno «Stato delle
autonomie locali»?
•
•
Il punto più alto nel processo di decentramento politico-amministrativo e di potenziamento
delle autonomie locali lo si raggiunse nel marzo del 2001 quando, proprio allo scadere della
XIII legislatura, il parlamento italiano approvò la legge di riforma costituzionale 3/2001
Il «patto federale» che venne stipulato con questa legge doveva prendere corpo soprattutto
attraverso l’autonomia finanziaria, di entrate e di spesa, di cui avrebbero goduto le Regioni e
gli Enti locali, ai quali sarebbero andati tributi ed entrate proprie e il diritto di ricevere una
parte del gettito fiscale nazionale. Per garantire che anche le Regioni più povere, cioè con una
minore capacità fiscale pro capite, fossero in grado di sostenere finanziariamente le funzioni
loro assegnate, la legge istituiva un «fondo perequativo nazionale» attraverso cui, in
sostanza, una quota delle risorse finanziarie delle regioni più ricche – quelle del Centro-Nord
– veniva messa a disposizione delle Regioni meno ricche – quelle del Sud. La nuova legge
costituzionale presentava insomma una sua specificità che consisteva nell’abbinamento tra
«principio di sussidiarietà» e riforma in senso federalista dello Stato. Diversamente da altri
modelli federali, il modello di decentramento federalistico introdotto in Italia fissava
direttamente in Costituzione l’assetto degli Enti locali (Comuni, Province e città
metropolitane) e non lo lasciava alla discrezione della legge ordinaria o delle leggi regionali.
Ugualmente, sia le funzioni che le risorse degli Enti locali venivano definite ed attribuite sulla
base dei principi fissati in Costituzione.
Le nuove politiche dei governi locali
•
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Le politiche pubbliche degli Enti locali sono state ridefinite alla luce sia delle
trasformazioni organizzative che in conseguenza delle nuove priorità che i governi
locali si sono dati. La mobilitazione si concentra sempre più sugli obiettivi di
promozione dello sviluppo economico e sulle politiche di coesione sociale, rese
necessarie, queste ultime, dai grandi processi mondiali di trasformazione
economica e sociale, che hanno riscritto l’agenda anche dei governi locali. Le
amministrazioni locali sono riconosciute non solo come enti erogatori di servizi ma
come attori politici essenziali per lo sviluppo del territorio.
I cambiamenti intervenuti nella governance locale riguardano anche, in modo
significativo, l’introduzione di metodi innovativi di finanziamento di cui, dagli anni
Novanta, hanno cominciato ad avvalersi gli Enti locali. Particolarmente frequente,
tra gli strumenti di finanza innovativa, è, ad esempio, il ricorso alla «finanza di
progetto» come strategia di finanziamento, ovvero come ricerca delle risorse
economiche necessarie alla realizzazione di opere infrastrutturali o per
l’attivazione di servizi pubblici.
La crisi (finanziaria) del disegno autonomistico negli
anni Duemila. Tra neo-centralismo e degenerazioni
della classe politica locale
• Il nuovo protagonismo guadagnato dalle Regioni e dai governi locali nel
sistema politico italiano, dagli anni Novanta ad oggi, ha presentato tuttavia
limiti e incongruenze notevoli.
• Riforma incompiuta: peccato originale del processo di decentramento e di
riordino istituzionale non si è scelto un nuovo modello di relazioni
intergovernative, non si è data una risposta precisa alla domanda cruciale
«che cosa si decentra e a chi» e non si è fatta chiarezza in merito
all’attribuzione delle «funzioni fondamentali» proprie di Regioni, Province
e Comuni. Tra un modello propriamente regionalista che devolvesse
compiti e funzioni soprattutto al livello di mesogoverno rappresentato
dalle Regioni, o un modello che favorisse piuttosto il rapporto diretto tra
Stato ed Enti locali, decentrando funzioni e competenze direttamente a
Comuni e Province, in realtà non si è scelto, per non scontentare nessuno.
Decentramento frenato da problemi di
carattere finanziario (I)
C’è stato, soprattutto, un problema di carattere finanziario, legato ai costi della politica
(anche) locale, che è intervenuto nell’ultimo decennio, a frenare il processo di
decentramento e a ridimensionare per molti aspetti l’autonomia guadagnata nel
decennio precedente da Regioni e governi locali.
Il problema dei costi della politica ha due aspetti distinti, che finiscono poi per
sovrapporsi.
1) L’altra faccia dell’elezione diretta: personalizzazione della politica e
professionalizzazione degli eletti.
Gli eletti hanno finito col sostituire i partiti, i quali vivono quasi soltanto nelle istituzioni:
«Oggi troppo spesso si sta nei partiti solo per essere eletti o si viene eletti senza
nemmeno entrare nei partiti. L’eletto, a quel punto […] non risponde più a nessuno. Ha i
soldi, ha una segreteria, dirige di fatto le strutture di partito» (Salvi e Villone 2005) .
I “costi della politica” - Peculiari risorse di tipo clientelare a disposizione dei governi
locali - Particolarmente rilevanti anche perché possono essere utilizzate con notevole
libertà, senza troppi rischi di incorrere in sanzioni di tipo amministrativo o penale.
Decentramento frenato da problemi di
carattere finanziario (II)
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2)Vincoli di bilancio e neocentralismo.
Vincoli di bilancio posti dall’Unione Europea. Già coi parametri economici e i vincoli di
bilancio introdotti con il Trattato di Maastricht (1992), relativi al tasso di inflazione e al
rapporto tra deficit di bilancio, debito pubblico e prodotto interno lordo e poi soprattutto
dagli anni Duemila con l’introduzione della moneta unica, gli Stati dell’Unione furono
vincolati al rispetto rigoroso della disciplina di bilancio. Perciò, in Italia, i governi nazionali, in
modo abbastanza indipendente dal colore politico, hanno adottato politiche finanziarie
restrittive e misure di ricentralizzazione della spesa, fortemente penalizzanti delle autonomie
locali: così è stato con il vincolo del patto di stabilità interno, il taglio massiccio dei
trasferimenti erariali alle Regioni e agli enti locali, la riduzione delle entrate proprie e il
divieto di effettuare nuove assunzioni.
I due aspetti del problema finanziario – sprechi e spese clientelari (che spesso sfociano nella
corruzione) da un lato e, dall’altro, rigorosa disciplina di bilancio imposta “dall’alto” – si
sovrappongono, perché i primi giustificano la seconda e la costringono ad essere ancor più
“spietata”.
Insieme ai molti sprechi ed eccessi di spesa che certamente c’erano, si sono però ridotti
anche i servizi ai cittadini e gli investimenti infrastrutturali e per promuovere lo sviluppo.
Decentramento frenato da problemi
di carattere finanziario (III)
• La riduzione della capacità di spesa delle Regioni e dei governi locali
significa che questi non sono più in grado di esercitare in modo autonomo
poteri e funzioni che le riforme degli anni Novanta gli avevano attribuito.
• Tra le vittime illustri di questa virata neocentralistica c’è, ad esempio, il
federalismo fiscale introdotto dalla riforma costituzionale del 2001. Nel
maggio 2009 il governo aveva approvato una importante legge in materia
di autonomia finanziaria e tributaria delle Regioni e degli Enti locali, dando
attuazione al federalismo fiscale previsto dall’art. 119 della Costituzione
riformata. In realtà il governo non ha poi dato attuazione alla delega, che
è rimasta in stallo perché nel frattempo è “esplosa” la crisi della finanza
pubblica e la risposta data dai governi in Europa, negli ultimi tre anni, è
stata quella di accentuare fortemente le restrizioni attraverso una secca
ricentralizzazione della gestione della spesa.
Crisi finanziaria e
“riordino istituzionale”
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Duplice processo in corso da alcuni anni all’insegna di una ricentralizzazione assai
spinta, in termini di riordino istituzionale e di rigore finanziario.
Decentramento frenato. Fino a far immaginare un’inversione di tendenza non
episodica.
Negli anni Novanta le trasformazioni dell’assetto istituzionale dello Stato hanno
seguito una logica incrementale. Sono scaturite da valutazioni di opportunità di
carattere politico contingente, sono state dettate soprattutto da pressioni esterne
ed è mancata una valutazione della coerenza complessiva del sistema che si
andava riformando.
Altrettanto incrementale, priva di una visione progettuale e sistemica è l’attuale
fase di controriforme neoocentraliste, sollecitate dall’”Europa” e dai “mercati”.
Il governo locale oggi. Tra accorpamenti e
soppressioni
•
Il nuovo sistema delle autonomie locali è rimasto per molti aspetti incompiuto e,
d’altra parte, in molti casi l’autonomia è stata utilizzata in modo irresponsabile.
Forse proprio l’irresponsabilità con cui una parte non piccola della nuova classe
politica locale ha usato l’autonomia, rappresenta la delusione maggiore, rispetto
alle speranze di rinnovamento “dal basso”, dal territorio, anche in termini di etica
pubblica, che animavano i riformatori degli anni Novanta. Decentrare poteri e
competenze lontano da Roma non è che abbia molto contribuito ad abbassare il
tasso di inefficienza, di clientelismo, di corruzione…
•
«Caro Primo Ministro… abolisci le Province». La lettera della BCE al Governo
italiano
É stato attivato un processo di riordino istituzionale degli Enti locali dettato
anch’esso, quasi soltanto, dall’esigenza di tagliare la spesa pubblica. Tra gli obiettivi
principali del riordino c’è la Provincia.
•
La scomparsa della Provincia
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Sebbene la Provincia fosse entrata da tempo nel mirino dei “riformatori”, la sua sfortuna ha
subito un’accelerazione decisiva dall’estate del 2009 in conseguenza di un preciso
“suggerimento” nientemeno che della Banca centrale europea.
Lettera del 5 agosto 2011, scritta a quattro mani dal presidente Jean Claude Trichet e dal suo
successore designato Mario Draghi: la BCE indica al governo italiano, la strada da seguire «per
accrescere il potenziale di crescita» del Paese, le misure da introdurre per assicurare «la
sostenibilità delle finanze pubbliche» e le decisioni da prendere «immediatamente» per
migliorare l’efficienza dell’amministrazione pubblica.
Tra le misure suggerite:«azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici
locali» e «un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi
(come le Province)».
Il governo delle “larghe intese” e la Provincia: obiettivi «contingenti» e ambizioni
riformatrici
Luglio 2013: la corte costituzionale affossa il Salva Italia (dicembre 2011) e Spending review
(luglio 2012) del Governo Monti
Il DdL costituzione del governo Letta per abolire le Province.
Nel frattempo: ll DdL del ministro Delrio.
La riforma in cantiere. Città metropolitane,
Unioni di Comuni e fusioni (I)
• Il 26 luglio 2013 il Ministro per gli Affari regionali e le autonomie Graziano
Del Rio, già sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’ANCI ha presentato
uno «Schema di disegno di legge recante disposizioni sulle città
metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di comuni».
• Lo schema del DdL governativo persegue «risultati ambiziosi» e si prefigge
tre obiettivi di riforma «di carattere sistematico» e un obiettivo
«contingente». Gli obiettivi strutturali sono 1) istituire «finalmente» le
città metropolitane; 2) definire «una nuova disciplina organica delle Unioni
di Comuni» per dare ad esse una struttura normativa coerente. L’obiettivo
è quello di rafforzare e valorizzare le Unioni come strumenti a disposizione
dei Comuni perche possano operare in modo più efficiente e responsabile
di fronte «alle esigenze dei cittadini»; e 3) «rivisitare» l’istituto delle
fusioni di comuni, allo scopo di incrementarle ed ottenere così
«dimensioni più accettabili e coerenti del livello comunale».
La riforma in cantiere. Città metropolitane,
Unioni di Comuni e fusioni (II)
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L’obiettivo contingente riguarda la Provincia: in attesa di scomparire diviene ente di secondo
grado, mantiene solo compiti di di coordinamento «di area vasta» e le sue funzioni vengono
trasferte a Comuni e Regioni.
Il disegno del ministro Del Rio si muove in una prospettiva di riforma che va oltre l’urgenza
dei tagli alla spesa pubblica locale – unico vero motore, in precedenza, delle proposte di
accorpamente/soppressione delle Province.
C’è l’ambizione di ridimensionare il policentrismo autonomistico consacrato dalle riforma
costituzionale del 2001 (legge 3/2001) ma che, si dice, ha dimostrato di operare piuttosto
come policentrismo «anarchico», con insufficiente capacità di coordinamento
interistituzionale, per ridisegnare un sistema delle autonomie locali “a due punte”.
Saranno i sindaci e i Presidenti delle Unioni di Comuni il nerbo della classe politica del governo
locale, chiamati a governare non solo l’amministrazione comunale in senso proprio, ma anche
«l’intera organizzazione territoriale di area vasta». Il disegno collettivo è tutto orientato alla
valorizzazione dei Comuni e della classe politica municipale; i sindaci e solo i sindaci sono
indicati come il tessuto connettivo, il tessuto forte della democrazia locale, gli attori politici
sui quali investire per far rinascere la fiducia dei cittadini nella politica.
La riforma in cantiere. Città metropolitane,
Unioni di Comuni e fusioni (III)
• Le Unioni divengono il punto di snodo e di raccordo principale dell’asse
comuni-Regione, che si profila come la linea di assestamento della nuova
governance interistituzionale substatale.
• Inoltre, le Unioni potrebbero affermarsi come il necessario strumento di
governo di livello intermedio sul territorio dell’Area metropolitana.
• La riforma della governance territoriale procede comunque anche lungo
altri percorsi. Segnali molto recenti ma già di una certa consistenza,
infatti, inducono a ipotizzare che nel riassetto istituzionale potrebbero
assumere un certo peso le fusioni di comuni, come superamento, o come
naturale evoluzione, delle stesse Unioni.
• Molte leggi regionali prevedono il percorso di fusione, lo promuovono, lo
facilitano, nel caso la fusione coinvolga tutti i comuni di una preesistente
unione, e lo incoraggiano con argomenti efficaci, ovvero con generosi
contributi finanziari (in Toscana: 250mila euro per ogni comune coinvolto
nella fusione per cinque anni a partire dall’anno successivo all’elezione del
nuovo consiglio comunale unificato; ma con possibilità di ottenere
contributi maggiori).
Possibili vantaggi delle fusioni
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Per molti comuni la fusione può certamente segnare un significativo passo in avanti verso
un’adeguata integrazione istituzionale e una governance sostenibile.
Per superare lo scollamento tra sistemi locali di vita e di lavoro e ambiti di governo politicoamministrativi ─ stante una rete territoriale dei comuni disegnata su assetti socio economici
ormai da tempo superati ─ che impone costi aggiuntivi alle famiglie e alle imprese.
Effetto positivo delle fusioni: risparmi di spesa dovuti alle economie di scale e al superamento
delle duplicazioni.
Ma anche altri non quantificabili miglioramenti delle performances amministrative, con
conseguenze positive molto importanti per la vita quotidiana delle persone: spostamento di
risorse dalle funzioni amministrative e istituzionali alle politiche direttamente generatrici di
beni e servizi; maggiore equità per i cittadini nell’accesso ai servizi stessi; unificazione delle
procedure amministrative, con conseguenti minori costi di transazione per i cittadini e gli
operatori economici; miglioramento, nel medio periodo, della qualità delle prestazioni e dei
servizi, grazie alle maggiori possibilità di qualificare e specializzare il personale del nuovo
comune unico; maggior peso contrattuale degli amministratori locali.
Infine, potenziale ma realistico vantaggio quantificabile, per i cittadini: possibilità che le
risorse finanziarie garantite ai comuni che si fondono permettano di diminuire le tasse locali
(come l’addizionale IRPEF e l’IMU).
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