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Teti-Pietre di pane. Un`antropologia del restare

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Teti-Pietre di pane. Un`antropologia del restare
Estratto da: Vito Teti, Pietre di pane. Un’antropologia del restare, Quodlibet, Macerata 2011.
Ulteriori informazioni: http://www.quodlibet.it/schedap.php?id=1943
Prologo. Del restare
Un frammento di villaggio calabrese ha una carica atomica. È
una temperatura a cui pochi resistono; se lacrime e sangue si trovano nelle mie opere, è perché costa lacrime e sangue vivere qui.
Fortunato Seminara, 1957
«Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni». L’incipit di Tristi Tropici di Lévi-Strauss è
forse la frase più celebre e più avvincente di tutta la letteratura
antropologica, e ricorda come il viaggio e lo spaesamento rappresentino i tratti costitutivi dell’esperienza antropologica.
Nulla più dell’idea del “restare” potrebbe, quindi, apparire estraneo alla storia del sapere antropologico e dell’etnografia. Restare
sembra l’antitesi del viaggiare, del mettersi in discussione, della
disponibilità al disordine, alla scoperta, all’incontro.
Ma davvero l’idea e la pratica del restare sono inconciliabili con
l’esperienza antropologica? E, soprattutto, è possibile pensare un
viaggiare separatamente dall’esperienza del restare e davvero il
restare va accostato all’immobilità, alla scelta di non incontrare l’altro e di non fare i conti con la propria ombra, il proprio doppio, l’alterità? Restare è difendere un appaesamento o esiste anche una
maniera spaesante di restare che, a volte, può risultare più scioccante del viaggiare? Qui, attraverso narrazioni, cerco di proporre la
necessità di ripensare le concezioni e le pratiche del restare, alla luce
di nuove articolazioni tra l’idea di “qui” e di “altrove”.
Nella tradizione culturale dell’Occidente il nomadismo ha affascinato più della stanzialità, l’erranza più della permanenza. L’attesa e
la nostalgia di chi resta sono state narrate assai meno di quanto non
siano state narrate le avventure e le nostalgie di chi è partito. Eppure le due esperienze sono profondamente intrecciate. Il viaggio di
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pietre di pane
Ulisse non avrebbe senso senza l’attesa di Penelope. Nel suo Per l’alto mare aperto, dove ripensa l’origine e la fine della modernità, Eugenio Scalfari ricorda che la rappresentazione mitologica di Ulisse nell’Odissea coincide con quattro figure femminili: «Circe la maga,
Calipso l’innamorata, Nausicaa la vergine palpitante, Penelope la
moglie regina». Per completare il quadro, Scalfari evoca le Sirene e
il loro canto tentatore e poi un quinto personaggio, Atena, la cui presenza domina su tutte le altre e ha il compito di indicare all’uomo i
suoi limiti affinché, quando sceglie di confrontarsi col mistero, non
perda il controllo di sé. «Senza quelle figure femminili che fanno
parte del mito odissiaco, l’eroe moderno non ci sarebbe stato e quel
mito avrebbe avuto vita molto breve». Servono molte figure e personaggi femminili – la maga, l’innamorata, la vergine, la moglie, le sirene tentatrici, la dea della saggezza – per raffigurare il “femminile”,
mentre basta un solo eroe per incarnare i vari “tipi” maschili: il guerriero, il navigatore, il marito, il seduttore, l’astuto, il vendicatore.
La modernità nasce con il mito dell’eroe che viaggia e ritorna e
con il mito della donna che attende. Ma l’attesa non va confusa con
passività, immobilismo, apatia. L’attesa è dolore e progetto, speranza, pazienza, capacità di continuare e di rinnovare l’esistenza, nonostante tutto. L’attesa è attenzione.
Sono nato in una terra in cui partenza e attesa hanno costruito una
nuova mentalità, una nuova identità. L’emigrazione è fatta di dolore
della partenza e di dolore dell’attesa, di speranza, di fallimenti, di successi di chi parte e di speranze, fallimenti, successi di chi resta. Agli
“uomini senza donne”, che hanno popolato le mille città del mondo,
hanno dato senso le “donne senza uomini”, che sono rimaste nei paesi
e nelle campagne. Ma l’attesa delle donne degli “americani” si è tradotta in capacità organizzativa, in assunzione di un nuovo ruolo, in
costruzione di una nuova figura. L’attesa spesso è stata “disattesa”,
nelle partenze senza ritorno. Ma la mobilità dell’universo tradizionale, nel bene e nel male, si è fondata sull’apporto di chi è partito, molte
volte senza tornare, e di chi è rimasto, tante volte senza “attendere”.
La fuga, la mobilità, l’inquietudine delle persone di Calabria
hanno rappresentato l’altro volto della loro stanzialità e del loro radicamento, atteggiamenti e scelte che riconducono a una storia di lunga
durata segnata da catastrofi, abbandoni e rifondazioni di luoghi.
Il viaggio avrebbe significato senza qualcuno che attenda il ritorno?
prologo. del restare
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Anche il viaggio dell’antropologo è intrinsecamente legato all’esigenza di tornare, di raccontare, di spiegare ai rimasti e forse, prima
di ogni cosa, al se stesso rimasto. La scrittura e la narrazione antropologica – almeno come bisogno – nascono ancora prima di andare
sul campo. Ulisse che racconta le sue avventure, e nel racconto trova
senso al suo dolore e alla sua esperienza, è anche prototipo del viaggiatore che deve raccontare. Nel caso del viaggio definitivo, senza
ritorno, a essere narrato, raccontato, spiegato, magari rifondato, sarà
il luogo di origine, la cultura di provenienza o di appartenenza. Ma
come il viaggio non comporta necessariamente spostamento mentale, l’attesa può essere accompagnata da un grande mutamento esteriore e interiore. Il viaggio può essere un falso spostamento e la stanzialità può essere segnata da grandi cambiamenti.
Viaggiare e restare, partire e tornare sono esperienze inseparabili. L’emigrazione è stata la morte di un universo ma anche un moltiplicatore di storie e di luoghi, di ombre e di doppi.
In cammino
In epoca romantica – ma potremmo andare molto più indietro
nel tempo – il motivo dell’ombra e del doppio, del rischio di perdersi e della necessità di ritrovarsi, appaiono legati sia all’esperienza del
viaggiare che a quella del restare. La Storia meravigliosa di Peter
Schlemihl (1814), di Adalbert von Chamisso, narra la vicenda dell’individuo condannato all’erranza e che nelle esperienze di viaggio
senza direzione cerca una possibile salvezza. Joseph von Eichendorff, in Vita di un perdigiorno (1826), ci racconta di viaggi da
fermo. Xavier de Maistre, nel suo Viaggio intorno alla mia camera
(1794), inaugura l’errare e la scoperta da fermi. Esiste inoltre una
teoria di narratori e di vagabondi, di “narrabondi” che, soprattutto nell’Ottocento letterario inglese, fanno le più sensazionali scoperte e si aprono ai più profondi mutamenti allontanandosi soltanto di
pochi chilometri da casa. Grandi autori della tradizione europea (da
E.T.A. Hoffmann a Baudelaire e poi Joyce, Kafka, Musil) fanno i
conti con il proprio io, i propri luoghi, il proprio tempo, con il proprio mondo rimanendo fermi nella loro città, a volte chiusi nella
loro stanza – e questa introspezione è fondamentale per il pensiero
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pietre di pane
antropologico, tanto che le loro opere sono parte integrante del
bagaglio culturale di molti antropologi.
In questo periodo si afferma un’idea di viaggio che incontra quella della stanzialità, dello spostamento che richiede poca fatica e si
consuma in un breve spazio, e che, per quanto sottovalutato, diventerà fondamentale per la storia del pensiero antropologico e per l’etnografia. Studiosi di tradizioni locali, raccoglitori di testi orali e di
usanze, folkloristi ed etnologi individuano nei luoghi in cui vivono e
in cui abitano un altrove. Il borgo natio diventa il campo delle loro
ricerche, e gli “altri” sono le persone con cui vivono a contatto. È un
fiorire di studi, di esplorazioni, di documentazioni, di scoperta della
diversità e dell’alterità dell’endotico, che si riveleranno cruciali per la
percezione di sé e degli altri nella storia del pensiero antropologico.
La rivisitazione demartiniana dell’invito gesuitico della seconda metà
del Cinquecento a occuparci delle «nostre Indie di quaggiù» segna
l’inizio di una stagione del «ritorno a casa» degli antropologi.
Sono note le critiche a una tradizione demologica di tipo localistico, ma esiste una mole di studi e di ricerche folkloriche ed etnografiche, in Italia e in Europa, senza le quali la storia del pensiero antropologico sarebbe scritta in maniera parziale. James Frazer, prototipo
dell’antropologo “fermo”, costruisce la sua grande narrazione grazie
ai dati e ai documenti che arrivano non soltanto dal mondo dei “selvaggi” e dei “primitivi”, ma anche dagli antichi e dalle classi popolari europee. Il folklorista, nelle sue elaborazioni più raffinate, in fondo
anticipa un tipo di flâneur che si concentra a rileggere, in chiave
approfondita, il contesto locale. Giampaolo Nuvolati nota che «il flâneur domestico e nativo […] ripercorre le strade e i luoghi della sua
quotidianità, ma filtrando la realtà attraverso una serie di strumenti
descrittivi e narrativi che gli consentono di coglierne i significati più
reconditi». Al flâneur ottocentesco e novecentesco che visita villaggi
e campagne e che spesso rivela un atteggiamento antimoderno e
nostalgico, fa da pendant il ben più noto flâneur che visita la propria
città, la scopre, la interroga, la racconta. Da Baudelaire a Du Camp,
da Benjamin ad Augé, lo sguardo viene posto sulla città intesa, di
volta in volta, come labirinto, luogo di perdita, corpo, campo di osservazione delle trasformazioni e delle persistenze. Il viaggio urbano è
costitutivo dell’antropologia moderna e postmoderna. Spesso le
distinzioni tra “sguardo da lontano” e “sguardo da vicino” rispondo-
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no soltanto all’esigenza di creare facili classificazioni. Certo, i due
modi di guardare, le tecniche di rilevazione, i modi di accostarsi ai luoghi e alle persone cambiano e cambiano la narrazione e la scrittura. Il
problema di fondo è come si osserva, con quale finalità, il grado di
partecipazione, e ciò che va considerato è se la distanza geografica
corrisponda alla distanza interiore. Bisogna sempre porsi la domanda: “lontano da dove?”. E chiedersi anche: “lontano da chi”? Il desiderio dell’altrove non presuppone un viaggio fisico ma un’esperienza
mentale che consenta di utilizzare, alternativamente e, a volte, contemporaneamente, uno sguardo presbite e uno sguardo miope. L’ordinario e lo straordinario si ibridano e si ridefiniscono continuamente. Freud e Heidegger sono accumunati dall’interesse per la condizione che la lingua tedesca definisce Unheimlich: qualcosa che ci era
familiare si presenta improvvisamente come estraneo, sconosciuto, ed
è la condizione dello “spaesamento”. Claudio Magris ricorda come
«il noto e il familiare, continuamente scoperti e arricchiti, sono la premessa dell’incontro e dell’avventura […]. Il viaggio più affascinante è
un ritorno, un’odissea, e i luoghi del percorso consueto, i microcosmi
quotidiani attraversati da tanti anni, sono una sfida ulissiaca».
Osservare il proprio mondo comporta delle responsabilità e dei
rischi, mette in gioco diversamente dall’osservare un mondo lontano. Marc Augé, nel suo Il metrò rivisitato, ha parlato di una sorta
di sdoppiamento: «quando ho scritto Un etnologo nel metrò, non
avevo certo l’intenzione di fare un’etnologia del metrò. Osservavo,
da etnologo, l’etnologo che ero, ossia l’etnologo di ritorno dall’Africa. Lo osservavo nel metrò e gli rivolgevo delle domande. Lui
rispondeva come poteva, con riferimenti e termini da etnologo. Cercavo insomma di mettermi nei panni di un indigeno, ma questo indigeno un po’ particolare ero io. Da questo punto di vista, non dovevo fare un grande sforzo di immaginazione. La difficoltà consisteva
piuttosto nel cercare di trovare le domande da poter rivolgere a questo indigeno, mettendomi a interrogarlo da etnologo. Non mi si
accusi di spaccare il capello in quattro: è l’etnologo che spaccavo in
due per cercare di fargli capire (di farmi capire) cosa significasse
essere interrogato da qualcuno come me».
Si va al di là delle narrazioni dell’antropologia interpretativa e
l’etnologia si fonde, senza confondersi, con la letteratura, la memoria, l’introspezione, la meditazione. L’antropologo è osservato e
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osservatore, guarda gli altri e lui fa parte degli altri. Cerca informazioni e si trova a essere informatore. Interroga e si interroga, e la differenza, allora, non sta nella lontananza, ma nelle motivazioni. Questo non significa confondere scrittura etnologica e scrittura letteraria, ma capire che le due scritture sono contigue e complici.
Nella dimensione globale contemporanea è possibile in qualche
modo rileggere ritorno, rimpatrio, endotico, benché in una dinamica non più circolare ma multidirezionale, con traiettorie molteplici
interne ed esterne. L’antropologia, nel corso degli ultimi decenni del
Novecento, supera l’assunto dell’altrove come oggetto esclusivo e
come unica forma di “distanza” metodologicamente accettabile e si
volge verso l’endotico, si fa critica culturale, attua quello che Marcus e Fisher definiscono «ritorno a casa» e «rimpatrio». Naturalmente, anche in questo caso, non si torna al punto di partenza.
Che senso dare al restare oggi, in un mondo di non luoghi, di non
ancora luoghi, o di non più luoghi? Nel momento in cui l’antropologia sconta la crisi del proprio oggetto di ricerca, è bene interrogarsi di
nuovo sulla possibilità di individuare anche nel restare una forma di
pratica antropologica. L’antropologo che resta incontra i rimasti, sperimenta le nuove dinamiche culturali; vede gente partire e analizza le
nuove modalità del distacco; vede gente arrivare con un nuovo carico di problematicità e interpreta, di volta in volta, ibridazioni, conflitti, elaborazioni di nuove dinamiche identitarie. L’antropologo che
resta studia le situazioni della postemigrazione, analizza il proprio territorio mentre diventa territorio di frontiera, interpreta il disagio, la
sofferenza, l’inquietudine, il Che ci faccio qui?, il rimorso, lo shock
culturale di chi si sente appartenere a una tradizione immutabile mentre, a tutti gli effetti, è preso nelle dinamiche della globalizzazione. Studia il fenomeno dell’abbandono dei paesi e contemporaneamente racconta quegli stessi luoghi vuoti che si riempiono di nuove figure.
Muoversi nelle città, percorrere a piedi le periferie e la loro costitutiva marginalità, attraversare paesi e campagne, guardare e conoscere quelli che arrivano, richiede una pratica e un’arte del camminare lento, silenzioso, a volte solitario, circospetto. Conosco persone che
hanno viaggiato molto e non hanno visto nulla. Ho incontrato persone che hanno fatto tutti i viaggi di questo mondo e non hanno mai
camminato. Conosco persone rimaste ferme che conoscono il mondo.
Nel mondo in cui la lontananza, come scrive Prete, non è più lonta-
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na, ma è «prossima, transitabile, persino domestica» e si trova «nelle
case, sul monitor del computer, sul display dei cellulari, nel suono che
giunge agli auricolari», la scoperta e le novità vanno forse cercate nel
posto apparentemente più vicino, magari quello che abitiamo, e che
forse ci è diventato più lontano, più estraneo, più irriconoscibile.
Camminare, anche per coloro che sono rimasti, è un esercizio di
verità così come in passato lo era stato per coloro che avevano scelto come loro campo di ricerca luoghi lontani e hanno visto nel viaggio la scoperta, la salvezza, la terapia, l’apertura di orizzonti. Solvitur ambulando, camminando si risolve, annotava Chatwin.
Solvitur ambulando
La concezione salvifica del viaggiare e del camminare è presente
in tutte le religioni. È un dato delle culture tradizionali anche della
mia terra. Il cammino – come confermano numerosi testi orali –
appare elemento fondante di verità, di novità e di giustizia. Il Cristo
delle leggende e dei racconti calabresi “viaggia per il mondo”, da
solo, insieme a Pietro o ad altri discepoli, e sconfigge la fame, denuncia le menzogne e le oppressioni, afferma la verità e la giustizia tra
gli uomini. Le Madonne e i Santi più venerati della regione sono
venuti da fuori, e da tanto lontano i Santi viaggiatori che hanno portato verità, pace e salute. San Francesco di Paola, uno dei santi più
amati, unisce vita ascetica e cammino: è un santo del luogo, radicato, e un santo viaggiatore. Non a caso diventa il santo patrono delle
persone che si mettono in mare e degli emigranti. L’emigrazione è
stata anche un esodo di tipo religioso, ricerca di “mondo nuovo” e
di “nuova vita”. La Calabria del passato è attraversata da innumerevoli “vie dei canti”. Il viaggio religioso, che coinvolgeva le popolazioni della regione, era erosione della vita monotona e afflitta, spazio di libertà, ricerca di salvezza e di guarigione. “Cammina cammina” recitano diversi racconti popolari, nei quali i protagonisti si
affrancano o tentano di liberarsi da miseria, fame, ingiustizie. Camminare significa conoscere, capire, cambiare, migliorare le proprie
condizioni. Il “vecchio camminante” di cui parla il folklore è l’uomo
di esperienza e di mondo, intesi come capacità d’interpretare meglio
il proprio luogo. Ma abbiamo perso l’abitudine al cammino. Ora ci
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spostiamo con la rete, con internet. Navighiamo. Restare è un viaggio all’estremo in un mondo di falsi movimenti.
Il 23 maggio del 2007 – secondo le proiezioni dell’Università del
North Carolina – è una data significativa per la storia dell’umanità.
È nato il bambino che ha fatto sì che gli abitanti delle città siano più
di quelli del resto della Terra. Tre miliardi e mezzo più uno. La
popolazione residente nelle grandi città ha superato quella delle
periferie, delle campagne, dei paesi. Entro i prossimi quarant’anni
ci saranno almeno 27 mega-metropoli, avviate alla soglia dei 20
milioni di abitanti, alcune delle quali oltre i 30 milioni. Tokio sarà
la prima in assoluto con oltre 36 milioni di abitanti, ma molte saranno distribuite tra Cina, India e Africa, che concentrerà quasi un
quinto di tutta la popolazione urbana del pianeta.
Nascendo in città, un bambino ha avuto una probabilità su tre
di nascere in una baraccopoli. Oggi sono circa un miliardo e mezzo
gli abitanti degli slums, l’ecosistema del futuro, scarti umani che
vivono negli scarti di materiali urbani: cartoni, teloni di plastica e
lamiere riciclate. Tra un trentennio, i 3/4 dell’umanità potrebbero
fare parte di un universo di cemento-acciaio-vetro-baracche.
Da decenni faccio i conti con lo svuotamento dei miei paesi, con
la delocalizzazione della mia regione: le più grandi città calabresi
sono nate all’estero. E negli ultimi anni la terra della fuga e delle partenze diventa luogo di arrivo, di accoglienza, talora di espulsione. I
grandi spostamenti di popoli mi fanno vivere con disagio e con amarezza, con inquietudine e con incertezza, il problema del destino
delle zone interne, la fine del paese, la fine dei paesi presepe. Intanto, le città si clonano; uguali in tutto il mondo, con le stesse strade,
gli stessi centri commerciali, gli stessi empori. Già due terzi delle
città britanniche hanno la stessa identica high street, la via dello
shopping e del passeggio, equivalente della main street americana.
Ma un negozio alla volta, una strada alla volta, anche le città dell’Europa e d’Italia tendono ad assomigliarsi.
Nóstos e álgos
Nostalgia è uno dei termini più belli e avvincenti coniati in epoca
moderna. Evoca esplosioni e frantumazioni di tempi e di luoghi,
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lacerazioni e dispersioni individuali e collettive, partenze, fughe,
ritorni, abbandoni, perdite, rinascite. Attua una felice combinazione tra nóstos, ritorno, e álgos, dolore. Appare la prima volta nella
Dissertatio medica de nostalgia, presentata il 22 giugno del 1688 da
Johannes Hofer, un giovane studente alsaziano di medicina, all’Università di Basilea.
Dai trattati medici l’attenzione per la nostalgia, alla fine del
XVIII secolo, passa nella scrittura di esuli, errabondi, rifugiati e
diventa una sorta di sentimento da coltivare e da custodire. L’eroe
fatale, maledetto, inquieto del periodo romantico è insieme nostalgico e melanconico. La nostalgia e la melanconia diventano una
sorta di abito, di costume, un modo di essere. La nostalgia cessa di
essere ossessione, “idea delirante”, melanconia paralizzante, assillo
costante, distacco dal mondo, per trasformarsi in attesa, speranza,
ricordo, narrazione e invenzione di una nuova identità, aperta, non
più bloccata sulla patria chiusa e lontana.
Il doppio e l’ombra dei partiti contribuiscono a ridefinire, in
maniera problematica, il senso identitario dei rimasti. Sono note le
“rimostranze” degli emigrati di ritorno, le lamentele, le delusioni. E
nei rimasti affiorano risposte risentite e amareggiate. Accanto alla
retorica dell’emigrazione di successo c’è la retorica di chi è rimasto.
Le incomprensioni tra chi è andato via e chi è partito nascono da un
malinteso senso dell’identità statica, considerata una specie di blocco granitico da custodire o da trasferire nella sua “purezza”, “originarietà” e interezza.
Rimasti e partiti, in realtà, non possono fare a meno gli uni degli
altri, anche se il loro legame è basato talora su malintesi, immagini
distorte, proiezioni e aspettative reciproche. La vita è sempre altrove: la fuga, l’erranza, l’inquietudine sono tratti caratterizzanti l’antropologia dei calabresi del passato. Non bisogna dimenticare una
storia segnata da mobilità di uomini, cose, animali – una «tribù
nomade» diceva Alvaro –, spostamenti di abitati, abbandoni e rifondazioni di luoghi. Non bisogna dimenticare il passaggio o la permanenza di dominatori stranieri che lasciano sempre una loro impronta. E l’emigrazione ha accentuato quegli aspetti di mobilità e d’irrequietezza, di precarietà e di incompiutezza, che già appartenevano
alle genti di Calabria. Il sentirsi qui e altrove, la nostalgia del paese
perduto e la capacità di affermarsi in un altro mondo, il rimpianto
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pietre di pane
e la speranza sono tratti costitutivi di una recente forma di erranza,
che riguarda anche quelli che sono rimasti. La Calabria si è dilatata, si è delocalizzata, è uscita “fuori di sé”.
Ernesto De Martino ha scritto pagine importanti sull’angoscia
territoriale, il senso di smarrimento e d’inquietudine che avvolgono
i contadini meridionali quando si allontanano dal campanile del
loro paese. La scomparsa alla vista del «campanile di Marcellinara», di cui parla l’etnologo in una celebre pagine de La fine del
mondo, è metafora dell’angoscia, della paura di perdere il centro, il
punto di riferimento che accomuna gli individui delle nostre società tradizionali. Talvolta il disagio territoriale ti poteva cogliere anche
all’interno di luoghi del paese, considerati estranei, o nelle campagne poco frequentate, nei luoghi poco abitati.
Una deriva e un’esasperazione della modernità hanno immaginato, in anni a noi vicini, una sorta di individuo anostalgico, una
figura di abitatore permanente di non luoghi, di cosmopolita senza
radici e senza appartenenza. L’anostalgia starebbe al non luogo
come la nostalgia era stata al luogo. Si potrebbe pensare che ai non
luoghi, alla “fine” dei luoghi storici, concreti, relazionali, di cui
parla Augé, corrisponda l’anostalgia come fine del “sentimento del
luogo”, la negazione di ogni possibile appartenenza: l’anostalgico
del nostro presente non avrebbe sentimento dei luoghi, di nessun
luogo, perché la surmodernità crea dei non luoghi antropologici,
desacralizzati, uguali, uniformi.
Le cose non sono, in realtà, così scontate. Ferraro, nei suoi
appunti incompiuti, scrive che il «moderno distrugge luoghi, ma si
condanna poi a riprodurne i simulacri affannosamente. Il moderno
dimentica i luoghi, ma ne coltiva al tempo stesso la nostalgia e la
ricerca». Il luogo continua ad affermare la sua esigenza sul nonluogo. Luogo e non luogo, secondo lo stesso Augé, sono in realtà
polarità sfuggenti e comunicanti. Il primo non è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente. I luoghi e
gli spazi, i luoghi e i non luoghi nella società concreta si compenetrano reciprocamente, si oppongono o si evocano. È opportuno
interrogarsi se i cosiddetti non luoghi, pure nella loro anomia e a
volte invivibilità, siano davvero spazi indefinibili, incontrollabili,
spersonalizzanti o invece non impongano all’individuo itinerari per
costruire una diversa identità, per affermare una diversa presenza.
prologo. del restare
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Franco La Cecla ha mostrato in molti suoi scritti lo sforzo che gli
uomini delle diverse culture fanno per non perdersi e ricorda come
perfino gli abitanti dei posti più anonimi, più informali, dalle metropoli alle favelas, affermano costantemente l’esigenza di fare “mente
locale” per creare nuovi centri, nuove forme di socialità e di abitare. Le stazioni e gli aeroporti sono, davvero, dei non luoghi che non
generano sentimento o non suscitano nelle persone il bisogno di
nuove forme di appaesamento? La sensazione è che nei luoghi di
transito e di passaggio il viaggiatore faccia i conti con la propria
condizione, la propria ombra, il proprio doppio, e affermi diverse
forme di riconoscimento. L’emigrazione stessa ha avuto i propri
porti, le proprie stazioni, i propri aeroporti.
D’altra parte, anche in maniera complementare e per opposizione a tendenze omologanti, mai come adesso c’è un’attenzione alle
culture locali, alle piccole patrie. Naturalmente è forte il rischio che
l’attenzione ai luoghi e al locale possa tradursi in localismi, in chiusure, in leghismi più o meno espliciti, più o meno mascherati.
Uno dei rischi di tanta letteratura sui luoghi (al pari di quella sull’identità, sulla tradizione e sulla memoria) è che si scivoli verso una
sorta di metafisica del luogo, colto nella sua immobilità e astoricità.
Contro questo rischio, anche quando parliamo di “anima dei luoghi” e di “sentimento dei luoghi”, occorre ribadire la storicità dei
luoghi, la loro mobilità anche in rapporto alla nostra mobilità.
Sulla scena geografica del vecchio e nuovo mondo si affacciano
individui e gruppi che hanno bisogno d’inventare il “villaggio”, le origini, la piccola patria come luogo di una diversità da recuperare, di
una superiorità da ostentare. Ma il bisogno di luoghi non deve essere ridotto a particolarismo, ad affermazione di privilegi, a desiderio
di presa di distanza dagli altri, di separazione anche fisica da essi.
A dispetto di una tradizione che privilegiava le connotazioni
negative della nostalgia, nel tempo si sono affermate tradizioni,
come quella di Ralph Harper, che hanno indicato nella nostalgia un
«sentimento morale» da riconoscere, «sentimento rigenerativo», «di
presenza», che può salvare dal vuoto e dallo sradicamento del
nostro tempo che «fornisce una controparte a tutto quanto vi è di
negativo nella vita». Alcuni autori sottolineano il bisogno dell’uomo moderno di trovare il proprio posto, di appartenere a un qualche posto, di essere parte di uno spazio chiamato casa, che non è
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pietre di pane
sempre quella lasciata: può essere altrove, ovunque. La nostalgia
afferma il bisogno di presenza come risposta al desiderio dello sradicamento e non a caso viene indicata come sentimento con un futuro. Desiderio di essere altrove, immaginazione di un’altra esistenza
in un altro luogo-tempo, e anche come desiderio di andare via. La
nostalgia, come luogo, psicologico e mentale, di “appaesamento”
dell’uomo in viaggio che corre il rischio di perdersi; itinerario faticoso per affermare aspetti della propria personalità, “energie” e
modi di essere che erano celati dall’angustia e dalla limitatezza del
luogo d’origine. Anche la nostalgia degli emigrati è stata vista come
una sorta di orientamento nel nuovo mondo, non un inconcludente e sterile rimpianto del passato, ma una risorsa per costruire una
nuova vita. La nostra nostalgia ci aiuta anche ad accogliere la
nostalgia degli altri, a considerarla una nostra risorsa.
La vicenda intellettuale ed esistenziale di Pier Paolo Pasolini si
afferma in un periodo in cui la società italiana è segnata dalla
modernizzazione in atto. Il poeta si discosta da una tradizione intellettuale succube di mode, ansiosa di demolire ogni legame con il passato, che fonda le sue costruzioni su dimenticanze, rimozioni e sul
sogno di uno sviluppo inarrestabile. La nostalgia del passato e della
civiltà contadina negli Scritti corsari di Pasolini appare come confutazione della retorica modernista che invadeva l’Italia degli anni Settanta, lucida critica contro le forme di distruzione violenta delle culture locali e delle alterità, opposizione a una modernizzazione imposta dai ceti dominanti soltanto come assimilazione e omologazione.
«Sfondare le pareti dell’Italietta» e aderire a un altro mondo, il
mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio
diventano la denuncia più radicale del mondo piccolo-borghese,
provinciale, volgare, consumista. La pietas di Pasolini – col suo religioso desiderio di custodire le voci, i gesti, i volti degli ultimi – alla
luce delle vicende italiane degli anni Ottanta, Novanta e presenti,
appare in tutto il suo valore profetico. Pasolini sperimenta la condizione paradossale di non appartenere più a un mondo che scompare e di non sentire come suo il mondo che si va affermando.
Contro il rischio di un’omologazione falsamente cosmopolita,
bisogna sapere osservare e interrogare i luoghi. Forse il rischio della
fine dei luoghi, della loro desacralizzazione, quello opposto e complementare al localismo e al particolarismo, può essere scongiurato
prologo. del restare
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da una nostalgia che non escluda, ma includa, che non guardi indietro, ma all’oggi. Da una nostalgia che si ponga, secondo tradizioni
di pensiero di tipo utopico-critico, come rifiuto e critica del presente ma anche come sentimento del futuro, e non a caso si scrivono
saggi sul Futuro della nostalgia. Se il non luogo, come scrive Augé,
è il contrario dell’utopia («esso esiste e non accoglie alcuna società
organica»), è il luogo, infine, con la sua tenacia e il suo sentimento
ad affermare un’utopia che porti al cambiamento; è l’utopia che
rende possibili nuovi luoghi, dove costruire moderne forme di
appaesamento.
I nuovi immigrati segnalano come i luoghi non siano scomparsi,
ma vengano continuamente inventati e ridefiniti. Essi viaggiano con
una nostalgia dei luoghi di origine e con il desiderio di riconoscersi
altrove. Questa loro ricerca spesso è vissuta come minaccia da parte
degli abitanti dei luoghi d’arrivo che temono di esserne espropriati.
Noi oscilliamo tra un bisogno di trovarci e ritrovarci e la paura che gli
altri possano nuocerci. Siamo affascinati dalle nostre origini, mitiche
e inventate, e siamo spesso terrorizzati dalle origini degli altri, lontane e non conosciute. Il problema allora è di fare dialogare le diverse
correnti di nostalgia di coloro che arrivano e di coloro che accolgono.
La restanza
L’essere rimasto, né atto di debolezza né atto di coraggio, è un
dato di fatto, una condizione. Può diventare un modo di essere, una
vocazione, se vissuto senza sudditanza, senza soggezione ma anche
senza boria, senza compiacimento, senza angustia e chiusure, con
un’attitudine all’inquietudine e all’interrogazione. Restare significa
vivere l’esperienza dolorosa e autentica dell’essere sempre “fuori
luogo”. Esiste lo sradicamento totale anche di colui che resta fermo.
E così, mescolanze, ibridazioni, meticciati non possono essere
considerati doni gratuiti o esiti necessari. Hanno a che fare con la
persuasione, con il significato dato da Carlo Michelstaedter a questa parola: «la via della persuasione non ha che questa indicazione:
non adattarti alla sufficienza di ciò che t’è dato».
Contro la rettorica e per la persuasione parla il poeta calabrese
Franco Costabile, anche lui suicida come Michelstaedter:
pietre di pane
22
Ecco
io e te, Meridione,
dobbiamo parlarci una volta,
ragionare davvero con calma,
da soli,
senza raccontarci fantasie
sulle nostre contrade.
Se Kant aveva avvertito che non c’è ritorno, Rimbaud osservava: «Non si parte». Il mondo è diventato troppo stretto (come il
paese stretto di una volta) per poter pensare di raggiungere davvero un’alterità a cui ci avevano abituato i viaggiatori e gli antropologi del passato, che peraltro hanno contribuito a distruggere. L’urgent anthropology e l’idea che le culture possano finire, ancora oggi,
sono causa di spedizioni etnografiche.
Portando la riflessione all’estrema conseguenza, dovremmo dire:
«Non si resta», perché in un mondo in perenne movimento, anche
chi resta è in viaggio. E, forse, partire, tornare, restare sono diventate – o sono sempre state – modalità diverse del viaggiare. Se non
ti senti prigioniero di nessun luogo o padrone di qualche luogo, vuol
dire che possiedi la libertà del cammino.
L’avventura del restare – la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica
della restanza – non è meno decisiva e fondante dell’avventura del
viaggiare. Le due avventure sono complementari, vanno colte e narrate insieme.
Restare, allora, non è stata, per tanti, una scorciatoia, un atto di
pigrizia, una scelta di comodità; restare è stata un’avventura, un atto
di incoscienza e, forse, di prodezza, una fatica e un dolore. Non si
ceda alla retorica o all’enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è un’arte, un’invenzione; un esercizio che mette in crisi
le retoriche delle identità locali. Restare è una diversa pratica dei
luoghi e una diversa esperienza del tempo, una riconsiderazione dei
ritmi e delle stagioni della vita.
Come ha affermato Mario La Cava: «Non è necessario lasciare
la propria terra per affermare il valore della propria creatività. In
fondo chi decide di viaggiare, il mondo può solo guardarlo, mentre
chi mette radici può capire di più il significato della realtà che lo circonda, può interpretarlo. Sono le idee che devono viaggiare, più
delle gambe degli uomini».
Fly UP