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1 Roberto VIGNOLO 3. Maschera e sindrome regale: interpretazione

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1 Roberto VIGNOLO 3. Maschera e sindrome regale: interpretazione
Roberto VIGNOLO
3. Maschera e sindrome regale: interpretazione ironicopsicanalitica di Qoh 1,12-2,26. *
3.1. Titolature a confronto.
Si parla per Qoh di finzione o «parodia» regale,1 intendendo con essa
quella maschera ufficialmente consegnatagli come autore con il titolo
della cornice editoriale di apertura: «Parole di Qohelet figlio di Davide
re in Gerusalemme» (Qoh 1,1), e da lui prontamente indossata sotto gli
occhi di tutti («Io, Qohelet, sono re su Gerusalemme...»: 1,12ss. ).2 Sollecitato fin dal primo versetto, l'effetto di comicità prende più evidente
rilievo dal confronto con le altre due titolature salomoniche di Pr 1,1
(«Proverbi di Salomone, figlio di Davide, re d'Israele»), e di Ct 1,1 («Il
più bel cantico di/per Salomone») che ne risultano perfettamente
sprovviste. Prescindendo qui dalla verifica storico-critica intorno al tasso di pseudoepigrafia, perfettamente plausibile secondo la tradizione
biblica suona la paternità salomonica di Proverbi, in quanto attribuita
all'effettivo diretto erede di Davide, re di Giuda e d'Israele, rinomato
autore di migliaia di meshalîm (1 Re 5,9-14). Per qualunque lettore minimamente competente circa la tradizione d'Israele la storicità di questa figura, la sua diretta discendenza davidica, la sua stessa «paternità»
* Pur leggibile anche autonomamente, il presente saggio fa seguito ideale e reale (anche per la numerazione dei paragrafi) a quello apparso
nel precedente numero di «Teologia» 25 (2000), 217-240, intitolato: La poetica ironica di Qohelet. Contributo allo sviluppo di un orientamento critico, che precisa i termini entro cui l’ironia e la psicanalisi convengono alla lettura di Qoh, (in specie di Qoh 1,12-2,26). Colà viene
indicata pure la bibliografia specifica, qui integrata e riproposta secondo diretta necessità.
Per il profilo ironico di Qoh sono grato all’amico Carlo Rivolta, attore e regista. Da oltre dieci anni prestando a questo libro voce
e gesto, e quindi restituendogli quel respiro di oralità quale suo intrinseco fattore ermeneutico, mi ha sollecitato ad intenderne la portata ironica come nessun studio a tavolino consentirebbe.
Per il profilo psicanalitico ringrazio vivamente il collega prof. Mario Aletti e il dott. Giovanni Malinverni per le loro preziose
segnalazioni e per il proficuo scambio d’idee.
1 In merito particolarmente illuminante il contributo di R. LUX, "Ich, Kohelet, bin König..." Die Fiktion als Schlüssel zur Wirklichkeit in Kohelet 1,12-2,26, «Ev Theol» 50 (1990) 331-341.
2 Con buona probabilità hayyîtî andrà meglio tradotto al presente piuttosto che al passato, trattandosi infatti di un pf. stativo (con lo stesso
verbo anche in Qoh 7,19; Gen 26,28; 32,11; 42,11; Sl 88,5. Per questa traduzione, cfr.O. LORETZ, Qohelet und der Alte Orient. Untersuchung zu Stil un theologische Thematik des Buches Qohelet, Herder Freiburg i. Breisgau 1964, 62ss.; B.ISAKSSON, Studies in the Language
of Qohelet. With Special Emphasis in the Verbal System, Uppsala 1987 50 ss., e prima di loro già HERTZBERG e ODEBERG). Più recentemente H.P. MÜLLER, Theonome Skepsis und Lebensfreude - zu Koh 1,12-3,15, in BZ 30 (1986) 1-19, giustamente osserva come sia qui evitata la frase nominale, in quanto eliminerebbe sia il valore apposizionale di «Qohelet» rispetto a pronome «io», sia quello predicativo di «re»
(ivi, 3). Analogamente BACKHAUS, ...denn Zeit und Zufall trifft sie alle... Studien zur Komposition und zum Gottesbild im Buch Kohelet,
(BBB 83), Bonn 1993, 88 n.26, e “Es gibt nichts Besseres für den Menschen” [Koh 3,22]: Studien zur Komposition und zur Weisheitskritik
im Buch Kohelet (Bonner Biblische Beiträge, 121). Bodenheim, Philo, 1998, 198 n.37, solo con puntuazione diversa («io sono Qohelet! Io
sono re...»). Questa traduzione suggerisce una finzione ancor più immediatamente palese all'uditorio originario.
1
autoriale sul Libro si propongono come notizie tutte credibili. Referenziali, o pseudoreferenziali, ovvero mixaggio fra le due, le informazioni
di Pr 1,1 risultano omogenee ad un certo contesto letterario e tradizionale: l'attribuzione salomonica trova infatti conforto non solo intratestuale (cfr. Pr 1,1 con 10,1; 25,15), come del resto avviene per il Cantico (e anche per Qohelet, sempre con riferimento a questa titolatura),
ma addirittura intertestuale. Neanche l’ombra d'ironia quindi in Pr
1,1,3 né in Ct 1,1.
Completamente diverso il discorso per Qoh 1,1, dove entro un titolo convenzionale per la letteratura sapienziale e innica,4 spicca una
denominazione anomala. E non solo per la terminazione al femminile
corrispondente ad un ruolo,5 piuttosto che ad un nome proprio. Trai
discendenti davidici un soggetto così designato risulta infatti extra nu-
merum, poiché nessuno passa sotto questo nome. Sganciato da ogni datazione, sprovvisto di ulteriori dettagli indiretti, nonché spudoratamente anacronistico stante la ben databile sparizione del regno davidico
con capitale Gerusalemme dal tempo dell'esilio babilonese, questo titolo emette segnali di pura finzione,6 e non di pseudonimia salomonica
(che, con buona pace della consuetudine presto invalsa nella tradizione
ebraico-cristiana, e tuttora vigente par piuttosto da escludersi).7 A Qoh,
come pure al suo stesso editore, par del tutto alieno l'interesse a gua-
3
L'attribuzione salomonica presumibilmente rivendica per Israele un peso specifico entro la più antica sapienza mediorientale già largamente affermata soprattutto in Egitto (sicché la Pr 1,1 avrebbe semmai una connotazione vagamente polemica, ma non ironica).
4 Cfr. In merito C.H. SEOW, Ecclesiastes, (AB 18C), Doubleday New York 1997, 95.
5 L'indicazione di un ruolo (7,29; 12,8: con art.), passa successivamente a identificare il suo portatore nei termini di un nome d'arte e di funzione (1,1.12: senza articolo). Per la terminazione al femminile, cfr. Esd 2,55.57. In merito al senso di questo appellativo, oltre ai commentari, cfr. D. MICHEL, Qohelet, (EdF 258), Wissenschaftliche Buchgeselleschaft, Darmstadt 1988, 1-8.
6 R. LUX, cit, giustamente richiama al fatto che finzione non è sinonimo di irreale. Non a caso finzione è una figura della casistica giuridica,
con cui, a partire da premesse e condizioni, si ricava una normativa per l'esistente e per l'eventuale. Quanto al problema del suo riferimento
alla verità, LUX ricorda anzitutto che la finzione non mente! Qoh agisce come un attore che si maschera direttamente in scena, sotto gli occhi di tutti. Il testo manda consistenti segnali, sufficientemente evidenti anche per il lettore attuale competente, ma che dovevano esser ancora più trasparenti per il destinatario originario direttamente alle prese con Qoh nella performance di questo mashal sapienziale (analogo
alle azioni simboliche prodotte dai profeti).
7 Pace SEOW, 97-99. Il riferimento della radice qhl al Salomone di 1 Cron 28,1.8; 29,1 ecc., come pure l'idea di Salomone «raccoglitore» di
ogni bene per sé, proprio come lo stesso Qohelet, pare davvero fragile per portare il peso di una pseudoepigrafia, piuttosto che di una semplice somiglianza. Più pertinente O. LORETZ, 160, a proposito di Qoh 1,1.12ss.: »l’autopresentazione di Qohelet come re con la descrizione
dello splendore regale va inteso tutto senza particolare riferimento a un determinato re d’Israele. ... Nella descrizione dei suoi successi regali
Qohelet non propone alcuna identificazione con un determinato re della storia d’Israele, nemmeno con Salomone. Egli si attribuisce un grande successo in tutto quel che aveva significato per un re dell’oriente antico».
2
dagnarsi autorevolezza con l'espediente della pseudoepigrafia.8 Non un
nome illustre del passato serve a Qoh, bensì più semplicemente una
maschera, come tutte le maschere dissimulatrice del soggetto in carne
ed ossa che l’assume, e quindi garante della più totale parrhesia, capace di trasformare non solo l’interprete ma anche il suo pubblico, affascinando, inquietando, ridicolizzando entrambi con l’aura comunque
sempre un po’ sacrale di ogni travestimento.9 Nel nostro caso una maschera regale per una raffigurazione la più altomimetica,10 universale,
nonché spettacolare possibile. La critica dell’eccesso (poiché, come vedremo, di questo si tratta) attraverso la messa in scena, postula un suo
proporzionale espediente.
Al destinatario minimamente competente intorno alla tradizione
d’Israele la titolatura (e poi la performance) di Qoh suona quindi fitti-
zia e comica in rapporto al personaggio designato locutore. La disinvolta esibizione di chi si mostra nell'atto stesso di celare e svolgere la propria identità/funzione di sapiente al riparo di una maschera regale,11 è
un gesto al tempo stesso fortemente autoreferenziale e intensamente
comunicativo, di quelli che anche a un pubblico non eccessivamente
acculturato regalano un tocco di pronta, complice comicità, saggiamente mediata dalla distanziazione consentita dalla maschera (che frena un
troppo diretto transfert dello spettatore a carico della personalità in
8
Quest'ultima può computarsi come plusvalore aggiunto dalla successiva recezione dell'opera, che - allettata dalla congruenza canonica con
Pr 1,1; Ct 1,1 - ha optato molto presto per un'interpretazione ad litteram - ma di per sé nient'affatto necessaria - del titolo «figlio di Davide»
(Qoh 1,1). Le effettive allusioni a Salomone, più che una pretesa di diretta identificazione, sono piuttosto indispensabile ingrediente della
parodia che deve esibire una figura massimale, e quindi affine alla singolarità salomonica («come te nessuno mai»: 1Re 3,13; cfr. Qoh 1,1213). Notare poi che la costruzione del tempio, come pure l'amministrazione della giustizia sono passate completamente sotto silenzio: due
tratti salomonici difficilmente rinunciabili per una più diretta identificazione pseudoepoigrafica (come farà puntualmente Sap 9,7-8). Inoltre,
mentre Qoh dà come per scontato il proprio divino «dono di sapienza» (Qoh 1,12ss.) eretto a «metodo» per le proprie grandi imprese, al contrario Salomone parte invocando e ottenendo il dono della sapienza (3,12), e con lei tutto il resto riconoscendo la propria piccolezza (1Re
3,7-8) (analogamente nella tradizione egiziana: cfr. L. KALUGILA, The Wise King. Studies in Royal Wisdom as Divine Revelation in the Old
Testament and its Environmennt (Con Bibl - Ots 15), Lund 1980, 110-111). Inoltre egli vede Dio in sogno, come un profeta (niente di tutto
questo per Qoh).
9 Desumo questa fenomenologia della maschera da L. FLORENNE, Masque, in: A. SOURIAU (dir.), Vocabulaire d'esthétique, PUF Paris
1990, 988-989, e da P. PAVIS, Dizionario del Teatro (a cura di P. Bosisio) Zanichelli Bologna 1998, 235-6.
10 Anche Ct 1,1 titola con un superlativo specificamente entusiastico, con cui contrasta quello evanescente del motto di Qoh (1,2;12,8). E
ancora il Ct apre con maschere regali (altomimetiche: lui re, lei regina -1,4.12; 3,6-11; 7,1-7; 8,11ss.; nonché pastorali, ovvero bassomimetiche: 1,7): cfr. H.-P. MÜLLER, Travestien und geistige Landschaften. Zum Hirtengrund einiger Motive bei Kohelet und im Hohenlied,
«ZAW» 109 (1978) 238-263.
11 «Ogni maschera ha due funzioni. Dà a chi la porta la possibilità di nascondervisi, e, nello stesso tempo gli schiude l'occasione di presentarsi sotto le spoglie di un altro. Cancella l'identità e rende difficile l'identificazione. Anzitutto, in apertura di un testo di finzione, incontriamo segnali che hanno la funzione di una maschera» (LUZ, 335).
3
carne e ossa che si maschera).12 Nel segno una candida e sfacciata antifrasi, la presentazione (1,1) e quindi la prima mossa di Qoh (1,12ss.),
emettendo un primo segnale di comicità, promettono quell’ironia, satira, e parodia13 presumibili per ogni travestimento (perché mai Qoh, che
non lo è, si finge re davidico? A chi fa il verso? Cosa comunica ed effettivamente intende questa sua regal finzione?).
3.2. Polivalenza della maschera regale
Con ottima probabilità questa maschera intrattiene qualche funzione,
se non proprio satirica, quantomeno parodistica rispetto ai modelli
contemporanei di regalità, imperanti in epoca tolemaica (età entro cui
vien perlopiù collocato Qoh),14 per interagirvi criticamente come antimodello (sia pur privo dell’intento riformistico di stampo profetico, di
cui non c’è traccia). Insieme a referenti politici più recenti o a lui coevi,
Qoh può comunque contare su modelli ben più antichi (come Ghilgamesh),15 radicati nel patrimonio culturale mediorientale e al tempo
stesso nell'inconscio collettivo universale, per cui la maschera regale risulta la cifra antropologica più facilmente spendibile16 dell'uomo stimato perfettamente libero, l'unico presunto in grado di assecondare l'insaziabilità di ogni proprio desiderio (1,8; 2,10; 6,7), insomma la metafora nel cuore di tutti meglio predisposta a supportare e spettacolariz12
Cfr. P. PAVIS, cit. 235.
In merito a questi concetti, oltre alla bibliografia citata in VIGNOLO, La poetica ironica, 218 n.2, vedasi pure C. GÉRARD (dir), L’ironie.
Le sourire de l’ésprit, (Autrement. Collections Morales 25) Paris 1988. G. MINOIS, Histoire du rire et de la dérision, Fayard Paris 2000.
Inoltre vedasi le voci relative al tema in A. SOURIAU (dir.), Vocabulaire d'esthétique, PUF Paris 1990 (E. SOURIAU Comique, 434-437; A.
SOURIAU, Humour, 838-840; Ironie, 900-901; Satire 1268-9; D. RIOUT, Parodie, 111!-1111).
14 M. HENGEL, Judaism and Hellenism, SCM Press London 1974, I, 130, n 179, riporta un episodio illuminante, narrato da FILARCO, relativo a Tolomeo II Filadelfo, uomo di gran cultura, che ebbe tuttavia la ingenuità di ritenersi immortale. Tuttavia, in seguito ad un attacco di
gotta che lo tenne a letto per molti giorni, vedendo dalla finestra alcuni suoi sudditi che con gioia mangiavano il loro cibo seduti per terra o
sulle rive del fiume, esclamò: «sono un uomo infelice, poiché non posso diventare come uno di loro!» [FGrHist 81 F 40 (Athen. 12,536e)].
15 Per Qoh 8,16-9,10 PAHK sostiene una esplicita ripresa della tradizione di Ghilgamesh (Me. iii, 1-14): «1. Ghilgamesh, dove stai correndo? 2. La vita che cerchi, certamente non la troverai. 3. Quando gli dei crearono l'umanità, 4. stabiliroino la morte per l'umanità, 5. presero
la vita nelle loro mani. 6. Tu, Ghilgamesh, il tuo stomaco sia pieno, 7. Giorni e notti, tu, (continua a) rallegra(r)ti! 8. Ogni giorno fa' festa!
9. Giorni e notti danza e gioca! 10. Che i tuoi vestiti siano puliti, che la tua testa sia lavata; sii bagnato con acqua! 12 Guarda il piccolo che
prende la tua mano! 13. Possala moglie (continuare a) rallegrarsi al [tuo] petto! 14 Così (è) il comp[ito dell'umanità]» (tr. P.J. Y.-S. PAHK ,
Il canto della gioia in Dio. L’itinerario sapienziale espresso dall’unità letteraria in Qohelet 8,16-9,10 e il parallelo di Gilgames Me. iii.,
Istituto Universitario Orientale. Dipartimento Studi Asiatici (Series Minor LII), Napoli 1996, XV).
16 «Il re rappresenta generalmente la personalità eccezionale che si eleva al di sopra delle limitazioni dell'esistenza comune e si fa portatore
del mito, vale a dire dei messaggi dell'inconscio collettivo» (C. G. JUNG , Opere, Vol 14/2. Mysterium Coniunctionis, Bollati Boringhieri
Torino 1991, 273). In merito alla figura regale, cfr. H.U. von BALTHASAR, Introduzione al dramma. Volume uno di Teodrammatica, Jaca
Book Milano, 1978, 571-578.
13
4
zare il delirio di onnipotenza.17 La portata di questa figura regale in apertura di libro - come già quella di Giobbe, a giudizio del narratore e
di Dio stesso, il più grande, giusto e integro dei figli dell’oriente (cfr.
Gb 1,3.8; 2,3) -18 sta nell'offrire un paradigma massimale adeguato a istruire una iniziazione del desiderio, per la quale nulla di meglio che la
regal figura, come ben sa lo stesso Qoh sapiente che - riflettendo attentamente anche a questo proposito-19 condivide pacificamente questa
popolarissima convinzione:
«A quel che dice il re obbedisci in ragion del giuramento divino! 20 Da lui non
congedarti troppo in fretta, non ostinarti nell'errore! Tutto quello che vuole, il re lo
fa. Sovrana la sua parola! Chi può dirgli: "che cosa vai facendo?"» (8,2-4)
Guardacaso, proprio il vanto del re Qohelet: «alle voglie degli occhi nulla ho rifiutato, ad ogni gioia del cuore mai detto no» (2,10). In
merito la sapienza popolare spende una sentenza arcinota nella formazione dell'infanzia:
«L'erba "Voglio!" non cresce neanche nel giardino del re!».
In realtà Qohelet sa bene con quale rigoglio fiorisca in cuore a
tutti e con quanta fatica si lasci sradicare per lasciar posto ad una più
feconda seminagione. In merito un'interfaccia cruciale viene aperta con
il destinatario del Libro, invitato a seguire - senza inibizione, ma con
avviso a tutto tondo - il corso del proprio desiderio:
«La tua giovinezza, ragazzo, vivi con gioia, goditi i giorni buoni di tua vita, segui le vie del cuore, il fascino degli occhi. Di tutto questo, sai, a render conto ti
chiama Dio!» (11,9).21
17
«Lo si chiama rex, re, roi; e migliore ancora è il nome inglese king, könning, che significa can-ning, uomo che può e sa, uomo capace.
Egli è praticamente per noi la sintesi di tutte le varie forme di eroismo» (T. CARLYLE, Gli eroi e il culto degli eroi e l’eroico nella storia
[1840], Utet Torino 1943, 295).
18 Questa volta non è la vicenda di un giusto benedetto, provato e infine adeguatamente riabilitato, bensì la «storia di un'anima» afflitta da un
narcisistico delirio di onnipotenza (Qoh 1,12ss., e soprattutto in 2,4-11), carico di nefaste conseguenze depressive (2,17-18), finalmente pervenuta ad un suo ridimensionamento (2,24-26). Non si deve dimenticare come il disincanto universalmente riconosciuto a Qoh è da riferire
in primo luogo alla illusoria dismisura circa le attese sapienziali esibita nella mascherata regale. Quanto questo corrisponda ad un’esperienza
poersonale, quanto ad un’artistica messa in scena è perfino ozioso interrogarsi.
19 Oltre che in Qoh 1,1.12; 2,8.12, del re si parla ancora in 4,13; 5,8; 8,2-4; 9,14; 10,16-17.20.
20 Giuramento di Dio al re (sogg.) ovvero del suddito al re davanti a Dio (ogg)? Cfr 1 Re 2,43. Diversa traduzione in L. MAZZINGHI, Qohelet, in: I Libri di Dio. La Bibbia III. La Sapienza d'Israele. Salmi, Giobbe, Proverbi, Cantico dei Cantici, Oscar Mondadori, Milano 2000,
353-385 (ivi 371) per ragioni di sticometria («Osserva gli ordini del re, e per ciò che hai guirato davanti a Dio, non ti preoccupare! Vattene
dalla sua presenza, non restarvi quando le cose vanno male, perché lui può fare tutto ciò che vuole...»).
21 hepes nel senso di affare (Qoh 3,1.17; 5,7; 8,6). Nel senso di desiderio (5,3; 8,2; 12,1.20). In 8,3 la radice verbale. Una geniale epopea
della logica del desiderio unitamente ad una parabola del rapporto lettura/vita offre l’opera di M. ENDE, La Storia Infinita dalla A alla Z, (La
Gaia Scienza 39) Longanesi Milano.1981.
5
Aprendo con la maschera regale Qoh elabora un autore implicito/ideale che funge da specchio e doppio, propositivo quindi di un
modello mimetico allettante per il proprio lettore, soprattutto quello
«giovane», destinatario abituale della letteratura sapienziale (cfr. Pr
1,1-6), alla fine (sorprendentemente) sollecitato a praticare una via
non proprio coincidente con quella tradizionale della Torah,22 consistente nel configurare il desiderio per l'arduo e rischioso tramite della
sindrome regale - almeno immaginativamente - percorsa prima nella
sua illusoria espansione (1,12-2,11), poi nella sua decostruzione (2,1222), fino a ricomporsi in un realistico ridimensionamento (2,24-26).23
In altri termini, la finzione regale iniziale altro non è se non la messa in
scena, convenientemente spettacolarizzata del desiderio lanciato alla
deriva, per cui non mancano antecedenti nella tradizione d’Israele. Aduso a coltivare senso critico sui rischi di questa istituzione e della sua
effettiva gestione, nonché consapevole del proprio status di «famiglia
del Signore»,24 questo popolo sa (e paventa) fors'anche meglio di altri
quanto facilmente il re possa allargarsi troppo a spese dei suoi propri
fratelli (1Re 8,10-18), essendo soggetto per sua stessa definizione a rischio di eccesso. Non a caso nella costituzione deuteronomica, al sovrano da eleggersi solo tra i propri fratelli (Dt 17,14-15), viene ingiunto il triplice divieto di non moltiplicar per sé né cavalli, né mogli, né
ricchezze (Dt 17,16-17). Più che lo status symbol evocato da questi ben,
interessa qui la triplice didascalica ripetizione lo' yirbeh lô25 che li unifica sotto il vincolo di una loro modica quantità (alla lettera: «non avrà
troppo in cavalli, mogli, ricchezze»). «Troppo» (harbeh) sarà infatti
non a caso avverbio molto amato da Qoh,26 giusto un paio di volte ricorrente proprio nella mascherata regale (1,16; 2,7), assieme a un ampio ventaglio di paradigmi, sintagmi, deittici dell'eccesso (si pensi a
quel molto realistico e un po’ psicotico-istrionicodativus commodi in
prima singolare, ripreso in 2,4ss., dove ogni iniziativa è marchiata da
22
In Num 15,39 l'imposizione agli Israeliti di appendere fiocchi alle loro vesti, per ricordare tutti i comandi del Signore e metterli in pratica,
è sostenuta dall’imperativo: «non andrete vagando dietro il vostro cuore e i vostri occhi, seguendo i quali vi prostituite». Cfr. anche Qoh
6,7.9.
23 Questo dinamismo di crisi del personaggio/carattere morale che comporta una sua decostruzione-ricostruzione, coglie bene W.P. BROWN,
Character in Crisis. A Fresh Approach to the Wisdom Literature of the Old Testament, Eerdmans Grand Rapid Michigan Cambridge 1996.
24 Per questo concetto tipicamente deuteronomico, cfr. N. LOHFINK, Unsere grossen Wörter. Das Alte Testament zu Themen dieser Jahre,
Herder, Freiburg-Basel-Wien 1977, 11-126.
25
Il triplice invito alla sobrietà suona come polemica antisalomonica (1Re 5,6; 11,1-4; 10,11-19).
26 Qoh lo usa per un totale di 15x, massima frequenza nell'AT. In merito a ne quid nimis vedi L.SCHWIENHORST-SCHÖNBERG, Via Media:
Koh 7,15-18 und die griechisch-hellenistische Philosophie, in: A. SCHOORS (ed), Qohelet in the Context of Wisdom, (BETL 136) Peeters
University Press Leuven 1998, 181-203.
6
un’ossessiva destinazione autoreferenziale: «mi son fabbricato..., «mi
son piantato, mi..., mi..., mi...»). Insomma, questo re Qohelet si scarta
almeno un paio di volte dalle norme fissate dalla Torah, contrastando
Num 15,39 e Dt 17,16-17.
Nessuna particolare novità sarà quindi ravvisabile in un atteggiamento critico nei confronti dell'istituzione regale, già dalla profezia e
storiografia d'Israele sottoposta a imponenti decostruzioni.27 Nuovo
piuttosto che un re parli in prima persona, non già penitenzialmente,
accusasandoi di qualche peccato (cfr. 2Sam 11-12 con Sal 51; Is 38,920; Preghiera di Manasse: Odae 12), ma piuttosto per lasciare un memoriale autocritico dello proprio operato, che in realtà avrebbe dovuto
- almeno presuntivamente - suonare glorioso. Geniale quindi la distorsione in chiave autocritica di una forma abitualmente celebrativa (ironia come citazione). L'autodecostruzione poi risulta apprezzabile forse
più come parodia e satira di uno Zeitgeist che non troppo specificamente mirata contro un personaggio storico particolare A far da bersaglio è piuttosto l'eccesso del desiderio simbolizzato dalla maschera regale, che (trovando facilmente non pochi generosi interpreti) funge da
suo spendibile paradigma.
Con la scioltezza di un lessico familiare simultaneamente eloquente su diversi fronti, la pretesa regale inscenata da Qoh fa da illuminante specchio a quella presumibilmente più tacita e inconscia del
lettore, sollecitandone l’identificazione con l’intero processo di pretesa,
disillusione e (sperabilmente) ricomposizione dell’ambizione regale. Il
lettore disponibile a riconoscersi (effettivamente ovvero anche solo virtualmente) appropriato al delirio, allo scoronamento e infine al ridimensionamento del re Qoh, guadagnerà certo in migliore consapevolezza del proprio desiderio, e in riflessiva distanziazione dal proprio
eccesso, coglierà la res attestata nella sua intentio profundior più radicale. La comunicazione della straordinaria e sofferta vena autoironica potente volano della sapienza qoheletica - è forse il il più bel regalo del
Libro al suo lettore, assolvendo infatti al tempo stesso un ruolo comu27
Si pensi al plurisecolare conflitto re/profeta, nonché al giudizio in altissima percentuale negativo portato dalla storia deuteronomistica sulla
serie dei re d'Israele e di Giuda («egli fece ciò che è male agli occhi del Signore, come e peggio tutti i suoi predecessori» - sanzione da cui
scampano ben pochi (solo Amasia, Ezechia, Giosia, mentre Davide e Salomone non sono indenni da critiche) in nome di un principio teologico, oltre che di un'esperienza storica. Tratto singolare della storiografia dtr è aver buttato via i gloriosi annali dei re, conservando piuttosto la storia dei loro misfatti (giudicati tali alla luce di Dt: cfr. in merito J.A SSMANN, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche (BE 2) Einaudi Torino 1997, 161-189), e tuttavia di conservare un'idea comunque alta di quest'istituzione,
se del modestissimo re Sedecia, ultimo re di Giuda, ormai esiliato e prigioniero dei Babilonesi (2 Re 24,18-25,7), si poteva comunque dire:
«il respiro delle nostre narici, l'unto del Signore, è stato preso nei loro trabocchetti, lui, di cui dicevamo: "Alla sua ombra vivremo fra le nazioni!"» (Lam 4,20).
7
nicativo di tipo mimetico-catartico, persuasivo in termini oltremodo facilitanti («se tocca al sapiente re Qohelet decostruirsi e ridimensionarsi,
a maggior ragione anche a me...»), e un ruolo ermeneutico, intorno al
modello antropologico rispettivamente da congedare (si tratta del narcisistico sogno di regalità), e da assumere (val meglio accettarsi come
creatura mortale, giorno per giorno gratificata dal dono di Dio).
3.3. Distorsione di un genere
Come già accennato, non solo il titolo, ma anche il genere letterario
adottato da Qoh 1,12-2,26 viene posto nel segno dell'ironia, per l'originale parodistica distorsione con cui viene adattato. Più che al «testamento regale» di ascendenza egizia (come proponeva Von Rad),28 il richiamo più pertinente va alle iscrizioni regali del MOA (fenicie, moabite, aramaiche),29 con cui ogni sovrano si autocelebra consegnando a
futura memoria tutte le proprie imprese, vantate come inedite e insuperabili, appunto per la serie «io anzitutto, e il solo rispetto ai predecessori» (cfr. Qoh 1,16; 2,7.9).30 Tuttavia il genere subisce qui una geniale distorsione (parodìa) autoironica, per cui il gran re Qohelet celebra quelli che lui stesso denuncia appunto come propri fallimenti, nonché un’altrettanto abile commistione con cui Qoh li commenta in prima
persona, nei termini di un Bekenntniss- Ichstil
di tipo confessionale,
autoreferenziale, già noto ai sapienti (p. es. Prov 6), ma anche calzante
alla singolarità regale vantata rispetto ai predecessori.
L'inaudita libertà di questo attacco si svela nel crescente contrasto tra l’indomita intraprendenza, necessariamente seriosa, del suo
protagonista e narratore con l'antieroico scacco reiteratamente denun28
G. V ON RAD , La Sapienza in Israele, Marietti Torino 1975, 205.
ISAKSSON, 50. Nel MOA la più nota è la stele del Re Mesha di Moab (850 a.C.). MÜLLER, FS MICHEL 151-2 richiama l'attenzione sull'iscrizione di Tell-Siran (trovata su di una fiaschetta d'argento, databile intorno alla fine del VII sec.), relativa a Amminadab, re Ammonita:
«1/ le opere di Amminadab, re degli Ammoniti 2/ figlio di Hassil’ils, re degli Ammoniti 3/ figlio di Amminadab, re degli Ammoniti 4/ la
vigna, e i giardini e la riserva (piscina?) 5/ e le cisterne 6/ egli si rallegri e gioisca 7/ molti giorni e molti anni 8/ a lungo». Testimonianza di
un'architettura di godimento, respira la stessa atmosfera spirituale di Qoh 2,4-6, e «realizza un paradigma di molto fantastica gioia di vivere».
30 Così G. MISCH, Geschichte der Autobiographie. Ersten Bd. Das Altertum 2 voll. Bern 1949-19503, 202 (cit. in ISAKSSON, 50). In merito
29
decisivo il contributo di SEOW, cit. 119ss., che ha uno studio specifico: Qohelet’s Autobiography, in: A. BECK (et al.), Fortunate the Eyes
that See (Fs. D.N. Freedman), Grand Rapids Michigan Eerdman, 1995 257-282. Non va disatteso lo sfondo fornito dalla premessa (motto
1,2; domanda antropologica 1,3; poemetto introduttivo (1,4-11) discusso nel suo significato, ma comunque chiaro nella conclusione, per cui
l'umano evanescente esistere non è soggetto a ricordo (1,11). In questa luce, l’impresa del re Qohelet, che farà di tutto per affermarsi memo-
8
ciato, risolto infine in un sorprendente ridimensionamento (2,24-26).
Colui che si vuole eroe per eccellenza finirà per accettarsi come antieroe, uomo comune ridimensionato a più comuni proporzioni (2,24-26).
Tutta la narrazione è fin dal principio forte di questo punto di vista
implicitamente già guadagnato, con cui il narratore è capace di distanza autoironica dal preteso eroe, delle cui stroppiature sa (e fa) sorridere anche caricaturandole quanto basta.
3.4. Qohelet il re - Qohelet il sapiente
Che per il re Qoh di maschera si trattasse, doveva quindi essere perfettamente chiaro all'uditorio originario da lui istruito (12,9), sotto i cui
occhi egli operava mantenendo la propria effettiva identità a tutti nota
(dobbiamo con tutta plausibilità pensare al fatto che questo testo, come
del resto l’intera produzione sapienziale, sia stato chissà quante volte
recitato oralmente prima di stabilizzarsi in forma scritta). Nel caso però della trasmissione scritta implicante un destinatario di seconda mano, per il quale Qoh potrebbe anche risultare uno perfetto sconosciuto,
la comprensione della maschera regale diventa affare certamente più
delicato; sicché a scanso di equivoci la cornice editoriale conclusiva del
Libro provvede chiarirgliene qualcosa (12,9-13).31 Il cosiddetto «epilogo», in realtà meglio definibile come editoriale,32 esordisce con una sobria (ma elogiativa) scheda informativa su Qohelet autore (12,9-10).
Egli - ci vien detto - non fu propriamente un re aspirante ad una sarabile, è dal poemetto iniziale già anticipatamente ipotecata.
31 Bibliografia (una selezione): J.-M. AUWERS, Problèmes d'interprétation de l'épilogue de Qohèlèt, in: SCHOORS (1998), 267-282. M.
FISHBANE, Biblical Interpretation in Ancient Israel, Clarendon Press Oxford 19882, 29-32. N. LOHFINK, Les épilogues du livre de Qohélet
et les débuts du canon, in: P. BOVATI - VATIEYNET, «Ouvrir les écritures». Mélanges offerts à Paul Beauchamp, (LD 162) Cerf Paris
1995, 77-96 (ivi 89). G.T. SHEPPARD, The Epilogue to Qohelet as Theological Commentary, CBQ 39 (1977 ) 182-189. Questo saggio è
riprodotto come parte integrante del più ampio studio Wisdom as a Hermeneutical Construct, (ZAW Beih. 151), De Gruyter Berlin-New
York 1980, 121-129. A.G. SHEAD, Reading Ecclesistes 'Epilogically’, «Tyndale Bulletin» 48 (1997) 67-91. L. MAZZINGHI, «Date da un
solo pastore» (Qo 12,11). L’epilogo del Qohelet e il problema dell’ispirazione, «RiStBi» XII (2000) 59-74. Rispetto all’uso corrente, non
converrà tuttavia per Qoh 12,9-13 parlare di epilogo, come cioè fosse un testo redazionale, facente parte integrante dell'opera, e non piuttosto della sua cornice editoriale. La distinzione è apprezzabile letterariamente ed ermeneuticamente. L'editoriale si distingue infatti dalla redazione in quanto è una palese e dichiarata cura della cornice esterna del libro, soprattutto in vista della presentazione e destinazione al pubblico, e quindi della sua più immediata recepibilità per agevolarne la rifigurazione da parte del lettore. La redazione invece ritocca piuttosto
la configurazione interna dell'opera stessa, preoccupata di non lasciar tracce troppo vistose del proprio intervento.
32 Oggi corrisponderebbe piuttosto a una quarta di copertina, a una fascetta attorno al libro, o anche ad una postfazione (in ogni caso a quello
che Genette chiamerebbe peritesto).
9
pienza senza pari, bensì sapiente di professione, impegnato nell'istruzione della gente,33 oltre che in un vivace rapporto (editoriale e/o
autoriale, comunque ricettivo e critico al tempo stesso) con l'intera
tradizione sapienziale (12,9-10),34 sicché la finzione regale andrà fatta
rientrare nei suoi brillanti meshalîm (12,10) destinati ad una singolare
iniziazione.
Lasciata cadere con bella disinvoltura, questa informazione (plausibilmente referenziale) intorno a Qohelet sapiente potrà intendersi anzitutto come ripresa/conferma di una notizia ben nota dall'uditorio
primitivo e coevo all'autore,35 stimata tuttavia convenientemente (fors'anche apologeticamente) riproponibile in vista di una cerchia ulteriore, meno vicina nello spazio e nel tempo. Un pubblico cioè di più vasta
circolazione, ivi inclusi magari quanti non prontamente disponibili ad
allineare Qohelet nella tradizione d'Israele, abbisognano di un input
come questo, fungibile non solo come notizia, ma anche come apprezzamento e conferma di un’effettiva recezione. Qoh 12,9-10 assolve comunque un'importante funzione ermeneutica circa questo «io, Qohelet»36 autoriale e narrante, altolocato non solo per l'iniziale postura regale (1,1.16; 2,9), ma anche per quella acribica autopsia dagli accenti
davvero unici in tutta la tradizione antica (biblica, mediorientale, e
non), con cui egli osserva, vaglia, e attesta il tutto, cioè quel tutto sotto
il
sole
a
lui
esperibile.37
Un'autopsia
due
volte
limitata,
33
In merito, interessanti, e anche un po’ azzardate le ipotesi di ricostruzione di LOHFINK.
A propria volta questa variegata corrente viene raccomandata tutta come «dono di un unico pastore», in ogni caso trattabile con moderato,
canonico riguardo (12,11-12), secondo un timore di Dio piuttosto nomisticamente interpretato (12,13-14), con qualche scarto quindi rispetto
alla prospettiva in merito elaborata dal Libro stesso (cfr.3,14; 5,6; 7,18; 8,12-13).
35 La radice hkm ritorna ben 51x in Qoh.
36 «Io Qohelet ...» tradisce uno stile decisamente inconsueto per un autore antico. Parla in base alla propria esperienza personale («ho visto»: 1,14; 2,13.24; 3,10.16.22; 4,4.15; 5,12.17; 6,1; 8,9.10.17; 9,13; 10,5.7). Non è la visione profetica rivelata dall'alto, ma l'acquisizione
dell'esperienza verificata a proprie spese, attentamente meditata. Cfr. D. MICHEL, cit. 80; A. SCHOORS, Words Typical of Qohelet, in: A.
SCHOORS (ed.), Qohelet in the Context of Wisdom (BETL, 136). Leuven, University Press - Peeters, 1998, 26-33. Si tratta di una radicale
individualizzazione dell'osservazione sapienziale, focalizzata quanto più esplicitamente possibile a partire dal proprio osservatorio, a differenza di quanto avveniva nella tradizione. Volentieri Qoh ripete «io», anche posponendolo al verbo «in momenti di maggior importanza,
dove il racconto sosta un momento per tirare una conclusione o introdurre un nuovo pensiero» (ISAKSSON, 171).
37 «Il tutto» - hakkôl, - è definito dall'articolo determinativo, a specificare quindi «questo tutto». 1,2; 12,8 non sono affermazioni nichiliste
qualunquiste. La prima testimonianza anticotestamentaria «il tutto» predicato in senso ontologico metafisico è Sir 43,27. Non un tutto astrattamente metafisico, ovvero ontologico, che prescinderebbe dall'esperienza personale di Qoh, fatalmente limitata. Nemmeno un tutto puramente fenomenico, privo di traccia del fondamento su cui si ritaglia la finitudine. E' «un tutto antropologico», anzi antropologicamente circosritto in quanto ha per oggetto l'attività degli uomini sotto il sole (cfr. 1,9.13.14;2,11.17;8,17; 9,3.6.19), ma non riguarda p.es. l'apertura del34
10
dall’ontologica finitezza della condizione umana come pure dal suo
personale punto di vista, ma proprio per questo instancabilmente
scrupolosa nell'occupare la postazione guadagnatasi, forse meglio caratterizzabile nei termini di una rigorosa e sobria fenomenologia
dell’esperienza e del discernimento spirituale che non in quelli di
un’empirìa e di una «scepsi vigilante».
Intestata al libro (1,1) e correlata all'istanza di una eccellente sapienza (1,16-17; 2,3.19-21), la regalità di Qohelet autobiografo, pur
manifesta solo nei capp. 1-2, include una prima sezione estensibile almeno fino a 3,15 (se non addirittura a 3,22),38 e proietta comunque la
propria ombra sull'intera opera.39 Parlando da saggio egli può anche
implicitamente distanziarsi dalla finzione precedente
- addirittura,
come si è visto, istruendo in totale distacco la problematica relativa al
re, che da un punto di vista autobiografico (autoriale/locutorio) viene
ribassato a semplice (seppur delicatissima) questione di adeguato comportamento con un’autorità suprema piuttosto dispotica (4,13; 5,8;
8,2.4; 10,20). Tuttavia, anche quando a partire da 3,1ss. Qoh rinuncia
ad esibire esplicitamente la finzione regale, riesce però sempre a far
sentire il peso di un suo vero e proprio speciale carisma di investigazione critica (per altro tradizionale gloria dei re: Pr 25,2). Del resto, regalità e sapienza intrattengono una dialettica virtualmente (e auspicabilmente) speculare. Per un verso infatti la sapienza auspicabilmente si
addice al re in termini perfino eminenti.40 Per l'altro la tradizione giudaica attribuisce al sapiente il titolo di re, nel senso di caposcuola,41
l'uomo su Dio (N. LOHFINK , Koh 1,2 "Alles ist Windhauch" - universale oder antropologische Aussage?, in: R. MOSIS - L. RUPPERT (Hg.),
Der Weg zum Menschen. FS A. Deissler, Freiburg 1989, 201-216 (ivi, [1989], 50. Ma è anche quel tutto che riesce a vedere Qohelet dal proprio limitato punto di vista (SCHWIENHORST- HCHÖNBERG, Nicht, 283): non a caso il superlativo della sigla iniziale e finale del libro
(1,2;12,8) risuona come esplicita citazione del maestro («dice Qohelet»»: 1,2; 7,27; 12,8)..
38 Cfr. in merito la dettagliata discussione di BACKHAUS, Es Gibt, 4-73, che opta per un’estensione dell aprima sezione del Libro fino a 3,22
(analogamente SCHWIENHORST-SCHÖNBERG , Nicht, 12-125).
39 Terreno comune al re e al saggio resta appunto quello della sapienza, ovvero quello dell'umana ricerca di senso, l’impresa di conquistare
la vita. Lo stesso filo autobiografico (Ich-Erzählung), molto adatto al pensiero di un saggio, calza perfettamente anche con quello di un gran
sovrano. I LXX hanno accentuato questa proiezione della figura regale nel corpo del Libro, come mostra F.VINEL, Le texte grec de l'Écclesiaste et ses caractéristiques. Une relecture critique de l'histoire de la royauté, in SCHOORS (éd.), cit, 283-302.
40 Lo studio di KALUGILA, cit. segnala questo aspetto, ma mi parrebbe minimizzarlo.
41 Secondo la tradizione rabbinica (Gittin 62a; Ber. 64a) melek può star qui come sinonimo di sapiente caposcuola. Nel qual caso la perfor-
11
ovvero di figura esemplare di riferimento. E, analogamente, anzi ancor
più fortemente, nella concezione ellenistica, soprattutto stoica, il sapiente è re per definizione, in quanto perfettamente capace di disporre
di sé.42 Tra re e sapiente interviene quindi in Qoh un gioco di specularità incrociata, un’articolazione chiastica i cui elementi posizionati occupano una sequenza non reversibile. Per intenderci: la finzione regale
non potrebbe infatti mai intervenire nella cornice finale di Qoh, come
pure a sua volta la definizione di «sapiente di professione e istruttore
del popolo» stonerebbe se apposta al titolo iniziale, sicché solo parzialmente e dialetticamente re e sapiente possono equivalersi.43 Se però in
Qoh la regalità (quella regalità) fornisce la cifra sintetica e massimale di
pretesa sapienza, ne segue evidentemente che la maschera/parodia regale sta comunque al servizio del paradigma di sapienza che potrà (o
non potrà) esserne garantita, non viceversa.44 Alla luce di 12,9 intendiamo meglio che Qohelet si finge re in brillante ottemperanza al suo
ministero di sapiente e di istruttore del popolo. Il gioco complessivo tra
re e saggio è decodificabile a favore del secondo, che da apposizione di
una regalità fantasmatica (1,12-14) diventa infine un predicato per riferimento ad una funzione dal nostro effettivamente esercitata (12,9).
Apprezzando il chiasma delle due grandezze - fittizia l’una, reale l'altra
- si riconferma l'ipotesi di annoverare la finzione regale tra i tanti me-
shalîm inventati dal nostro (12,10), presumibilmente quello capitale,
poiché costruzione e decostruzione dell'io regale sono condizioni inmance di Qoh assumerebbe ulteriore spessore comunicativo, perché la formula «re di Gerusalemme» prenderebbe un doppio senso, valendo
al tempo stesso come finzione, entro cui Qoh inscrive più direttamente la propria effettiva funzione di sapiente (una cifra quindi contemporaneamente autoreferenziale e referenziale).
42 Cfr. Pr 16,32. L'idea del saggio come re sarà attestata soprattutto nella linea stoica (in EPITTETO, III,22,63. FILONE, Abr 261.
PLUTARCO, Moralia 472a; cfr. pure LUCIANO, Herm 16). Il Vangelo di Tommaso, 2 attribuisce allo gnostico il regno su tutto. L'idea dell
aregalità del saggio si collega a quello della vita eterna e della divinità. Echi in Paolo (1Cor 4,7-8). In merito cfr. SCHWIENHORSTSCHÖNBERG, Nicht 294.
43
L'attore regale di Qoh 1,12-2,26 (3,15) e il sapiente di Qoh 3,16-12,8 condividono la ricerca, l'osservazione dell'esperienza, la sua evanescenza, l'introspezione, l'apprezzamento per il vero bene dell'uomo e per il dono di Dio, e tuttavia mantengono delle differenze anche nell
apratica dell asapienza stessa. Il primo promuove un ingenuo quanto terribile narcisismo, iperattivo, indisponibile alla funzione di istruzione
(avvitato sulla sua egocentrica cura della propria immagine, il re Qohelet non ne rilascia alcuna). Il secondo invece, pur condividendo la critica, l’introspezione e il ridimensionamento raggiunto dal primo, a partire da 4,17 inaugura la funzione monitoria, tipicamente sapienziale, di
consigliere, esercitata e perfino incrementa fino alla fine. L'osservazione - patrimonio specifico del detto di constatazione - prevale in termini
schiaccianti nella prima parte di Qoh, dal momento che i detti di ammonimento prendono avvio solo a partire da 4,17, per crescere di frequenza nella seconda parte del Libro (7,1ss.).
12
dispensabili a ricalibrare la bussola di un più misurato io sapiente. Lo
scacco del narcisismo in eccesso, impersonato dalla pretesa regale, fornisce una strategia preliminare pedagogicamente indispensabile al riassestamento
di
una
più
ponderata
misura
antropologica.
Come
l’armatura di Saul indossata da Davide fu da lui prontamente dismessa
a favore di una più modesta ma vincente fionda (1Sam 17), così
l’imponente maschera regale è destinata a cadere in un lasso di tempo narrativamente parlando, almeno - piuttosto breve, per liberare una
creatura più povera e più agile, sgravata dall'insostenibile equipaggiamento di cui pretendeva dotarsi. Solo dimissionando (verrebbe da dire:
rapidamente, anche se in merito Qoh non azzarda auspici) dalle proprie - ingenue o consapevoli pretese regali - si apre l’accesso ad un briciolo di sapienza! La finzione regale d'inizio, con tanto di scacco e ridimensionamento, mantiene quindi un ruolo comunicativo ed ermeneutico cruciale,45 almeno quale terminus a quo da tener costantemente presente lungo tutto questo cammino sapienziale. Inizio della sapienza: smetti di sognarti re, non pensarti più come l’unico!
3.5. L’ironista ironizzato
La notizia finale di un Qohelet sapiente istruttore del popolo
(12,9), che parrebbe perfino scontata, innocente, accende in realtà
qualche garbata ironia dal momento che proprio questa qualifica di cui
l’editoriale ufficialmente lo investe (12,9) è proprio quella da cui lui
stesso in precedenza si schermisce, confessando candidamente il proprio fallimento questa volta più esclusivamente sapienziale:«ho cercato
di essere saggio, ma la sapienza è lontana, lontana da me!» (7,23-24), e
comunque ridimensionando inesorabilmente ogni troppo ambiziosa
sapienza (8,16-17). Istituendo qualche tensione assiologica (conflitto di
44
45
LORETZ, 153.
Cfr. 9,1-10, dove si riprende la falsariga dell'epopea di Ghilgamesh. In merito, la monografia di PAHK.
13
punti di vista!) con precedenti dichiarazioni dell'autore in prima persona, questo sobrio editoriale mentre di Qoh chiarifica l’effettiva professionalità, funge altresì da ironica denegazione (negazione della nega-
zione, smentita della smentita) circa questa sua stessa qualifica. In barba alla sua protestata sottodeterminazione, o forse proprio per questo
suo un po’ socratico atteggiamento,46 la tradizione d'Israele annovera
Qohelet, finto re scoronato, addirittura nel corpo canonico dei saggi
d'Israele; e per la serie «ride bene chi ride ultimo» / «chi la fa, l'aspet-
ti», eccolo subir lui il contrappasso di una garbata ironia, per cui, per
celebrarlo come conviene, ci si sentirà autorizzati a smentirlo, almeno
parzialmente... Non solo, ma proprio in coda a tanto enigmatico Libro
border-line, la tradizione d'Israele elabora una delle sue più impegnate
riflessioni sulla qualità canonica e ispirata delle scritture anticotestamentarie,47 anch'essa (almeno in 12,9-12) non priva di ironia.48
Sigillando così il Libro, l’editoriale obbedisce a linda coerenza estetica: in stretto rigore stilistico - espressivo e comunicativo - l’ironia
conclusiva risponde infatti in termini perfettamente convenienti non
solo all’attacco iniziale, ma al ductus del libro intero. La configurazione
editoriale della cornice non si limita alla comunque rilevante inclusione
della finale (12,8) con l’epigrammatico e onomatopeico motto iniziale
46
«Qohelet confessa che la sapienza è rimasta fuori della sua portata (7,23), e tuttavia l'epilogo dichiara che egli fu un sapiente; ...afferma
che non si può raddrizzare ciò che è storto (1,15), e tuttavia l'epilogo dichiara che si è impegnato a «raddrizzare» i proverbi; ...proclama l'impossibilità di trovare (8,17) e tuttavia l'epilogo dichiara che si è impegnato a trovare detti piacevoli. Non sarebbe questa l'unica prova dell'ironia delll'autore del libro del Qohelet» (J.-M. AUWERS, 282).
47
In merito, cfr. i contributi SHEPPARD, LOHFINK, ROSE, forse un po’ troppo «speculativi». Più guardingo e restrittivo MAZZINGHI, «Date
da un solo pastore» cit.
48
In Qoh 12,9-14 distinguiamo le seguenti forme letterarie: 1/un sommario biografico-professionale di Qoh (12,9) in tono epigrammaticolaudativo, con specificazione della materia trattata e della procedura adottata, che suona infine come un elogio di Qoh autore/editore (12,10);
2/ un primo mashal di constatazione sulla funzione promozionale delle raccolte dei sapienti, con tanto di piccolo enigma conclusivo (12,11:
chi sarà questo unico pastore a cui si deve la tradizione sapienziale?); 3/ un mashal di ammonimento, a moderare produzione e uso indifferenziati di libri (12,12); 4/ infine un ulteriore mashal di ammonimento appoggiato ad un colophon (12,13a), sostenuto da duplice motivazione
(12,13b-14) con una sintesi epigrammatica del «tutto per l'uomo» sotto il profilo teologale, teologico, etico, concentrato sul timore di Dio e
l’osservanza dei suoi comandi. Mentre l'ironia sta davvero di casa in 12,9-12, è proprio completamente assente da 12,13-14. Quest’indizio
sconsiglierebbe di attribuire 12,12 ad una mano editoriale diversa dagli ultimi due versetti (vv.13-14) così univocamente seriosi. Oltre che
per riferimento alla presenza/assenza di ironia, l’ipotesi di trattare i vv.9-12 come unità si conferma 1/ sia in base ad all'inclusione su yôter
(trai vv. 9 e 12: una corrispondenza non necessariamente segno di un nuovo inizio); 2/ sia per il vocabolario e quindi i temi trattati. In 12,912 infatti interessa la produzione/edizione/fruizione di testi, quindi un «canone librario». Ma in 12,13-14 urge una sintesi contenutistica teologalmente, antropologicamente, eticamente decisiva (della totalità (4x kôl in 2vv.), dove i toni si fanno più gravi. Inoltre, se 12,9-10 possono avvolgere solo il rotolo di Qohlet, i vv.13-14, pur congruenti con il vocabolario del Libro, si adatterebbero bene anche a Sir, stante l'identificazione/associazione tra timore di Dio e osservanza dei comandamenti (cfr. Sir 1-2). Verrebbe da rovesciare l’ipotesi di LOHFINK (per il
quale questi vv. servirebbero a far prevalere Qoh su Sir, mostrando che il primo possiede già lo stesso patrimonio del secondo, individuabile
soprattutto nel timore di Dio identificato con la Torah, e quindi sbarrando a quest'ultimo la strada d'accesso al canone), chiedendosi se questo
editoriale finale di Qoh non strizzi l'occhio ai primissimi vv. di Siracide, nella speranza di attirare anche questo libro nella cerchia di una
14
(1,2),49 ma si estende allo stilema ironico, che dai toni più marcati, comico-istrionici nella finzione regale, passa a quelli più pacati e soffusi
del primo editoriale finale (12,9-12).
3.6. Logica narrativa di Qoh 1,12-2,26
Ulteriore decisivo effetto ironico potrà apprezzarsi considerando più
da vicino struttura e logica narrativa di Qoh 1,12-2,26, come subito si
nota, non lineare, ma piuttosto a ripetute spire circolari, capaci tuttavia
di ulteriori sviluppi e approfondimenti. Possiamo distinguere un mo-
mento più strettamente narrativo (1,12-2,11) da uno più squisitamente
riflessivo (2,12-2,23). In entrambi comunque massiccia risulta l'intrusione di parentesi o commenti narrativi, quasi singulti intermittenti inseriti a sincopare la narrazione, facendone davvero più che mai un diario spirituale, preoccupato non solo di fornire un resoconto, ma anche
e soprattutto un molto diretto e serrato commento (in questo distanziandosi dal genere dell’iscrizione regale, per avvicinarsi piuttosto a
quello del poema sapienziale).
Più precisamente, da 1,12 fino a 2,23 sette unità letterarie (1,1215; 1,16-18; 2,1-2; 2,3-11; 2,12,16; 2,17-19; 2,20-23) si configurano
come generati da una sempre medesima cellula germinale; il tutto fino
a una conclusione (2,24-26) per un verso omogenea, ma anche adeguatamente spiccata rispetto a forme e unità precedenti, con la sorpresa di
una finale in anticlimax.
Per sette volte si ripropone una struttura narrativa prevalentemente tripartita così congegnata:
1/ si enuncia un agire che, non appena intrapreso (1,12-2,11) ovvero
ripensato (2,12-2,23),50
«biblioteca canonica», addirittura offrendogli la chance di una concatenatio sul timore di Dio.
49
Cfr. C.L. SEOW, Beyond Mortal Grasp: the Usage of Hebel in Ecclesiastes, «ABR» 48 (2000) 1-16 (ivi 15). Per l’inclusione, facilmente
ravvisabile oltre che nel titolo e nel nome dell'autore (1,1; 12,9.10.11.13), anche nel motto programmatico (1,2;12,8), cfr SCHWIENHORSTSCHÖNBERG, Nicht, cit. 7-11.
50
In primo luogo il progetto viene dichiarato e attuato (1,12.13; 1,16-17; 2,1; 2,3) per altro con crescente iniziativa ed esibizione (2.4-10). A
partire da 2,12 il progetto viene criticamente ripensato circa le ragioni del fallimento (2,12.16) e le sue conseguenze (2,17-21: personali;
15
2/ subisce una pronta e reiterata sanzione fallimentare,51
3/ulteriormente asseverata da una sentenza proverbiale (di stampo
tradizionale e/o personale).52
La conclusione (2,24-26)53 stacca trevolte da questo modello:
1/ viene introdotta la prima, tipicamente qoheletica, sentenza ‘en tôb,54
dotata di un'energia particolarmente vigorosa, dove la negazione sta a
servizio forse di un piccolo, ma nondimeno categorico convincimento.
2/Con il sorprendente scioglimento narrativo di 2,24 viene ridimensionata la precedente sanzione negativa di 2,11 («nessun vantaggio per
l'uomo sotto il sole!», che risponde, appunto negativamente, alla domanda di 1,3.12-13: «quale vantaggio per l'uomo da tutta la sua pena
penata sotto il sole?»). L'effetto sortito è di un riassestamento per contrappeso, a bilanciare il punto di vista precedente. Il contrasto non
manca di retroproiettare ulteriore ironia sulla messa in scena regale di
1,12-2,23, mettendone ancor più a nudo l’esasperata autoespansione, il
cui eccesso fa a sua volta risaltare la sobrietà della soluzione finale, dove si riscopre l’irriducibile pregnanza della più comune condizione
umana
2,22-23: universali). Pur nella circolarità, in tal modo l'effetto di progressione è garantito.
51
La sanzione di fallimento torna con la regolarità di un ritornello (1,14.17; 2,1.11.15.17. 19.21.23b.26: per un totale di 10x), appena variato
per evitare troppa monotonia.
52
1,15.18; 2,2.11.13-14.16.23a.24-25.26 (Cfr. LOHFINK , Qohelet 48).
53
Circa questi versetti - tormentati sotto il profilo della critica testuale e della traduzione -, concordo con SCHWIENHORST-SCHÖNBERG
Nicht, 81.84: conviene non correggere il TM di 2,24a con le versioni antiche (LXX Cpt Syr VL) e il Tg (come fanno SACCHI, MICHEL, e
anche CEI), presupponendo così l'aplografia di un mem dopo ba’adam (a sua volta da non abbandonare a favore di un la’adam), poiché sembrano soluzioni facilitanti di un testo comunque in sé significante. Mi pare però una forzatura tradurre 2,24a: «non si fonda nell'uomo stesso
la felicità che egli possa mangiare e bere...» (come vorrebbero SCHWIENHORST-SCHÖNBERG, e prima di lui LOHFINK , ad loc.). Questa
traduzione funzionerebbe se il testo recitasse: tob 'en ba'adam, invece che 'en tob ba'adam. Invero si pospone la negazione, riferendola direttamente all'uomo, mentre si riferisce chiaramente alla felicità stessa. Una soluzione sarebbe trattare il be di ba'adam come comparativum
(«non c'è felicità migliore dell'uomo/ non c'è nessuno più felice dell'uomo che mangia...»). Ma mi par preferibile intendere ba'adam in senso
più generale («non c'è felicità nell'umana condizione che quella di mangiare...»), ovvero aggettivale («non c'è umana felicità che quella di
mangiare ...»).
Quanto poi all'alternativa (2,25a) tra mimmennî (con TM) e mimmennû (con le versioni), di nuovo si può tenere il TM, e tuttavia
riferirlo, come più logico, a Dio trattando la -y come suff. di 3a sing. compresente insieme a -h, come in fenicio [in merito cfr. M. DAHOOD ,
Qohelet and the Northwest Semitic Philology, in: Biblica 43 (1962) 349-365 (353)].
Infine, quanto a hûs - per cui il senso usuale di «affrettarsi» qui non funziona - alla luce delle traduzioni antiche, e delle opinioni più accreditate recenti, si possono formulare due ipotesi: 1/ «gioire» (con LXX, Teod, Pesh, che leggono yishteh, cioè «bere», possibile metonimico
per «rallegrarsi»: J. DE WAARD). oppure 2/ «preoccuparsi, agitarsi» (con Aq, Sim, Siro-Esaplare «soffrire»; Tg legge «sentire, essere in ansia»; cfr. Gb 20,2; Is 28,16). L'alternativa sarebbe allora: a/chi può mangiare, chi può preoccuparsi senza di Lui/se non io? Ovvero: b/ chi
può mangiare, chi può gioire senza di Lui/se non io? R. W. BYARGEON, The Significance of Ambiguity in Ecclesiastes 2,24-26, in
SCHOORS (ed.), Qohelet, (1998) 367-372 (369 n.16 e 17) ammette una deliberata ambiguità, che in questo contesto letterario mi sembra tuttavia davvero improbabile (la formula ’en tôb ha una forza categorica piuttosto netta e quindi disambiguante, che sconsiglia l’ambivalenza).
Preferibile quindi la soluzione b/ («gioire»), più congrua se riferita a Dio.
54
Qohelet parrebbe inventare una formula linguistica comunque sua peculiare, desunta dal proverbio comparativo (tôb min), e che suona :
«non c'è altro di meglio per l'uomo che ... (‘en tôb ba'adam)» 2,24 (cfr. 3,12.22; [5,17]; 8,15). Questa formula interviene sempre quale
conclusione legata al dono di Dio (cfr. 2,25-26 e gli altri contesti), e in contrappeso al problema «che guadagno c'è per l'uomo?», che trova
risposta abitualmente negativa. In rapporto ai diversi contesti fornisce un elemento strutturante del libro intero. Rispetto al proverbio di comparazione suona molto più perentoria, staccando dalla logica del confronto relativo per entrare in quella del meglio assoluto possibile (ancorché minimale: SCHWIENHORST - SCHÖNBERG , 278). Il pensiero qui rivendica non più una preferenza tra quanto è comunque buono e quello che tuttavia risulta migliore, bensì una riduzione di sapore un po' trascendentale, capace di escludere tutto a fronte di un’esperienza originaria, evidenziante di un insuperabile a priori di grazia.
16
3/ Allo scopo viene introdotto un vocabolario (mangiare, bere, mano di
Dio) almeno parzialmente nuovo, in ogni caso veicolo di una risimbolizzazione innovatrice rispetto a quelle precedenti, più univocamente
dominate dall'idea dello ‘amal, della fatica parossistica, frustrante, angosciata, ma ora riattinte a nuova fonte e riscattate dalla gioia (diversa
rispetto a 2,10). A sua volta la fatica (‘amal) non viene affatto rimossa,
bensì reintegrata entro un nuovo quadro antropologico-teologale
(2,24).
4/ Una certa conformità di modello di quest'ultima unità letteraria (ottava della serie completa) rispetto al settenario precedente, è tuttavia
reperibile nella sua conclusione in 2,26 (altra ben nota crux interpretum), dove viene riportata una sentenza tradizionale (cfr. Prov 13,22),
anch'essa sottoposta a sanzione fallimentare (ironia come menzione).55
Consideriamo lo schema di questa struttura narrativa:
55
2,26 svolge la solita funzione asseverativa (sentenza tradizionale + giudizio di vanità), posta tuttavia a ridosso di una unità conclusiva
(2,24-25.26) narrativamente, contenutisticamente e formalmente più libera rispetto alla cellula iniziale. La crux interpretum di 2,26, di natura sintattico-compositiva, si può sciogliere interpretando questo versetto come rilettura (menzione) critica di Pr 13,22, di cui 1/ anzitutto si
riporta il pensiero (per cui l'uomo buono lascerebbe l'eredità ai propri discendenti, mentre il possesso dei peccatori sarebbe riservato al giusto: 2,26a); successivamente 2/ questa sentenza viene sottoposta ad una secca sentenza di fallimento (2,26b). Riferire quest'ultima all'intero
contesto di 1,12-2,26, o anche solo a 2,18-26, mi pare letterariamente parlando del tutto implausibile, dal momento che la forza anaforica
della sanzione di fallimento non sembra poter retrocedere oltre 2,23, dove è stata applicata l'ultima volta relativamente all'unità letteraria di
sua diretta spettanza (2,20-23). Pure lo stacco netto segnato da 2,24 rispetto a 2,23 suggerisce di limitare il riferimento di 2,26b a 2,26a. In
buona sostanza Qoh critica la tesi tradizionale di Pr 13,22, stimando insensato e incongruo (teologicamente e antropologicamente) pensare
che Dio toglierebbe a qualcuno (si tratti pure di un insipiente fallito) per dare a un altro (sia pure «più meritorio»). La logica nel mondo e la
stessa logica di Dio non procedono così.
17
1,12-2,25 LA MASCHERA E LA SINDROME REGALE DI QOHELET
1,12-14 status/progetto di Qoh rex ultrasapiens
1,14 attuazione e sanzione di fallimento ( > 2,11)
(we hinneh hakkôl hevel ûre ût rûah)
1,15 sentenza conclusiva intorno all'incorreggibile limite
1,16 status elativo di Qoh, dotato di sapienza superiore - homo oedipicus
1,17 progetto generale: attuazione e sanzione di fallimento
(shegam zeh hû’ reût rûah)
1,18 sentenza conclusiva: tanta sapienza, altrettanto dolore
2,1 progetto di piacere: homo ludens
attuazione e sanzione di fallimento
(we hinneh gam hû’ havel)
2,2 sentenza conclusiva: critica del riso e della gioia
2,3-10 progetto combinatorio dei precedenti
massima espansione narcisistica
homo faber/oeconomicus/ludens assistito dalla sua sapienza
2,11 retrospettiva con sanzione di fallimento
(we hinneh hakkôl hevel ûre ût ruah)
e sentenza in risposta negativa alla domanda antropologica di 1,3
(we ’en yitrôn tahat hasshamesh)
2,12 Retrospettiva su sapienza e follia, domanda sull'opera del successore
2,13-14a sentenza sul relativo vantaggio (yitrôn) di sapienza su follia
2,14b controsentenza: stessa sorte per saggio e cretino
2,15 sanzione di fallimento (shegam zeh hevel)
2,16 nuova controsentenza: stesso oblìo/esito per saggio e cretino
2,17-19 Conseguenza: odio per la vita e la propria fatica alienata
sanzione di fallimento
hakkôl hevel ûre ût ruah (2,17 cfr. 2,11) gam-zeh hevel (v.19 )
2,20-23 Il cuore di Qoh supporto per il cuore dell'uomo
Il cuore dell’uomo sempre in pena (vv.20.22-23)
Duplice sanzione di fallimento, con (contro-)sentenza centrale:
v. 21 gam-zeh hevel û ra'ah rabbah
v. 23a
(contro-)sentenza
v. 23b gam-zeh hevel hu'
2,24-25 Controsentenza conclusiva sul meglio per l'uomo (anticlimax)
2,26 Sanzione di fallimento per una sentenza tradizionale
(she gam zeh hevel hu')
3.7. Il teatro del cuore
18
Vero referente di questa autobiografia - ne conveniamo facilmente - più ancora del pur frequente «io» autoriale narrativo,56 è il mio/ il
proprio cuore,57 fin dall'inizio dal re impegnato nella ricerca sapienziale più acribica possibile su tutto quanto si fa sotto il cielo (1,13) messo
in scena in termini di autentica sovraesposizione.
Riprendendo qui un’importante nota del precedente contributo,58
per riproporre all’attenzione la funzione letteraria perfino strutturante
qui giocata dal cuore di Qoh, spesso aprendo (1,13.16; 2,1.3.15.20) o
chiudendo (2,3.10) un'unità letteraria. Su di esso Qoh agisce, dedicandolo alla ricerca della sapienza (1,13.17); con lui abitualmente parla
(1,16; 2,1.15), attraverso di esso vede (1,16); nel proprio cuore ricerca
(2,3), ovvero si rallegra (2,10). Al cuore non nega mai nulla (2,10), ed è
sempre il cuore che vien rivolto al ripensamento complessivo delle
proprie imprese (2,20). Aggiungi l'egocentrico - un po’ psicotico - pronome personale lî (quel dativus commodi - «a me, per me!» - ben 9x
ricorrente quando l'attivismo di Qoh tocca l'acme di frenesia autoreferenziale: 2,4-9), con climax in 2,10, e 2,11, dove di nuovo intervengono
altre note sineddochi antropologiche equivalenti: i miei occhi (2,10), le
mie mani (2,11), e, precedentemente la mia carne (2,3). Con ben dodici
menzioni complessive Qoh spettacolarizza il proprio cuore, non solo agito narcisisticamente, ma anche esibito istrionicamente quale vero
protagonista autoreferenziale di questa parodia regale da parte di un io
dedicato alla fin eccessiva cura di sé. Ecco la metafora ossessiva dal re
Qohelet sbandierata con calcolato esibizionismo per poterla riproporre
conclusivamente come supporto e specchio per il cuore dell'uomo
(2,22-23). Una volta messa a nudo tutta la fragilità della pretesa regale,
comunque incapace a innalzarsi sopra la comune condizione mortale
(2,12-21), ecco allora per il personaggio «cuore» venuto il tempo di
56
57
58
1,12.16; 2,1.2.11.12.13.14.15.18.20 (11x).
Così giustamente LUX.
Cfr. VIGNOLO, La poetica ironica, cit., 238 n.85.
19
mutare (ovvero svelare la sua reale) appartenenza, ormai non più attribuito al re Qoh (non più: «il mio»), ma trapiantato sull'uomo in genere (da 2,22-23 si dice: « il suo»). In questo senso, «la finzione regale è
una chiave di accesso alla realtà del cuore e alla realtà dell'uomo davanti a Dio»,59 e questa regal messa in scena perdura fino a che non si
ricomponga adeguatamente la pena che la suscita,60 fino al risanamento
della ferita narcisistica rivendicante tanto intensiva cura di sé.
Il che avviene puntualmente quando, con un coup de théatre a
ben vedere un po’ clownesco, Qoh si riscuote infine dalla narcisistica
ossessione del cor incurvatum, per riassestarsi su quella falda più sorgiva dei bisogni e delle esigenze umane elementari, efficacissimo richiamo simbolico alla vita creaturale apprezzabile come dono divino di
cui gioire ad ogni istante. «alla fine il re è solo un uomo, una creatura
bisognosa, un mendicante che vive della grazia di Dio, identificata nel
materialissimo mangiare e bere».61 Finalmente cadutagli62 di dosso, la
maschera regale è servita a Qoh per rivestire (rivelare) la carne dell'uomo comune, creatura mortale, ma gratificata da Dio. La finzione regale mira quindi a costituirsi come «una chiave di accesso alla realtà
del cuore e alla realtà dell'uomo davanti a Dio. Entrambi questi elementi della realtà non appartengono all'uomo, ma è l'uomo che appartiene. Egli vi partecipa soltanto. Perciò resta valido l'inesorabile detto
della transitorietà provvisorietà: gam zeh hevel. "Anche questo un sof-
fio!" Ma anche in ciò abbiamo qui un sobrio realismo, piuttosto che
una lamentela sul dolore del mondo. Così Qoh ribadisce la differenza
permanente tra creatore e creatura (cfr. 3,11; 5,1). Così la dichiara-
59
LUX 342.
«Quando ridiamo del buffone, noi non dimentichiamo mai che sotto quello stravagante abbigliamento, sotto il berretto a sonagli, egli porta
ancora la corona e lo scettro, simboli di regalità», e che «il clown non si toglierà il berretto e i campanelli sino a quando non avrà dominato la
sua angoscia» (E. KRIS, Il comico, in: AA.VV. Ridere, piangere, gridare, Bollati Boringhieri Torino 1995, 21-42 [ivi37 e 41]). Idem, Il riso
come processo espressivo, ibidem 43-74
61
LUX 341
62
«Qui cadono la corona e la porpora regale, i desideri e le pene del cuore spariscono davanti alle elementari espressioni della condizione
umana» (LUX, 340).
60
20
zione di hevel rimane una salutare rimembranza per l'uomo impegnato
- pur solo in termini di finzione - ad autosuperarsi».63
3.8. Depressione (2,16-17)
Questa messa in scena del cuore offre la chance più propizia per misurarci con quell'approccio psicanalitico ripromesso in ordine a meglio
focalizzare la sindrome regale, il vissuto psichico configurato nella finzione di Qoh. In precedenza è già stato proposto (e parzialmente già
impiegato) un pacchetto di concetti,64 da cui possiamo ora lasciarci più
consapevolmente sollecitare per un migliore ascolto di questa testimonianza, portata su quella che denominiamo «sindrome regale», e di cui
ci premono i passaggi effettivamente cruciali.
Fissato nella posizione di regalità davidica-gerosolimitana (ovvero
nello status di una ben circostanziata elezione divina), il punto di partenza di questo io narrante manifesta i tratti (impliciti, ma proprio per
questo tanto più ovvi e inconcussi) di uno smisurato sentimento di ela-
zione, perfino prevalente rispetto alla obbiettiva elezione davidica di
cui è portatore, dal momento che egli si riconosce divinamente incaricato di un’impresa sapienziale nettamente fuori dal comune (1,13),65
per cui si costituisce interprete radicale, attento scrutatore (1,14)
dell’universale condition humaine quale fu divinamente destinata
(1,13). Di per sé già fruitore di uno status nettamente differenziato dai
comuni mortali, Qohelet interpreta questo suo sentimento elativo con
ulteriore atteggiamento edipico
nei confronti di tutti i suoi prede-
cessori che egli si ripromette e si vanta di oscurare (1,16-18). Su questo sfondo i primi anelli evidenziabili di detta sindrome propongono
63
LUX 342
Narcisismo, Edipo, delirio di onnipotenza, risentimento, rimozione della morte con ritorno del rimosso ed emergenza del perturbante, depressione, elaborazione del lutto nonché compensazione/autoregolazione con recupero di oralità, introiezione e risimbolizzazione (cfr.
VIGNOLO, La poetica ironica, cit. 238 ). Per questi concetti, vedi in prima istanza GALIMBERTI, Dizionario, cit.
65
Il problema di 1,13 è a cosa si riferisce il pronome hû’: a/ se alla ricerca sapienziale imposta da Dio agli uomini (così quasi tutti i commentatori); b/ ovvero a tutto quel che si fa sotto il sole (così LOHFINK, e SCHWIENHORST-SCHÖNBERG ., 46-47.51, che traducono: «Mi ero
prefisso di ricercare e investigare con l'ausilio del sapere se davvero tutto ciò che è stato fatto sotto il cielo fosse un cattivo affare, per i quale i singoli uomini si sono affaticati per disposizione di un Dio»). Grammaticalmente sono entrambi possibili, sicché il problema è di coeren64
21
anzitutto una potentissima istanza narcisistica di autogratificazione,
perseguita prima all'insegna del piacere (2,1-3), poi in nome di una variata e ben pianificata imprenditorialità (fabbrile, economica, ludica:
2,4-10), conclusa con uno sconfortante bilancio fallimentare (2,11). Un
più profondo ripensamento avviato a diagnosticarne le cause (2,12-23),
ne fa emergere implicazioni significative, individuabili nel risentimento
contro il proprio successore (2,12.18-20), nella costante rimozione della morte, con ritorno del rimosso (2,14.16; cfr. 1,15; 2,3), in tutta la
sua carica perturbante fino alla conclamata depressione (2,17-18).
Sarà conveniente partir proprio di qua, facendo risaltare la rilevante svolta narrativa segnata da 2,17-18, che vede capovolgersi in
sorda detestazione la prepotente passione di Qoh per la vita in termini
mai così drastici per la tradizione sapienziale66 nel momento in cui viene dichiarato un duplice odio: quello appunto contro la vita in genere
(«ho odiato la vita..»), e quindi quello più specifico contro il suo stesso
personale operato («ho odiato ogni lavoro delle mie mani»).67 Dietro
questa duplice confessione, che sbaglieremmo a deprivare dei suoi toni
più squisitamente affettivi, depistandola su di un registro più univocamente filosofico, riconosciamo senza forzature l'esperienza ben nota
della depressione, che - diversamente dall'angoscia insorgente per una
minaccia mortale (paura per la vita) - percepisce in questa stessa la
fonte del malessere, configurandosi appunto come paura della vita,
ormai perfettamente insignificante ai propri occhi.68 Soprattutto in pasza con il contesto prossimo e remoto (si possono avanzare obiezioni e sostegni per entrambe le soluzioni).
66
Giustamente così ZIMMER, 112
67
La formula sana' chayyîm - unica di Qoh nell'AT - suona come espressione perfino incredibile per una mentalità israelitica (cfr. D. LYS,
L’Ecclésiaste, ou que vaut la vie? Traduction, introduction générale, commentaire de 1/1 à 4/3, Paris Letourzay et Ané 1977, 258-259), per
la quale, più legittimamente, è già debordante affermare: «meglio il tuo hesed della vita»(Sal 63,4). Il verbo sana' ha un ampio arco di significato, che va dall' «odiare» in senso forte all'«avere in avversione» (E. JENNI, sana', in: DTAT, II, 754-756). Avere disgusto, ribrezzo, nel
linguaggio - poco elegante ma corrente - «far schifo». L'oggetto detestato è l’esistenza (hayyîm può star qui come sinonimo di nephesh, rispetto a cui ha però un valore più oggettivo; se questa è soprattutto una caratteristica naturale dell'uomo, hayyîm è piuttosto dono di Dio; cfr.
Is 38,18-19). Sicché in Qoh 2,17 «vita» coincide con l'esistenza mondana in generale, successivamente specificata nelle imprese personali
dello stesso locutore (2,18). In merito, vedi G. GERLEMAN, hayyim in: DTAT, I, 479-482).
68
Angoscia e depressione si innestano come anelli terminali di due diverse catene, rispettivamente quella di pulsione/colpevolezza/angoscia,
e quella di narcisismo/ferita narcisistica/ depressione (così B. GRUNBERGER, Il narcisismo. Saggio di psicoanalisi [BE 44] Einaudi Torino
1998 209). L’esperienza depressiva non è ignota ai Libri Sapienziali (Pr 12,25; 15,13; 17,22; 18,14; 24,10; Tb 3,6), nonché alle vicende profetiche di Elia e di Giona. Quest'ultimo propone un ritornello: «Meglio per me morire che vivere!» (Gn 4,3.8), dove si riconosce l'ascendenza
di 1Re 19,4, quando Elia, caduto appena prima preda dell'angoscia per la persecuzione di Gezabele, dopo la sua poco onorevole fuga per
22
sato altrimenti detta anche melanconia, «la depressione è un'alterazione del tono dell'umore verso forme di tristezza profonda con riduzione dell'autostima e bisogno di autopunizione» (endogena ovvero reattiva quanto al suo insorgere). Se la tristezza è in effetti l'umore fondamentale del depresso, perfettamente compatibile ad alternanze di
euforia maniacale, il tenore di questo testo che trascorre con tanta rapida alternanza dai picchi più elevati a quelli più abissali, una volta così inquadrato non stupirà più di tanto.
Patendo un'inaccettabile frustrazione di attese (quindi un lutto di
primo acchito non elaborabile) la depressione inibisce le pulsioni istintive infliggendo una (quasi sempre) immancabile ferita narcisistica,69 la
cui consapevolezza diventa al caso passaggio obbligato per la guarigione.70 La perdita d'iniziativa resta comunque il sintomo più netto di
questa patologia dell'azione (più ancora che dell'umore), anzi di una
destrutturazione del tempo (intollerabile) e della motivazione (inesistente, insufficiente).71 Nella configurazione temporale del depresso la
ritenzione prevale sulla presentazione e sulla protensione: il passato è
colpevolizzato, l'avvenire vuoto di possibilità (e quindi terrifico). Sicché
il presente, comunque stimato inetto, si fissa e si stempera come il
tempo dell'incessante lamento (Immerweiterlarm).
Con il reiterato lamento entriamo in quella sfera della parola, in
merito alla quale Julia KRISTEVA puntualizza brillantemente i sintomi
linguistici portavoce di depressione che, di nuovo senza troppa fatica,
salvarsi, piomba nella depressione (perdita di autostima) implorando: «Signore, prendimi la vita, poiché io non sono migliore dei miei padri»
(con qualche evidente eccesso anche Elia si autostimava: proprio come Qohelet rispetto ai suoi predecessori).
69
Può trattarsi di un lutto inconscio, rimosso, di una perdita oggettuale percepita (ma non riconosciuta) come perdita del proprio io in forza
di un processo di identificazione narcisistica con l'oggetto. Ma potrebbe anche risultare sintomo di «un io primitivo ferito, incompleto, vuoto» in termini che diremmo congeniti. «La sua tristezza sarebbe l'espressione più arcaica di una ferita narcisistica non simbolizzabile, innominabile, così precoce che nessun agente esterno (soggetto o oggetto) potrebbe essergli riferito. Per questo tipo di depresso narcisistico il
solo oggetto in realtà è la tristezza. Più esattamente un Ersatz di oggetto cui si attacca, che alimenta e vezzeggia, in mancanza d'un altro».
(suicidio questa volta non come omicidio mascherato, ma come mistica della tristezza cui riunirsi). Piange non un oggetto ma la cosa. Qui J.
KRISTEVA, , Soleil noir. Dépression et mélancolie, (folio essais 123) Gallimard Paris 1987 20-22, trascrive su registro psicanalitico lacaniano la kierkegaardiana «malattia mortale».
70
A. EHRENBERG, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi (BE 75) Torino 1999 177-178.
71
EHRENBERG , 319. In concreto con la depressione interviene un deficit energetico motorio, affettivo, ideico. Inibizione e compulsione si
accompagnano al vuoto di progetti, di motivazioni, di capacità comunicative: «l'esatto contrario delle nostre norme di socializzazione»
(EHRENBERG, 320). Il pigro, bersaglio preferenziale dei maestri di sapienza (Pr 6,6-11; 26,13-16; ecc.), potrebbe essere riletto anche sotto
questo profilo. E tutta la letteratura sapienziale, in quanto intesa a dare senso e misura alla vita e mantenerne un gusto apprezzabile.
23
saranno riconoscibili nei ritornelli e commenti narrativi con cui Qoh
costella di sanzioni fallimentari il proprio diario regale:
«Ricordatevi la parola del depresso: ripetitiva e monotona. Nell'impossibilità di concatenare, la frase si interrompe, si esaurisce, si arresta. Gli stessi sintagmi non riescono a formularsi. Un ritmo ripetitivo,
una melodia monotona dominano le sequenze logiche spezzate e le trasformano in litanie ricorrenti, ossessive. Infine, quando a propria volta
anche questa musicalità frugale si esaurisce, o semplicemente non risece a installarsi a forza di silenzi, il melancolico sembra sospendere di
proferire qualunque ideazione, sfumando nel bianco dell'asimbolico o
nl troppo pieno di un caos ideatorio non ordinabile».72 Queste considerazioni trovano riscontro in tutte quelle sanzioni di fallimento,73 che
quali ritornelli formulaici appena variati (meglio che come enunciazioni filosofiche difficilmente calibrabili nella loro portata), diventano
leggibili come monocorde lamento depressivo riscattato in brillante
configurazione poetica, disforìa psichica felicemente investita in un
buon prodotto estetico.
1,14 wehinneh hakkôl hevel ûreût rûah
1,17 shegam zeh hû’ reût rûah
2,1 wehinneh gam hû’ havel
2,11 w ’en yitrôn tahat hasshamesh
2,15 shegam zeh hevel
2,17 hakkôl hevel ûreût ruah
2,19 gam-zeh hevel
2, 21 gam-zeh hevel û ra'ah rabbah
2,23b gam-zeh hevel hu'
2,26 shegam zeh hevel hu'
A questo mugugno ricorrente «come un disco rotto»,74 fattore
configurante non solo nei capp.1-2, bensì lungo l'intero Libro, andrà riconosciuta un’interessante ambivalenza illocutoria. Per un verso questi
72
73
74
KRISTEVA, Soleil 45 (sott. mia)
Qoh 1,14.17; 2,1.11.15.17. 19.21.23b.26.
B.SALVARANI, C’era una volta un re...Salomone che scrisse il Qohelet, Ed Paoline Milano 1998, 79.
24
ritornelli suonano come totale deprezzamento, al punto che, psicanaliticamente parlando, parleremo di un'analizzazione della propria
esperienza sottoposta com'è a completo rifiuto, a sfiorare punte sadomasochistiche. Per altro verso, tuttavia, proprio questa incessante svalutazione esce paradossalmente sovrastimata da questa sua amplificazione, investita di compiacenza estetica, e infine dotata della superiore
dignità di una forma letteraria, addirittura di un ritornello poetico e di
un motivo conduttore configurante. Di nuovo sotto il registro psicanalitico, si direbbe che l'analità viene paradossalmente riscattata come tesoro: evanescenza, inconsistenza, talora la stessa assurdità, vengono celebrate come patrimonio doloroso e prezioso al tempo stesso, secondo
l’ambivalenza insinuata dall’eccesso, squisitamente estetico, di autosvalutazione. Nei ritornelli fallimentari azzarderemmo allora riconoscere qualcosa di perlomeno analogo alla ludica esibizione del cosiddetto «tesoro del bambino», ovvero di quell'oggetto «spesso nascosto e
insieme esibito e gelosamente conservato», composto «paradossalmente
e per definizione di oggetti eterogenei, usati, rotti e disparati, sporchi,
senza alcuna utilità e alcun valore», se non «in rapporto...all'enorme
investimento narcisistico di cui il bambino è portatore».75
Un tesoro diverso, invece, davvero nuovo in quanto risimbolizzato sull'oralità piuttosto che sull'analità, è quello celebrato in 2,24-26,
dove una compensazione/regolazione del deficit depressivo-narcisistico
riscopre la gioia della vita come dono divino nelle sue espressioni più
comuni.
3.9. Colpevolizzazione
Nella depressione domina il giudizio di fallimento, cui volentieri
si associa l'autorimprovero. Di qui il progressivo disinvestimento abùlico dell'io,76 vero referente di questo disagio, che subisce non solo l'irri-
75
76
EHRENBERG, 270-1
GRUNBERGER 217 ss.
25
solta tensione rispetto al proprio ideale, bensì anche la ritorsione dell'istanza narcisistica insoddisfatta (in merito vedremo più oltre). Il fenomeno comporta quindi la combinazione di un'accusa all'oggetto e
quindi di un'autoaccusa del soggetto.77 In primo luogo la colpa è attribuita all'oggetto amato venuto a mancare, piuttosto che all'io deprivato
e vittimizzato. Una proiezione, questa, mediamente dal respiro corto:
l'io depresso non sostiene la ferita narcisistica, sopraffatto com'è dal
suo proprio ideale. Sempre meno eludendo l’autosvalutazione con cui
ripiomba nell'autoaggressività, sposta il rimprovero direttamente su di
sé, accusandosi come incapace a mantenersi in possesso dell'oggetto
perduto. Di qui l'ambivalenza dell'aggressività (colpevolizzazione), diretta tanto contro l'oggetto perduto, tanto contro il proprio io.78 Proprio questa scansione nitidamente inquadra Qoh 2,17-18,79 prima inscenando una colpevolizzazione della vita «(ho odiato la vita, poiché
infausta è per me l'opera che si fa sotto il sole, poiché tutto questo è
un soffio e un inseguire vento»: 2,17), ma per restringersi entro una
più diretta autocolpevolizzazione: «sì, proprio io ho odiato tutta la mia
fatica con cui ho faticato sotto il sole» (2,18). Nel sentimento complessivo di questo sdegno bifronte i due termini per il re Qohelet potrebbero infine scambiarsi, dal momento che per il narcisista la vita è solo la
propria, e questa a sua volta coincide con quella. Tuttavia, così lucidamente scandito, quel disgusto corrisponde al fin troppo chiaro dinamismo depressivo sopradescritto, che libera aggressività prima estroflessa
contro il mondo, e quindi rivolta interiormente contro di sé. L’umano
esistere e l'intera impresa di Qoh patiscono quella cocente frustrazione,
77
«Il depresso non accusa l'oggetto di aver commesso un atto preciso, ma di essere in un modo o nell'altro criticabile, cioè insufficiente dal
punto di vista narcisistico» (GRUNBERGER 224).
78
Il mio amore dell'oggetto perduto si trasforma in odio nel momento in cui esso è percepito tale. Con quest'odio esso viene tuttavia interiorizzato, così che io non lo perda del tutto. Tuttavia, non riuscendo a possederlo come vorrei, lo odio. Odiando questo altro interiorizzato in
me, arrivo io stesso ad odiarmi quale esponente di un io cattivo perché incapace di possedere l'oggetto amato, quindi un io meritevole di punizione (in merito si parla di un autocannibalismo melanconico). Ma il lamento su di sé sarebbe in realtà un odio dell'altro (analogamente al
suicidio che nasconde un mancato omicidio).
79
Pace T. ZIMMER, Zwischen Tod und Lebensglück. Eine Untersuchung zur Antropologie Kohelets, (BZAW 286) W. de Gruyter BerlinNew York 1999, 147 che, restando nell’ambito più strettamente semantico, non può ovviamente apprezzare questa differenza percepibile
solo per il tramite della referenzialità.
26
che induce appunto «odio» all'esistenza in genere e alla propria maniera di realizzarla.80
3.10. Depressione, un kairòs epocale
Ulteriore luce sulla sindrome regale viene passando dal quadro
sintomatologico-fenomenologico alle implicanze antropologiche più salienti della depressione, per un triplice riferimento a storia, morte, e
cultura, ben calzante al nostro testo.81
Per riferimento alla storia, fa conto rammentarne quell’aspetto
spesso sottovalutato di disagio sempre più marcatamente socio-epocale.
Se -quantomeno nella sezione nord-ovest dell'emisfero terrestre- va
imponendosi come la malattia sempre più caratterizzante a partire dalla seconda metà del novecento (come l'isteria lo fu del secolo precedente, e come il senso di colpa ha segnato il loro trapasso), fino a diventare
perfino un modo di vivere ormai comune all'individuo di massa, è perché questo tratto epocale tra moderno e postmoderno risulta sempre
più segnato dalla contraddizione tra il massimo di possibilità (virtualmente illimitate) e il (sempre irriducibile) limite del non padroneggiabile, dell'indisponibile.82 Se il nevrotico è represso dal disagio
della società e della cultura, a sua volta il depresso lo diventa «perché
invece deve sopportare l'illusione che tutto è possibile»,83 avendola ormai già scoperta appunto come illusione, e quindi inclinando ormai al
cupo disincanto del «niente è più possibile».84 La nostra era nordoccidentale è afflitta dal disagio della responsabilità,85 dove il sentimento
di insufficienza, di non sentirsi all'altezza, di stanchezza di dover di80
Prima generalizzata e poi personalizzata, la colpevolizzazione tradisce un'approssimazione di consapevolezza realistica, una disponibilità
ad uscire dal delirio di onnipotenza (più preoccupante risulterebbe il procedimento inverso).
81
Per un’analisi quantomeno analoga a quella qui proposta, che, sia pure con strumentario diverso, valorizza un approccio per riferimento
storico e psicosociale, e che (soprattutto rispetto al più pessimistico commentario di A. LAHUA Kohelet (BKAT 19) Neukirchen-Vluyn
1978) rivaluta criticamente pertinenza teologica e l’attualità cristiana di Qoh, vedi B. LANG, Ist der Mensch hilflos? Das biblische Buch Kohelet, neu und kritisch gelesen, «TQ» 159 (1979) 109-124. Il concetto di Hilflosigkeit (lemma perspicace, ma difficilmente traducibile) di
fatto vien fatto coincidere con quello di depressione (cfr.art. cit. 119-120).
82
Orbene, proprio questo concetto di possibilità illimitata è il fatto culturale principale del XX secolo.
83
EHRENBERG, 318
84
Ib. 10
85
«Patologia di una società la cui norma non è più fondata sulla colpa e la disciplina, bensì sulla responsabilità e sull'iniziativa»
27
ventare, essere se stessi (ecco la fatica da accettare),86 incombe per tutti
subito dietro l’angolo. La lezione epocale della depressione potrebbe essere semplicemente quella per cui l'uomo non può pretendere di essere
«l'unico proprietario di se stesso e l'unica fonte della propria azione»,87
in altre parole è interpellato a rivisitare criticamente la spasmodica ricerca della propria «autorealizzazione». Foriera di possibilità massimali
assolutamente inimmaginabili- essa è quindi più d'ogni altra precedente esposta alla sindrome depressiva. Analogamente la florida situazione
riconoscibile retrostante a Qoh (età tolemaica, ovvero quella persiana
non interessa qui più di tanto) supporta ulteriormente la plausibilità
dell'ipotesi qui sviluppata: il nostro Libro nasce da un contesto sociologico dove, almeno per una certa classe sociale di livello superiore, lievitano possibilità massimali, quantomeno assiduamente coltivate come
tali da di un più ristretto ceto benestante.88 Merito della parodia regale
è appunto smascherarne e ridimensionarne le illusioni per riferimento
ad un analogatum princeps analogamente massimale e straordinariamente comunicativo.
3.11. Morte e cultura
Altri due riferimenti legano la depressione rispettivamente in
rapporto alla morte e alla cultura (i due termini stanno strettamente
correlati, se quest'ultima nel suo complesso può intendersi come il più
variegato esorcismo votato a sventare, o ritardare, la minaccia della
prima). Nella prima direzione un contributo notevole offre Ernst
BECKER, con uno studio che gli ha meritato il prestigioso premio Pulitzer, e la cui tesi portante (frutto di una radicale revisione dell'impianto freudiano), è quella per cui con il suo corpo l’uomo non cerca sol-
(EHRENBERG, 10).
86
Oggi il rischio è di demandare tutto alla farmacologia (che pure raggiunge risultati brillanti), cercando di risolvere il problema empiricamente con gli antidepressivi. Come pure di ridurre positivisticamente (in senso biologistico o sociologistico).
87
ib. 319
88
Così pure LANG, cit.
28
tanto sessualità, piacere, vita e autoespansione, bensì intende anzitutto
sfuggire alla morte, sicché «la coscienza della morte è l'oggetto primario della repressione, non la sessualità. ... La repressione del terrore
della morte costituisce il suo concetto cruciale. Questo è il nodo dello
stato di creatura dell'uomo, questa è la repressione su cui è costruita la
cultura: una repressione che appartiene soltanto all'animale autocosciente».89
Il problema dell'umana condizione sta quindi tutto nell'interpretare in termini proporzionalmente accettabili la propria singolare finitezza,90 quella per cui l'individuo «si sente angosciosamente unico, e sa,
tuttavia, che ciò non fa alcuna differenza per il suo destino ultimo. Egli
è condannato a sparire come una cavalletta qualsiasi, anche se richiede
più tempo».91 Così, rispetto alle limitate possibilità di una vita segnata
dalla morte, si aprono due alternative: o «l'individuo esplode in una accesso di megalomania sconfinata, oppure si sente ridotto allo stato di
verme, come peccatore indegno. Non esiste un equilibrio sicuro dell'ego che limiti l'assorbimento della realtà o che regoli lo sbocco delle
proprie energie. La tragica limitatezza è tuttavia accompagnata da possibilità. Ciò che noi definiamo maturità è la sagacia nel saper stabilire,
tra questi due elementi, un certo equilibrio che ci consenta di inserirci
creativamente tra di essi. Come Rieff affermava: «"il carattere è il modellamento restrittivo della possibilità"».92 Conditio sine qua non secondo BECKER (come già per EHRENBERG), è che l'uomo prima o poi deve
pur arrendersi, rinunciando all'illusione di costituirsi causa sui, accet-
89
E. BECKER Il rifiuto della morte, ed. Paoline Roma 1982, 133 così prosegue: «Freud scoprì tale maledizione e consacrò tutta la sua esistenza e tutte le sue energie a smascherarla e a denunciarla. Per ironia della sorte, però, egli s'ingannò sulla precisa ragione scientifica della
maledizione». «Tutto si riduce al fatto che gli araldi della non-repressione semplicemente non hanno capito l'umana natura: essi sognano una
condizione utopistica di perfetta libertà, sia da qualunque coartazione interna, sia da ogni esterna autorità. Tale idea si scontra e svanisce di
fronte al dinamismo fondamentale della non-libertà, riscontrabile in qualsiasi individuo, e cioè l'universalità del transfert» (ivi, 347).
90
«Non c'è mezzo di sperimentare la vita nella sua totalità: ciascuna persona deve escluderne larghe porzioni, deve parzializzarla ... per
evitarne di venirne schiacciato. Non esiste sistema per sfuggire e trascendere la morte con certezza, perché tutte le creature organiche
muoiono. Gli spiriti più grandi, più vivi, più audaci e sicuri non riescono, anch'essi a trangugiare altro che piccoli pezzi del mondo, mentre
gli essere umani più insignificanti, maligni e tremebondi s'accontentano di briciole infinitesimali» (BECKER, 320-1; sott. mia).
91
BECKER, 351.
92
BECKER, 347
29
tandosi in quanto partecipe di un principio di trascendenza,93 liquidando una volta per tutte lo spettro dell’autorealizzazione.
Sulla traccia psicologico-psicanalitica di BECKER, si inserisce esplicitamente il più recente tentativo sociofilosofico di Z. BAUMAN, 94 per il quale appunto tutta l'umana produzione culturale altro non è che un gigantesco «teatro di immortalità».95 La cultura in genere è tutta intrinsecamente dettata dall’istanza del permanere, ovvero dal desiderio di superamento della morte.96 Vivere è pur sempre un rischiar la morte, sicché sopravvivere alla morte attuale, in primo luogo, rimandarla e
quindi cercare permanenza anche al di là della morte futura, sognare
l'immortalità, sono per l’appunto due compiti strettamente successivi.
Naturalmente l’ineluttabilità della morte condanna a fallimento il progetto di una sopravvivenza eterna o infinita, mentre rilancia il secondo
come una sfida permanente. Da un lato quindi la cultura dà significato
alla vita umana, fragile e transitoria, mentre dall'altro ne reprime la
sempre difficile consapevolezza.97 L’intera la società, soggetto collettivo
produttore di cultura, ne costituisce la più grande impresa di simultanea sfida e rimozione, diversamente modellata a seconda del frangente
epocale.98
93
«...Niente di meno che l'abbandono del progetto di diventare causa sui e la più profonda, totale ed emotiva ammissione che dentro di noi
non c'è forza, né energia capace di reggere ad un'esperienza che ci sorpassa. Arrendersi significa dunque ammettere che il sostegno ci deve
venire dal di fuori di noi stessi e che la giustificazione della nostra esistenza va ricercata in una catena di cose che totalmente ci trascende, a
cui acconsentiamo d'essere sospesi come lo è un bambino nella sua cullaamaca, mentre volge i suoi occhi lucidi, in totale ammirata dipendenza, verso la madre che lo coccola». Più oltre l'A. prosegue: «gli sforzi umani sembrano inesorabilmente condannati a fallire se non si rifanno a qualcosa di più alto per giustificarsi: a un qualche sostegno concettuale che dia senso alla vita di ciascuno, pigliando le mosse da una
dimensione trascendentale di qualche genere. Poiché una simile credenza deve assorbire il terrore fondamentale dell'uomo non può fluttuare
soltanto nell'astrazione, ma deve mettere radice nelle emozioni, in un sentimento interiore che ci rende sicuri basandoci su qualcosa di più
forte, più grande e più importante della propria forza e della propria vita. E' come se si dicesse: «il mio pulsare vitale s'affievolisce e io svanisco nell'oblio, ma "Dio" (o "Lui") rimane, reso ancora più glorioso attraverso il sacrificio della mita vita. Questo sentimento -si può dire- è
la fede nel suo aspetto più efficace per l'individuo» (BECKER, 147.163).
94
Un’assenza dalla nutrita bibliografia del dizionario di GALIMBERTI penalizza tanto E. BECKER Il rifiuto della morte, ed. Paoline Roma
1982, quanto Z. BAUMAN. Il teatro dell'immortalità. Mortalità, immortalità, e altre strategie di vita, Il Mulino Bologna 1995..
95
Con questo saggio di «ermeneutica sociologica», l'A. dichiara la propria «immodesta intenzione... di estrarre ...la presenza della morte
nelle istituzioni, nei rituali e nelle credenze umane che, a giudicare dalle apparenze, svolgono esplicitamente e consapevolmente compiti e
funzioni totalmente differenti, privi di relazione con le preoccupazioni normalmente indagate negli studi dedicati alla "storia della morte e
del morire"» (BAUMAN, 8; richiamo esplicito a BECKER, in BAUMAN , cit. 27).
96
Nel senso che la morte (più esattamente la consapevolezza della mortalità) è essa stessa la condizione ultima, «l'opportunità» della creatività culturale in sé. Essa fa della permanenza un compito...urgente e sommo - una fonte e misura di tutti i compiti - e fa perciò della cultura
quell'enorme e sempre attiva fabbrica della permanenza» (BAUMAN, 11).
97
BAUMAN, 16
98
Rispetto alle culture premoderne, segnate dal più schietto tentativo di addomesticarsi la morte integrandola quanto più possibile nella vita e
nella società, BAUMAN individua due ulteriori modelli strategici in quello moderno, che cerca di decostruire la mortalità, e in quello postmoderno che ci prova invece con l'immortalità. Il primo premunisce in ogni modo contro la morte, combattendolaa tutto campo (p.es. medicalizzando l'esistenza, sicché l'accanimento terapeutico potrebbe esserne il simbolo). Il secondo invece decostruisce l'immortalità, sosti-
30
3.12. Risentimento chiama rimosso
A questo punto disponiamo di qualche pertinente ausilio concettuale per apprezzare le ragioni più profonde della crisi depressiva conclamata da Qoh 2,17-18, e per cogliere così il punto di vista psicologico
senza il quale il racconto autobiografico di 1,12-2,23 non avrebbe
nemmeno ragion d'essere.99 In particolare va misurata quella sorda detestazione della vita e di tutte le proprie imprese, che ribalta catastroficamente in non senso proprio quanto in precedenza allettava Qoh con
euforica (e un po’ sospetta) frenesia.
Perfettamente autonoma e spirituale, indotta cioè non da fattori
esterni, bensì da una autonoma riflessiva presa di consapevolezza, questa crisi è riconducibile al ritorno del rimosso svelato come il pertur-
bante,100 nel nostro caso costituito dalla stessa morte, in precedenza già
adombrata non solo nello hevel havalîm (1,2) e dall’alternarsi delle generazioni che nel poemetto iniziale contrasta con la permanenza degli
elementi cosmici (1,4-8.9-11), ma anche sulla bocca dello stesso protagonista in alcune sentenze sapienziali (1,15.18),101 nonché nelle allusioni ai brevi giorni dell'uomo (2,3.23). Dietro tanta variegata potenza
la multiforme impresa qoheletica non risparmia al suo stesso promotore e narratore l'inconsistenza di un imponente quanto impotente esorcismo sulla morte. Presentita incompatibile alla propria elativa, narcisistica condizione regale, la morte (o, meglio, il morire, con la paura che
tuendo il culto del transitorio e dell'effimero a scapito della ricerca della memoria del duraturo (l'apparizione televisiva, la navigata in rete).
99
1,14.17; 2,1.11.15.17. 19.21.23b.26.
100
Sulle nozioni di rimozione e perturbante, vedi GALIMBERTI, 910 e 772. Al perturbante (das Unheimlich), S.FREUD dedica l'importante
saggio del 1919 (raccolto in Opere. vol IX Boringhieri Torino 1977, ), impostato sull'ambivalenza dell'aggettivo heimlich (che in tedesco
significa tanto familiare, quanto nascosto), per cui allora un-heimlich risulta qualcosa di per sé di non familiare, che proprio per questo arreca turbamento, ma che, uscendo dall'ombra, era in realtà già familiare, bensì nascosto (FREUD si richiama esplicitamente all'intuizione di
Schiller, per cui il perturbante, già intimo, doveva restar nascosto, mentre invece è affiorato (Opere IX, 102).
101
Probabilmente in uso a quel tempo, allusive alla morte. Piuttosto che senso di tipo pedagogico (così MICHEL, con rimando a PLATONE,
Protagora 325d, in riferimento all'irriducibile stupidità dell'uomo), par preferibile invocare numerosi paralleli, soprattutto greci, riferibili alla
vecchiaia, età dell’uomo in la sua schiena è ormai irrimediabilmente curva (SOFOCLE, Edipo re, IV,1-3.4. Ma anche SENOFANE, DIOGENE
LAERZIO, nonché in ambito rabbinico gli stessi P.Abôt, 5,21). Già dall’inizio quindi Qoh per il filtro di sentenze sapienziali alluderebbe
all'irriducibilità della morte, decretata da Dio stesso (passivum divinum in 1,15a; cfr. 7,14). In merito cfr. LOHFINK, Qohelet, 51;
SCHWIENHORST- H CHÖNBERG. Nicht, 53). Analoga interpretazione per 1,15b: Non si può contare colui che manca (nel senso che l’assente,
cioè il defunto - categoria in maggioranza - si sottrae a1l’appello: Qoh 1,15; cfr. Is 53,12; Talm. Ber.16b). Entrambi i proverbi segnano
l'uomo totalmente inerme di fronte alla morte, come fattore indisponibile per eccellenza.
31
l’accompagna) è stata inizialmente oggetto di una prolungata rimozione, che subito si vendica del misconoscimento ricevuto
insinuandosi
come il volano nascosto di tanta vitalistica e attivistica smania. Il progetto intrapreso mira a provvedere Qoh del teatro d'immortalità il più
intelligente (1,16-17), piacevole (2,1.3.10), monumentale (2,4-11) possibile. La sindrome regale risponde alla paura della morte e alla volontà
di vincerla, di estirpare quel tarlo che consuma l'uomo in un'inquietudine permanente, a priori impossibile a soddisfarsi (2,23). Già lo
stesso pensiero del successore e quello di ogni opera comunque alienabile dal suo autore ne sono già clamorosamente abitati.102 Per quanto
rimosso e censurato dalla coscienza, quest’ospite indesiderato infine
non ne è mai sfrattabile, divenendo l’antagonista contro la cui minacciosa invasività ogni umano progetto viene più o meno direttamente intrapreso. Quando però riemerge dall’ombra, eccolo esibire il salato
prezzo dell’inavvertenza ricevuta. Proprio con questa rimozione della
morte si spiega il fastidio, anzi il risentimento di fronte alla sola idea di
un successore, disprezzato quale immeritato destinatario dell'opera intrapresa in proprio (2,18-21, dove il disappunto di non sapere se sarà
saggio o sciocco (di per sé non insignificante questione), in realtà dissimula quello più brutale dell’esistenza stessa di qualcuno il cui peccato originale è semplicemente di esistere come non-io, come altro e ulteriore rispetto all’onnivoro e vorace narcisistico soggetto, reo quindi di
infirmarne l’onnipotenza. Straordinariamente realistico e interessante
questo ritorno del rimosso scattato a partire dal pensiero del successore, e scatenante risentimento in quanto - banalmente, ma inesorabilmente - segnala l’invalicabile limite della sindrome regale. Non solo allora suona sconsolata la risposta alla questione: che farà il successore
del re? Ciò che fu fatto già!» (dal momento che sarà qualcosa di identi102
Due interessanti testimonianze di sindrome regale pervenuta al suo apice: MAZARINO, passeggiando nel suo palazzo, si dice ripetesse: il
faut quitter tout cela! Dal canto suo, FEDERICO GUGLIELMO IV di Prussia, guardando il suo giardino di Potsdam, rivolgendosi al fratello:
das auch, das soll ich lassen!
32
co a quanto già realizzato dal predecessore: 2,12b). Dal punto di vista
di Qoh, infatti, preoccupa già la domanda in quanto tale: è il soggetto
cioè - prima ancora di ogni suo attributo o predicato - a costituire un
autentico insulto. Non a caso l'idea di livellamento e di successione si
associano, dal momento che quest’ultima non solo offusca il sogno di
un'impresa assolutamente unica accarezzato da Qoh (1,12-13), ma insinua chiaramente l’invalicabile limite. Svincolata dal blocco della rimozione, la morte spoglia le imprese di Qoh da ogni pretesa di unicità assoluta, e quindi di immortalità. L'ammissione della sostanziale uniformità di tutte le imprese regali (non fosse altro perché tutte animate da
un’unica, medesima pretesa!) manda una prima avvisaglia di crisi, in
quanto si comincia a capire che una singolarità assoluta, ovvero una
regalità radicale è due volte impossibile, non avendo l'uomo alcun potere né sul proprio successore, e tantomeno sulla morte con cui gli cederà il posto.
La seconda, più sostanziale e umiliante ragione solo in quanto evidenza ancor più diretta della retrostante rimozione, è quella stessa
fine per tutti (2,14-15), ancor più inesorabile nel frustrare ogni pretesa
singolarità. Quale unico, universale destino in sorte al saggio come allo
stolto, la morte smentita non solo le aspettative di Qoh, ma, notoriamente, anche l’impianto retribuzionistico tradizionale (convenzionato
in una versione più rigida e comunque qui strettamente immanentistica).
Nella scoperta di Qoh eccheggia il tono luttuosa della doglianza:
103
«Ah, ma come (’ak)! Muore il saggio con lo stolto?!» (2,16)
Al livellamento diacronico delle generazioni (adombrato in 1,411, e denunciato in 2,12), si aggiunge così quello sincronico, implicito
33
in quel miqre’ ’ehad, che elide ogni meritoria differenza, storicamente
apprezzabile. Al sogno di essere l'unico rispetto a tutti i predecessori la
massificazione della morte infligge un insulto, un lutto e quindi una ferita narcisistica imperdonabile non facilmente sanabile, uno scacco
matto per quella coscienza di elazione - di godere di una condizione
unica privilegiata di cui il nostro si è autoinvestito, e rispetto alla quale
eccolo completamente esautorato, semplicemente in ragion della sua
irriducibile comune umanità, sentita come insostenibile.104
3.13. Narcisismo
Mette conto qui focalizzare la già evocata nozione di narcisismo
per apprezzarne la pertinente applicazione a Qoh 1,12ss., con l’ausilio
di una limpida fenomenologia di questo concetto, intrinsecamente ambivalente e dialettico.105
«Descrittivamente e provvisoriamente il narcisismo comporta insieme:
- il ricordo di uno stato elazionale privilegiato e unico;
- il benessere connesso a questo ricordo, in quanto sentimento di completezza e di
onnipotenza;
- la fierezza di averlo vissuto, connessa d'altronde all'illusione di quell'unicità che durante la vita fetale era reale, posizione megalomanica alla quale si ricollega la nozione
di valore, equivalente psichico della corripsondente senzazione cenestetica;
- una certa relazione oggettuale, negativa e positiva ad un tempo, "splendido isolamento" e contemporaneamente ricerca disperata di legami fusionali, di relazioni speculari, paradosso su cui ci dovremo soffermare;
- il desiderio di ritrovare il paradiso perduto e il rifiuto superegoico di questo desiderio. Tale ritrovamento significherebbe infatti per l'uomo la sua identificazione con
Dio;
- la riuscita integrazione nella vita pulsionale del fattore naricistico attraverso un
processo progressivo di maturazione nonché le varie tecniche, che mirano alla realizzazione vicariante e fittizia delle esigenze narcisistiche;
- l'opzione fondamentale per la soluzione narcisistica e la difficoltà di sostituirla con
altre soluzioni più soddisfacenti dal punto di vista economico (essendo disprezzato e
respinto ogni riferimento alla realtà);
- la nozione di perdita narcisistica, quando il fattore narcisistico nella sua essenza subisce uno scacco radicale;
103
Cfr. Sal 39,6.12; 69,10; 73,13; Gb 19,13; Lam 1,1.
Analoga esperienza nel Sal 89, che alla condizione elativa del davidide, celebrata nell’oracolo dei vv.20-38, contrappone le tre aspre domande finali con cui il davidide condivide in realtà la deprecabile sorte mortale di ogni uomo (vv.47-49: «fino a quando?, quale vivente non
vedrà mai la morte?, perché quasi un nulla hai creato ogni uomo?»).
105
Il narcisismo ha sempre un duplice orientamento oltranzista, oscillante tra l'individualizzazione e la relazione fusionale permanente, entrambi massimali, (anzi è di per se stesso «eminentemente dialettico», non esistendo mai allo stato puro). Rispetto alla carica pulsionale possiede una sua dinamica specifica (che Freud oscilla nel collocarlo ora nell'io ora nell'es. Cfr. G RUNBERGER, 8-9).
104
34
- la nozione di ferita narcisistica, inflitta all'Io attraverso la mediazione di una delusione dell'Ideale dell'Io (narcisistico);
- la nozione di mortificazione narcisistica, che consiste ...nella vergogna che l'Io prova
per non aver saputo controllare attivamente ciò che ha subito passivamente, e molti
altri aspetti ancora».106
Il narcisismo parrebbe da collegarsi allo stato di elazione prenata-
le, denominatore comune originario di tutte le sue infinite varianti.107
In effetti, se onnipotenza magica, ricerca di autonomia, e stima di sé
caratterizzano il narcisista, allora il feto possiede in termini eminenti e
originari proprio tutte queste note.108
In grembo alla madre il feto realizza una perfetta unità fusionale
di contenuto rispetto al proprio contenente. Di qui guadagna un sentimento iniziale di vita corrispondente ad un «io egocosmico»,109 lui stesso confuso con il proprio universo e con l'universo tout court, per cui
gli «sembra vivere in un universo riempito unicamente dalla sua presenza, tanto megalomanica quanto immateriale, in cui egli è confuso
con la sua stessa felicità. Ne conserverà un'impronta definitiva che gli
fornisce la matrice sulla quale si struttureranno le sue particolarità
specifiche, che assumeranno in seguito la forma di stati e affetti, come
il sentimento di unicità, l'amore di sé, la megalomania, l'onnipotenza,
l'immortalità, l'onniscienza, l'invulnerabilità, l'autonomia, ecc. Orbene,
tutte queste caratteristiche sono, in pari tempo, attributi della divinità;
si può dire che se Dio ha formato l'uomo secondo la sua immagine,
l'uomo ha creato Dio secondo la sua immagine prenatale. ... il narcisista
si considera come il culmine della perfezione, come qualcosa che esiste
in maniera del tutto autonoma priva di ogni sorta di filiazione o razio-
106
GRUNBERGER, 24-25.
Già Freud parlava di narcisismo fetale, o della cellula germinale. Il feto vive in una situazione di elazione che costituisce una perfetta omeostasi, in cui i bisogni, essendo automaticamente soddisfatti, non possono neppure costituirsi come tali; per il carattere parassitario del suo
metabolismo egli non conosce né desiderio né esperienza di soddisfacimento legata all'eliminazione della tensione, ma solo un equilibrio
perfetto... di per sé una fonte di benessere..., modello e supporto di certe elaborazioni successive» (GRUNBERGER, 19). Un modello diverso
propone M. Klein.
108
La tendenza all'autosopravvalutazione (alla sottovalutazione, nella variante masochistica) con cui manchiamo di obbiettività verso noi
stessi, «benché delirante nella sua essenza è tuttavia lontana dall'essere patologica, in quanto costituisce una necessità vitale per l'individuo»
(GRUNBERGER, 19-20).
109
GRUNBERGER, 206.233 ss.
107
35
nale causazione. Costui si nutre dalla fonte di se stesso e trae il suo valore semplicemente dalla propria esistenza in quanto tale.»110 Soprattutto nei primi anni di vita agli occhi di questo io egocosmico il mondo
appare, un prolungamento e una proiezione del proprio corpo, campo
di indiscriminata autoespansione, ambito di rispecchiamento piuttosto
che di differenza. Siffatto sentimento vuole un regime perfettamente
totalitario, intollerante
di qualsiasi minoranza.111 In conclusione, «il
narcisista si ama poiché trae piacere da se stesso e in quanto è unico e
onnipotente»,112 rispetto e al di fuori del quale nulla veramente esiste.113
Se tale è l'istanza narcisistica, si spiega allora perché mai la personalità che vi soggiace114 si dimostri tanto accanitamente refrattaria a
qualunque transfert e introiezione: infatti egli «vuol restare com'è e rifiuta di introdurre alcunché nell'io, attuando un'opposizione che può
fondarsi su di un'opposizione estremamente precoce... Il narcisista
"non assomiglia a nessuno", cioè rifiuta l'identificazione; possiamo dire
che lo stesso narcisismo ... per salvare la propria integrità, ritorna verso
una più antica posizione [rispetto a quella edipica: n.d.r.] e rifiuta l'Edipo e tutte le sue strutture che ne derivano».115 A questo punto, non
sarà nemmeno più necessaria la fatica di uccidere il padre per sostituirvisi. Basterà far come se mai fosse esistito, evitando perfino di
misurarsi con lui. Denominata appunto evitamento dell'Edipo, questa
situazione è quella per cui ci si sottrae perfino al confronto di rivalità,
110
GRUNBERGER, 25 (sott. mia)
GRUNBERGER, 247
GRUNBERGER, 48 (sott. mia)
113
Con nascita e crescita il bambino subisce la perdita dell'onnipotenza narcisistica: un trauma questo che, per quanto abilmente rimosso,
invoca compensazione. Il che, considerato sotto un profilo piuttosto filogenetico fa osservare a GRUNBERGER, 194 (in linea con BAUMAN e
BECKER) che «si potrebbero considerare tutte le manifestazioni della civiltà come una serie di tentativi diversi messi in atto dall'uomo per
cercare di operare questa restaurazione narcisistica». Uno di questi, non riuscito, è appunto la nevrosi, che denuncia la mancata restaurazione
narcisistica dell'integrità perduta dall'io.
114
Il disturbo narcisistico di personalità «è caratterizzato da grandiosità, ricerca spasmodica dell'ammirazione e mancanza di empatia. Gli
individui con questo disturbo hanno un senso grandioso di autostima: sovrastimano abitualmente le loro capacità, apparendo spesso vanagloriosi e presuntosi. Presumono che gli altri attribuiscano lo stesso valore ai loro sforzi e sono sorpresi quando non ricevono le lodi che si aspettano e si sentono di meritare. Spesso nel giudizio esagerato dei propri talenti è implicita una svalutazione dei meriti altrui. Credono di essere superiori, speciali e unici, e si aspettano che gli altri li riconoscono come tali. La loro autostima è quasi invariabilmente molto fragile;
ciò li rende molto sensibili alle critiche...Mancano in genere di empatia, e hanno difficoltà a riconoscere i desideri e i sentimenti degli altri.
Questa mancanza di sensibilità sfocia talvolta nello sfruttamento cosciente o involontario degli altri» (GALIMBERTI, 770).
111
112
36
che comunque comporterebbe una qualche filiazione, sia pur rinnegabile (in concreto come quando si coltiva la novità a tutti i costi).
Possiamo forse intravvedere in Qoh 2,4-8 una regressione, che
dalla posizione più schiettamente edipica (1,16; 2,7.9) occhieggia all'evitamento dell'edipo, riscontrabile nella fuga in avanti e nell'accumulazione di sempre nuove e più numerose imprese (una situazione particolarmente cogeniale al genere dell'iscrizione regale, testimonianza della
torva e al tempo stesso ingenua pretesa di oscurare i propri predecessori). Qui Qoh avanza l’istanza di affermarsi quale causa sui che nulla
riceve dai precedessori, e tutto - in proprio e per sé - autoproduce, addirittura ignorando il senso della differenza come alterità. Tuttavia in
2,9 il confronto con i predecessori (pur riesumati a proprio vantaggio)
ritorna come già in 1,16. Impossibile evitare completamente l'edipo.
Scansato a monte con chi precede, il confronto riemerge a valle con chi
seguirà. Curiosamente, Qoh non avrà il coraggio di ammettere che tutta
la propria impresa è uguale a quella del suo predecessore (in qualche
modo a lui già noto). Preferisce invece riconoscere che il suo (ancora
ignoto, incerto in tutti i sensi) successore farà le stesse cose che ha fatto lui. Tant’è: per il narcisista meglio sapersi replicato e imitabile, piuttosto che replicante e imitatore.
In conclusione, la mascherata di Qohelet palesa come non mai la
connivente solidarietà tra narcisismo e depressione, dal momento che
questa insorge sempre in qualche modo nel solco di una ferita narcisistica. Per la depressione infatti, ne va certamente della perdita dell'oggetto, ma in realtà trattasi pur sempre anche di una perdita dell'io
narcisisticamente proiettato sull'oggetto, che proprio questo si era in
antecedenza prescelto, tanto investendosi da perdervisi con il suo stesso venir meno.116 Cosa ritrova Qoh da questa sua duplice perdita?
115
GRUNBERGER, 276.
«Se a questo punto l'oggetto scompare, scompare anzitutto come superficie di proiezione dell'investimento narcisistico, che viene così
anch'esso perduto» (GRUNBERGER, 236)
116
37
3.14. Risimbolizzazione, ovvero oralità non regressiva
La crisi depressiva narcisistica in 2,24-26 non raggiunge certo una
trionfale soluzione, ma semplicemente quella che nel più meccanicistico linguaggio freudiano chiameremmo compensazione, e che nella qui
più pertinente terminologia junghiana sarà riconoscibile come autoregolazione. Essa implica un recupero dell'oralità (non regressivo,
bensì positivo: «mangiare e bere, e godere della fatica delle proprie
mani») e della conseguente introiezione («viene dalla mano di Dio»).
Con le sue molteplici variazioni,117 la formula «mangiare e bere»,118 nient'affatto specifica dell'AT, bensì comune a tutti i tempi e tutte le regioni, ha una forza non puramente descrittiva, bensì quella di
una vera e propria cifra complessiva.119 Direttamente denota infatti
funzioni vitali primarie, ma connotate nei termini di un’ordinaria e
gioiosa condizione di benessere in cui «i confini tra fisiologia e psicologia risultano fluidi».120 In realtà questa coppia classica in Qoh 2,24 diventa una terna con il significativo complemento del «godersi il frutto
della propria fatica», che schiude una prospettiva interessante. Non solo perché, biblicamente parlando suona infatti più positiva rispetto a
Gen 3,17-19 (dove il lavoro che procura il pane resta prevalentemente
segnato dalla fatica dolorosa). Ma perché, psicanaliticamente parlando,
comporta un recupero dell'oralità di tipo nient'affatto regressivo, infantile o fusionale121 (intende infatti un soggetto sanamente autonomo,
117
P.es. con o senza oggetto (pane e acqua Es 34,28; 1 Sam 30,12; generico: 1Re 13,8ss.16ss.18ss.22ss., carne e vino Is 22,13, pane e acqua
Ez 12,18). Talvolta anche solo il mangiare Gdc 19,4.6.8; 1Re 1,25.41; 19,5.7). Talvolta come in Qoh diventa una terna.
118
In merito R. SMEND, Essen und Trinken: ein Stück Weltlichkeit des Alten Testaments, in: Die Mitte des Alten Testaments. Gesammelte
Aufsätze. Bd 1., Chr. Kaiser Verlag München 1986, 200-211.
119
Qualcuno vi riconosce una formula, terminus technicus, per la stipulazione dell'alleanza.Così W. BEYERLIN, Herkunft und Geschichte des
ältesten Sianitraditionen 1961, 41ss. In effetti cfr. Gen 24,54; 25,34; 26,28-31; 31,43-54; Es 18,12; 24,11; 2Sam 3,20; Sal 41,10; Ger 16,8.
120
SMEND, 202. «In contrasto con il non mangiare e il non bere, spesso mangiare e bere indica la condizione distesa, normale, naturale» (ib.
203). Cfr. 2Sam 11,11. Addirittura Giuda e Israele al tempo di Salomone erano numerosi come la sabbia del mare, e «mangiavano, bevevano
ed erano felici» (1Re 4,20; cfr. Ger 22,15). L’orante dei salmi di supplica non mangia (Sl 42-43;102,5), come pure Anna, Gionata, Saul, Elia,
Achab, perché tutti alterati dalla loro situazione affettiva/emotiva (1 Sam 1,7; 20,34; 28,20; 1 Re 21,4). Ma poi, mangiando e bevendo, danno
segno di avere trasformato la loro situazione (1Sam 1,18; 28,21-25; 1Re 19,5-8; 21,5-7). Non si dimenticherà la qualità sociale di questi due
atti, la loro performatività conviviale, oltre che cultuale (Neem 8,10-12). E nemmeno la loro valenza di metafora erotica: mangiare (pane) e
bere (acqua), cfr. Gen 39,6.9; Pr 5,15; 9,5.17; 30,20; Sir 26,12. Contestualmente il binomio può tuttavia connotare anche una condizione
pericolosa, di stolta e volontaria inconsapevolezza di quanto si va producendo. (Gen 25,34; Es 32,6; Gdc 9,27; 1 Sam 30,16; 1Re 1,25; 2Re
9,34; Is 21,5; 22,13.: «mangiamo e beviamo, perché domani moriremo!»; cfr. 1Cor 15,32).
121
GRUNBERGER, 113-135. Quella infantile tende a ripristinare la situazione narcisistica.
38
adulto). E per il suo riferimento alla mano di Dio sa curare la ferita
narcisistica con l'apporto dell'introiezione specificamente legata all'oralità. Introiezione è quel processo per cui l'io, mosso dal principio del
piacere, incorpora a sé un oggetto esterno buono attraverso una rappresentazione mentale, ed espelle il male. Si difende così dall'angoscia
di separazione, forma il super-io e introietta la figura del padre.122 Il cibo è la prima forma di rapporto che il bambino ha con il mondo, la
prima forma di costruzione della propria identità istituita appunto attraverso con l'introiezione dell'oggetto. Nel recupero della dimensione
più elementare della situazione creaturale, ancorata tuttavia allo stato
adulto, Qoh recupera la dimensione più schiettamente teologale
dell’esistere: Dio è come introiettato, tramite il dono della nutrizione, e,
mediante la stessa fecondità della propria fatica, fatto inabitare (nel
senso psicologico del termine) nell’umana creatura che mangia, beve,
lavora. Il cibo ricevuto e assimilato, introiettato, l'atto stesso di mangiarlo, nonché l’apprezzamento della propria attività costituiscono il
soggetto in dipendenza da una gratuità permanente anche (e soprattutto) nel momento della sua attività più produttiva. Questa risimbolizzazione intorno al mangiare, bere, godere della propria fatica fa entrare
nella logica di uno scambio dove l’affezione passiva precede, accompagna e segue ogni più attiva iniziativa: l’uomo non sa quel che Dio va facendo da principio alla fine (3,11), ma sa che da capo a fondo tutto il
proprio esistere e agire è imbevuto di una gratuità perfettamente intrinseca all’intero suo processo vitale (compreso il risultato conclusivo
dell’umana fatica, non solo le condizioni preliminari).
Molto
apprezzabile
quindi
questo
recupero
non
regressivo
dell’oralità, qualificante anzitutto nel riscattare il positivo della fatica,
«Nel registro dell'oralità, dare e ricevere, poiché tutto si svolge in dimensione fusionale, sono equivalenti. ... L'orale non riconosce né il principio dello scambio (egli disprezzerà il sistema basato sui servizi resi, le transazioni e gli affari in generale) né le scale di valori, convinto
com'è del carattere assoluto della propria. Ciò che egli riceve spontaneamente non deve essere la ricompensa di un merito, ma un favore personale, una grazia» (GRUNBERGER, 130-131).
122
GALIMBERTI 544.
39
godibile nei suoi sforzi e risultati, secondo un’efficienza e funzionalità
sostenute da una gratuità che anticipa, accompagna, corona la fatica
compiuta, finalmente sottratta al disgusto precedentemente denuciato
(2,18).123 La
grazia teologale riconosciuta a garanzia della godibilità
della fatica diventa quindi antropologicamente rilevante, snidando il
suo soggetto a quello schiacciamento narcisistico induttore di crisi depressiva, nonché ritemperandolo dall’ossessivo pensiero della morte. A
scanso di equivoci, convien ribadire che Qohelet, lungi dal potersi qualificare un edonista epicureo,124 è piuttosto propugnatore di un gioioso
materialismo teologale.125 In merito gli interpreti tuttavia oscillano, divisi tra il riconoscervi un messaggio di solida gioia nella creazione di
Dio, ovvero una più rassegnata consolazione, necessitata dalla sopravvivenza, contrappunto psicologico alla disforia giusto per non soccombere. Ma sono le comunemente dette «piccole gioie della vita» a consolare Qohelet, ovvero il grande stupore dell'esistenza ad esse consegnato
ad affascinarlo?
Val la pena notare come la scoperta della gioia e del piacere di
2,24 si differenzia sensibilmente da 2,2, dove invece il consenso incondizionato prestato al proprio desiderio non consentiva di esperire il
piacere come dono di Dio. Il che insinua qualcosa di più che una semplice rassegnazione. Inoltre, anche se l'idea di Dio che nutre paternamente le sue creature è ben nota alla Bibbia,126 tuttavia solo Qoh sanziona teologalmente il «mangiare e bere, dono di Dio», riconoscendolo
quindi primo custode e garante della più elementare e comune felicità
dell'uomo, e quindi promuovendo il valore di un netto e temperato godimento della vita.127 A fronte di uno spasmodico avere/produrre in
123
La radice ‘amal (nominale e verbale: 11x in 2,18-26, nel senso di «faticare») da 2,18 a 2,22 ricorre in ogni versetto; in 2,23 generalizza la
connotazione negativa della fatica dell’uomo, estendendola a tutti i giorni della sua vita. Ma finalmente in 2,24 la fatica viene riscattata nel
segno della soddisfazione coronata dalla gioia teologale.
124
R. MURPHY, Ecclesiastes (WBC 23) Words Book Publisher, Dallas 1992, 27
125
Il carpe diem di Qoh viene infatti «affermato non dal punto di vista epicureo, ma dal punto di vista del monoteismo ebraico» (BURTON,
84).
126
Sal 104; 136.
127
«Per Qoh le cose buone, di cui ci si può rallegrare, in tutta la loro limitatezza sono in ogni caso donate da Dio. Perciò si può e si deve
40
nome dello stretto guadagno (1,3) esposto all’autodissolvimento (2,11),
128
riemerge - ultimamente insondabile, eppur ben percepibile -
un’originaria e irriducibile donazione di grazia teologale legata alla più
comune dimensione antropologica, apprezzata nella sua creaturalità.
Un’esperienza quindi un po’ più consistente di quella oppiacea compensazione a titolo di sopravvivenza che riduttivamente si vorrebbe
talvolta attribuirle. Al riguardo si tratta poi di valorizzare quei sette ri-
tornelli del Libro (ivi incluso 2,24-26) variati e graduati quanto basta
in climax ascendente, 129 che, perlopiù a partire da aspre situazioni di
contrasto con l'evanescenza e perfino con l'assurdità della vita, riconducono al recupero dell’esperienza originaria della gioia di vivere come
dono di Dio.130 Il loro climax (i primi cinque sono mashal constatativi,
anzi comparativi, gli ultimi due sono imperativi, con cui Qoh si espone
più direttamente nella comunicazione attiva con il proprio lettore),
come pure la loro densità contenutistica sconsigliano di sottovalutarli.
Ancorché il momento contrastivo131 si accentui proprio nel difficile poema finale,132 proprio qui tuttavia Qoh invita al ricordo di Dio, qualifi-
prenderne e usarne non nella possibile irrazionalità di un tuttavia, e nemmeno, come spesso si dice nelle spiegazioni, semplicemente ingenuamente, bensì in sobria consapevolezza circa la limitatezza di quel che si può raggiungere e circa l'irraggiungibilità del tutto» (SMEND ,
204
128
SCHWIENHORST- H CHÖNBERG. 293
129
Un antecedente profetico (interessante sotto il profilo sia formale che contenutistico), è reperibile in Ger 21,9; 38,2; 39,18; 45,1-5, una
sorta di ritornello, che per quattro volte in diversi contesti del libro, ripropone l'idea della «vita come bottino» in termini tuttavia differenziati. In Ger 21,9; 38,2 illustra «un programma di resa, non di resistenza» (L. ALONSO SCHÖKEL - HÖKEICRE DIAZ, 676): agli abitanti di Gerusalemme che si arrenderanno ai Caldei sarà lasciata «la vita come bottino», perché la loro esistenza sarà dagli stessi vincitori trattata come
loro preziosa «preda di guerra». Diverso il senso in 39,18 e 45,5, che prende piuttosto un valore ironico: a Geremia, che sarà salvato dai suoi
nemici e non cadrà di spada, poiché ha confidato nel Signore, questi promette «la tua vita ti sarà come bottino». Evidentemente qui il bottino
è possesso di Geremia (strano modo di parlare per un perdente...). Analogo senso (45,1-5) nell'oracolo di Geremia a Baruk in risposta (di
nuovo ironica) al lamento del segretario sul proprio destino. Un minimo tragico residuo della sorte della città santa, della vita del profeta e
del suo segretario. Anche in Qoh il ritornello sul dono di Dio e la gioia di vivere si sviluppa analogamente a Ger, sempre sullo sfondo di uno
scenario tragico e cupo, ma assume maggior frequenza e rilevanza. Anche qui non manca l'effetto ironico.
130
1/ dopo la prima consapevolezza della morte, che abbatte ogni pretesa (2,24-26). 2/ Dopo la contemplazione della misteriosa opera di Dio
(3,12-13), scandita nelle quattordici polarità di tempi (3,1-8) carica di un mistero intuibile (3,11) ma indisponibile, a Dio solo noto, che agisce così per istillare timore di Lui (3,14: prima ricorrenza del tema nel Libro). 3/ Difronte alle ingiustizie sociali e all’unica sorte di uomini e
bestie con cui Dio mette alla prova i primi, stante l'ignoranza di quanto viene «dopo» il singolo (3,16-22). 4/ Di nuovo con lo stesso concetto
di sorte, la gioia viene apprezzata a fronte della ricchezza sfumata, non più suscettibile di eredità (5,17-19: diverse qui le possibilità di traduzione del verbo ‘anah: tener occupato, ovvero rispondere con la gioia del cuore?). 5/ Ancora davanti alla morte, inesorabile livella (8,15)
come antidoto alla voglia di fare il male (cui soccombono gli empi di Sap 2). La gioia di vivere è la condizione per perseverare nel bene, nel
timore di Dio Per le ultime due ricorrenze diventa un imperativo, con indubbio rialzo di tono circa l'effetto comunicativo sul lettore, esaltato
dall’effetto della fine, sicché: 6/ stante il limite invalicabile dell'uomo (9,1-6), nonché l'assenza di vita nello sheol, il primo invito scatta sostenuto da sette imperativi (9,7-10). Da ultimo poi, 7/«prima che la vecchiaia ti renda tutto più difficile», l'imperativo del poema conclusivo
premunisce da un prematuro spegnimento del desiderio (hepes: 11,7-12,8), coltivando una memoria viva del proprio personale creatore (bôre‘ka) ma anche della «fossa» (bôreka) di destinazione e della propria «fonte» (be‘erêka/bôreka: una metafora per la donna: cfr. Pr 5,15. In
merito a questa compossibilità di letture, mantenendo il senso primario di «creatore», cfr. SEOW, 351-352 ). Qui l'invito è per il giovane
(destinatario principale del Libro - e di tutta la letteratura sapienziale in genere).
131
In merito, cfr V. D’ALARIO, L’assurdità del male nella teodicea di Qohelet, in: R. Fabris (a cura di), Initium Sapientiae, cit., 179-198.
132
In merito, di recente C. L. SEOW, Qohelet’s Eschatological Poem, «JBL» 118 (1999) 209-234.
41
candolo con l’unico titolo divino -«il tuo creatore» - lungo tutto il libro
dotato di suffisso in 2a sing.: estremo richiamo all’«affetto» di una creatura confessante con la propria stessa morte la maggior grandezza del
suo creatore (12,7).
In ogni caso Qoh pensa la felicità non come una modalità dell'avere (che ne predeterminerebbe le condizioni di possibilità), ma piuttosto dell'esperienza.133 Più precisamente, non consiste nel possesso dei
tradizionali
marcatori
di
benedizione
(possesso,
ricchezza,
rico-
noscimento sociale, discendenza, lunga vita), di per sé non identici all'esperienza della gioia. In nome dell'esperienza sorgiva della gioia stessa riattinta all'esistenza sostentata, goduta e interpretata come grazia
divina, rispetto alla quale Dio non è solo il donatore, ma anche il garante del suo stesso godimento, Qoh rifiuta la reificazione della condizione beata. Il suo radicale antropocentrismo è il rovescio di un non
meno radicale teocentrismo. Individuando il sommo bene antropologico nella gioia come sintesi di attività e passività riunificate nella gratuità del dono di Dio, egli pone in modo nuovo la domanda circa le effettive condizioni di felicità dell'uomo,134 irriducibile al «profitto» e al
«guadagno», e riconoscibile piuttosto in un dono misteriosamente partecipato all’uomo, ben oltre i suoi meriti specifici, e comunque postulatorio della sua responsabilità difronte alla «parte» elargitagli.135
In definitiva, con 2,24-26 superamento della crisi ovvero convivenza con la crisi? A Qoh sarebbe fin ingenuo domandare un assestamento completamente risolutivo (per questo ci vorrebbe la ricetta dell'immmortalità di cui il nostro saggio non soltanto non dispone, ma al-
133
SCHWIENHORST- HCHÖNBERG. 86
SCHWIENHORST- HCHÖNBERG. 278-9.
SCHWIENHORST- HCHÖNBERG 294. 311. Sostenendo che l'uomo non dispone della felicità col possesso delle sue cose, effimere per definizione, Qoh pare condividere svalutazione che di esse propone la filosofia ellenistica, differenziandosene però nettamente circa il fondamento della felicità. Mentre per quella (Epicuro) l'uomo deve disporre di sé nell'ambito del proprio, in termini di autonomia della finitezza,
Qoh propone una teonomia in equilibrio con l'autonomia, fondando questa in quella, radicando nella partecipazione viva al dono di Dio, e
quindi nella stessa finitezza antropologica la possibilità del darsi felicemente da fare. Questo aspetto (la felicità come dono di Dio) sfugge a
NATOLI, cit. 220, che - sia pure con cautela - ritrova il pensiero di Qohelet quantomeno esposto al rischio di una opzione per Dio e contro il
mondo (ib. 229).
134
135
42
treì esclude che l’uomo possa conquistare o pretendere), ma efficacemente regolativo della crisi: affrontati all amorte (cifra di ogni
dell’evanescenza e assurdità) finché c’è vita si deve sempre di nuovo ritornare a sperimentarne la gioia, poiché questa è l’umana creaturale
condizione con cui si ha da «temere» Dio. Ragionevolmente convinto
che non c’è orizzonte di senso al di fuori di tale quadro, da questa esperienza Qoh
non si stanca sempre di nuovo di ripartire. Non
l’oscillazione tra disincanto e saggezza empirica è il proprium di Qohelet, bensì la capacità - a fronte della vita minacciata -
di ricondursi
sempre di nuovo alla gioia dal Creatore partecipata ad un’esistenza finita.
3.15. Ambivalenze e esiti di 1,12-2,26
Se proviamo ad apprezzare il ductus complessivo (1,12-2,26) della finzione regale per verificarne lo svolgimento e l’esito sotto l'ipoteca
di comicità, parodia, e ironia, a ben vedere fino a 2,23 dobbiamo registrare una sindrome piuttosto ambigua, non subito perfettamente decifrabile, per cui il lettore davanti al re Qohelet inclina di volta in volta a
ridere, piangere, ovvero a riflettere, ma fatica a trovare una posizione
più definita. In effetti la sindrome regale intreccia un filo sinuoso, tragicomico, che talvolta in uno stesso identico asserto suona reversibile
nel senso di entrambe queste due componenti.
L’ombra di un certo qual aspetto tragico può percepirsi nel fatto
che proprio una figura regale, quindi originaria e massimale,136 viene
per l’appunto afflitta da una crisi, tempestata com’è (almeno fino a
2,23) da una implacabile gragnuola di sanzioni negative. Incastonate in
ogni unità letteraria, e (almeno fino a 2,11) perfin anticipate rispetto
alle loro motivazioni proposte in 2,12-23 (ma con studiato ritardo),137
136
Tragico può essere definito la crisi l'originario (HÖLDERLIN). In merito, cfr. R. OTTONE,, Il Tragico come domanda. Una chiave di volta
della cultura occidentale, (Dissertatio sr 21 ) Glossa ed. Milano 1998.
137
Introdotte non prima di 2,12ss.
43
producono un effetto di primo acchito tragico, dal momento che l'eletto, di per sé dotato di ogni miglior condizione per riuscire, in realtà
torna sempre di nuovo a confessare il suo misero fallimento - sicché
verrebbe da pensare alla sorte di qualcuno beffardamente ingannato,
da Dio stesso predestinato allo scacco di un compito ineludibile quanto
impossibile (1,13). Nella parte più squisitamente riflessiva (2,12-23)
l’emergere delle ragioni della crisi di Qohelet accentuano questo profilo. Il risentimento contro il successore che sblocca la rimozione della
morte (2,12-13), l'unica sorte per il saggio e il cretino (2,14-16), come
pure la depressiva dichiarazione di odio per la vita (2,17-18), nonché
l'assenza di profitto sotto il sole (2,11.22), e - per finire - la pena diuturna e l'insonne corrosione del cuore umano (2,23) drammatizzano
cupamente il quadro complessivo. Sì, par davvero opportuno dire:
drammatizzano, piuttosto che tragicizzano. Un più univoco filo tragico
non par qui davvero rintracciabile (né in tutto Qoh),138 dal momento
che sul dorso di questo stesso filo un risvolto comico si dipana lungo il
racconto sostenendolo dal principio alla fine. In effetti non va mai dimenticato, nemmeno per un momento, il carattere due volte fittizio del
personaggio, non solo rispetto alla storia degli effettivi re davidici (trai
quali non è collocabile), ma anche in quanto caricaturato nella sua autocandidatura a insuperabile primatista di sapienza (1,16). Le esasperazioni ossessive di questa autobiografia (palesate nel racconto biografico e introspettivo di Qoh, come pure nei suoi commenti narrativi),
soprattutto in 1,12-2,11 esibiscono una megalomania istrionica non solo intrinseca al suo agire/parlare da protagonista, ma anche alla sua
stessa enunciazione narrativa. Questa serrata reiterazione delle sanzioni di fallimento, spìa di un vissuto depressivo felicemente investito in
una geniale configurazione artistica, tradisce un plusvalore ultimamente destinato a ridimensionare l’autoreferenzialità di un io troppo en138
Così anche S. NATOLI, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli Milano 1986, 225.
44
faticamente afflitto e rappresentato. Quella di Qoh è la brillantemente
esagerata (e proprio per questo «realistica») messa in scena di una ferita narcisistica (con conseguente depressione) a loro volta sapientemente esagerate, ridicolizzandole quanto basta in ordine a recuperare le
vere (tutt’altro che indolori) proporzioni dell’umana condizione. Mentre portano ancora la mesta traccia della parola depressa, tutte le sanzioni di fallimento sono ormai trasfigurate in felici giochi verbali, funzionali alla fruizione artistica accompagnata (perfino identificata) alla
pratica di un duro esercizio spirituale. Questo loro profilo estetico, infatti, non diminuisce, anzi costituisce la loro effettiva (non fittizia) serietà, consistente in una molto azzeccata - appunto autoironica - rappresentazione dell'eccesso di tetraggine indotto dall’eccessiva istanza
narcisistica. Poeticamente verbalizzato, bilanciato dal «correlato oggettivo» (T.S. Eliot) proprio dell’opera letteraria, tetraggine e perfino atrocità ne escono come illuminati, trasfigurati,139 se, per definizione, scrivere, e tanto più poetare, è poi nemmeno troppo implicito sinonimo di
sperare (cfr. Gb 19,23-29).
E neppure si dimentichi che il fallimento sanzionato porta su di
una questione puramente spirituale per il filtro di un atto spirituale,
una finzione messa in scena per riflettere. La riflessione spinta fino
all’autoriflessione è la vera grandezza che fa del re Qoh qualcuno di
superiore a tutti i suoi predecessori nell’ambito della saggezza: egli infatti non subisce tragedie dinastiche o nazionali, spargimenti di sangue,
o malattie, e nemmeno perde il potere, l’onore, terre, ricchezze (decisiva in tal senso la differenza rispetto a Giobbe). Tutta autonoma e da
puro pensiero, la sua crisi nasce per intima forza riflessiva, più precisamente per l’interiore dolorosa presa di coscienza della morte,140 pre139
Viene in mente Montale: La più vera ragione è di chi tace. /Il canto di chi singhiozza, è un canto di pace. Bella riflessione sul carattere
comunque sempre veritativo disvelativo della poesia, in F.VIERI, Verità della poesia, «Rivista di Ascetica e Mistica» XXV (2000) 407-419.
140
La differenza sostanziale è che Giobbe, eroe pagano dei tempi antichi, vien decostruito a partire da eventi che lo toccano in tutto quanto è
sigla di vita benedetta, mentre Qoh - re davidico dei tempi moderni - lo è piuttosto a partire dall'esercizio della riflessione o del discernimento. Entrambi figure massimali, offrono un paradigma insuperabile quanto a riferimento.
45
cedentemente rimossa. Con questo passo, Qoh inaugura un nuovo
«principio della sapienza», non più costituito dal «timore di Dio», bensì
appunto da una riflessione (da un’accettazione di sé) a partire dalla
propria mortale finitezza,141 consumando così una vera e propria più
radicale «svolta antropologica» nel pensiero sapienziale (tutto, per definizione, quanto mai antropologico), non a ridurre, ma semmai a far
ulteriormente risaltare il profilo teocentrico del «timore di Dio» (3,14;),
riattinto a partire di qui, solo dopo la morte (1,12-2,23) e la successiva
riscoperta della gioia di vivere (2,24-26; 3,12-13), comprendente
l’esercizio di una misurata (4,5-6; 7,16-18), ma sempre intraprendente
(7,11-12; 9,10; 11,1-6) saggezza parziale. Il che sarebbe comunque inattingibile senza lo straordinario acume introspettivo e - più in genere
- fenomenologico di Qohelet, che nella propria autosservazione potenzia la sua straordinaria cardiognosi con quel tocco di caricatura perfettamente coerente al proprio assunto di autoridimensionamento a fronte della morte e dell’incessante stupore per la vita e fame di senso (1,8;
6,7).
Altalenandolo sapientemente su questa ambivalenza tragicomica,
Qoh fa navigare il proprio lettore sulla rotta sinuosa di una ironia giocata sul contrasto tra comicità dell'enunciazione mascherata da un lato,
dall'altro la seriosità degli intenti dichiarati e poi sanzionati fallimentari. Il racconto si unifica così sul registro autoironico, dove il narratore
abilmente si propone al tempo stesso vittima non solo della sua stessa
sorte, ma anche della propria narrazione, in certo qual senso quindi
anche primo destinatario/interlocutore del proprio racconto, in forza
di una tutta speciale autosservazione.
141
Ci si può chiedere tuttavia, se Qoh entri in crisi con il solo pensiero di morire, ovvero al solo pensiero di morire. E' in gioco la forza intellettuale e spirituale di chi riesce a pensare la morte, ovvero la labilità psicologica di chi non riesce nemmeno a sostenerne l'idea, e ne resta
come ossessionato? Interessante - forse non necessaria alternativa!
46
Fino a 2,23 il racconto resta sospeso drammaticamente a questa
tragicomica ambivalenza. Il cuore si gonfia, compiaciuto destinatore e
destinatario di grandi progetti. Mani e braccia agitano gesti enormi che,
dopo le prestigiose imprese, rigorosamente narcisistiche e autoreferenziali, ogni volta stringono il nulla, per poi rifiutare ogni abbraccio e
impegno, scoperto incapace di garantire vita. L'effetto narrativo può
paragonarsi al clownesco tentativo di gonfiare un pallone che, a dispetto di potenti insufflazioni, ogni volta sfugge dalle labbra flaccido come
prima. Se si vuole, qualcosa di analogo alle fatiche di Sisifo, che tuttavia
ne differiscono profondamente, improntate come sono alla stretta logica di un fato punitivo, e ignorando il dispositivo autoironico di cui re
Qohelet sa dotarsi.
A far cessare una doccia scozzese alla lunga spossante, con il primo della serie di proverbi 'en tôb (2,24-26) una novità imprevista non
deducibile dalle attese della narrazione precedente, fuori dallo schema
della consueta sanzione fallimentare, rialza un piccolo zoccolo duro e
istituisce un nuovo registro simbolico in grado di risarcire (su di un
piano diverso da quello «economicistico») l’esito negativo circa il guadagno dell'uomo sotto il sole (cfr. 2,11 con 1,3; 3,9).142 Qui Qoh, con un
gesto sorprendente e obbediente alla logica dello svelamento finale,
smette lui stesso i suoi panni regali e accetta quelli comuni, proponendo un modello antropologico totalmente diverso rispetto a quello inizialmente progettato, dove cade la pretesa elazionale (narcisistica) di
singolarità assoluta causa sui, pretendente a costruirsi un'immortalità,
e subentra l'accettazione della propria semplicissima e più comune
condizione umana, gratificata dal dono di Dio. La conclusione di questa
decostruzione autobiografica non assomiglia a un trionfo (e ne resterà
142
Sotto il profilo narrativo inoltre 2,24-26 propone un ulteriore allineamento tra il narratore e il lettore (abilmente preparato già in 2,21-23):
il narratore, finora mantenutosi nettamente superiore al lettore, sia pur dissimulando questo effetto, scende dal suo trono di privilegio e si
identifica più direttamente con il lettore, condividendo con lui non solo il cruccio del cuore dell’uomo (2,23), ma anche la riscoperta del dono
di Dio come il meglio per l’uomo (2,24).
47
comunque deluso chi ancora conserva il proprio regal sogno nel cassetto). Non porta su qualche impresa straordinaria, ma sulla comune possibilità di mangiare, bere, soddisfarsi delle proprie fatiche, concessa a
tutti e teologalmente interpretata (2,2,24-26). La novità di questo codice simbolico (mangiare e bere/ godere delle proprie fatiche) sta nella
ordinaria e universale condizione umana, riscoperta in un orizzonte teologale di gratuità (assente dal precedente statuto).
Da qui il tragicomico si stabilizza come più compiutamente autoironico, secondo una procedura tipica dell’ironia drammatica: una volta
frustrata la pretesa di assoluta unicità, Qoh riconosce che l'unico vero
bene per l'uomo sta nella sua comune e primaria condizione creaturale
inaugurando una misura non eroica, ma nemmeno disonorevole (che,
avendo un’idea adeguatamente ironica delle cose, possiamo anche definire semplicemente «realistica»).143 Dopo un'elaborata pars destruens,
anticipata nelle numerose sanzioni, e successivamente esplicitata nelle
motivazioni e reazioni più profonde (2,12.14-16.18-19.21), la pars con-
struens (2,24-25) propone una ristrutturazione simbolica dove viene
abbandonata ogni megalomania e frenesia, e recuperato invece un livello di oralità non regressiva, la misura nella prassi, il tutto strettamente teologale. Non a caso il momento ricostruttivo abbraccia la sezione ulteriore (3,1-15), dove mancano vistosamente maschera regale e
sanzioni di fallimento, e al «gramo(ra‘) compito» divino affidato agli
uomini (1,13) viene sottratta questa infelice qualifica (3,10).144
3.16 Conclusione
La maschera regale assolve quindi una funzione comunicativa e
una ermeneutica, entrambi ottimali. Serve a Qoh per attestare al pro-
143
Così p.es. L. MAZZINGHI, Il mistero del tempo: sul termine ‘ôlam in Qo 3,11, in: R.FABRIS (a cura di), Initium Sapientae. Scritti in onore di F. Festorazzi nel suo 70° compleanno (ABI Supplementi alla Rivista Biblica 36) EDB Bologna 2000, 147-162. D.B. MILLER, What the
Preacher forgot. The Rhetoric of Ecclesiastes, «CBQ» 62 (2000) 215-235; BROWN ,Character, cit., 150.
144
L’intero processo va esteso fino a 3,16-22 (dove l’esperiuenza originaria di 1,12-2,26 viene semplicemente ripresa daccapo (wesabtî: 3,16)
.
48
prio lettore un’autointerpretazione entro cui entrambi possono misurar
se stessi. Praticata con autoironia senza paraventi e con istrionica e
perfin complice comicità, la finzione regale sollecita garbatamente il
lettore ad un'identificazione graduale con il personaggio. In quanto figura massimale idealtipica (universale concretum) Qohelet il re gioca
sul lettore il ruolo di specchio al tempo stesso fantasmatico e illuminante. Specchio fantasmatico, in quanto sulla finzione di Qoh anche il lettore può a propria volta leggere proiettivamente il sogno di
ogni umana creatura: quello di sentirsi unico, assoluto, elativo centro
dell'universo: «il mondo è stato creato solo per me!»).145 Ma anche illu-
minante riflesso critico in quanto a fronte delle pretese regali di Qoh,
anche il lettore può riconoscersi nella decostruzione delle più o meno
insane pretese. La proiezione critica del lettore sul protagonista è favorita da una strategia ironica non aggressiva, potenziata dalla combinazione dell'esplicita mascherata regale, con il carattere di testimonianza
autobiografica del suo libro. Comicità della maschera e autoironia
sdrammatizzano l'intera sindrome regale narrata da Qoh, sollecitando
il lettore a scoprirsi lui stesso più o meno consapevolmente rivestito di
analoghe pretese, a sbarazzarsene
e a ridimensionarsi, senza percio-
stesso spaventarlo più di tanto.
L'aspetto ironico della finzione regale tocca tuttavia il suo acme
teologico sotto il profilo ermeneutico, ovvero quello del valore universale attribuibile a questa figura, ovvero come decostruzione di un mo-
dello antropologico regale ben noto a Israele come prototipo tout court
dell'universale condizione umana (Gen 1-2; Sal 8), per altro già messo
pesantemente in questione (Sal 89; Gb 7),146 ma qui rivisitato con inedito piglio critico. E' in gioco la crisi di tutta un'antropologia trattata
nella crisi di un «carattere»,147 come pars destruens di un più completo
145
146
147
Tal. Ber. 6b.
In merito, cfr. R.VIGNOLO, Sillabe preziose. Quattro salmi per pensare e pregare, Vita e Pensiero Milano 1998.
BROWN,
49
cammino iniziatico che, pur restando nell'alveo sapienziale mirato al
bene e alla felicità dell'umana condizione, procede tuttavia diversamente dalla sapienza tradizionale. Non però nel senso di innescare una
presunta «crisi della sapienza»,148 quanto piuttosto per elaborare
un’effettiva «sapienza della crisi»,149 a riprova di quanto questa tradizione sappia dallo stesso proprio interno affrontare decostruzione e ricostruzione, evidentemente a prezzo di orientamenti e parametri e
nuovi, che meritano alla proposta qoheletica - anch’essa dedicata al
bene e della felicità umanamente possibili e praticabili -il nome di «critica». L’accentuata riflessività a partire dalla condizione del soggetto
mortale rappresenta il contributo specifico di questo autore, e fa la differenza rispetto al passato a livello epistemologico, nonché dei contenuti antropologici. L’elezione non può confondersi con l’elazione, tantomeno come autoelazione, pura e semplice illusione. L’uomo, ogni
uomo, vorrebbe essere re, ma non potrà mai esserlo, costruirsi
un’immortalità, ma non ci riuscirà mai, perché semplicemente muore.
Se di elezione per lui si vuole parlare, si deve comunque misurarla
sull’universale condizione mortale, che a Qoh appare insuperabile.
Ben altra parodia regale, sadicamente inscenata a spese di Gesù di
Nazareth (Mt 27,27-31.33-37.38-43; Mc 15,16-20.22-26.27-32; Gv 19,115.16-22), svelerà la bontà dei presupposti di Qoh ritrascrivendoli, non
tanto su altri orizzonti, ma su di una loro nuova indeducibile rivisitazione, che farà coincidere il più radicale dono di Dio con il massimo
dello hevel, ravvicinando quindi le polarità della bussola di Qohelet.
3.15. A mo’ di epilogo .
Varrà infine la pena notare che - rispetto all'approccio psicanalitico - spiritualmente parlando è reperibile un percorso niente affatto
148
149
Come voleva H. GESE, Die Krisis der Weisheit bei Kohelet, in: Idem, Vom Sinai zum Sion, (BEvTh 64) München 1964, 168-179.
Così M.ROSE, De la «crise de la sagesse» à la «sagesse de la crise», «RTP» 131 (1999) 115-134.
50
parallelo, ma simultaneo, che pur non perfettamente coincidente, risulta comunque molto analogo. Ricorrendo al linguaggio antico della
spiritualità dei Padri del Deserto, oggi ritornato all’attenzione generale,150 si potrà evidenziare internamente alla sindrome regale una palese
affezione di philautia,151 con conseguente esplosione di accidia,152 superata (o quantomento fronteggiata) con l'acquisizione della «via regale»
(ovvero attraverso il senso pacificato della propria misura davanti a
Dio). All’eccesso di narcisismo corrisponde la philautia, alla depressione l'accidia, e infine al mangiare, bere, godere delle proprie fatiche
come dono di Dio un corrispettivo può trovarsi nella cosiddetta «via
regale»,153 ovvero nell'assunzione di uno stile di vita pacificato dalla
gratitudine, temperato dalla moderazione. La sindrome regale psicologicamente scandita dalla serie narcisismo-depressione-autoregolazione
trova quindi il suo omologo spirituale ridescrivibile nella concatenazione di philautia-akedìa-via regale (dove quest'ultima poi, suona in
involontaria ma efficace antifrasi alla sindrome regale di Qohelet...).
Certo la gaudente frugalità qoheletica non è quella ascetica dei Padri
del deserto (inclini piuttosto al contemptus mundi). Ma proprio
l’indubbia differenza trai due mondi rende ancora più interessante
questo parallelo.
150
G. ANGELINI, Le virtù e la fede, Glossa, Milano 1994. S. NATOLI, che apre il suo Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano
1996, P.MIQUEL, Lessico del deserto. Le parole della spiritualità, Qiqayon Bose 1998.
151
I. H AUSERR, Philautia. Dall’amore di sé alla carità, Qiqayon, Bose 1999.
152
Per l’accidia, vedi il saggio di G. BUNGE, Akèdia (sic!). La dottrina spirituale di Evagrio Pontico sull'accidia, Ed. Scritti Monastici Abbazia di Praglia 1992,, che alle 7-13 porta una Prefazione di G.BENEDETTI, psicanalista che istituisce un più preciso parallelo tra accidia e
depressione. Questa prefazione manca dalla seconda edizione del volume per i tipi di Qiqayon (Comunità di Bose). Il nesso philautia/accidia
è esplicitamente posto da Evagrio (e da Bunge).
153
Per la «via regale», cfr. BENIAMINO, 5; POEMEN, 31 (rimando all'edizione di L. MORTARI, Vita e detti dei Padri del Deserto, 1 e 2, Città
Nuova Roma 19903; inoltre vedi Nau, 620 e 641 in: L. CREMASCHI, Detti inediti dei Padri del Deserto, Qiqayon Bose 1986). La via regale
è definita da Poemen «leggera», perché all'insegna della moderazione (p.91). «Percorrete la via regale (Num 20,17), misurate le miglia, e non
perdetevi d'animo», raccomanda Beniamino, che in concreto intende: «fate questo e potrete salvarvi: "siate sempre nella gioia, pregate senza
interruzione, in ogni circostanza rendete grazie" (1Tes 5,16ss.)»
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