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Divina Commedia. Paradiso
LECTURA DANTIS dedicata a Mons. Giovanni Mesini “il prete di Dante” Divina Commedia. Paradiso letto e commentato da Padre ALBERTO CASALBONI dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna Canto XXXIII Cielo decimo o Empireo. Orazione di S. Bernardo a Maria: assenso e intercessione di lei. Dante fissa lo sguardo in Dio. Insufficienza umana senza l’intervento di Dio. Dio Uno, Trino e Incarnato. Supremo appagamento del Poeta. L’orazione di S. Bernardo consta di tredici terzine, semplici per chi ne conosce i misteri, complesse per chi ne è digiuno: i termini antitetici, non già antitesi, di cui tutta la preghiera è intessuta, si compongono, i paradossi si comprendono, il pensiero è lineare. “Vergine Madre, figlia del tuo figlio”, la madre, prodigiosamente intatta, è creatura di Dio, figlia, di cui è nel contempo anche madre, in grazia del Dio in lei incarnato; “umile e alta più che creatura”, umile nel suo sì, fiat, all’angelo di Dio, alta nella sua dignità di madre di Dio; “termine fisso d’etterno consiglio”, dall’eternità nella mente dell’eterno presente di Dio designata ad essere la madre del Redentore; in tal modo rinobilitando ciò che agli occhi di Dio si era svilito: “tu se’ colei che l’umana natura/ nobilitasti sì, che ‘l suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura”, di nascere da lei, Egli, dunque vero uomo e vero Dio. “Nel ventre tuo si raccese l’amore”, nel tuo grembo è sbocciato Gesù, amore del Padre, amore che Egli, a sua volta, ha trasfuso sui suoi fedeli per cui è germinata questa “candida rosa” nella eterna pace del paradiso. E nel paradiso Ella per i beati è “meridiana face/ di caritate”, in terra “giuso, intra ‘ mortali,/ se’ di speranza fontana vivace”, sole meridiano di amore in cielo, in terra per i mortali ancora in via fonte di speranza. “Donna, se’ tanto grande e tanto vali,/ che qual vuol grazia e a te non ricorre,/ sua disïanza vuol volar sanz’ali”, Signora, sei sì grande e sì potente di fronte a Dio, che chiunque voglia grazia da Lui, senza ricorrere a te è come se desiderasse volare senz’averne le ali. “La tua benignità non pur soccorre/ a chi domanda, ma molte fïate/ liberamente precorre”; Tu, o Donna, sei così umana che spesso concedi grazia prima della domanda. “In te misericordia, in te pietate,/ in te magnificenza, in te s’aduna/ quantunque in creatura è di bontate”, non c’e dote, non perfezione, nelle creature, in ogni essere creato, che non sia in te, e nella sua pienezza. Alla litania di lode segue la preghiera di domanda di Bernardo, quella più degna, per altri, per Dante e per ciascuno di noi, riassuntiva di una vita, della vita e della condizione umana, “or questi, che da l’infima lacuna/ de l’universo infin qui ha vedute / le vite spiritali ad una ad una, supplica a te, per grazia, di virtute/ tanto, che possa con li occhi levarsi/ più alto verso l’ultima salute”, lei sola per l’ultimo passo, il trapasso, può impetrare da Dio virtù, capacità visiva da fissare Dio stesso, ultima salute”; e si fa pressante la preghiera “e io, che mai per mio veder non arsi/ più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi/ ti porgo, e priego che non sieno scarsi”, perché, a sua volta, interceda “perché tu ogne nube li disleghi/ di sua mortalità co’ prieghi tuoi, sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi”; le creature, Maria compresa, possono solo intercedere, Dio solo concede la grazia, massime quella di vedere Dio. L’ultimo pensiero corre alla perseveranza finale, “ancor ti priego, regina, che puoi/ ciò che tu vuoli, che conservi sani, dopo tanto veder, li affetti suoi./ Vinca tua guardia i movimenti umani”, a trascendere il momento e ad impetrare la salvezza eterna; “vedi Beatrice con quanti beati/ per li miei prieghi ti chiudono le mani”, mani congiunte nell’atto più spontaneo in chi prega: splendida e ultima immagine della coralità del paradiso. E quegli occhi “da Dio diletti e venerati”, “fissi ne l’orator” accennano il pieno assenso, a dire “quanto i devoti prieghi le son grati”, con quel volgersi “a l’etterno lume”, a impetrare grazia di lume, lei che vede in Dio “tanto chiaro”. Riemerge Dante per grazia ricevuta, “e io ch’al fine di tutti i disii/ appropinquava”, nell’avvicinarsi al Sommo Bene, fine supremo di ogni ontologica aspirazione, “l’ardor del desiderio in me finii” a dire del totale appagamento; sì che ai cenni di Bernardo che io guardassi verso l’alto, egli era già per se stesso disposto “ché la mia vista, venendo sincera,/ e più e più intrava per lo raggio/ de l’alta luce che da sé è vera”, in Dio il Verum e l’Esse, si identificano. “Da quinci innanzi il mio veder fu maggio/ che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,/ e cede la memoria a tanto oltraggio”, il veder, la sua facoltà intellettiva, è ora svincolata dall’intermediazione dei sensi; “a tanto oltraggio”, eccesso, anche la memoria è impari, cede; e non può ricordare se non come colui che da sveglio confuso ricorda, anche se viva permane la piacevole sensazione di un bel sogno, “quasi tutta cessa/ mia visïone”; come neve al sole, o come le parole della Sibilla scritte su foglie al soffiar del vento. E allora supplica Dio che soccorra ai “concetti mortali”, e conceda alla memoria la capacità di ritrarre di quel che ha visto “un poco di quel che parevi”, sì che “una favilla sol de la tua gloria/ possa lasciare a la futura gente”; e chi leggerà più “conceperà di tua vittoria”, del prodigio compiuto in lui. E ribadisce questo oltraggio, o superamento, “io credo, per l’acume ch’io soffersi/ del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,/ se li occhi miei da lui fossero aversi”; la luce divina era talmente acuta e beatificante che se, per un momento solo, avesse distolto gli occhi, si sarebbe smarrito; così fissandola, la sua vista veniva acquisendo sempre maggior capacità a sostenerla, “tanto ch’i’ giunsi/ l’aspetto mio col valore infinito”, e vide Dio nella sua essenza, “oh abbondante grazia ond’io presunsi/ ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi”; i termini aspetto, viso, veduta, sono sinonimi e stanno per conoscenza; e consunsi, vuol dire portare a termine, infatti “nel suo profondo vidi che s’interna/ legato con amore in un volume,/ ciò che per l’universo si squaderna”, nell’essenza dell’Uno vidi la molteplicità degli esseri: materia, forma, atto, potenza., sostanze e accidenti nelle varie possibilità o modalità di combinarsi; “per tal modo/ che ciò ch’i’ dico è un semplice lume”, a dire della infinita possibilità dell’Essere e degli esseri, in atto e/o in potenza, “la forma universal di questo nodo”, dilatazione dello stesso concetto, e di questo tutto può rendere un semplice cenno, “un semplice lume”; e nel pur pallido ricordo “dicendo questo, mi sento ch’i’ godo”, solo sbiadito ricordo; e un solo attimo dopo la visione, è come se diversi secoli fossero trascorsi. A significare questo cita la meraviglia di Nettuno al vedere la nave Argo solcarne le acque, e sono passati venticinque secoli: “così la mente mia, tutta sospesa,/ mirava fissa, immobile e attenta,/ e sempre di mirar faceasi accesa”. Tutto è espressione di un attimo, solo nel racconto si dilata nel tempo, per questo usa l’imperfetto, era, faceasi. Chi vede Dio mai potrà volgersi ad altro, proprio perché è il Bene, oggetto primo e unico del tendere, del volere, che soddisfa e sazia; il resto è solo defettiva immagine, “a quella luce cotal si diventa,/ che volgersi da lei per altro aspetto/ è impossibil che mai si consenta”. E questo, pur con linguaggio inadeguato, egli tenterà di rendere. Immerso dunque nell’eterno istante, egli latore del tempo, coglie l’identità e la simultaneità di Dio, “tal è sempre qual s’era davante”: a mutare è lui, la sua capacità visiva che “s’avvalorava/ in me guardando”, nell’atto del suo vedere, quell’unica Sussistenza “de l’alto lume”, non in unica parvenza, tre cerchi comparivano, di tre colori, uguali in dimensione, e l’uno sorgeva dall’altro come un arcobaleno dall’altro, e il terzo dai primi due, “parea foco/ che quinci e quindi igualmente si spiri”; e che altro dire, o come dire diversamente! “O luce etterna che sola in te sidi,/ sola t’intendi, e da te intelletta/ intendente te ami e arridi!” Anche questa invocazione dice Trinità, luce sussistente da sè e per sé, che comprendendo se stessa genera, e generante e generato spirano Amore; “e arridi!” e crei l’universo, gioia e stupore a Lui stesso: operazioni trinitarie ad intra ed ad extra! Indi sempre alla sua parvenza, Il cerchio riflesso del primo, osservato attentamente, “dentro da sé, del suo colore stesso,/ mi parve pinta de la nostra effige”, dall’eterno Generato compare il Verbo fatto carne, quale dipinto della “nostra effige”. E come il geometra cerca il principio matematico di cui necessita “per la quadratura del cerchio” e non ne esce, così anche Dante “a quella vista nova:/ veder voleva come si convenne/ l’imago al cerchio e come vi s’indova”, voleva vedere come l’immagine umana convenisse con quel secondo cerchio trinitario, e come vi si ponesse, là dove non c’è alcun dove. Ma il mistero è mistero, duplice per giunta, quello trinitario e quello del Verbo incarnato; dove però non giunge la mente creata, soccorre la gratuità della visione, “se non che la mia mente fu percossa/ da un fulgore in che sua voglia venne”: compimento e folgorazione dell’istantanea intuizione. Un istante dopo è già ritorno nel tempo, e “a l’alta fantasia qui mancò possa”: tutto quello che è umano, fantasia, memoria, intelletto, cede: indiretto, ma chiaro il riferimento biblico “nessun uomo può vedermi e restare vivo”; permane però l’effetto del tutto, “ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,/ sì come rota ch’igualmente è mossa,/ l’amor che move il sole e l’altre stelle”: ma ormai la potenza creativa, all’origine dell’universo, aveva impresso sulle mie facoltà, “il disio e ‘l velle”, il moto di rinnovamento morale o palingenetico, provvidenziale per lui e per tutti quelli che egli rappresenta.