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LAVORO 1 Cristiani
: LAVORO Dedicato a Dagmawi, Tighist e gli altri protagonisti di Come un uomo sulla terra I CRISTIANI E IL LAVORO, senza mettere la testa sotto la sabbia… Il compito dell’uomo in un inno di Padre David Maria Turoldo : Dio d’amore, o fonte di gioia vogliamo offrirti un inno di grazie: nulla chiediamo se non di cantare, lodarti in nome di ogni creatura. Sei tu la vita e vita è luce, tutte le cose continui a creare, e formi l’uomo a tua somiglianza, l’uomo che è il volto del tuo mistero. La sua sorte tu gli hai svelato, per te egli chiama le cose per nome perché capace di scienza e d’amore, è il compimento dell’opera tua. L’occhio tuo fondo gli hai posto nel cuore perché egli scopra le tue meraviglie e sempre celebri il santo tuo nome la tua bellezza narrando nel canto. A lui affidi i cieli e la terra, gli apri i segreti del tuo universo, con lui agisci nell’unico amore e porti avanti con lui il creato. Gli dai la donna a sua perfezione, l’uomo che sia amico e fratello, con cui insieme soffrire e gioire, Dio che fondi l’eterna alleanza. Ma il lavoro cos’è? Nelle concezioni moderne il lavoro si presenta molto diverso per intensità e organizzazione. Jacques Delors, presidente della Commissione dell’Unione Europea dal 1985 al 1995, afferma: “Il lavoro è il primario integratore sociale oggi a nostra disposizione. Il lavoro orienta, identifica e integra; integra perché crea momenti di solidarietà; orienta perché fornisce ruolo alle persone; identifica perché attribuisce status agli individui”. La citazione è in A. P. JERI, Lavorare stanca. Entrare e uscire dal mondo del lavoro, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, 8. L’autrice, psicologa clinica, si chiede quanto sia ancora attuale tale definizione. In effetti è almeno dimezzata dalla situazione di precarietà lavorativa, e dagli attuali modelli di lavoro (cococo, cocopro, contratti a ore...) E la Bibbia che dice? Nella Bibbia non troviamo un trattato sul lavoro. Essa sembra ignorare o conoscere male il lavoro – vorticoso come lo intendiamo noi oggi -, anche se l’uomo e la donna biblici appaiono sempre impegnati nel lavoro o da esso condizionati. Ma essa, “presa nella sua totalità, se anche non risponde a tutte le nostre questioni, ci introduce nella realtà del lavoro, del suo valore, della sua pena e della sua redenzione”.[1] [1] P. DE SURGY – J. GUILLET, 501. Cfr. anche G. DI PALMA, Il lavoro nei libri sapienziali, in A. BONORA – M. PRIOTTO e Collaboratori, Libri sapienziali e altri scritti, (Logos. Corso di studi biblici - 4) Elle Di Ci, Torino 1997, 423-433. Per sei giorni lavorai e il settimo riposerai Il messaggio biblico inscindibilmente intreccia lavoro riposo e festa per l’equilibrio delle persone e delle famiglie Il riposo sabbatico è il vertice dell’insegnamento biblico sul lavoro Il comandamento del riposo apre la prospettiva di una libertà più piena, quella del Sabato eterno (cfr. Eb 4,9-10). Il riposo consente agli uomini di ricordare e di rivivere le opere di Dio, dalla Creazione alla Redenzione, di riconoscersi essi stessi come opera sua, di rendere grazie della propria vita e della propria sussistenza a Lui, che ne è l’Autore. [CDSC 258] . Creati per il riposo! “Entrare nel riposo di Dio” ci permette di non ricadere in quella disobbedienza che ci allontana dal Signore e, quindi, dal vero significato della nostra esistenza. Sappiamo quanto è attuale, infatti, la tentazione di fare del lavoro un idolo; ma siamo anche consapevoli di dove ci porta questa idolatria. Siamo consapevoli anche di quanta sofferenza comporti non avere o trovare un lavoro, essere stanchi senza avere lavorato … Siamo anche consapevoli che delocalizzazione, globalizzazione, frammentazione fisica del ciclo produttivo, innovazioni tecnologiche, precarietà e flessibilità … sono le “cose nuove”, le nuove sfide di oggi (Mandarina Duck, Ragno, … Fiat Madras, industria meccanica italiana trasferita in Serbia, i cui operai sono recentemente scesi in sciopero per orari massacranti e salario da fame). “Cercavamo braccia, sono arrivate persone!” (Maurizio Ambrosini) Villa Literno, Caserta, Rosarno, Carmagnola COLLABORATORI DI DIO Il lavoro dell'uomo nel NT e la somiglianza al Creatore Nel NT e, in modo particolare nei testi evangelici, il lavoro e le attività umane sono presentati in funzione della novità del Regno di Dio. Un Regno inaugurato da Gesù Signore con la proclamazione della buona notizia e manifestato con le sue opere (Mt 4,23-25). Un lavoro comune: curare il gregge Il lavoro umano si colloca nella stessa scia divina che è quella di rinnovare continuamente il creato fino a portarlo alla sua completa realizzazione. Per questo Gesù non esita nel presentare il Padre e anche se stesso nella veste di personaggi tratti dal mondo del lavoro: vignaiolo (Gv 15,1), pastore (Gv 10,1), medico (Mc 2,17), seminatore (Mc 4,3), casalinga (Lc 15,8; Mt 13,33). Il Padre e Gesù indirizzano tutte le loro opere verso un unico traguardo: liberare l’uomo da ciò che l’opprime e blocca la sua crescita e la sua maturazione. L’azione di Gesù è rendere l’uomo libero affinché mediante il suo lavoro possa manifestare la piena somiglianza al Creatore e diventare figlio di Dio (Mt 5,48). Nella prospettiva del NT si supera la tradizione teologica che considerava il lavoro come maledizione divina per la trasgressione di Adamo ed Eva (Gen 3, 19). Lavorare la terra, mangiando il pane con il sudore del proprio volto, non è il prezzo da pagare come punizione per un peccato, ma l’impegno concreto in vista della realizzazione del disegno divino: che l’uomo faccia fruttificare quanto di buono Dio ha messo nelle sue mani (Gen 1,25). Per questo Dio benedice l’uomo e la donna affinché siano fecondi, cioè creativi, e possano contribuire al suo progetto: raggiungere la piena armonia superando ogni forma di caos. Il lavoro umano riflette quello del Creatore, che ha fatto l’uomo e la donna a sua immagine perché diventino come lui creatori: "poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio... nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio"(Rm 8,19.21). Non c’è da rimpiangere un paradiso irrimediabilmente perduto, ma da lavorare alla sua piena realizzazione. Il lavoro umano: il servizio come signoria In una società come quella giudaica dove più delle dottrine contavano i comportamenti, i quali erano regolati fino al minimo dettaglio dalle prescrizioni della Legge, l’attività creatrice con la quale Gesù restituisce vita a quanti ne erano carenti (Gv 5,1-16; 9,1-41), non poteva non provocare la risposta ostile e violenta da parte delle autorità religiose. Nella sinagoga di Nazaret Gesù si presenta come l’inviato di Dio la cui opera sarà la liberazione dei prigionieri e la libertà degli oppressi (Lc 4,18). Questa attività richiama quella che Yahvé aveva realizzato nei confronti del popolo d’Israele quando, liberandolo dall’Egitto, lo fece uscire da un mondo disumano dove era condannato alla schiavitù, la forma più degradata del lavoro, e destinato all’annientamento (Lv 26,13). Il riposo festivo comando e conquista Per suggellare la liberazione del popolo dai lavori forzati e per far gustare la dignità conquistata, nell’alleanza del Sinai si istituisce un giorno di riposo settimanale: "ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato" (Dt 5,15). Questo giorno è memoria della salvezza operata da Yahvé e rende l’uomo come Dio, signore del tempo (Gen 2,2-3). Il sabato, espressione della signoria alla quale l’uomo era chiamato, in quanto immagine di Dio, nel giudaismo era diventato proprio il contrario. Al tempo di Gesù, il sabato serve solo a ricordare che l’uomo è suddito di Dio, sottomesso alla sua Legge, quindi privato della sua autonomia. A causa della dottrina degli scribi e dei farisei, l’osservanza del sabato si era tramutata in un giogo insopportabile, che aveva reso di nuovo l’uomo schiavo non di un nuovo faraone, ma di un codice di norme e di precetti. La contestazione di Gesù L’osservanza del sabato vietava all’uomo ogni forma di attività, fino al punto di sacrificare la sua libertà e la sua dignità. Per contestare questa dottrina Gesù sceglie volontariamente di agire proprio in questo giorno. Egli dimostra così di non accettare nessuna norma esteriore che possa limitare la sua attività creatrice e si appella a Dio per giustificare l’inosservanza del comandamento: "come il Padre mi ha comandato così io faccio" (Gv 14,31). Gesù abolisce il sabato Gesù non trasgredisce il sabato, ma lo abolisce (Gv 5,18), non riconoscendo la validità del comandamento di Mosé, e per questo dichiara: "mio Padre opera sempre e anch’io opero" (Gv 5,17). “Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco” ossia “fino ad ora continua a lavorare e anch’io lavoro”. C’è un lavoro che libera l’uomo e un altro che continua a sottometterlo, privandolo della sua creatività ed emancipazione. Il "fare" di Gesù è sempre mirato a comunicare vita a chi non ce l’ha e, per la realizzazione di questa missione, invita i discepoli a seguirlo, assicurandoli : "io vi farò pescatori di uomini" (Mt 4,19). Compito specifico dei seguaci di Gesù è di continuare quel processo di liberazione che egli ha iniziato. Essi sono "pescatori di uomini", cioè devono estrarli da un ambiente di morte (acqua) per portarli a uno vitale (terra). Al contrario, i rappresentanti dell’istituzione religiosa, per la salvaguardia dei loro interessi, sono pronti a sacrificare la vita del popolo, come Gesù stesso denuncerà: "il ladro non viene se non per rubare, ammazzare e distruggere" (Gv 10,10). A un’opera che comunica vita, si oppone un’altra che l’ostacola e impedisce la sua crescita. Con il suo incessante lavorare Gesù continua l’attività del Padre a favore dell’uomo. Ma questa attività è considerata dalle autorità religiose talmente pericolosa che gli comporterà la condanna a morte: “i [dirigenti] giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non solo violava [sopprimeva] il sabato, ma inoltre chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio" (Gv 5,18). Gesù, per il quale ogni dottrina religiosa che prescinda dal bene dell’uomo non viene da Dio, non si lascia condizionare dalle minacce e ribadisce che è necessario continuare in questa opera di liberazione: "bisogna che io lavori alle opere di colui che mi ha mandato" (Gv 9,4). Come Mosè, Gesù è liberatore Il Signore, che non è venuto per essere servito ma per servire (Mt 20,28), libera l’uomo dalla schiavitù della Legge e lo rende in grado di poter disporre della sua vita per metterla al servizio degli altri. Mentre ogni forma di schiavitù degrada l’uomo privandolo della sua libertà, il servizio, la forma più alta di lavoro, gli conferisce la vera dignità, quella divina (Gv 13,12-17). Un progetto fallito: l’uomo dal braccio inaridito (Mt 12,9-14) Gli ostacoli al progetto creatore di Dio sono presentati nei vangeli come schiavitù della Legge, come dimostra l’episodio di Mt 12,9-14 sulla guarigione di un uomo con il braccio atrofizzato. Nella sinagoga, ambito dell’istituzione religiosa, Gesù constata la penosa situazione del popolo, vittima di un insegnamento religioso che impone con rigore l’osservanza della Legge. Immagine di questo popolo umiliato è il personaggio anonimo caratterizzato dalla sua totale passività: "(Gesù) giunse nella loro sinagoga, dove c’era un uomo che aveva un braccio paralizzato" (vv. 9-10). L’invalidità procede dal fatto che questo individuo ha il braccio paralizzato, senza vita (lett: "inaridito"). il progetto del Dio creatore è la libertà e la signoria dell’uomo, affinché egli possa realizzare in pienezza la sua vita (Gen 1,8.15), mentre nella sinagoga si scopre il fallimento di questo disegno: l’uomo è privato di ogni iniziativa, non può creare perché paralizzato nella sua capacità di agire. Questa mancanza di vitalità e di autonomia è la conseguenza della sottomissione alla dottrina degli scribi e dei farisei, che non solo non permette la realizzazione del progetto di Dio, ma lo annulla dal momento che priva l’uomo della sua libertà (Lc12, 5759: Giudicate da voi stessi ciò che è giusto…). Gesù afferma che in giorno di sabato è lecito fare del bene, quindi invalida la dottrina dei farisei che vogliono imporre all’uomo una situazione di totale sottomissione al codice di precetti da loro stabiliti. Coloro che fanno della Legge uno strumento di schiavitù perdono di vista che l’uomo fu creato a immagine di Dio (Gen 2,27) e che è chiamato ad assomigliargli (Gen 2,26). Quando il modello è la Legge, con la sua osservanza minuziosa alla quale bisogna consacrare tutta la vita, s’impedisce lo sviluppo dell’uomo, la cui unica relazione con Dio è quella dello schiavo con il suo padrone. Trasgredendo il comandamento del sabato con la guarigione dell’uomo dal braccio paralizzato, Gesù recupera il disegno di Dio sull’uomo per portarlo a compimento: "stendere il braccio" significa esercitare la capacità di azione, che gli permette di realizzarsi pienamente. Il Dio di Gesù è un Padre che comunica vita all’uomo per innalzarlo al suo stesso livello, poiché costui non è stato creato permettersi a servizio di Dio, ma per somigliargli come creatore. Mediante il lavoro l’uomo esprime la sua creatività e nel riposo gusta, come Dio, l’opera delle sue mani. La reazione dei farisei alla liberazione operata da Gesù è immediata: "uscendo i farisei si misero subito a tramare contro di lui, per farlo morire" (Mt 12,14). Non si limitano a denunciarlo come trasgressore, ma pianificano direttamente la sua morte. L’opera creatrice con la quale Gesù restituisce all’uomo con il braccio paralizzato la capacità di libertà e di azione che Dio gli aveva dato (Gen 1,28; 2,5), è considerata dai farisei come una bestemmia e come tale meritevole di morte (Lv 24,16). Il nuovo progetto: essere somiglianti al Padre (Mt 25,14-30) La parabola dei talenti presenta un’interessante riflessione su come l’uomo, con il suo lavoro, può realizzare su di sé il disegno del Padre. Il contesto della parabola è quello del mondo degli affari, dove un uomo molto ricco consegna ai suoi funzionari (lett."servi") prima di partire un enorme patrimonio. I beni non li dà in custodia ma li consegna ai suoi funzionari, trasferendo loro i pieni poteri su di essi. Lavoro migrante per salari da fame … pagati da cristiani ? Ogni funzionario riceve secondo la capacità che gli è propria : cinque talenti, due, uno. L'uomo pertanto affida ai suoi funzionari una grandissima fortuna fidandosi solo delle loro capacità, senza pretendere garanzie. I primi due si mettono immediatamente al lavoro per far fruttare il dono ricevuto, poiché considerano gli affari del padrone come propri. Chi ha ricevuto cinque talenti, li impiega e ne ricava altre cinque, guadagnando la stessa quantità di denaro ricevuta. Così fa anche colui che ne ha ricevuto due. Poco importa la somma ricevuta, ciò che conta è l’aver fatto fruttare il dono ricevuto. Entrambi si sentono realizzati, si riconoscono uguali nella diversità. Il terzo funzionario, a differenza dei primi due, seppellisce il talento perché non lo ritiene suo, ma del suo padrone. Secondo il diritto rabbinico chi sotterrava il denaro che gli era stato affidato, non era tenuto alla restituzione o al risarcimento in caso di furto (B.M. 42a). Ma il fatto in sé di mettere sotto terra il bene ricevuto ricorda la morte con i suoi rituali. Seppellendo il talento seppellisce se stesso. L’incontro del padrone con i suoi funzionari avrà risvolti diversi. Quando incontra il primo di essi, costui gli presenta i talenti ricevuti più altri cinque guadagnati, dimostrando come ha saputo usare il dono ricevuto. A questo punto della parabola si presenta un paradosso: i cinque talenti (circa 150 chilogrammi d'oro) vengono ritenuti "poco" dal padrone che, non solo lascia il funzionario in possesso dei cinque talenti guadagnati e dei cinque che gli aveva affidato, ma lo invita a prendere parte al suo molto, facendolo partecipe di tutti i suoi averi. Al secondo funzionario il padrone concede la stessa ricompensa del primo, anche se il numero dei talenti ricevuti e guadagnati sono differenti. Non conta la quantità, ma l’impegno di aver fatto produrre ciò che era stato donato secondo le proprie capacità. Il secondo funzionario entra anche lui a far parte dei beni del signore, della sua gioia. E’ finita la distinzione tra servi e padroni, ora tutti sono signori (cf Gv 15,15). Ciò che veramente conta è diventare ed essere signori attraverso quel che si è ricevuto, sia esso molto o poco. E’ un signore straordinariamente generoso il protagonista della parabola, che non solo regala i talenti affidati e quelli guadagnati ai suoi funzionari, ma addirittura fa loro parte di tutto il suo capitale. Nonostante questo, l’ultimo funzionario ha un'immagine diversa del suo padrone, lo ritiene una persona avida e crudele che miete e raccoglie dove non ha seminato. (Dipende dagli occhi e dal cuore di chi guarda …) L'insegnamento della parabola è che una falsa immagine di Dio può bloccare il processo di crescita della persona che, per paura di commettere errori, non rischia e quindi non fruttifica i doni ricevuti. Il timore viene rimproverato in quanto paralizza la crescita dell'uomo. A quanti invece fanno fruttare i doni ricevuti, viene aumentata la capacità di produrre in una misura che non è dovuta allo sforzo della persona, ma alla generosità del Signore. La parabola dei talenti rappresenta il passaggio tra il lavoro del servo e la sovranità del padrone. Un ponte dalla condizione umana alla gioia divina, in quanto il desiderio di Dio è che l’altro possa accedere a quello che egli è, partecipando alla sua gioia (Gv 15,11). "Entra nella gioia del tuo Signore" Gesù ha rivelato il volto del Dio creatore, un Dio che è sempre all’opera, e il cui lavoro fin dalle origini è presentato come attività armonica. Il Creatore chiama l’uomo ad assomigliargli e lo fa partecipe del suo progetto di vita sull’umanità, affinché essa raggiunga la sua perfetta armonia. L’importanza della realizzazione di questo disegno è talmente grande che Gesù coinvolge i discepoli come "operai" affiancandoli all’opera del Padre e chiedendo di pregarlo perché mandi altri "operai" che collaborino in questo progetto. La proposta del Regno contempla il lavoro umano come la risposta al dono ricevuto da Dio. Lavorando per il Regno l’uomo riceve dal Padre ogni forma di aiuto nell’opera da realizzare e diventa suo "collaboratore". Per essere uguali al Padre I credenti sono consapevoli che non si lavora per ubbidire a un comando o solo per ricevere un salario, ma per essere uguali al Padre: creatori come lui, capaci di moltiplicare l’atto creatore (Gv 6,11), trasformando il mondo per renderlo secondo il disegno divino. In questo compito essi sono accompagnati dal "Signore che opera con loro" (Mc 16,20) e prolungano con il proprio lavoro le sue opere: "Vi assicuro, chi crede in me farà anche lui le opere che io faccio; e ne farà di più grandi (Gv 14,12). Un compito di tenerezza un lavoro umano, che permetta di assaporare le relazioni che lasci spazio per la crescita degli affetti per accompagnare la crescita dei figli e il loro arrivo alle cime più alte … Appello per «una coalizione mondiale in favore di un “lavoro decente” «I poveri in molti casi sono il risultato della violazione della dignità del lavoro umano» afferma Benedetto XVI (CiV n. 63). Già Giovanni Paolo II, il 1 maggio 2000, durante il Giubileo dei Lavoratori lanciò un appello per «una coalizione mondiale in favore del lavoro decente». La famiglia umana aspira ad un «lavoro decente». «Che cosa significa la parola “decenza” applicata al lavoro? Significa un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: è “decente” un lavoro scelto liberamente; che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; è “decente” un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa. “Decenza”, quindi, uguale “espressione della dignità dell’uomo e della donna”, in tutte le fasi della loro vita (lavorativa). Nella LE il lavoro è decente quando «è per l’uomo». Da cristiani, quindi, siamo chiamati a guardare il lavoro illuminati dalla fede, dalla speranza e dalla carità: virtù teologali, doni di Dio che sogna la sua creatura con lo sguardo pulito, vero, felice. Gesù, uomo del lavoro [LE 26] dirà: "mio Padre ed io siamo sempre all’opera“. (Gv 5, 17). «Colui il quale essendo Dio è divenuto simile a noi in tutto, dedicò la maggior parte degli anni della sua vita sulla terra al lavoro manuale, presso un banco di carpentiere [1]. Questa circostanza costituisce da sola il più eloquente “Vangelo del lavoro”…» (LE 6). [1] Cfr. Mt 13,55; Mc 6,3; Lc 2,51. “Gesù uomo del lavoro” “Nella Sua predicazione Gesù insegna ad apprezzare il lavoro, lavoro manuale che lui stesso ha eseguito come carpentiere insieme a Giuseppe. Insegna agli uomini a non lasciarsi asservire dal lavoro. Essi devono preoccuparsi prima di tutto della loro interiorità; guadagnare il mondo intero non è lo scopo della loro vita. Durante il Suo ministero terreno, Gesù lavora instancabilmente, compiendo opere potenti per liberare l’uomo dalla malattia, dalla sofferenza e dalla morte. L’attività umana di arricchimento e di trasformazione dell’universo può e deve far emergere le perfezioni in esso nascoste. Il lavoro rappresenta una dimensione fondamentale dell’esistenza umana come partecipazione non solo all’opera della creazione, ma anche della redenzione. [Compendio DSC nn. 259-263 ] “Il dovere di lavorare” È un ulteriore passaggio, che si basa soprattutto sulle lettere di San Paolo. Egli mette in evidenza come la consapevolezza della transitorietà della « scena di questo mondo » (cfr. 1 Cor 7,31) non esonera da alcun impegno storico, tanto meno dal lavoro (cfr. 2 Ts 3,7-15), che è parte integrante della condizione umana, pur non essendo l’unica ragione di vita. Nessun cristiano, per il fatto di appartenere ad una comunità solidale e fraterna, deve sentirsi in diritto di non lavorare e di vivere a spese degli altri. Il diritto-dovere di Non lavorare troppo Di riposare Di coltivare la vita relazionale culturale religiosa/spirituale « Chi non vuol lavorare, neppure mangi » Scrive San Paolo ai cristiani di Tessalonica (2Ts 3,6-10): «6 Vi ordiniamo pertanto, fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, di tenervi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata e non secondo la tradizione che ha ricevuto da noi. 7 Sapete infatti come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, 8 né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. 9 Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. 10 E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi. » I Padri della Chiesa non considerano mai il lavoro come «opus servile» - tale era ritenuto, invece, nella cultura loro contemporanea -, ma sempre come «opus humanum», e tendono ad onorarne tutte le espressioni. Mediante il lavoro, l’uomo governa con Dio il mondo, insieme a Lui ne è signore, e compie cose buone per sé e per gli altri. L’ozio nuoce all’essere dell’uomo, mentre l’attività giova al suo corpo e al suo spirito. Il cristiano è chiamato a lavorare non solo per procurarsi il pane, ma anche per sollecitudine verso il prossimo più povero, al quale il Signore comanda di dare da mangiare, da bere, da vestire, accoglienza, cura e compagnia (cfr. Mt 25,35-36). Ciascun lavoratore, afferma sant’Ambrogio, è la mano di Cristo che continua a creare e a fare del bene. Regola di S. Benedetto Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano: "L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio. ..... Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino, perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli. Tutto però si svolga con discrezione, in considerazione dei più deboli. ....." La voce del Concilio Tutta l'attività economico-sociale ha l'uomo come autore, centro e fine ( Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes 63 ) 5) I beni economici sono per tutta l'umanità ( "Destinazione universale dei beni", Conc. Ecum.Vat. II, Gaudium et spes 69 ) Il Magistero della Chiesa È ripetutamente intervenuto sulla questione del lavoro, soprattutto con l’avvento della rivoluzione industriale, a partire dalla lettera enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII del 1891. Tale insegnamento è stato ripreso con forza da Giovanni Paolo II, forte anche della sua personale esperienza del lavoro di cui rende testimonianza nel primo capitolo del libro “Dono e Mistero”, con tre encicliche: la “Laborem exercens” del 1981 scritta per il 90° della “Rerum Novarum”, la “Sollicitudo rei socialis” del 1987 in occasione del 20° della “Populorum progressio” di Paolo VI e la “Centesimus annus” nel centenario della “Rerum Novarum”. Al centro dell’insegnamento di papa Wojtyla la riaffermazione di tre primati: dell’uomo sul lavoro, del lavoro sul capitale e della destinazione universale dei beni rispetto alla proprietà privata. Il lavoro è per l’uomo, non l’uomo per il lavoro. L’importanza dei sindacati Questi insegnamenti vedono anche la riaffermazione dell’importanza che rivestono le istituzioni sociali e politiche nell’ambito lavorativo, del diritto di associarsi allo scopo di difendere le esigenze e gli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni.[1]. [1] Giovanni Paolo II “Laborem exercens”, cap. 20 “L’importanza dei sindacati” Con il suo lavoro e la sua laboriosità, l’uomo, partecipe dell’arte e della saggezza divina, rende più bello il creato, il cosmo già ordinato dal Padre; suscita quelle energie sociali e comunitarie che alimentano il bene comune, 581 a vantaggio soprattutto dei più bisognosi.[C.D.S.C, Cap. VI “Il lavoro umano” nn. 264-266] Possiamo quindi affermare che il lavoro nella visione cristiana appartiene alla vicenda dell’uomo, ne è parte rilevante e identitaria. Il lavoro come una questione antropologica prima che sociale e storica. Il Vangelo del lavoro [è la “Buona Notizia”!], che manifesta come il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non sia prima di tutto il genere di lavoro che si compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una persona. Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non nella sua dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva»[1]. [1] LE 6. Il lavoratore ieri e oggi Se in passato la lotta era tra il dipendente e il proprietario di capitali, ora lo scontro fatto di discriminazione e di emarginazione è dato dal rapporto superiorità/inferiorità culturale. (700.000 schiavi del lavoro in Italia, 2012) L’industrializzazione porta ad una crescita dell’uomo? Si pensava che la macchina liberasse il lavoratore da un’attività tediosa e ripetitiva, che aumentasse le professionalità. Di fatto la tecnologia libera la persona da un eccessivo sforzo fisico, aumentando forse il suo tempo libero, ma tende ad avere altre conseguenze negative sulla sua salute fisica e mentale. La mobilità ad esempio crea problemi di cambiamenti o di perdita del lavoro con la successiva pressione della ricerca di un nuovo impiego. Mancano valori religiosi ed etici. C’è la tendenza a far diventare gli strumenti di lavoro dei fini. Lo tzunami della finanza l’evoluzione delle attività umane e la progressiva espansione dei commerci hanno determinato la crescita dell’importanza dell’aspetto finanziario nell’economia, modificando gli equilibri e determinando, soprattutto in tempi recenti, migrazioni di popolazioni ed una sempre più evidente frattura tra la produzione e il territorio favorita dal basso costo logistico dei trasporti. Questi fenomeni sono stati amplificati dall’evoluzione storica recente conseguente alla caduta del muro di Berlino e dall’imporsi di quel processo che chiamiamo globalizzazione determinando scelte di investimenti industriali in base alla redditività, al minor costo del lavoro e delle retribuzioni. Spaventosa speculazione Non posso trattare qui le questioni che derivano da queste vicende ma va affermato con chiarezza che non possiamo più sottovalutare le scelte che, anche singolarmente e quotidianamente, facciamo in ambito economico, assumendo sino in fondo la coscienza che tutto si lega. D’altra parte la crisi che stiamo vivendo e che tanto ci spaventa è frutto di una spaventosa speculazione economica resa possibile dalla assenza di una politica capace di controllare e governare le scelte economiche. Jeremy Rifkin già nel 1995 in un suo famoso libro [1] espone le sue tesi sulla fine del lavoro. Al di là della condivisibilità della teoria appare quanto mai importante l’affermazione di una rivisitazione critica della globalizzazione insieme alla prospettiva di speranza che troviamo al termine dell’analisi delle grandi ristrutturazioni che hanno generato masse di disoccupati, riflessione attualissima vista la congiuntura internazionale: infatti l’autore rivaluta il cosiddetto terzo settore, ovvero il no-profit applicato ai servizi di utilità sociale. [1] Jeremy Rifkin “La fine del lavoro” Baldini & Castoldi, Milano, 1997 che cosa è importante? Seneca nelle Questioni naturali, verso la fine della sua vita, all’inizio del primo millennio si chiedeva: “che cosa è importante?”[1]. Egli invitava a distinguere coraggiosamente tra diritto romano e diritto di natura, tra gli schiavi della vita politica e gli schiavi di sé stessi: “Che cosa è importante? Tenere la vita a fior di labbra: questo rende liberi non in virtù del diritto romano, ma in virtù del diritto di natura. E libero è chi si è sottratto alla schiavitù di sé stesso: questa è continua e ineluttabile e opprime giorno e notte senza intervallo e senza pausa”.[2] Anche per noi, uomini e donne dell’inizio del terzo millennio, quella domanda di Seneca, “emblema della saggezza”,[3] si rivela decisiva: che cosa è veramente importante nella vita degli uomini e delle società? [1] Prefazione al III libro delle Questioni naturali. [2] Libro III, Pref 16. [3] Così A. PELLEGRINI, Il ragionamento come equazione algebrica, in “L’Osservatore Romano”, 15-16/11/2004: “Seneca rimane l’emblema della saggezza. Perché, quasi sempre, è umano soltanto colui che sbaglia e che, nel commettere un errore, ha il coraggio e la forza di andare avanti. … Seneca comprende che soltanto alla fine del percorso c’è la vera essenza dell’uomo. Che poi, a ben vedere, dista solo un passo dal divino. … ”. Recensione a S. FABBRI, BUR 2004, dal titolo Vizi e virtù dell’animo umano, contenente alcuni dialoghi del filosofo stoico di Cordova. L’urgenza di cercare risposte - non solo scientifiche, economiche o morali, ma anche sociali e giuridiche, religiose e spirituali - è cresciuta in modo vertiginoso e riguarda praticamente l’esistenza intera dell’uomo e di tutti gli uomini. Riguarda anche il cosiddetto “umanesimo europeo”, bisognoso di riscoprire le radici cristiane, greche e romane.[4] [4] L’accademico di Francia Marc Fumaroli, in occasione della firma della Costituzione europea a Roma, nell’ottobre 2004, ha dichiarato: “Proprio nel momento in cui l’Europa politica, economica, monetaria e costituzionale è così vicina a realizzarne il sogno, siamo minacciati dal crollo di ciò che per secoli aveva costituito la sua unità profonda e progressiva. (Sta crollando) l’umanesimo europeo. Inteso non come il vago amore dell’umanità, ma come l’educazione di uomini e donne ricchi di un’esperienza più lunga della propria. Qualcosa che comprende e supera le radici cristiane sulle quali si è tanto dibattuto, ma che si fonda anche su radici greche e romane. … Non bisogna fare del cristianesimo ridotto all’etica l’unico valore fondante. Il cristianesimo ha trasportato con sé la filosofia, la retorica, i costumi dell’antichità greca e latina”: in S. MONTEFIORI, Ora va salvaguardata l’anima comune. L’umanesimo fonte della nostra civiltà, in “Corriere della sera”, 30.X.2004. La saggezza biblica forgia anche oggi la vera grandezza dell’uomo, invitandolo a scartare tutte le cose non importanti: “Non lodare un uomo per la sua bellezza / e non detestare un uomo per il suo aspetto. / L’ape è piccola tra gli esseri alati, / ma il suo prodotto ha il primato fra i dolci sapori. /… Molti sovrani sedettero sulla polvere / e uno sconosciuto cinse il loro diadema” (Sir 11,2.5). Il Vangelo ricorda: “Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?” (Lc 12,25). Voglio concludere con un riferimento a San Francesco: con la sua testimonianza ci richiama al rispetto, all’assoluto e totale amore per la natura, che lui vedeva come opera mirabile di Dio. Troppe volte il lavoro diventa causa di inquinamento dell’ambiente, di morte per i lavoratori. È un ambito in cui l’impegno, nostro personale e collettivo, non è mai sufficiente. Lavorare per la pace Insieme a questo è indispensabile un vero impegno per la Pace, il bene più importante cui dedicare tutta la nostra attenzione anche attraverso una revisione dei nostri stili di vita, come ha raccomandato più volte ripetutamente a Milano – la più estesa diocesi del mondo - il cardinale arcivescovo Dionigi Tettamanzi [1], con una forte attenzione alla solidarietà, alla sobrietà e alla povertà. [1], Dionigi Tettamanzi, Natale Notte Omelia MilanoDuomo, 24 dicembre 2008; Incontro con gli amministratori, gennaio 2009 Adottare la Bibbia come codice di ciò che è veramente importante e bussola verso il futuro, significa ritrovare la sorgente della nostra “capacità progettuale”. Ne parlava in questi termini il vescovo Tonino Bello: “Mi sembra molto importante che la vostra comunità parrocchiale possa qualificarsi come «punto vendita» di speranza per tutto il territorio. La gente, cioè, deve capire che voi siete non tanto dei «consumatori di riti», ma delle persone che progettano insieme un futuro diverso, più umano, più vivibile per tutti, e che questa capacità progettuale la maturate insieme nell’ascolto convinto della parola di Dio, nella celebrazione dell’Eucaristia e nel vivere la storia con l’anima del buon samaritano”.[1] [1] A. BELLO, Articoli, corrispondenze, lettere, notificazioni, (Scritti di Mons. Antonio Bello, 5), Molfetta 2003, 120. Questa idea di rinnovamento della comunità parrocchiale proviene da uno scritto del 1991 per il bollettino della parrocchia Immacolata di Molfetta. Mons. Bello, vescovo di Molfetta – Ruvo – Giovinazzo Terlizzi (1982-1993), ha lasciato una forte impronta profetica e pastorale nella società e nella Chiesa italiane. Il futuro è La cura della Terra La cura di sé La convivialità La contemplazione La creatività Il riposo anticipo dello shabbat eterno per il quale siamo stati/e creati/e! Il futuro è la Parola “la Chiesa ha raccolto, spesso, sfide che non si aspettava di vedersi proporre e che la società civile rifiutava di affrontare. Qualcosa del genere succederà anche nella nuova epoca che si è aperta. Se avremo un’autentica proposta culturale, troveremo uomini e donne desiderosi di condividerla, per esserne promossi e liberati. E dev’essere sui valori fondamentali, cominciando da quelli più spregiudicati … Il futuro è la Parola, che era il principio!”.[1] [1] S. FAUSTI, Il futuro è la Parola, Piemme, Casale Monferrato 2000, 85. Principio comunione di DioTrinità Le braccia del Padre e il soffio dello Spirito sostengono il Figlio dell’Uomo – e in Lui ogni figlio/a d’uomo - nel tempo della prova Trinità Masaccio TESTMONIANZA Ora lasciamo la parola ad EZIO, che ci porta un esempio di vita concreta, vissuta in quest'ottica.