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detti e motti latini (usi e abusi) - Liceo Classico Psicopedagogico

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detti e motti latini (usi e abusi) - Liceo Classico Psicopedagogico
festival del mondo antico
DETTI E MOTTI LATINI
(USI E ABUSI)
Marinella De Luca
Conferenze
Rimini, Biblioteca Gambalunga
12, 13, 14, 15 giugno 2008
“Che vuol ch'io faccia del suo latinorum
latinorum?
orum?”
Manzoni, I Promessi Sposi, II
Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo
pugnale del manico bello, nel taschino de' calzoni, con una cert'aria di festa e nello stesso tempo di
braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L'accoglimento incerto e misterioso di don
Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto.
"Che abbia qualche pensiero per la testa", argomentò Renzo tra sé; poi disse: - son venuto, signor
curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa.
- Di che giorno volete parlare?
- Come, di che giorno? non si ricorda che s'è fissato per oggi?
- Oggi? - replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. - Oggi, oggi...
abbiate pazienza, ma oggi non posso.
- Oggi non può! Cos'è nato?
- Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.
- Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca fatica...
- E poi, e poi, e poi...
- E poi che cosa?
- E poi c'è degli imbrogli.
- Degl'imbrogli? Che imbrogli ci può essere?
- Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie,
quanti conti s'ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli
ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi
toccan de' rimproveri, e peggio.
- Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto cosa c'è.
- Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in regola?
- Bisogna ben ch'io ne sappia qualche cosa, - disse Renzo, cominciando ad alterarsi, - poiché me ne
ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s'è sbrigato ogni cosa? non s'è
fatto tutto ciò che s'aveva a fare?
- Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per
non far penare la gente. Ma ora... basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l'ancudine e il
martello: voi impaziente; vi compatisco, povero giovane; e i superiori... basta, non si può dir tutto. E
noi siam quelli che ne andiam di mezzo.
- Ma mi spieghi una volta cos'è quest'altra formalità che s'ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.
- Sapete voi quanti siano gl'impedimenti dirimenti?
- Che vuol ch'io sappia d'impedimenti?
- Error, conditio, votum, cognatio, crimen,
Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
Si sis affinis,... - cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
- Si piglia gioco di me? - interruppe il giovine. - Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?
- Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
2
CAPITOLO 1:
ESPRESSIONI LATINE CORRENTEMENTE USATE IN ITALIANO
(in ordine alfabetico)
Cave canem!
Mosaico da Pompei.
Napoli, Museo archelogico.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
3
Ab aeterno.
Da tutta l'eternità, da tempo immemorabile.
Ab assuetis non fit passio.
Dalle cose abituali (alle quali siamo assuefatti) non nasce la passione.
Ab illo tempore
Da quel tempo.
Abusus non tollit usum.
L'abuso non vieta l'uso.
Ad abundantiam.
In abbondanza, in aggiunta, in più.
Ad augusta per angusta.
Alle cose eccelse si arriva solo attraverso le difficoltà.
Adferte mihi gladium.
Portatemi una spada
A divinis (mysteriis).
Dai ministeri divini.
Ad hoc.
(Esclusivamente) per questo.
Ad honorem.
Per onore.
Ad impossibilia nemo tenetur.
Nessuno è obbligato a fare l'impossibile.
Altri noti “brocardi”:
Aequat quadrata rotundis, facit de albo nigrum.
Dura lex, sed lex. Legge dura, ma legge.
Ignorantia legis non excusat. L'ignoranza della legge non scusa
In dubio pro reo. Nel dubbio, giudica in favore dell'imputato.
Pacta sunt servanda. I patti devono essere rispettati.
Solve et repete. Prima adempi alla tua obbligazione, poi chiedi il rimborso.
Consensus, non amor facit nuptias. Il consenso, non l'amore fa le nozze.
Ad interim.
Frattanto, provvisoriamente.
Ad libitum.
A piacere, a volontà.
Ad litteram.
Alla lettera.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
4
Ad maiora!
A successi ancor più grandi!
Ad multos annos!
Ancora per molti anni.
Ad personam.
Solo per (la) persona.
Ad rem.
Alla cosa.
Ad valorem.
In funzione del valore.
Aequo animo.
Con animo giusto, sereno, imparziale.
Afflictis longae (o lentae), celeres gaudentibus horae.
Lente sono le ore per chi è afflitto, veloci per chi è felice.
Altre epigrafi per meridiane:
Fugit irreparabile tempus. (Virgilio, Georgiche, III, v. 284) – Il tempo fugge inesorabile.
Horas non numero nisi serenas. - Non conto che le ore serene.
Vulnerant omnes, ultima necat. - Tutte feriscono, l'ultima (ora) uccide.
A latere.
Al fianco.
Alias (dictus).
In altre circostanze.
Altrimenti detto.
Alibi.
Altrove.
Alter ego.
Un altro me stesso.
Ante litteram.
Lett.: "prima della lettera".
Apertis verbis.
Con parole chiare.
A posteriori.
Lett.: “da ciò che è dopo”.
A priori.
Lett.: “da ciò che è prima”.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
5
Aquila non capit muscas.
L'aquila non va a caccia delle mosche
Asinus asinum fricat.
L'asino gratta l'asino
Asinus in cathedra.
Un asino che fa da maestro.
Asinus portans mysteria.
Un asino che porta i misteri.
Barba non facit philosophum.
La barba non fa il filosofo.
Bis dat qui cito dat.
Dà due volte chi dà presto.
Brevi manu.
Con mano breve (direttamente, di persona).
Busillis.
Problema spinoso e di difficile soluzione.
(in diebus illis magnis plenae → indie busillis magnis plenae)
Captatio benevolentae.
Tentativo di accattivarsi la simpatia.
Caput mundi.
Capo del mondo.
Castigat ridendo mores.
Corregge i costumi deridendoli.
Casus belli.
Evento che dà origine alla guerra.
Caveant consules.
I consoli stiano attenti.
Cave canem.
Attenti al cane
Compos mentis.
Pienamente padrone della sua mente.
Condicio sine qua non.
Condizione senza la quale non (si può verificare un evento).
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Contraria contrariis curantur.
Le malattie (contrarie) si curano con i rimedi contrari.
Currenti calamo.
Con penna veloce.
De gustibus non est disputandum
Non bisogna discutere sui gusti.
Deus ex machina
Lett.: “dio (che viene) dalla macchina” (= intervento inatteso e risolutore”).
De visu.
Con i propri occhi.
Divide et impera.
Dividi e domina.
Do ut des.
Io do affinché tu dia.
Eiusdem furfuris.
Della medesima crusca.
Elephas indus culices non timet.
L'elefante indiano non teme le zanzare.
E pluribus unum.
Da molti, uno.
Erga omnes.
Nei confronti di tutti.
Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.
Commettere errori è umano, ma perseverare (nell'errore) è diabolico.
(cfr. Sant’Agostino, Sermones, 164, 14: Humanum fuit errare, diabolicum est per animositatem in
errore manere).
Ex abrupto.
All'improvviso, di colpo.
Ex aequo.
A parità di merito, alla pari.
Ex cathedra.
Dall’alto della cattedra.
Excusatio non petita, accusatio manifesta.
Scusa non richiesta, accusa manifesta.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Ex dono.
(Proveniente) da un dono.
Exempli gratia.
Per esempio.
Ex lege.
Secondo la legge.
Ex professo.
Di proposito, intenzionalmente.
Ex ungue leonem.
Il leone (si riconosce) dalle unghie.
Ex voto.
A seguito di un voto.
Factotum.
Colui che fa tutto.
Fervet olla, vivit amicitia.
Finché bolle la pentola, vive l'amicizia.
Fluctuat nec mergitur.
Fluttua e non affonda.
Forma mentis.
Forma (idea, impostazione) della mente.
Gratis et amore Dei
Per grazia e per amore di Dio.
Hic et nunc.
Qui ed ora.
Hic sunt leones.
Qui ci sono i leoni.
Hodie mihi, cras tibi.
Oggi a me, domani a te.
Honoris causa.
A motivo di onore.
Imprimatur.
Si stampi, venga impresso.
Impunitas semper ad deteriora invitat.
L'impunità invita sempre a cose peggiori.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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In camera caritatis.
Lett: “nella stanza dell'amore” (= in confidenza).
In cauda venenum.
Il veleno (è) nella coda.
In dubio pro reo.
In caso di dubbio (giudicare) in favore del colpevole.
In fieri
In divenire.
In extremis.
All’ultimo momento.
In itinere.
Durante il percorso.
In medio stat virtus.
La virtù sta nel mezzo.
In pectore.
Lett.: “nel petto”, “nel (segreto del) cuore” (= designazione non ancora ufficiale ad un incarico).
In primis.
Tra le prime cose, soprattutto..
Insalutato hospite.
Non (avendo) salutato l'ospite.
Intra moenia.
All'interno delle mura della città.
In vestimentis non est sapientia mentis.
La saggezza della mente non risiede negli abiti.
In vino veritas.
Nel vino c'è la verità.
In vitro.
Sotto vetro.
Lectio brevis
Lezione breve.
Lapsus (calami).
Errore della penna.
Lapsus linguae.
Errore della lingua.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Littera non erubescit.
Gli scritti non arrossiscono.
Ludere, non laedere.
Scherzare, ma non offendere.
Maiora premunt.
Ci sono cose più urgenti da fare.
Manu militari.
Con l’uso della forza armata.
Mater semper certa est, pater nunquam.
La madre è sempre certa, il padre mai.
Mea culpa.
Per mia colpa.
Melius est abundare quam deficere.
Meglio abbondare che scarseggiare.
Memento mori.
Ricordati che devi morire.
Minus habens.
Minorato, stupido.
Modus operandi.
Modo di operare o modalità operativa.
More maiorum.
Secondo il costume degli antichi.
More uxorio.
Secondo il costume matrimoniale.
Mors tua vita mea.
La tua morte è la mia vita.
Mutatis mutandis.
Lett.: “Cambiate le cose che devono essere cambiate” (= fatte le debite mutazioni).
Nemo propheta in patria.
Nessuno è profeta nella propria patria.
Nihil obstat.
Niente si oppone.
Nomen omen.
Il nome (è) un presagio.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Non plus ultra.
Non più avanti.
Nosce te ipsum
Conosci te stesso.
Obtorto collo.
Lett.: “con il collo storto” (= contro la propria volontà).
Omissis.
Tralasciate (le altre informazioni).
Opera omnia.
Tutte le opere.
Ore rotundo.
A bocca tonda.
Palmarès.
Eccellente.
Par condicio (creditorum).
Parità di trattamento dei creditori.
Passim.
Qua e là.
Perinde ac cadaver.
Allo stesso modo di un cadavere.
Per os.
Per bocca.
Post mortem.
Dopo la morte.
Post nubila Phoebus.
Dopo la pioggia il sole.
Post scriptum.
Scritto dopo.
Pro forma.
Per formalità.
Pro memoria.
Per la memoria, per ricordare.
Prosit.
Auguri, salute!
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Pro tempore.
Temporaneamente.
Punica fides.
Fedeltà cartaginese.
Qui pro quo.
Lett.: “il che per il come” (= equivoco).
Quod non potest diabolus, mulier evincit.
Ciò che non può il diavolo, l’ottiene la donna.
Quorum.
Dei quali.
Rebus.
Mediante le cose.
Rebus sic stantibus.
Stando così le cose.
Redde rationem.
Rendimi conto.
Referendum.
Da riferirsi (al popolo sovrano).
Relata refero.
Riferisco ciò che mi è stato detto.
Repetita iuvant
Le ripetizioni aiutano.
Risus abundat in ore stultorum.
Il riso abbonda sulla bocca degli stolti.
Semper fidelis.
Fedele per sempre.
Sic.
Così.
Sic et simpliciter.
Così e semplicemente.
Sic semper tyrannis.
Così sempre ai tiranni.
Sic transit gloria mundi.
Così passa la gloria del mondo.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Sine die.
Senza fissare il giorno.
Status quo.
Nella condizione in cui (si trovava).
Sua sponte.
Di sua volontà.
Sui generis.
Di un genere tutto suo.
Suo tempore.
A suo tempo.
Sursum corda.
In alto i cuori.
Tabula rasa.
Tavoletta liscia, cancellata (su cui non c’è nulla).
Toto corde.
Con tutto il cuore.
Ubi consistam.
Lett.: “dove io mi possa appoggiare” (= un punto di appoggio).
Ubi maior, minor cessat.
Lett.: “dove c'è il maggiore, il minore è trascurabile” (= dove c’è qualcuno che vale di più, quello
che vale di meno si deve mettere da parte)
Ultima forsan
Forse l’ultima (ora).
Ultima ratio regum.
(La forza) è l'ultima ragione dei re.
Una tantum.
Una soltanto.
Urbi et Orbi.
Alla città (di Roma) e al mondo.
Vade mecum.
Vieni con me.
Verba docent, exempla trahunt.
Le parole insegnano, gli esempi trascinano.
Verba volant, scripta manent.
Le parole volano, gli scritti rimangono.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Verbi gratia.
Lett.: “in grazia della parola” (= per esempio)
Vexata quaestio.
Argomento già dibattuto e discusso.
Vis comica.
La forza comica.
Viribus unitis.
Con le forze unite.
Vox clamantis in deserto.
Voce di uno che grida nel deserto.
Vox populi vox dei.
Voce del popolo voce di Dio.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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CAPITOLO 2:
MOTTI CELEBRI DI AUTORI LATINI
(in ordine cronologico)
Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (1571-1610).
Amor vincit omnia (1602-1603), olio su tela (cm. 156 x 113).
Berlino, Staatliche Museen.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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APPIO CLAUDIO CIECO (IV - III a.C.)
Faber est suae quisque fortunae.
Ciascuno è artefice della propria sorte.
(Appio Claudio Cieco, nello PseudoSallustio, Epistulae ad Caesarem senem de re pubblica, I, 1, 2)
PseudoSallustio, Epistulae ad Caesarem senem de re pubblica, I, 1, 1-3
Pro vero antea optinebat regna atque imperia fortunam dono dare, item alia quae per mortaleis
avide cupiuntur, quia et apud indignos saepe erant quasi per libidinem data neque cuiquam
incorrupta permanserant. sed res docuit id verum esse, quod in carminibus Appius ait, fabrum esse
suae quemque fortunae, atque in te maxume, qui tantum alios praegressus es, ut prius defessi sint
homines laudando facta tua quam tu laude digna faciundo, ceterum ut fabricata sic virtute parta,
quam magna industria haberei decet, ne incuria deformentur aut conruant infirmata.
[I, 1] Era per l'addietro verità inconcussa che la fortuna concedesse in dono regni ed imperi, nonché
gli altri beni cui gli uomini aspirano avidamente: perché, conferiti quasi a capriccio, si vedevano
spesso in mano di uomini indegni, ed alcuno mai li aveva conservati integri. [2] Ma l'esperienza ha
dimostrato vera la massima di Appio, che cioè ciascuno è artefice della propria fortuna: e questo
nel caso tuo in particolare, che hai spinto tanto innanzi la tua superiorità sugli altri che la gente si è
stancata prima di esaltare le tue gesta che tu di compiere imprese lodevoli. [3] lnoltre, tanto i
prodotti dell'arte quanto le conquiste del valore vanno conservati con la massima diligenza, perché
non abbiano a guastarsi per l'incuria e a vacillare sino alla rovina totale.
PLAUTO (ca. 250 - 184 a.C.)
Certa mittimus, dum incerta petimus.
Perdiamo il certo, mentre corriamo dietro all'incerto.
(Plauto, Pseudolus, v. 685)
Plauto, Pseudolus, vv. 667-693
(il servo Pseudolo)
667. Di immortales, conservavit me illic homo adventu suo;
668. suo viatico redduxit me usque ex errore in viam.
669. Namque ipsa Opportunitas non potuit mihi opportunius
670. advenire quam haec allatast mi opportune epistula.
671. nam haec allata cornu copiaest, ubi inest quidquid volo:
672. hic doli, hic fallaciae omnes, hic sunt sycophantiae,
673. hic argentum, hic amica amanti erili filio.
674. atque ego nunc me ut gloriosum faciam et copi pectore:
675. quo modo quicque agerem, ut lenoni surruperem mulierculam,
676. iam instituta ornata cuncta in ordine, animo ut volueram,
677. certa deformata habebam; sed profecto hoc sic erit:
678. centum doctum hominum consilia sola haec devincit dea,
679. Fortuna. atque hoc verum est: proinde ut quisque Fortuna utitur,
680. ita praecellet atque exinde sapere eum omnes dicimus.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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681.
682.
683.
684.
685.
686.
687.
688.
689.
690.
691.
692.
693.
bene ubi quoi scimus consilium accidisse, hominem catum
eum esse declaramus, stultum autem illum quoi vortit male.
stulti hau scimus, frusta ut simus, quom quid cupienter dari
petimus nobis, quasi quid in rem sit possimus noscere.
certa mittimus, dum incerta petimus; atque hoc evenit
in labore atque in dolore, ut mors obrepat interim.
sed iam satis est philosophatum. nimis diu et longum loquor.
di immortales, aurichalco contra non carum fuit
meum mendacium, hic modo quod subito commentus fui,
quia lenonis me esse dixi. nunc ego hac epistula
tris deludam, erum et lenonem et qui hanc dedit mi epistulam.
euge, par pari aliud autem quod cupiebam contigit:
venit eccum Calidorus, ducit nescio quem secum simul.
(Pseudolo, da solo). Santi numi, quell'uomo con la sua venuta è stato la mia salvezza: col viatico
che porta mi ha rimesso dallo smarrimento sulla via giusta. L'Opportunità in persona non sarebbe
giunta più opportunamente di quanto mi è giunta opportuna questa lettera. Perché questa è la vera
cornucopia e dentro c'è tutto quello che voglio: ci sono i tranelli, c'è il denaro e c'è l'amante del
padroncino. Ed io ho buon motivo di farmene tanto albagioso e di rizzar la cresta. Già avevo nella
testa tutte le mariolerie che dovevo fare per portar via la ragazza al ruffiano: tutto era organizzato,
tutto era pronto e congegnato secondo il mio genio, tutto sistemato e messo a punto. Ma bisogna
riconoscerlo: basta una sola dea, la Fortuna, a superare le architettazioni di cento sapientoni. E
anche questa è pura e santa verità: se uno ha la fortuna dalla sua e fa parlare di sé, ecco noi tutti ad
esaltarlo come un cervellone. Basta che gliene va bene una e già lo proclamiamo un uomo di genio;
se invece la sgarra, ci diventa un imbecille. Lasagnoni come siamo, non ci rendiamo conto che
errore è mettersi a desiderare una cosa che non possiamo sapere se è per il nostro bene o no.
Perdiamo il certo, mentre corriamo dietro all'incerto. E tutto questo tra mille tribolazioni ed
affanni finché non ci acchiappa la morte. Ma ora basta con la filosofia: ho sproloquiato troppo e
troppo a lungo. Santo cielo! che bugia da pagare a peso d'oricalco quella che mi inventai su due
piedi, quando mi venne detto di dichiararmi servo del ruffiano! Ora con questa lettera ne potrò
uccellare tre: il padrone, il lenone e quello che me la diede. Evviva! ecco qua un'altra bella
occasione che tanto desideravo: ecco che sta arrivando Calidoro e conduce con sé non so chi.
Mulier recte olet ubi nihil olet.
La donna ha un buon odore quando non ha nessun odore.
(Plauto, Mostellaria, vv. 273)
Plauto, Mostellaria, vv. 248-278
(Filemasia, cortigiana e amante di Filolachete; Scafa, serva di Filemasia; Filolachete, giovanotto,
figlio di Teopropide)
248. Philem. Cedo mi speculum et cum ornamentis arculam actutum, Scapha,
249. ornata ut sim, quom huc adveniat Philolaches voluptas mea.
250. Sc. Mulier quae se suamque aetatem spernit, speculo ei usus est:
251. quid opust speculo tibi, quae tute speculo speculum es maxumum?
252. Philol. Ob istuc verbum, ne nequiquam, Scapha, tam lepide dixeris,
253. dabo aliquid hodie peculi tibi, Philematium mea.
254. Philem. Suo quique loco viden? capillus satis compositust commode.
255. Sc. Ubi tu commoda es, capillum commodum esse credito.
256. Philol. Vah, quid illa pote peius quicquam muliere memorarier?
257. nunc adsentatrix scelesta est, dudum adversatrix erat.
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Philem. Cedo cerussam. Sc. Quid cerussa opust nam? Philem. Qui malas oblinam.
Sc. Vna opera ebur atramento candefacere postules.
Philol. Lepide dictum de atramento atque ebore. euge, plaudo Scaphae.
Philem. Tum tu igitur cedo purpurissum. Sc. Non do. scita es tu quidem.
nova pictura interpolare vis opus lepidissimum?
non istanc aetatem oportet pigmentum ullum attingere,
neque cerussam neque melinum, neque aliam ullam offuciam.
Philem. Cape igitur speculum. Philol. Ei mihi misero, savium speculo dedit.
nimis velim lapidem, qui ego illi speculo diminuam caput.
Sc. Linteum cape atque exterge tibi manus. Philem. Quid ita, obsecro?
Sc. Vt speculum tenuisti, metuo ne olant argentum manus:
ne usquam argentum te accepisse suspicetur Philolaches.
Philol. Non videor vidisse lenam callidiorem ullam alteras.
ut lepide atque astute in mentem venit de speculo malae.
Philem. Etiamne unguentis unguendam censes? Sc. Minime feceris.
Philem. Quapropter? Sc. Quia ecastor mulier recte olet, ubi nihil olet.
nam istae veteres, quae se unguentis unctitant, interpoles,
vetulae, edentulae, quae vitia corporis fuco occulunt,
ubi sese sudor cum unguentis consociavit, ilico
itidem olent, quasi cum una multa iura confudit cocus.
quid olant nescias, nisi id unum, ni male olere intellegas.
File. Suvvia, ora sbrigati: Scafa, porgimi lo specchio e il cofanetto dei gioielli. Voglio farmi bella di
tutto punto per l'arrivo di Filolachete, la passione mia.
Sc. Dello specchio hanno bisogno le donne che non hanno fiducia in se stesse e nella propria
giovinezza. Ma tu che te ne fai? il vero specchio sei tu, lo specchio degli specchi.
Filo. (a parte). Per una battuta così graziosa, cara Scafa, e perché non si dica che tu l'hai
pronunziata ad ufo, oggi regalerò una bella somma... a te, mia Filemazia.
File. E i capelli, sono tutti a posto come si deve? Guarda un po'.
Sc. Se sei a posto tu, credi pure che sono a posto anche i capelli.
Filo. (a parte). Puah! ve la sapete immaginare una cosa peggiore di codesta donna? un momento fa,
le faceva il contraddittorio, ora non fa che assecondarla, la birbacciona!
File. Porgimi il bianchetto!
Sc. Che te ne fai del bianchetto?
File. Mi do una passatine alle guance.
Sc. Sarebbe come se tu, la mia signora, volessi imbiancare l'avorio con l'inchiostro.
Filo. (a parte). Brava Scafa, ti meriti un applauso. Questa trovata dell'avorio e dell'inchiostro è
davvero carina.
File. Be’, allora dammi il rossetto.
Sc. Non te lo do. Bella furberia voler imbrattare con un piastriccio d'accatto il meraviglioso
capolavoro del tuo viso! Alla tua età non c'è bisogno di ricorrere alle tinture, né al bianchetto, né
alla biacca di Melo, né ad altri impiastri.
File. E allora dàmmi lo specchio (ci si guarda e lo bacia).
Filo. (a parte) Ah, povero me, ha dato un bacio allo specchio! Come vorrei sottomano un ciottolo
da spaccar la testa a quello specchio!
Sc. Piglia il fazzoletto e pulisciti le mani.
File. O perché, di grazia?
Sc. Siccome hai toccato lo specchio, temo che le mani ti possano odorare d'argento: così Filolachete
potrebbe sospettare che abbia preso denaro da altri.
Filo. (a parte) Mi sa di non aver mai vista una mezzana più furbacchiona di costei. Che idea fina,
che sottile ciurmeria l’è venuta in testa sullo specchio a questa birbante.
File. E non credi sia il caso che mi passi un po' d'unguento?
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Sc. Per carità!
File. Ma perché?
Sc. Perché, giuraddio, una donna fa buon odore quando non ne fa alcuno. Pensa a quelle vecchie
che si insegano di unguenti, come delle maschere, vecchie decrepite, sdentate che cercano di
occultare le magagne del viso con i trucchi! quando poi il sudore fa mistura con gli unguenti, sùbito
fanno lo stesso odore di certi intrugli che ammanniscono i cuochi a furia di mescolare salse con
salse. Non sai più che odore fanno. Capisci solo una cosa: che puzzano!
Amor et melle et felle est fecundissimus.
L’Amore è fecondissimo di miele e di fiele.
(Plauto, Cistellaria, v. 69)
Perfidiosus est Amor.
L’Amore è perfido.
(Plauto, Cistellaria, v. 72)
Plauto, Cistellaria, vv. 51-81 (Selene, Gimnasia, Lena)
52. Gymn. (...) Sed tu aufer istaec verba.
53. meus oculus, mea Selenium, numquam ego te tristiorem
54. vidi esse. quid, cedo, te obsecro tam abhorret hilaritudo?
55. neque munda adaeque es, ut soles hoc sis vide, ut petivit
56. suspiritum alte et pallida es. eloquere utrumque nobis,
57. et quid tibi est et quid velis nostram operam, ut nos sciamus.
58. noli, obsecro, lacrumis tuis mi exercitum imperare.
59. Sel. Med excrucio, mea Gymnasium: male mihi est, male maceror;
60. doleo ab animo, doleo ab oculis, doleo ab aegritudine.
61. quid dicam, nisi stultitia mea me in maerorem rapi?
62. Gymn. Indidem unde oritur facito ut facias stultitiam sepelibilem.
63. Sel. Quid faciam? Gymn. In latebras abscondas pectore penitissimo.
64. tuam stultitiam sola facito ut scias sine aliis arbitris.
65. Sel. At mihi cordolium est. Gymn. Quid? id unde est tibi cor? commemora obsecro;
66. quod neque ego habeo neque quisquam alia mulier, ut perhibent viri.
67. Sel. Siquid est quod doleat, dolet; si autem non est, tamen hoc hic dolet.
68. Gymn. Amat haec mulier. Sel. Eho an amare occipere amarum est, obsecro?
69. Gymn. Namque ecastor Amor et melle et felle est fecundissimus;
70. gustui dat dulce, amarum ad satietatem usque oggerit.
71. Sel. Ad istam faciem est morbus, qui me, mea Gymnasium, macerat.
72. Gymn. Perfidiosus est Amor. Sel. Ergo in me peculatum facit.
73. Gymn. Bono animo es, erit isti morbo melius. Sel. Confidam fore,
74. si medicus veniat qui huic morbo facere medicinam potest.
75. Gymn. Veniet. Sel. Spissum istuc amanti est verbum, veniet, nisi venit.
76. sed ego mea culpa et stultitia peius misera maceror,
77. quom ego illum unum mi exoptavi, quicum aetatem degerem.
78. Len. Matronae magis conducibilest istuc, mea Selenium,
79. unum amare et cum eo aetatem exigere quoi nuptast semel.
80. verum enim meretrix fortunati est oppidi simillima:
81. non potest suam rem obtinere sola sine multis viris.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
19
Gimn. (...) Ma tu, cara Selenia, luce degli occhi miei, mentre noi si sta a chiacchierare, mi hai
un'aria... non ti ho vista mai così rabbuiata. Ma via, dimmi, ti prego, che c'è da far quella faccia?
Non hai più neanche lo sgallettìo che hai sempre avuto. Guarda un po' tu che razza di sospironi tira
fuori! E come sei pallida! confidati con noi, dicci tutto quello che hai e quello che vuoi da noi. E fa'
il piacere, non costringermi con codeste tue lacrime a sciogliermi in pianto.
Sel. Ah, Ginnasia mia, sono disperata, tribolata, sono in un mare di pene. Ho male al cuore, agli
occhi, son tutta angosciata. Che debbo dirti? la verità è che la mia stoltezza mi trascina a
tormentarmi così.
Gimn. E fa' allora di seppellire codesta stoltezza nel punto stesso dove ti fa capolino.
Sel. E come farò?
Gimn. Sprofondala nel fondo del petto, più dentro che puoi e fa' in modo che di codesta tua
stoltezza non si accorgano altri all'infuori di te.
Sel. Ma quella mia è pena di cuore.
Gimn. E che significa? com'è che hai cuore tu? Spiègati, ti prego. Giacché cuore io non ne ho,
come non ne hanno le altre donne, a detta degli uomini.
Sel. Se ne esiste uno capace di soffrire, il mio soffre: se poi non ne esiste alcuno, certo è che qui
(indica il cuore) io ci ho male.
Gimn. Questa poverina è innamorata!
Sel. Oh, è poi tanto amaro innamorarsi? ditemi.
Gimn. Certo, perdiana! L'Amore è fecondissimo di miele e di fiele. Al primo gusto è dolce, poi ti
subissa d'amaro a più non posso.
Sel. È l'immagine, tale e quale, del male che mi travaglia, cara Ginnasia.
Gimn. L'amore è perfido.
Sel. Per questo mi raggira.
Gimn. Coraggio! vedrai che il tuo male andrà meglio.
Sel. Ci spererei, se venisse il medico che può guarirmi da questo male.
Gimn. Verrà.
Sel. Già, verrà! questa è una parola ben dura per un'innamorata, se poi non viene. Ala peggio per
me! è tutta colpa mia, della mia follia, se mi struggo così. Giacché quello è il solo uomo col quale
bramavo di vivere il resto dei mei giorni.
Len. Veramente, cara Selenia, questa di voler bene a uno solo e dì voler passare la vita assieme a
lui, una volta che lo si sia sposato, credimi, è roba da matrone. La cortigiana è come una città ricca e
fiorente, che da sola non può reggersi, ed ha perciò bisogno del concorso di tanti uomini.
Amator, quasi piscis, nequam est, nisi recens.
L’amante, come il pesce, è cattivo se non è fresco.
(Plauto, Asinaria, v. 178)
Homo homini lupus
L’uomo è un lupo per l’altro uomo.
(Plauto, Asinaria, v. 495)
Plauto, Asinaria, vv. 153-186 (Cleareta, Diabolo)
153. Clear. Unum quodque istorum verbum nummis Philippis aureis
154. non potest auferre hinc a me si quis emptor venerit;
155. nec recte quae tu in nos dicis, aurum atque argentum merumst:
156. fixus hic apud nos est animus tuos clavo Cupidinis.
157. remigio veloque quantum poteris festina et fuge:
158. quam magis te in altum capessis, tam aestus te in portum refert.
159. Diab. Ego pol istum portitorem privabo portorio;
160. ego te dehinc ut merita es de me et mea re tractare exsequar,
161. quom tu med ut meritus sum non tractas atque eicis domo.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Clear. Magis istuc percipimus lingua dici, quam factis fore.
Diab. Solus solitudine ego ted atque ab egestate abstuli;
solus si ductem, referre gratiam numquam potes.
Clear. Solus ductato, si semper solus quae poscam dabis;
semper tibi promissum habeto hac lege, dum superes datis.
Diab. Qui modus dandi? nam numquam tu quidem expleri potes;
modo quom accepisti, haud multo post aliquid quod poscas paras.
Clear. Quid modist ductando, amando? numquamne expleri potes?
modo remisisti, continuo iam ut remittam ad te rogas.
Dedi equidem quod mecum egisti. Clear. Et tibi ego misi mulierem:
par pari datum hostimentumst, opera pro pecunia.
Diab. Male agis mecum. Clear. Quid me accusas, si facio officium meum?
nam neque fictum usquamst neque pictum neque scriptum in poematis
ubi lena bene agat cum quiquam amante, quae frugi esse volt.
Diab. Mihi quidem te parcere aequomst tandem, ut tibi durem diu.
Clear. Non tu scis? quae amanti parcet, eadem sibi parcet parum.
quasi piscis, itidemst amator lenae: nequam est, nisi recens;
is habet sucum, is suavitatem, eum quo vis pacto condias,
vel patinarium vel assum, verses quo pacto lubet:
is dare volt, is se aliquid posci, nam ibi de pleno promitur;
neque ille scit quid det, quid damni faciat: illi rei studet.
volt placere sese amicae, volt mihi, volt pedisequae,
volt famulis, volt etiam ancillis; et quoque catulo meo
subblanditur novos amator, se ut quom videat gaudeat.
vera dico: ad suom quemque hominem quaestum esse aequomst callidum.
Clear. (uscendo di casa) Neanche a suon di filippi darei via, se ci fosse un compratore, una sola di
codeste tue parolacce. Gli improperi che ci scagli addosso sono tutt'oro e argento di coppella. Il tuo
cuore è qui, appiccicato alla nostra porta: è stato il dio dell'amore a inchiodarvelo. Ora prova a
fuggire: forza coi remi, forza con la vela! quanto più cercherai di correre al largo, tanto più il flutto
della passione tì ricaccerà in porto.
Diab. Però io, corpo di Bacco, al doganiere di questo porto non pagherò più dazio. D'ora in poi
voglio usarti il i6o trattamento che meriti da me e dalla mia borsa. Del resto sei proprio tu che non
mi tratti come merito. Mi cacci perfino di casa!
Clear. Eh, lo sappiamo bene! Questa è roba che si dice con la lingua, ma poi non se ne fa nulla.
Diab. Senti, sono stato l'unico a sollevarti dalla desolazione e dalla miseria. E se ora dovessi essere
l'unico a godermi tua figlia, non ti saresti sdebitata abbastanza.
Clear. L'unico? ma sì! Però dovresti essere in grado, da solo, ir; di dare tutto quello che ti chiedo.
Diab. Dare, dare... ma c'è un limite? sei proprio insaziabile! Hai finito appena d'insaccare che sùbito
pensi a rinnovare le tue richieste.
Clear. E c'è un limite quando meni via la tua bella e quando ci fai all'amore? forse che ti sazi? Me
l'hai appena riaccompagnata e sùbito mi chiedi di rimandartela.
Diab. Ma io quello che avevo pattuito te l'ho ben dato!
Clear. Ed io ti ho mandato la ragazza. Siamo pari: tanto denaro, tanto servizio.
Diab. Fai male a mercanteggiare con me.
Clear. Perché mi rimproveri, se faccio il mio dovere? Vedi, né la scultura, né la pittura, né la
letteratura hanno mai pensato ad una mezzana che, intenzionata a rimpannucciarsi, si metta a far la
beneficenza con questo o quel giovanotto.
Diab. Ma infine tu stessa hai l'interesse di trattarmi bene, se vuoi farmi durare.
Clear. Non sai? chi tratta bene un amante, tratta male sé stessa. L'amante per la mezzana è come
il pesce: è cattivo, se non è fresco. Fresco, invece, è una delizia, un lacchezzo! Lo puoi preparare
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
21
come ti talenta: arrostito, lesso; lo puoi rivoltare che è un piacere! Non pensa che a dare, a venire
incontro alle richieste dell'amica; perché in questo caso si attinge da una tasca ancòra piena, e lui
non si accorge dì quello che sfontana, del salasso che subisce. Non ha altro per la testa che di
piacere alla sua bella, a me e perfino alla serva, ai domestici e alle ancelle. L'amante novizio fa i
daddoli financo al mio Gagnolo, perché gli faccia festa quando lo vede arrivare. Non è vero forse?
Del resto è logico che ognuno, in base al proprio mestiere, cerchi di darsi da fare.
Plauto, Asinaria, vv. 487-498 (mercante, Leonida)
487. Merc. Nunc demum? tamen numquam hinc feres argenti nummum, nisi me
488. dare iusserit Demaenetus. Leon. Ita facito, age ambula ergo.
489. tu contumeliam alteri facias, tibi non dicatur?
490. tam ego homo sum quam tu. Merc. Scilicet. ita res est. Leon. Sequere hac ergo.
491. praefiscini hoc nunc dixerim: nemo etiam me accusavit
492. merito meo, neque me alter est Athenis hodie quisquam,
493. cui credi recte aeque putent. Merc. Fortassis. sed tamen me
494. numquam hodie induces, ut tibi credam hoc argentum ignoto.
495. lupus est homo homini, non homo, quom qualis sit non novit.
496. Leon. Iam nunc secunda mihi facis. scibam huic te capitulo hodie
497. facturum satis pro iniuria; quamquam ego sum sordidatus,
498. frugi tamen sum, nec potest peculium enumerari.
Merc. Ma insomma! Comunque sia, non avrai da me il becco d'un quattrino, finché non sarà
Demeneto a ordinarmelo.
Leon. Fa' come ti pare. E ora su, cammina, aria! Oltraggi gli altri, e non vuoi che non ti si risponda
per le rime? Io sono un uomo né più né meno che te.
Merc. Questo si capisce.
Leon. Vieni qua, seguimi dunque. Modestia a parte, posso dirti una cosa. Finora nessuno ha avuto
motivo di accusarmi e oggi ad Atene non c'è un altro, in cui la gente abbia più stima e
incondizionata fiducia che in me.
Merc. Può darsi. Tuttavia oggi non mi convincerai mai ad affidarti questo denaro senza conoscerti.
Quando un uomo non si sa di che pasta sia, non è un uomo, ma un lupo per l'altro uomo.
Leon. Ah, vedi? ora cominci ad adularmi. Sapevo che avresti dato soddisfazione a quell'omiciattolo
che sono per il torto arrecatomi. Anche se ti sembro sbricio, sono un galantuomo io e ho denaro da
non potersi contare.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
22
TERENZIO (190/185 - 159 a.C.)
Homo sum, humani nihil a me alienum puto.
Sono un uomo, ritengo che nulla di umano mi sia estraneo.
(Terenzio, Heautontimorumenos, v. 77)
Terenzio, Heautontimorumenos, vv. 53-83 (Cremete, Menedemo)
53. Chr. Quamquam haec inter nos nuper notitia admodumst
54. inde adeo quod agrum in proxumo hic mercatus es
55. nec rei fere sane amplius quicquam fuit,
56. tamen vel virtus tua me vel vicinitas,
57. quod ego in propinqua parte amicitiae puto,
58. facit ut te audacter moneam et familiariter
59. quod mihi videre praeter aetatem tuam
60. facere et praeter quam res te adhortatur tua.
61. nam pro deum atque hominum fidem quid vis tibi aut
62. quid quaeris? annos sexaginta natus es
63. aut plus eo, ut conicio; agrum in his regionibus
64. meliorem neque preti maiori' nemo habet;
65. servos compluris: proinde quasi nemo siet,
66. ita attente tute illorum officia fungere.
67. numquam tam mane egredior neque tam vesperi
68. domum revortor quin te in fundo conspicer
69. fodere aut arare aut aliquid ferre denique.
70. nullum remitti' tempu' neque te respicis.
71. haec non voluptati tibi esse sati' certo scio. at
72. enim dices "quantum hic operi' fiat paenitet."
73. quod in opere faciundo operae consumis tuae,
74. si sumas in illis exercendis, plus agas.
75. Men. Chreme, tantumne ab re tuast oti tibi
76. aliena ut cures ea quae nil ad te attinent?
77. Chr. Homo sum: humani nil a me alienum puto.
78. vel me monere hoc vel percontari puta:
79. rectumst ego ut faciam; non est te ut deterream.
80. Men. Mihi sic est usu'; tibi ut opu' factost face.
81. Chr. An quoiquamst usus homini se ut cruciet? Men. Mihi.
82. Chr. si quid laborist nollem. sed quid istuc malist?
83. quaeso, quid de te tantum meruisti? Men.. Eheu!
Cr. È vero che questa nostra conoscenza è piuttosto recente - ed esattamente da quando hai
comprato il podere qui vicino -, e che tra di noi non c'è stato nulla di più; eppure, sarà per le tue
doti, sarà per il vicinato, una cosa che io considero al confine con l'amicizia, io mi sento indotto a
consigliarti, con franchezza e familiarità, perché mi pare che tu, per la tua età, lavori troppo e più di
quanto lo richieda la tua condizione. In nome degli dèi e degli uomini, a che cosa miri? Che cosa
vai cercando? Avrai sessant'anni, o forse più, immagino; nessuno, in questa zona, ha un podere
migliore e più pregiato; un sacco di servi; e, come se non ne avessi neanche uno, ti metti a fare tu
stesso, con tanto accanimento, le cose che toccano a loro. Mai ch'io esca tanto presto la mattina, o
rincasi così tardi la sera, senza che ti veda lì nel fondo a scavare, ad arare o a trasportare qualcosa.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
23
Insomma, non ti dai un momento di riposo e non hai nessun riguardo per te. Tutto questo non è un
piacere per te, ne sono sicuro. Ma mi dirai: «Non mi piace quanto si lavora qui». Ma la fatica che tu
fai lavorando, se la spendessi per far lavorare quelli, ci guadagneresti di più.
Men. Cremete, ti resta tanto tempo dalle tue faccende, da occuparti delle cose degli altri, che non ti
riguardano affatto?
Cr. Sono un uomo, ritengo che nulla di umano mi sia estraneo. Pensa pure che io voglia darti un
consiglio o porti una domanda: se è giusto, dovrò farlo anch'io; ma se non è giusto, devo fartela
smettere.
Men. A me, va bene così. Tu, fa' come va bene per te.
Cr. Ma c'è qualcuno a cui fa bene tormentarsi?
Men. A me.
Cr. Se hai qualche problema, mi dispiace. Ma di che guaio si tratta? Scusa, perché ti senti tanto in
colpa con te stesso?
Men. Ahimè!
Amantes amentes
Amanti pazzi.
(Terenzio, Andria, v. 218)
Amantium irae amoris integratio est.
Le ire degli amanti sono un rinnovamento dell’amore.
(Terenzio, Andria, v. 555)
Terenzio, Andria, vv. 206-227
Davos
206. Enimvero, Dave, nil locist segnitiae neque socordiae,
207. quantum intellexi modo senis sententiam de nuptiis:
208. quae si non astu providentur, me aut erum pessum dabunt.
209. nec quid agam certumst, Pamphilumne adiutem an auscultem seni.
210. si illum relinquo, eius vitae timeo; sin opitulor, huius minas,
211. quoi verba dare difficilest: primum iam de amore hoc comperit;
212. me infensu' servat nequam faciam in nuptiis fallaciam.
213. si senserit, perii: aut si lubitum fuerit, causam ceperit
214. quo iure quaque iniuria praecipitem [me] in pistrinum dabit.
215. ad haec mala hoc mi accedit etiam: haec Andria,
216. si[ve] ista uxor sive amicast, gravida e Pamphilost.
217. audireque eorumst operae pretium audaciam
218. (nam inceptiost amentium, haud amantium):
219. quidquid peperisset decreverunt tollere.
220. et fingunt quandam inter se nunc fallaciam
221. civem Atticam esse hanc: "fuit olim quidam senex
222. mercator; navim is fregit apud Andrum insulam;
223. is obiit mortem." ibi tum hanc eiectam Chrysidis
224. patrem recepisse orbam parvam. fabulae!
225. miquidem hercle non fit veri simile; atque ipsis commentum placet.
226. sed Mysis ab ea egreditur. at ego hinc me ad forum ut
227. conveniam Pamphilum, ne de hac re pater inprudentem opprimat.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Davo
Caro Davo, non è il momento di prendersela comoda e di starsene con le mani in mano, dopo quello
che ho capito poco fa delle intenzioni del vecchio stille nozze. Queste, se non le blocchiamo con
l'astuzia, faranno la rovina mia o del mio padrone. Non so neppure cosa fare: aiutare Panfilo o dar
retta al vecchio. Se abbandono quello, temo per la sua vita: se lo aiuto, ci sono le minacce di
quest'altro, a cui non è facile darla a bere. Prima di tutto è già al corrente di questa relazione: mi
tiene gli occhi addosso con brutte intenzioni, perché non gli combini qualche inghippo per le nozze.
Se se ne accorgesse, sono fritto! Oppure, se gli salta il ticchio, a ragione o a torto, la troverà la scusa
per mandarmi dritto dritto al mulino. A questi guai mi si aggiunge anche quest'altro: questa ragazza
di Andro, moglie o amante che sia, è incinta di Panfilo. La loro temerarietà, val la pena di sentirla
(perché è un progetto da dementi, non da amanti!): il bimbo che partorisce, han deciso di allevarlo; ed ora stanno architettando tra loro non so che imbroglio, cioè che questa sarebbe cittadina
ateniese. «C'era una volta un vecchio mercante, che fece naufragio presso l'isola di Andro e morì; fu
in quella circostanza che il padre di Criside raccolse naufraga questa piccola orfana». Balle! A me
la cosa non pare verosimile; ma loro sono convinti della trovata. Ma ecco Miside che esce dalla
casa. Io però faccio un salto in piazza per cercare Panfilo e perché il padre non lo colga alla
sprovvista su questa storia. (Si allontana)
Terenzio, Andria, vv. 533-562 (Simone, Cremete)
533. Sim. Iubeo Chremetem ... Chr. O te ipsum quaerebam. Sim. Et ego te: optato advenis.
534. Chr. Aliquot me adierunt, ex te auditum qui aibant hodie filiam
535. meam nubere tuo gnato; id viso tune an illi insaniant.
536. Sim. Ausculta pauca: et quid ego te velim et tu quod quaeris scies.
537. Chr. Ausculto: loquere quid velis.
538. Sim. Per te deos oro et nostram amicitiam, Chreme,
539. quae incepta a parvis cum aetate adcrevit simul,
540. perque unicam gnatam tuam et gnatum meum,
541. quoius tibi potestas summa servandi datur,
542. ut me adiuves in hac re atque ita uti nuptiae
543. fuerant futurae, fiant. Chr. Ah ne me obsecra:
544. quasi hoc te orando a me impetrare oporteat.
545. alium esse censes nunc me atque olim quom dabam?
546. si in remst utrique ut fiant, accersi iube;
547. sed si ex ea re plus malist quam commodi
548. utrique, id oro te in commune ut consulas,
549. quasi si illa tua sit Pamphilique ego sim pater.
550. Sim. Immo ita volo itaque postulo ut fiat, Chreme,
551. neque postulem abs te ni ipsa res moneat. Chr. Quid est?
552. Sim. Irae sunt inter Glycerium et gnatum. Chr. Audio.
553. Sim. Ita magnae ut sperem posse avelli. Chr. Fabulae!
554. Sim. Profecto sic est. Chr. Sic hercle ut dicam tibi:
555. amantium irae amoris integratiost.
556. Sim. Em id te oro ut ante eamus, dum tempus datur
557. dumque eius lubido occlusast contumeliis,
558. priusquam harum scelera et lacrumae confictae dolis
559. redducunt animum aegrotum ad misericordiam,
560. uxorem demu'. spero consuetudine et
561. coniugio liberali devinctum, Chreme,
562. dehinc facile ex illis sese emersurum malis.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Sim. Carissimo Cremete!
Cr. Oh. ti stavo proprio cercando.
Sim. Anch'io te: arrivi a proposito.
Cr. Son venute a trovarmi diverse persone, per dirmi che hanno sentito da te che oggi mia figlia
deve sposare tuo figlio. Son qui per vedere se il matto sei tu o loro.
Sim. Sta' a sentire un momento: saprai cosa voglio da te e quello che tu vai cercando...
Cr. Tì ascolto. Di' pure cosa vuoi.
Sim. Ti prego, Cremete, in nome degli dèi e della nostra amicizia, che è cominciata sin da quando
eravamo piccoli ed è cresciuta insieme con gli anni. in nome della tua unica figlia e di mio figlio, la
cui possibilità di salvezza è tutta nelle tue mani, aiutami in questa circostanza, e che queste nozze,
come si dovevano fare, si facciano!
Cr. Oh, non supplicarmi! Come se tu avessi bisogno di supplicarmi, per ottenere questo da me.
Credi che io sia diverso da quando, tempo fa, ero disposto a concederla? Se è nell'interesse di tutt'e
due, che il matrimonio si faccia, mandala a chiamare; ma se da questo deve venire ad entrambi più
male che bene, ti prego di tenere in considerazione il nostro comune interesse, come se quella fosse
tua figlia, ed io fossi il padre di Panfilo.
Sim. Ma è proprio quello che voglio, Cremete, e ti chiedo che avvenga; né starei a chiedertelo, se le
circostanze non me lo suggerissero.
Cr. Di che si tratta?
Sim. C'è rottura tra Glicerio e mio figlio...
Cr. Capisco!
Sim.... Così profonda, che ho fiducia di poterglielo strappare.
Cr. Balle!
Sim. No, è proprio così.
Cr. Te lo dico io, perdinci, come stanno le cose: le ire degli amanti sono un rinnovamento
dell’amore.
Sim. Ecco, è proprio per questo che ti chiedo di prevenirli, finché siamo in tempo e finché la sua
passione è soffocata dalle offese; prima che la perfidia di queste donne e le loro false lacrime non
facciano impietosire il suo cuore malato, diamogli moglie! Io spero. Cremete, che, legato dal vivere
insieme e dal vincolo di un matrimonio legittimo, poi facilmente potrà tirarsi fuori da questi guai.
Quot homines, tot sententiae.
Quanti uomini, tanti pareri.
(Terenzio, Phormio, v. 454)
Terenzio, Phormio, v. 441-464 (Demifone, Geta, Egione, Cratino, Critone)
441. De. Quanta me cura et sollicitudine adficit
442. gnatus, qui me et se hisce inpedivit nuptiis!
443. neque mi in conspectum prodit, ut saltem sciam
444. quid de hac re dicat quidve sit sententiae.
445. Abi, vise redieritne iam an nondum domum.
446. Ge. Eo.

De. Videtis quo in loco res haec siet:
447. quid ago? Dic, Hegio.
Heg. Ego Cratinum censeo,
448. si tibi videtur...
De. Dic, Cratine.
Cra. Mene vis...?
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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457.
458.
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460.
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462.
463.
464.
De. Te.
Cra. Ego quae in rem tuam sint ea velim facias. Mihi
sic hoc videtur: quod te absente hic filius
egit, restitui in integrum aequomst et bonum,
et id impetrabis. Dixi.
De. Dic nunc, Hegio.
Heg. Ego sedulo hunc dixisse credo; verum itast,
quot homines, tot sententiae: suus quoique mos.
Mihi non videtur quod sit factum legibus
rescindi posse; et turpe inceptust.
De. Dic, Crito.
Cri. Ego amplius deliberandum censeo:
res magnast.
Cra. Numquid nos vis?
De. fecistis probe:
Incertior sum multo quam dudum.
Ge. Negant
redisse.
De. Frater est exspectandus mihi:
is quod mihi dederit de hac re consilium, id sequar.
Percontatum ibo ad portum, quoad se recipiat.
Ge. At ego Antiphonem quaeram, ut quae acta hic sint sciat.
Sed eccum ipsum video in tempore huc se recipere.
De. Quanti fastidi e quante preoccupazioni mi procura mio figlio, mettendo nei guai me e lui con
queste nozze. E non si fa neppure vedere da me, perché almeno io sappia che cosa dice e cosa pensa
di questa storia. (A Geta) Va' a vedere se è già tornato a casa o no.
Ge. Vado. (Entra in casa).
De. Vedete a che punto è la cosa. Che devo fare? Dimmi. Egione.
Eg. Io credo che Cratino potrebbe, se tu sei d'accordo...
De. Dimmi, Cratino.
Cra. Vuoi che io...
De. Sì.
Cra. Io direi che devi fare quello che è meglio per te, Per me, io la vedo così. Quello che tuo figlio
ha fatto qui durante la tua assenza, mi pare giusto e corretto che torni com'era prima. E l'otterrai.
Ecco tutto.
De. Di' tu ora, Egione.
Eg. Io credo che lui (indica Cratino) abbia detto una cosa esatta. Ma poi, è così: quante teste, tanti
pareri. Ognuno la vede a modo suo. A me non pare che quello che è stato fatto per legge lo si possa
annullare. Tentarlo è una cosa che non fa onore.
De. Di' tu, Critone.
Cri. Io penso che bisogna riflettere un po' di più: il caso è grave.
Eg. Ti serve altro da noi?
De. Siete stati perfetti: sono molto più indeciso di prima. (Si allontanano).
Ge. (uscendo di casa) Dicono che non è tornato.
De. Devo aspettare mio fratello. Seguirò il consiglio che mi darà lui su questa storia. Andrò al porto
per sapere quando ritorna. (Si allontana).
Ge. Io intanto cercherò Antifone per fargli sapere cos'è successo qui. Ma ecco che lo vedo arrivare,
proprio al momento giusto.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
27
CATULLO (ca. 84 a.C. – ca. 54 a.C.)
Desinas ineptire
Smetti di fare follie!
(Catullo, c. 8, v. 1)
Carme 8
1. Miser Catulle, desinas ineptire,
2. et quod vides perisse perditum ducas.
3. Fulsere quondam candidi tibi soles,
4. cum ventitabas quo puella ducebat,
5. amata nobis quantum amabitur nulla.
6. Ibi illa multa tum iocosa fiebant,
7. quae tu volebas nec puella nolebat.
8. fulsere vere candidi tibi soles.
9. Nunc iam illa non vult: tu quoque, impotens, noli;
10. nec quae fugit sectare, nec miser vive,
11. sed obstinata mente perfer, obdura.
12. Vale, puella, iam Catullus obdurat,
13. nec te requiret nec rogabit invitam.
14. at tu dolebis, cum rogaberis nulla.
15. Scelesta, vae te! quae tibi manet vita?
16. quis nunc te adibit? cui videberis bella?
17. quem nunc amabis? cuius esse diceris?
18. quem basiabis? cui labella mordebis?
19. At tu, Catulle, destinatus obdura!
Povero Catullo, smetti di fare follie,
e ciò che vedi perduto, consideralo come perduto!
Un tempo brillarono per te giornate radiose,
quando correvi dove ti conduceva la fanciulla,
da noi amata come nessuna sarà mai amata.
Lì allora si svolgevano molti giochi amorosi,
che tu volevi e lei non rifiutava.
Davvero brillarono per te giornate radiose!
Ma ora non vuole più: rifiutali anche tu, sebbene incapace di dominarti;
non inseguire lei che fugge e non vivere da disperato,
ma sopporta con animo saldo, tieni duro!
Addio, fanciulla, ormai Catullo tiene duro,
e non ti cercherà né ti supplicherà, tuo malgrado.
Ma tu soffrirai, quando non sarai supplicata.
Guai a te, disgraziata, quale vita ti attende?
Chi, ora, verrà da te? A chi sembrerai hbella?
E chi ameraiora? E di chi si dirà che tu sei?
Chi bacerai? A chi morderai le labbra?
Ma tu, Catullo, con animo fremo, tieni duro!
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
28
Scribere in vento et rapida aqua.
Scrivere sul vento e sull’acqua che scorre veloce.
(Catullo, c. 70, v.4)
Carme 70
1. Nulli se dicit mulier mea nubere malle
2. quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat.
3. Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
4. in vento et rapida scribere oportet aqua.
La mia donna dice di non voler stare con altri,
se non con me, neppure se Giove in persona la corteggiasse.
Dice (così): ma ciò che una donna dice all’amante folle di passione
Bisogna scriverlo sul vento e sull’acqua che scorre veloce.
Difficile est longum deponere amorem.
È difficile deporre ad un tratto una lunga passione.
(Catullo, c. 76, v. 13)
Carme 76
1. Siqua recordanti benefacta priora voluptas
2. est homini, cum se cogitat esse pium,
3. nec sanctam violasse fidem, nec foedere in ullo
4. divum ad fallendos numine abusum homines,
5. multa parata manent in longa aetate, Catulle,
6. ex hoc ingrato gaudia amore tibi.
7. nam quaecumque homines bene cuiquam aut dicere possunt
8. aut facere, haec a te dictaque factaque sunt.
9. omnia quae ingratae perierunt credita menti.
10. quare cur tete iam amplius excrucies?
11. quin tu animum offirmas atque istinc te ipse reducis
12. et dis invitis desinis esse miser?
13. difficilest longum subito deponere amorem,
14. difficilest, verum hoc qua libet efficias:
15. una salus haec est, hoc est tibi pervincendum,
16. hoc facias, sive id non pote sive pote.
17. di, si vestrumst misereri, aut si quibus umquam
18. extremam iam ipsa in morte tulistis opem,
19. me miserum aspicite et, si vitam puriter egi,
20. eripite hanc pestem perniciemque mihi,
21. quae mihi surrepens imos ut torpor in artus
22. expulit ex omni pectore laetitias.
23. non iam illud quaero, contra me ut diligat illa,
24. aut, quod non potis est, esse pudica velit:
25. ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum.
26. Di, reddite mi hoc pro pietate mea!
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
29
1. Se all'uomo è dolce il ricordo del bene compiuto,
2. quando sente di essere giusto, di non avere mai infranto
3. la parola inviolabile, e di non avere abusato
4. del Nume divino, nei patti, ad inganno degli uomini,
5. ti restano incolumi gioie nel tempo avvenire, o Catullo,
6. superstiti a questa per te sventurata passione.
7. Quanto un uomo, difatti, può compiere o dire di bene,
8. tu l'hai detto o compiuto. Ma tutto,
9. invano affidato ad un animo ingrato, è perito.
10. Perché dunque continui ad accrescere l'antico tormento,
11. e non rendi più fermo il tuo animo, e non ti ravvedi,
12. e non smetti di vivere in pena, malgrado il volere divino?
13. È difficile deporre ad un tratto una lunga passione.
14. È difficile, ma devi riuscirvi a ogni costo.
15. Questa è la sola salvezza, questa la tua grande vittoria.
16. Tenta l'impresa, possibile o perduta che sia.
17. O dèi, se la pietà vi si addice, e se mai concedeste
18. ad alcuno nell'ora della morte un estremo soccorso,
19. guardate me pure infelice, e se la mia vita fu pura,
20. strappatemi a questo male che mi consuma
21. e come letargo si insinua in ogni fibra del corpo
22. disperdendo tutte le gioie dal profondo dell'animo.
23. Non chiedo già questo, che lei ricambi il mio amore,
24. o, ciò che è impossibile, voglia divenire pudica;
25. sono io che voglio guarire e liberarmi di questo orribile morbo.
26. O dèi concedetemi qesto, in cambio della mia devozione.
Odi et amo.
Odio e amo
(Catullo, c. 85, v. 1)
Carme 85
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Odio e amo. Forse ti chiedi perché io lo faccia (oppure: come sia possibile)
Non lo so, ma sento che accade e mi tormento.
Anacreonte
.
Amo e non amo,
sono pazzo e non sono pazzo. (fr. 46 Gentili)
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
30
CORNELIO NEPOTE (ca. 100 a.C. – ca. 25 a.C.)
Invidia gloriae comes.
Invidia compagna della gloria.
(Cornelio Nepote, Cabria, 2-3)
Cornelio Nepote, Cabria, 2-3
Interim bellum inter Aegyptios et Persas conflatum est. Athenienses cum Artaxerxe societatem
habebant, Lacedaemonii cum Aegyptiis, a quibus magnas praedas Agesilaus, rex eorum, faciebat.
id intuens Chabrias, cum in re nulla Agesilao cederet, sua sponte eos adiutum profectus Aegyptiae
classi praefuit, pedestribus copiis Agesilaus.
Tum praefecti regis Persae legatos miserunt Athenas questum, quod Chabrias aduersum regem
bellum gereret cum Aegyptiis. Athenienses diem certam Chabriae praestituerunt, quam ante domum
nisi redisset, capitis se illum damnaturos denuntiarunt. Hoc ille nuntio Athenas rediit, neque ibi
diutius est moratus, quam fuit necesse. Non enim libenter erat ante oculos suorum civium, quod et
vivebat laute et indulgebat sibi liberalius, quam ut invidiam vulgi posset effugere. Est enim hoc
commune vitium magnis liberisque civitatibus, ut invidia gloriae comes sit et libenter de iis
detrahant, quos eminere videant altius, neque animo aequo pauperes alienam intueantur fortunam.
Itaque Chabrias, quoniam ei licebat, plurimum aberat. Neque vero solus ille aberat Athenis
libenter, sed omnes fere principes fecerunt idem, quod tantum se ab inuidia putabant futuros,
quantum a conspectu suorum recesserint. Itaque Conon plurimum Cypri vixit, Iphicrates in
Thraecia, Timotheus Lesbo, Chares Sigeo, dissimilis quidem Chares horum et factis et moribus, sed
tamen Athenis et honoratus et potens.
Intanto scoppiò la guerra tra l'Egitto e la Persia. Gli Ateniesi erano alleati con Artaserse, gli
Spartani con gli Egiziani; dai quali Agesilao, loro re, traeva enormi guadagni. Cabria, considerando
questo e non volendo essere in nulla inferiore ad Agesilao, di sua iniziativa partito in loro aiuto, si
mise a capo della flotta Egiziana, mentre Agesilao era a capo delle truppe di terra.
Allora i satrapi del re persiano inviarono ambasciatori ad Atene a protestare del fatto che Cabria
conducesse la guerra insieme agli Egiziani contro il re. Gli Ateniesi fissarono a Cabria un giorno,
entro il quale se non fosse tornato in patria, gli notificarono che lo avrebbero condannato alla pena
capitale. A questo messaggio egli ritornò ad Atene, ma non rimase lì più a lungo di quanto fu
necessario. I suoi concittadini infatti non lo vedevano di buon occhio: viveva sfarzosamente e si
dava troppo alla bella vita perché potesse sfuggire al mal volere della gente. È questo vizio comune
a tutti gli Stati grandi e liberi, che l'invidia sia compagna della gloria e che volentieri screditino
coloro che vedono levarsi troppo in alto e che i poveri non guardino con animo sereno la fortuna
degli altri che sono ricchi. E così Cabria, finché le circostanze glielo permettevano, se ne stava
assente il più a lungo possibile. E non era lui solo a stare volentieri lontano da Atene: fecero lo
stesso pressoché tutti i capi, perché ritenevano che sarebbero stati lontani dalla invidia nella misura
in cui fossero stati lontani dai loro concittadini. Così Conone visse per lo più a Cipro, Ificrate in
Tracia, Timoteo a Lesbo, Carete al Sigeo; molto diverso Carete da questi e per vicende e per
costumi, ma tuttavia in Atene onorato e potente.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Paritur pax bello.
La pace nasce dalla guerra.
(Cornelio Nepote, Epaminonda, 5)
Cornelio Nepote, Epaminonda, 5
Fuit etiam disertus, ut nemo ei Thebanus par esset eloquentia, neque minus concinnus in brevitate
respondendi quam in perpetua oratione ornatus. Habuit obtrectatorem Menecliden quendam,
indidem Thebis, et adversarium in administranda re publica, satis exercitatum in dicendo, ut
Thebanum scilicet: namque illi genti plus inest virium quam ingenii. Is quod in re militari florere
Epaminondam videbat, hortari solebat Thebanos, ut pacem bello anteferrent, ne illius imperatoris
opera desideraretur. Huic ille “Fallis” inquit “verbo civis tuos, quod hos a bello avocas: otii enim
nomine servitutem concilias. Nam paritur pax bello. Itaque qui ea diutina volunt frui, bello
exercitati esse debent. Quare si principes Graeciae vultis esse, castris est vobis utendum, non
palaestra”.
Inoltre fu facondo tanto che nessun Tebano gli fu pari per eloquenza, felice nelle brevi risposte
quanto elegante nel discorso continuo. Ebbe come calunniatore un certo Meneclide, anche lui di
Tebe, suo avversario nell'amministrazione dello Stato, abbastanza abile oratore, come Tebano,
evidentemente: infatti in quel popolo è posta più forza fisica che ingegno. Costui, poiché vedeva
che Epaminonda eccelleva nell'arte militare, soleva esortare i Tebani ad anteporre la pace alla
guerra, affinché non fosse richiesta la sua opera di comandante. Epaminonda gli disse: "Inganni i
tuoi concittadini con quello che dici, dal momento che li allontani dalla guerra: infatti in nome della
pace procuri loro la schiavitù. La pace nasce dalla guerra. Perciò quelli che vogliono godere di
una lunga pace devono essere esercitati alla guerra. Quindi, se volete essere i primi della Grecia,
dovete usare l'accampamento, non la palestra".
Motti simili:
Si vis pacem, para bellum.
Se vuoi la pace, prepara la guerra.
Qui desiderat pacem, praeparet bellum. (Vegezio, IV-V secolo d.C.))
Chi desidera la pace, prepari la guerra.
(Vegezio, Epitoma rei militaris, III, pref.
Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum; qui victoriam cupit, milites imbuat diligenter; qui
secundos optat eventus, dimicet arte, non casu. Nemo provocare, nemo audet offendere quem
intellegit superiorem esse, si pugnet.
Dunque chi desidera la pace, prepari la guerra; chi desidera la vittoria, istruisca accuratamente i
soldati; chi desidera esiti favolrevoli, combatta ad arte, non a caso. Nessuno osa provocare, nessuno
osa offendere (un nemico) di cui è chiara la superiorità, in caso di combattimento.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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LUCREZIO (ca. 100 – ca. 25 a.C.)
Tantum religio potuit suadere malorum.
A tante scelleratezze poté indurre la superstizione.
(Lucrezio, De rerum natura, I, v. 101)
Lucrezio, De rerum natura, I, vv. 62-101
62 Humana ante oculos foede cum vita iaceret
63 in terris oppressa gravi sub religione,
64 quae caput a caeli regionibus ostendebat
65 horribili super aspectu mortalibus instans,
66 primum Graius homo mortalis tollere contra
67 est oculos ausus primusque obsistere contra;
68 quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
69 murmure compressit caelum, sed eo magis acrem
70 inritat animi virtutem, effringere ut arta
71 naturae primus portarum claustra cupiret.
72 ergo vivida vis animi pervicit et extra
73 processit longe flammantia moenia mundi
74 atque omne immensum peragravit mente animoque,
75 unde refert nobis victor quid possit oriri,
76 quid nequeat, finita potestas denique cuique
77 qua nam sit ratione atque alte terminus haerens.
78 quare religio pedibus subiecta vicissim
79 opteritur, nos exaequat victoria caelo.
80 Illud in his rebus vereor, ne forte rearis
81 impia te rationis inire elementa viamque
82 indugredi sceleris. quod contra saepius illa
83 religio peperit scelerosa atque impia facta.
84 Aulide quo pacto Triviai virginis aram
85 Iphianassai turparunt sanguine foede
86 ductores Danaum delecti, prima virorum.
87 cui simul infula virgineos circum data comptus
88 ex utraque pari malarum parte profusast,
89 et maestum simul ante aras adstare parentem
90 sensit et hunc propter ferrum celare ministros
91 aspectuque suo lacrimas effundere civis,
92 muta metu terram genibus summissa petebat.
93 nec miserae prodesse in tali tempore quibat,
94 quod patrio princeps donarat nomine regem;
95 nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras
96 deductast, non ut sollemni more sacrorum
97 perfecto posset claro comitari Hymenaeo,
98 sed casta inceste nubendi tempore in ipso
99 hostia concideret mactatu maesta parentis,
100 exitus ut classi felix faustusque daretur.
101 Tantum religio potuit suadere malorum.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
33
La vita umana sotto gli occhi di tutti turpemente giaceva sulla terra, oppressa sotto il peso della
religione, che affacciava il capo dalle plaghe del cielo con volto spaventoso incombendo dall'alto
sugli uomini, quando un uomo greco 6 per primo osò alzare contro di lei gli occhi mortali e primo le
si drizzò contro : non lo trattennero le favole sugli dèi né i fulmini né col minaccioso murmure il
cielo, ma più ancora affilarono l'acuta energia del suo animo, sì che volle per primo spezzare le
chiuse sbarre delle porte della natura. Così la vivida tensione dell'animo vinse, e avanzò lontano
oltre le fiammeggianti mura del mondo, e l'universo immenso percorse con la mente e col cuore : di
là riporta a noi vittorioso quel che può nascere, quello che non può, e secondo qual legge ogni cosa
ha un potere definito e un termine profondamente infisso. Così la religione abbattuta sotto i piedi è a
sua volta calpestata, noi la vittoria eguaglia al cielo.
Qui un timore mi prende, che forse tu creda d'essere iniziato ai princìpi di un'empia dottrina e di
metterti sulla via della colpa. Invece proprio essa, la religione, generò più volte atti scellerati ed
empi, come in Aulide l'ara della vergine Trivia macchiarono turpemente col sangue d'Ifianassa' gli
eletti duci dei Danai, il fiore degli eroi. Non appena la benda avvolta alle nitide chiome virginee in
liste eguali le ricadde su entrambe le guance, e come s'accorse che mesto stava innanzi all'altare suo
padre e accanto a lui i sacerdoti celavano il ferro e al vederla apparire la sua gente non teneva il
pianto, muta per il terrore s'abbatteva a terra piegandosi sulle ginocchia. Né alla misera poteva
giovare in un tale momento l'aver dato per prima al re il nome di padre. Sollevata da mani d'uomini
e tutta tremante fu condotta all’altare, non perché, una volta compiuto il sacro rito solenne, potesse
essere scortata per via dal luminoso Imeneo, ma affinché pura impuramente, nel giorno promesso
alle nozze, cadesse vittima dolente colpita dal padre, e così fosse data alla flotta felice e fausta
partenza. Tanto grandi delitti ha potuto ispirare la religione.
Labitur interea res.
Frattanto il patrimonio si dilegua.
(Lucrezio, De rerum natura, IV, v. 1123)
Languent officia
I doveri sono trascurati.
(Lucrezio, De rerum natura, IV, v. 1124)
Lucrezio, De rerum natura, IV, vv. 1121-1176
1121. Adde quod absumunt viris pereuntque labore,
1122. adde quod alterius sub nutu degitur aetas,
1123. Labitur interea res et Babylonia fiunt
1124. languent officia atque aegrotat fama vacillans.
1125. Unguenta et pulchra in pedibus Sicyonia rident,
1126. scilicet et grandes viridi cum luce zmaragdi
1127. auro includuntur teriturque thalassina vestis
1128. adsidue et Veneris sudorem exercita potat.
1129. Et bene parta patrum fiunt anademata, mitrae,
1130. inter dum in pallam atque Alidensia Ciaque vertunt.
1131. Eximia veste et victu convivia, ludi,
1132. pocula crebra, unguenta, coronae, serta parantur,
1133. ne quiquam, quoniam medio de fonte leporum
1134. surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat,
1135. aut cum conscius ipse animus se forte remordet
1136. desidiose agere aetatem lustrisque perire,
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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aut quod in ambiguo verbum iaculata reliquit,
quod cupido adfixum cordi vivescit ut ignis,
aut nimium iactare oculos aliumve tueri
quod putat in voltuque videt vestigia risus.
Atque in amore mala haec proprio summeque secundo
inveniuntur; in adverso vero atque inopi sunt,
prendere quae possis oculorum lumine operto.
Innumerabilia; ut melius vigilare sit ante,
qua docui ratione, cavereque, ne inliciaris.
nam vitare, plagas in amoris ne iaciamur,
non ita difficile est quam captum retibus ipsis
exire et validos Veneris perrumpere nodos.
Et tamen implicitus quoque possis inque peditus
effugere infestum, nisi tute tibi obvius obstes
et praetermittas animi vitia omnia primum
aut quae corporis sunt eius, quam praepetis ac vis.
Nam faciunt homines plerumque cupidine caeci
et tribuunt ea quae non sunt his commoda vere.
Multimodis igitur pravas turpisque videmus
esse in deliciis summoque in honore vigere.
Atque alios alii inrident Veneremque suadent
ut placent, quoniam foedo adflictentur amore,
nec sua respiciunt miseri mala maxima saepe.
Nigra melichrus est, inmunda et fetida acosmos,
caesia Palladium, nervosa et lignea dorcas,
parvula, pumilio, chariton mia, tota merum sal,
magna atque inmanis cataplexis plenaque honoris.
balba loqui non quit, traulizi, muta pudens est;
at flagrans, odiosa, loquacula Lampadium fit.
Ischnon eromenion tum fit, cum vivere non quit
prae macie; rhadine verost iam mortua tussi.
At nimia et mammosa Ceres est ipsa ab Iaccho,
simula Silena ac Saturast, labeosa philema.
cetera de genere hoc longum est si dicere coner.
Sed tamen esto iam quantovis oris honore,
cui Veneris membris vis omnibus exoriatur;
nempe aliae quoque sunt; nempe hac sine viximus ante;
nempe eadem facit et scimus facere omnia turpi
et miseram taetris se suffit odoribus ipsa,
quam famulae longe fugitant furtimque cachinnant.
Aggiungi che sperdono le forze e si logorano con le fatiche; aggiungi che al cenno imperioso d'altri
si trascorre la vita. Frattanto il patrimonio si dilegua e si trasforma in tappeti d'oriente; i doveri
sono trascurati e ne soffre il buon nome, che vacilla. Ma scintillano unguenti, e intorno ai piedi
ridono leggiadri sandali di Sicione e, s'intende, grandi smeraldi dalla verde luce sono legati in oro,
la veste color di mare è consunta dall'uso continuo e strapazzata s'imbeve di sudore amoroso. Gli
onesti guadagni dei padri diventano bende e diademi, talvolta si mutano in pepli e in stoffe di
Alinda e di Ceo. Si apprestano conviti con splendide coperture e portate, giochi, tazze sempre
colme, profumi, corone e ghirlande invano, perché di mezzo alla fonte delle delizie rampolla non
so che amaro, e stringe alla gola perfino tra i fiori, o quando a volte l'animo consapevole si rode di
trascorrere oziosa la vita e di perdersi con la lussuria, o perché essa una parola in senso ambiguo
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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gettando ha lasciata, che confitta nel cuore innamorato si avviva come fiamma, o gli pare che lanci
troppe occhiate o fermi lo sguardo su un altro, o vede nel suo volto il lampo d'un sorriso.
E questi mali s'incontrano in un amore appagato e sommamente felice; ma in una passione
avversa e disperata ce ne sono infiniti, che puoi cogliere anche a occhi chiusi. Meglio essere prima
vigilanti, nel modo che ho detto, e badare a non essere adescati. Evitare d'esser gettati nelle reti
d'amore non è così difficile come uscirne una volta irretiti, e districarsi dai tenaci nodi di Venere.
Eppure anche impigliato e avviluppato potresti sfuggire al nemico, se proprio tu non ti opponessi
ostacoli, e specialmente non ti nascondessi tutti i vizi dell'animo o i difetti del corpo di colei che
vagheggi e vuoi tua. Questo fanno di solito gli uomini accecati dal desiderio, e accordano ad esse
quei pregi che in verità non hanno. Perciò vediamo femmine per molti aspetti brutte e deformi,
teneramente amate e superbe di altissimo onore. E poi ridono un dell'altro e si esortano a rabbonire
Venere, perché un brutto amore li affligge; e spesso non vedono, miseri, i propri mali enormi. La
mora «ha il colore del miele», una sudicia e lercia «veste negletto», se ha occhi verdi «è il ritratto di
Pallade», tutta tèndini e stecchi «è una gazzella», piccolina - una nana - «è una delle Grazie, tutta
sale», enorme e sgraziata è «stupenda, piena di maestà». La balbuziente non può parlare,
«cinguetta», la muta è «così riservata!», l'impetuosa petulante e ciarliera diventa una «Fiammetta».
È «un esile amorino» quando la consunzione l'uccide, e se già muore di tosse è «un po' gracilina».
La pingue dal seno enorme è «Cerere sgravata di Bacco», la camusa è «una cilena» o «una Satira»,
la labbrona «una voglia di baci». E la farei troppo lunga se volessi esaurir l'argomento. Ma sia pur
bella in viso quanto vuoi e il richiamo di Venere sorga possente da tutte le sue membra: certo ve ne
sono anche altre; cero senza di lei siamo vissuti finora; certo fa, e lo sappiamo, tutto quello che fa la
brutta e da sé, poverina, s’ammorba di odori ripugnanti, mentre le serve fuggono lontano e
scoppiano in risate furtive.
Ex una scintilla incendia.
(Nascono) incendi da una sola scintilla.
(Lucrezio, De rerum natura, V, v. 609)
Lucrezio, De rerum natura, V, vv. 592-613
592. Illud item non est mirandum, qua ratione
593. tantulus ille queat tantum sol mittere lumen,
594. quod maria ac terras omnis caelumque rigando
595. compleat et calido perfundat cuncta vapore.
596. [quanta quoquest tanta hinc nobis videatur in alto]
597. nam licet hinc mundi patefactum totius unum
598. largifluum fontem scatere atque erumpere lumen,
599. ex omni mundo quia sic elementa vaporis
600. undique conveniunt et sic coniectus eorum
601. confluit, ex uno capite hic ut profluat ardor.
602. nonne vides etiam quam late parvus aquai
603. prata riget fons inter dum campisque redundet?
604. est etiam quoque uti non magno solis ab igni
605. aera percipiat calidis fervoribus ardor,
606. opportunus ita est si forte et idoneus aer,
607. ut queat accendi parvis ardoribus ictus;
608. quod genus inter dum segetes stipulamque videmus
609. accidere ex una scintilla incendia passim.
610. forsitan et rosea sol alte lampade lucens
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
36
611.
612.
613.
possideat multum caecis fervoribus ignem
circum se, nullo qui sit fulgore notatus,
aestifer ut tantum radiorum exaugeat ictum.
Neppure questo fa meraviglia, come il sole, che è tanto piccolo, possa emettere tanta luce da
colmare, inondandoli, tutti i mari e le terre ed il cielo e diffondere su tutte le cose il caldo suo alito.
Forse di là s’apre sul mondo un’unica fonte, che sgorga e riversa con getto copioso la luce, perché
da tutto il mondo gli elementi di fuoco si raccolgono d’ogni parte, e il loro impeto confluisce per
modo, che qui da una sola sorgente scaturisce il calore. Non vedi per quanto spazio una piccola
fonte d'acqua talvolta irriga i prati e trabocca nella pianura? 0 forse anche, dal fuoco non grande del
sole una vampa di ardente calore infiamma l'aria, se per caso l'aria è così opportunamente disposta,
da accendersi appena è colpita da lieve calore; come talvolta vediamo nelle spighe e nelle stoppie
per vasto tratto nascono incendi da una sola scintilla. O forse, il sole che sfolgora in alto con rosea
fiaccola, ha intorno a sé molto fuoco dal fervore invisibile, che non è rivelato da nessuno sprazzo di
luce, e diffonde un calore che accresce solo la potenza dei raggi.
CICERONE (106 – 43 a.C.)
Pro domo sua.
Cicerone in difesa della sua casa
(Cicerone, Pro domo sua: titolo di un’orazione)
Orazione che Cicerone scrisse nel 57 a.C. quando, grazie all’intervento di Pompeo, poté tornare a
Roma e, nonostante le difficoltà, ottenne di ricostruire la casa sul palatino che Clodio gli aveva fatto
demolire.
Cicerone, Pro domo sua, 1
Cum multa divinitus, pontifices, a maioribus nostris inventa atque instituta sunt, tum nihil
praeclarius quam quod eosdem et religionibus deorum immortalium et summae rei publicae
praeesse voluerunt, ut amplissimi et clarissimi cives rem publicam bene gerendo religiones,
religiones sapienter interpretando rem publicam conservarent. Quod si ullo tempore magna causa
in sacerdotum populi Romani iudicio ac potestate versata est, haec profecto tanta est ut omnis rei
publicae dignitas, omnium civium salus, vita, libertas, arae, foci, di penates, bona, fortunae,
domicilia vestrae sapientiae, fidei, potestati commissa creditaque esse videantur.
(1) Tra le numerose istituzioni che gli dèi, o pontefici, hanno ispirato ai nostri antenati, non ce n'è
una che sia più bella della loro volontà di affidare agli stessi uomini e il culto degli dèi immortali e i
supremi interessi dello Stato, perché i più autorevoli e illustri cittadini assicurassero col loro buon
governo il mantenimento dell culto e con una saggia interpretazione delle norme religiose quello
dello Stato. E se ci fu mai altra occasione in cui una causa importante fu affidata al giudizio e al
potere dei sacerdoti del popolo romano, questa è di certo di tale importanza che tutto il prestigio
dello Stato, la sicurezza, la vita, la libertà, gli altari, i focolari domestici, gli dèi penati, i beni e le
sostanze di tutti i cittadini sono - è ben evidente - rimessi e affidati alla vostra saggezza, alla vostra
scrupolosità, al vostro potere.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Silent enim leges inter arma.
Le leggi tacciono in mezzo alle armi.
(Cicerone, Pro Milone, 11)
Cicerone, Pro Milone, IV, 10-11
Insidiatori vero et latroni quae potest inferri iniusta nex? Quid comitatus nostri, quid gladii volunt?
quos habere certe non liceret, si uti illis nullo pacto liceret. Est igitur haec, iudices, non scripta, sed
nata lex, quam non didicimus, accepimus, legimus, verum ex natura ipsa adripuimus, hausimus,
expressimus, ad quam non docti sed facti, non instituti sed imbuti sumus, ut, si vita nostra in aliquas
insidias, si in vim et in tela aut latronum aut inimicorum incidisset, omnis honesta ratio esset
expediendae salutis. Silent enim leges inter arma nec se exspectari iubent, cum ei qui exspectare
velit ante iniusta poena luenda sit quam iusta repetenda. Etsi persapienter et quodam modo tacite
dat ipsa lex potestatem defendendi, quae non hominem occidi, sed esse cum telo hominis occidendi
causa vetat, ut, cum causa, non telum quaereretur, qui sui defendendi causa telo esset usus, non
hominis occidendi causa habuisse telum iudicaretur. Quapropter hoc maneat in causa, iudices; non
enim dubito quin probaturus sim vobis defensionem meam, si id memineritis quod oblivisci non
potestis insidiatorem interfici iure posse.
10. Ma come si può chiamare ingiusta la morte inferta a chi ci tende insidie e ruba le nostre
sostanze? E, ditemi, come si spiegano queste nostre scorte armate di pugnali? È ovvio che, se non
fosse permesso in alcun caso di usarle, non sarebbe permesso nemmeno di tenerle. Esiste, dunque,
giudici, questa legge non scritta, ma insita in noi, che non abbiamo letto o imparato sui banchi di
scuola né ereditato dai padri: al contrario, l'abbiamo desunta dalla natura, assimilata completamente
e fatta nostra: non ce l'hanno insegnata, ce la siamo presa ed è ormai connaturata in noi. Così, se
dovessimo subire un agguato, una violenza, magari anche armata, per opera di un brigante da strada
o di un avversario politico, ogni mezzo per salvare la nostra vita sarebbe lecito.
11. Le leggi, infatti, tacciono in mezzo alle armi e non prescrivono di affidarsi a loro, perché chi
decidesse in tal senso dovrebbe comunque subire una pena immeritata prima di avere giustizia. Se
vogliamo, c'è una legge che tutela la legittima difesa: essa, nella sua oculatezza, seppure
implicitamente, non proibisce di uccidere un uomo, ma vieta che si vada in giro armati con
l'intenzione di uccidere. E dunque, quando si indaga sulle cause e non sull'arma del delitto, chi ha
usato un'arma solo per difendersi, non deve essere imputato di avere avuto con sé l'arma con
l'intenzione di uccidere. Perciò, giudici, vorrei che questa mia riflessione restasse un punto fermo
nel corso del dibattito; infatti, sono sicuro di convincervi con le mie parole di difesa, a patto che
teniate sempre presente un dato che non si può dimenticare: si può legittimamente uccidere chi
tende insidie.
Quousque tandem?
Fino a quando?
(Cicerone, Catilinaria, I, 1)
[1] Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? quam diu etiam furor iste tuus nos
eludet? quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? Nihilne te nocturnum praesidium Palati,
nihil urbis vigiliae, nihil timor populi, nihil concursus bonorum omnium, nihil hic munitissimus
habendi senatus locus, nihil horum ora voltusque moverunt? Patere tua consilia non sentis,
constrictam iam horum omnium scientia teneri coniurationem tuam non vides? Quid proxima, quid
superiore nocte egeris, ubi fueris, quos convocaveris, quid consilii ceperis, quem nostrum ignorare
arbitraris?
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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1 Fino a quando, Catilina, approfitterai della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora la tua
pazzia si farà beffe di noi? A che limiti si spingerà una temerarietà che ha rotto i freni? Non ti hanno
turbato il presidio notturno sul Palatino, le ronde che vigilano in città, la paura della gente,
l'accorrere di tutti gli onesti, il riunirsi del Senato in questo luogo sorvegliatissimo, l'espressione, il
volto dei presenti? Non ti accorgi che il tuo piano è stato scoperto? Non vedi che tutti sono a
conoscenza della tua congiura, che la tengono sotto controllo? O ti illudi che qualcuno di noi ignori
cos'hai fatto ieri notte e la notte ancora precedente, dove sei stato, chi hai convocato, che decisioni
hai preso?
Nihil difficile amanti.
Non c’è nulla di difficile per chi ama.
(Cicerone, Orator, 33)
Cicerone, Orator, 33-34
(33) Referamus igitur nos ad eum quem volumus inchoandum et ea demum eloquentia informandum
quam in nullo cognovit Antonius. magnum opus omnino et arduum, Brute, conamur; sed nihil
difficile amanti puto. amo autem et semper amavi ingenium studia mores tuos. Incendor porro
cotidie magis non desiderio solum quo quidem conficior, congressus nostros, consuetudinem victus,
doctissimos sermones requirens tuos, sed etiam admirabili fama virtutum incredibilium quae specie
dispares prudentia coniunguntur. (34) Quid enim tam distans quam a severitate comitas? Quis
tamen unquam te aut sanctior est habitus aut dulcior? quid tam difficile quam in plurimorum
controversiis diiudicandis ab omnibus diligi? consequeris tamen, ut eos ipsos quos contra statuas
aequos placatosque dimittas. itaque efficis ut, cum gratiae causa nihil facias, omnia tamen sint
grata quae facis. Ergo omnibus ex terris una Gallia communi non ardet incendio, in qua frueris
ipse te, tanquam in Italiae luce cognosceris versarisque in optumorum civium vel flore vel robore.
iam quantum illud est quod in maxumis occupationibus nunquam intermittis studia doctrinae,
semper aut ipse scribis aliquid aut me vocas ad scribendum.
(33) Passiamo dunque ad abbozzare quel tipo di oratore che noi cerchiamo e a rappresentarlo – è
ormai ora – fornito di quell’eloquenza che Antonio non ha riscontrato in nessuno. Mi accingo a
un'impresa veramente importante e ardua, o Bruto; ma non c'è nulla di difficile, a mio avviso, per
chi ama. Perché io amo e ho sempre amato il tuo talento, i tuoi gusti e il tuo carattere. Sento ogni
giorno di più la tua mancanza e mi struggo di desiderio, pensando ai nostri incontri, ai nostri
rapporti, alle tue dotte conversazioni. Mi commuove anche l'incredibile fama delle tue meravigliose
virtù, che, opposte all'apparenza, sono unite dalla tua saggezza. (34) Che cosa c'è di più diverso
della severità e della gentilezza? Eppure, chi è stato mai giudicato o più retto o più affabile di te?
Per chi deve giudicare processi in cui sono coinvolte più persone, nulla è tanto difficile quanto il
farsi amare da tutti. Eppure tu riesci a rimandare soddisfatti e sereni perfino coloro contro i quali hai
emesso una sentenza. Così, pur non facendo tu nulla per guadagnarti dei fautori, ottieni che riesca
gradito tutto ciò che fai. Per questo tra tutte le regioni la sola Gallia è immune dall'incendio che
ovunque divampa: tu vi raccogli il frutto delle tue virtù, al cospetto dell'Italia, vivendo in mezzo a
cittadini ragguardevolissimi per dignità e potenza. E che dire del fatto che, pur occupato da sì grandi
problemi, non tralasci un istante i severi studi, ma sei sempre intento a scrivere qualcosa o esorti me
a scrivere!
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Summum ius, summa iniuria.
Somma giustizia, somma ingiustizia.
(Cicerone, De officiis, I, 33)
Oderint dum metuant.
Mi odino, purché mi temano.
(Cicerone, De officiis, I, 97)
Cicerone, De officiis, I, 33
(33) Existunt etiam saepe iniuriae calumnia quadam et nimis callida sed malitiosa iuris
interpretatione. Ex quo illud “summum ius summa iniuria” factum est iam tritum sermone
proverbium. Quo in genere etiam in re publica multa peccantur, ut ille, qui, cum triginta dierum
essent cum hoste indutiae factae, noctu populabatur agros, quod dierum essent pactae, non
noctium indutiae. Ne noster quidem probandus, si verum est Q. Fabium Labeonem seu quem alium
- nihil enim habeo praeter auditum - arbitrum Nolanis et Neapolitanis de finibus a senatu datum,
cum ad locum venisset, cum utrisque separatim locutum, ne cupide quid agerent, ne adpetenter,
atque ut regredi quam progredi mallent. Id cum utrique fecissent, aliquantum agri in medio
relictum est. Itaque illorum finis sic, ut ipsi dixerant, terminavit; in medio relictum quod erat,
populo Romano adiudicavit. Decipere hoc quidem est, non iudicare. Quocirca in omni est re
fugienda talis sollertia.
(33) Si commettono spesso ingiustizie anche per una certa tendenza al cavillo, cioè per una troppo
sottile, ma in realtà maliziosa, interpretazione del diritto. Di qui il comune e ormai trito proverbio:
“somma giustizia, somma ingiustizia”. A questo riguardo, si commettono molti errori anche nella
vita pubblica; come, per esempio, quel tale che, conclusa col nemico una tregua di trenta giorni,
andava di notte a saccheggiar le campagne, col pretesto che il patto parlava di giorni e non di notti.
Non merita lode neppure, -se il fatto è vero -, quel nostro concittadino, sia egli Quinto Fabio
Labeone o qualcun altro (io non ne so più che per sentito dire). Il senato l'aveva mandato ai Nolani
e ai Napoletani, come arbitro per una questione di confini. Venuto egli sul luogo, parlò
separatamente agli uni e agli altri, raccomandando che non trascendessero in atti di avidità e di
prepotenza, anzi volessero piuttosto retrocedere che avanzare. Così fecero gli uni e gli altri, e un bel
tratto di terreno rimase libero nel mezzo. Allora egli fissò i confini dei due popoli come essi
avevano detto; e il terreno rimasto nel mezzo, l'assegnò al popolo romano. Questo si chiama
ingannare, non giudicare. Perciò, in ogni circostanza, conviene evitare simili furberie.
Cicerone, De officiis, I, 96-97
Est autem eius descriptio duplex; nam et generale quoddam decorum intellegimus, quod in omni
honestate versatur, et aliud huic subiectum, quod pertinet ad singulas partes onestatis. Atque illud
superius sic fere definiri solet, decorum id esse, quod consentaneum sit hominis excellentiae in eo,
in quo natura eius a reliquis animantibus differat. Quae autem pars subiecta generi est, eam sic
definiunt, ut id decorum velint esse, quod ita naturae consentaneum sit, ut in eo moderatio et
temperantia appareat cum specie quadam liberali.
Haec ita intellegi, possumus existimare ex eo decoro, quod poetae sequuntur, de quo alio loco
plura dici solent. Sed ut tum servare illud poetas, quod deceat, dicimus, cum id quod quaque
persona dignum est, et fit et dicitur, ut si Aeacus aut Minos diceret “oderint dum metuant” aut
'natis sepulchro ipse est parens' indecorum videretur, quod eos fuisse iustos accepimus; at Atreo
dicente plausus excitantur, est enim digna persona oratio; sed poetae quid quemque deceat, ex
persona iudicabunt; nobis autem personam imposuit ipsa natura magna cum excellentia
praestantiaque animantium reliquarum.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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96. Ora, il decoro è di due specie, giacché per decoro o conveniente intendiamo tanto un carattere
generale che risiede in tutto l'onesto, quanto un carattere particolare, a quello subordinato, che
appartiene alle singole parti dell'onesto. Del primo si suol dare circa questa definizione: "È decoro
ciò che è conforme all'eccellenza dell'uomo, in quanto la sua natura differisce da quella degli altri
esseri viventi"; la parte speciale, invece, è definita così: "decoro è ciò che è conforme alla
particolare natura di ciascuno, così che in esso appaiono moderazione e temperanza con un certo
aspetto di nobiltà".
97. Che tale sia la vera nozione del decoro (conveniente), noi possiamo argomentarlo da quel
decoro al quale tendono i poeti. Di questo speciale decoro si suole parlare diffusamente altrove; qui
io noterò soltanto che esso è rispettato dai poeti quando appunto i singoli personaggi agiscono e
parlano in modo conforme al loro proprio carattere. Così, per esempio, se Eaco o Minosse dicessero
"Mi odino, purché mi temano"; oppure: “Ai figliuoli è tomba il corpo del padre”, l'espressione
parrebbe sconveniente, perché, come sappiamo, quelli furono uomini giusti; ma se lo dice Atreo,
scoppiano applausi, perché il suo linguaggio è conforme al suo carattere. Ma i poeti, dal carattere
dei singoli personaggi, comprenderanno quali tratti convengano a ciascuno di essi; noi, invece,
dobbiamo conservare quel carattere che appunto la natura ci ha imposto e che, per la sua grande
nobiltà, ci innalza sopra tutti gli altri esseri viventi.
Modus vivendi.
Correntemente: “modo di vivere”; originariamente: “equilibrio nel vivere”.
(Cicerone, De re publica, I, 51)
Cicerone, De re publica, I, 51-52
(51)... si fortuito id faciet, tam cito evertetur quam navis, si e vectoribus sorte ductus ad
gubernacula accesserit. Quodsi liber populus deliget, quibus se committat, deligetque, si modo
salvus esse vult, optimum quemque, certe in optimorum consiliis posita est civitatium salus,
praesertim cum hoc natura tulerit, non solum ut summi virtute et animo praeessent inbecillioribus,
sed ut hi etiam parere summis velint. Verum hunc optimum statum pravis hominum opinionibus
eversum esse dicunt, qui ignoratione virtutis, quae cum in paucis est, tum a paucis iudicatur et
cernitur, opulentos homines et copiosos, tum genere nobili natos esse optimos putant. Hoc errore
vulgi cum rem publicam opes paucorum, non virtutes tenere coeperunt, nomen illi principes
optimatium mordicus tenent, re autem carent [eo nomine]. Nam divitiae, nomen, opes vacuae
consilio et vivendi atque aliis imperandi modo dedecoris plenae sunt et insolentis superbiae, nec
ulla deformior species est civitatis quam illa, in qua opulentissimi optimi putantur.
(52) Virtute vero gubernante rem publicam quid potest esse praeclarius? Cum is, qui imperat aliis,
servit ipse nulli cupiditati, cum, quas ad res civis instituit et vocat, eas omnis conplexus est ipse nec
leges imponit populo, quibus ipse non pareat, sed suam vitam ut legem praefert suis civibus.
(51) ... se ciò farà per sorte, sarà travolto tanto presto quanto una nave, nel caso che si metta al
timone uno dei passeggeri estratto a caso. Che se liberamente il popolo sceglierà quelli cui affidarsi,
e sceglierà, se pur vuole essere salvo, i migliori soltanto, di certo la salvezza della città viene ad
identificarsi con le deliberazioni degli ottimi, soprattutto perché la natura stessa comporta questo,
che non soltanto i sommi per virtù ed animo governino i più deboli, ma che anche costoro vogliano
obbedire ai sommi. Ma questa ottima condizione essi dicono che venne sconvolta dai pregiudizi
falsi degli uomini, che ignorando la virtù, la quale si trova in pochi e da pochi quindi è giudicata e
vista, stimano che siano ottimi ora i ricchi ed i plutocrati, ora gli aristocratici. Per questo errore del
volgo, da quando incominciò ad essere padrona dello Stato non la virtù ma la potenza di pochi,
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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questi oligarchi rattengono coi denti il nome di ottimati, ma ne mancano della sostanza. Infatti
ricchezze, nome, potenza, prive di saggezza e di equilibrio nel vivere e nel comandare ad altri,
sono piene di sconvenienza e di altezzosa superbia, né vi è alcuno Stato di aspetto più snaturato di
quello in cui siano stimati ottimi i più ricchi.
(52) Invece che vi può essere di più insigne di quando la virtù regga uno Stato? Quando colui che
comanda ad altri non è schiavo di alcuna cupidigia, quando nel proporre ai cittadini norme e mete,
tutte egli le abbraccia e non impone al popolo delle leggi alle quali egli poi non obbedisca, ma la
propria vita egli propone ai cittadini come una legge.
Ipse dixit.
L’ha detto lui.
(Cicerone, De natura deorum, I, 10)
Cicerone, De natura deorum, I, 10
(10) Qui autem requirunt, quid quaque de re ipsi sentiamus, curiosius id faciunt, quam necesse est;
non enim tam auctoritatis in disputando quam rationis momenta quaerenda sunt. Quin etiam obest
plerumque iis, qui discere volunt, auctoritas eorum, qui se docere profitentur; desinunt enim suum
iudicium adhibere, id habent ratum, quod ab eo, quem probant, iudicatum vident. Nec vero probare
soleo id, quod de Pythagoreis accepimus, quos ferunt, si quid adfirmarent in disputando, cum ex iis
quaereretur, quare ita esset, respondere solitos "ipse dixit"; ipse autem erat Pythagoras: tantum
opinio praeiudicata poterat, ut etiam sine ratione valeret auctoritas.
(10) Quanto poi a coloro che si danno da fare per conoscere la nostra personale opinione su ogni
singolo problema, debbo dire che se ne preoccupano più del necessario; nelle discussioni si deve
cercare non il peso dell'autorità, ma la forza degli argomenti. Per lo più, anzi, l'autorità di coloro che
si proclamano maestri è un ostacolo per quelli che desiderano imparare; sotto il suo peso cessano di
esercitare la loro facoltà di giudicare e ritengono incontestabilmente valido il giudizio di colui che
apprezzano e stimano. Non è mia abitudine esaltare il metodo dei Pitagorici, dei quali si racconta
che, se in una discussione veniva fatta un'asserzione e qualcuno chiedeva che venisse giustificata
razionalmente, erano soliti rispondere: “L'ha detto lui”. Questo “lui” era Pitagora: tanto grande era
il peso di un'opinione preventivamente fissata come vera, che l'autorità prevaleva anche
prescindendo dalla possibilità di dimostrarla razionalmente.
Honos alit artes
L’onore alimenta le arti.
(Cicerone, Tusculanae disputationes, I, 4)
Cicerone, Tusculanae disputationes, I, 3-4
(3) Doctrina Graecia nos et omni litterarum genere superabat; in quo erat facile vincere non
repugnantes. nam cum apud Graecos antiquissimum e doctis genus sit poetarum, siquidem
Homerus fuit et Hesiodus ante Romam conditam, Archilochus regnante Romulo, serius poeticam
nos accepimus. annis fere cccccx post Romam conditam Livius fabulam dedit C. Claudio, Caeci
filio, M. Tuditano cos. anno ante natum Ennium. qui fuit maior natu
quam Plautus et Naevius. sero igitur a nostris poetae vel cogniti vel recepti. quamquam est in
Originibus solitos esse in epulis canere convivas ad tibicinem de clarorum hominum virtutibus;
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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honorem tamen huic generi non fuisse declarat oratio Catonis, in qua obiecit ut probrum M.
Nobiliori, quod is in provinciam poetas duxisset; duxerat autem consul ille in Aetoliam, ut scimus,
Ennium. quo minus igitur honoris erat poetis, eo minora studia fuerunt, nec tamen, si qui magnis
ingeniis in eo genere extiterunt, non satis Graecorum gloriae responderunt.
(4) An censemus, si Fabio, nobilissimo homini, laudi datum esset, quod pingeret, non multos etiam
apud nos futuros Polyclitos et Parrhasios fuisse? Honos alit artes, omnesque incenduntur ad
studia gloria, iacentque ea semper, quae apud quosque improbantur. summam eruditionem Graeci
sitam censebant in nervorum vocumque cantibus; igitur et Epaminondas, princeps meo iudicio
Graeciae, fidibus praeclare cecinisse dicitur, Themistoclesque aliquot ante annos cum in epulis
recusaret lyram, est habitus indoctior. ergo in Graecia musici floruerunt, discebantque id omnes,
nec qui nesciebat satis excultus doctrina putabatur.
(3) Nella cultura e in ogni genere letterario la Grecia ci era superiore; ma era facile vincere chi non
contrastava. Infatti, mentre in Grecia antichissimo è il culto della poesia, se è vero che Omero ed
Esiodo vissero prima della fondazione di Roma ed Archiloco al tempo di Romolo, noi abbiamo
appreso più tardi l'arte poetica. Livio Andronico, che fu anteriore a Plauto e a Nevio, diede una
rappresentazione teatrale circa cinquecentodieci anni dopo la fondazione di Roma, e precisamente
sotto il consolato di Gaio Claudio, figlio di Appio Claudio Cieco, e di Marco Tuditano, l'anno prima
della nascita di Ennio. Tardi fu dunque conosciuta, o meglio accolta, la poesia fra noi. Per quanto, si
legge nelle Origini di Catone che i convitati solevano nei banchetti cantare accompagnati dal flauto
le virtù degli uomini illustri; che però non fosse tenuto in pregio questo genere letterario lo dichiara
il medesimo Catone in un discorso in cui rinfacciò a Marco Nobiliore di aver condotto dei poeti
nella sua provincia, come se si trattasse di un'azione vergognosa: come si sa, egli quand'era console
aveva condotto Ennio in Etolia. Pertanto, quanto meno si onoravano i poeti, tanto minore era
l'interesse per la poesia; pur tuttavia sorsero alcuni grandi ingegni poetici, che non sfigurano del
tutto di fronte alla gloria dei Greci.
(4) Del resto, se Fabio, nobilissima persona, fosse stato onorato come pittore, non sarebbero forse
stati numerosi anche da noi artisti come Policlito e Parrasio? L'onore alimenta le arti, e tutti sono
invogliati agli studi dal desiderio di gloria, mentre dovunque resta trascurato ciò che è stimato senza
valore. Per i Greci era indice di profonda cultura saper cantare e suonare uno strumento a corda;
pertanto si dice che Epaminonda, a mio parere il primo dei Greci, era un ottimo suonatore di cetra,
mentre Temistocle e alquanti anni prima fu ritenuto poco colto perché in un banchetto aveva
dichiarato di non saper suonare la lira. In Grecia dunque la musica fu in onore e tutti la imparavano,
e chi la ignorava era stimato di scarsa cultura.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Cedant arma togae.
Le armi cedano alla toga.
(Cicerone, De officiis, I, 77 e Philippicae, II, 20)
Cicerone, De officiis, I, 77
(77) Illud autem optimum est, in quod invadi solere ab improbis et invidis audio "cedant arma
togae, concedat laurea laudi". Ut enim alios omittam, nobis rem publicam gubernantibus nonne
togae arma cesserunt? Neque enim periculum in re publica fuit gravius umquam nec maius otium.
Ita consiliis diligentiaque nostra celeriter de manibus audacissimorum civium delapsa arma ipsa
ceciderunt. Quae res igitur gesta umquam in bello tanta? qui triumphus conferendus?
(77) Ottima è quella mia sentenza, contro la quale, a quel ch'io sento, si scagliano i soliti maligni e
gl'invidiosi: " Le armi cedano alla toga, ceda l'alloro (del capitano) alla gloria civile" . Per
tralasciare altri casi, quando io reggevo il timone dello Stato, forse le armi non cedettero alla toga?
Mai lo Stato corse più grave pericolo e mai godette più sicura pace. Con tanta prontezza, in virtù dei
miei provvedimenti e della mia vigilanza, caddero da se stesse le armi dalle mani di temerari e
facinorosi cittadini. Quale impresa così grande, dunque, fu mai compiuta in guerra? Quale trionfo di
capitano può paragonarsi con questo di magistrato?
Cicerone, Philippicae, II, 20
(20) At etiam quodam loco facetus esse voluisti. Quam id te, di boni, non decebat! In quo est tua
culpa non nulla. Aliquid enim salis a mima uxore trahere potuisti. “Cedant arma togae”. Quid?
tum nonne cesserunt? At postea tuis armis cessit toga. Quaeramus igitur, utrum melius fuerit,
libertati populi Romani sceleratorum arma an libertatem nostram armis tuis cedere. Nec vero tibi
de versibus plura respondebo; tantum dicam breviter, te neque illos neque ullas omnino litteras
nosse, me nec rei publicae nec amicis umquam defuisse et tamen omni genere monimentorum
meorum perfecisse, ut meae vigiliae meaeque litterae et iuventuti utilitatis et nomini Romano laudis
aliquid adferrent. Sed haec non huius temporis; maiora videamus.
(20) In un passo, poi, del tuo discorso, hai voluto pure fare lo spiritoso: quanto a sproposito, dèi
buoni! E un po' di colpa ce l'hai, dato che un po' di spirito avresti potuto prenderlo da quell'attricetta
di tua moglie. “Cedano le armi alla toga”. Ebbene? Forse che allora non hanno ceduto? Ma in
seguito la toga ha ceduto alle tue armi. Vediamo dunque un po' cos'è stato più utile: che le armi dei
criminali cedano alla libertà del popolo romano, oppure che la nostra libertà ceda alle tue armi. Per
quanto poi riguarda i miei versi, non mi dilungherò oltre nella mia risposta; accennerò solo che tu
non t'intendi né di poesia né in generale di letteratura, assolutamente; io invece, che pure non ho
mai mancato ai miei doveri né verso lo stato né verso gli amici, con i miei componimenti di ogni
genere, scritti nei ritagli di tempo, ho tuttavia ottenuto il bel risultato che la mia attività letteraria,
per la quale ho sottratto del tempo al sonno, procurasse qualche vantaggio e qualche gloria alla
nostra patria. Ma queste questioni sono attualemente fuori posto; passiamo a problemi ben più
importanti!
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
44
Manzoni, Promessi Sposi, cap. XIII
Ferrer, appena seduto, s'era chinato per avvertire il vicario, che stesse ben rincantucciato nel fondo,
e non si facesse vedere, per l'amor del cielo; ma l'avvertimento era superfluo. Lui, in vece,
bisognava che si facesse vedere, per occupare e attirare a sé tutta l'attenzione del pubblico. E per
tutta questa gita, come nella prima, fece al mutabile uditorio un discorso, il più continuo nel tempo,
e il più sconnesso nel senso, che fosse mai; interrompendolo però ogni tanto con qualche parolina
spagnola, che in fretta in fretta si voltava a bisbigliar nell'orecchio del suo acquattato compagno. Sì, signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia. Grazie, grazie, grazie
tante. No, no: non iscapperà. Por ablandarlos. E troppo giusto; s'esaminerà, si vedrà. Anch'io
voglio bene a lor signori. Un gastigo severo. Esto lo digo por su bien. Una meta giusta, una meta
onesta, e gastigo agli affamatori. Si tirin da parte, di grazia. Sì, sì; io sono un galantuomo, amico del
popolo. Sarà gastigato: è vero, è un birbante, uno scellerato. Perdone, usted. La passerà male, la
passerà male... si es culpable. Sì, sì, li faremo rigar diritto i fornai. Viva il re, e i buoni milanesi,
suoi fedelissimi vassalli! Sta fresco, sta fresco. Animo; estamos ya quasi fuera. Avevano in fatti
attraversata la maggior calca, e già eran vicini a uscir al largo, del tutto. Lì Ferrer, mentre
cominciava a dare un po' di riposo a' suoi polmoni, vide il soccorso di Pisa, que' soldati spagnoli,
che però sulla fine non erano stati affatto inutili, giacché sostenuti e diretti da qualche cittadino,
avevano cooperato a mandare in pace un po' di gente, e a tenere il passo libero all'ultima uscita.
All'arrivar della carrozza, fecero ala, e presentaron l'arme al gran cancelliere, il quale fece anche qui
un saluto a destra, un saluto a sinistra; e all'ufiziale, che venne più vicino a fargli il suo, disse,
accompagnando le parole con un cenno della destra: - beso a usted las manos-: parole che l'ufiziale
intese per quel che volevano dir realmente, cioè: m'avete dato un bell'aiuto! In risposta, fece un altro
saluto, e si ristrinse nelle spalle. Era veramente il caso di dire: cedant arma togae; ma Ferrer non
aveva in quel momento la testa a citazioni: e del resto sarebbero state parole buttate via, perché
l'ufiziale non intendeva il latino.
Non aqua, non igni utimur locis pluribus quam amicitia.
Non dell’acqua, non del fuoco facciamo uso in più occasioni che dell’amicizia.
(Cicerone, Laelius De amicitia, 22)
Amicus certus in re incerta cernitur.
L’amico certo si scopre nella sorte incerta.
(Cicerone, Laelius De amicitia, 64)
Cicerone, Laelius De Amicitia, 22
Principio qui potest esse vita “vitalis”, ut ait Ennius, quae non in amici mutua benivolentia
conquiescit? Quid dulcius quam habere, quicum omnia audeas sic loqui ut tecum? Qui esset tantus
fructus in prosperis rebus, nisi haberes, qui illis aeque ac tu ipse gauderet? adversas vero ferre
difficile esset sine eo, qui illas gravius etiam quam tu ferret. Denique ceterae res, quae expetuntur,
oportunae sunt singulae rebus fere singulis, divitiae, ut utare, opes, ut colare, honores, ut laudere,
voluptates, ut gaudeas, valitudo, ut dolore careas et muneribus fungare corporis; amicitia res
plurimas continet; quoquo te verteris, praesto est, nullo loco excluditur, numquam intempestiva,
numquam molesta est; itaque non aqua, non igni, ut aiunt, locis pluribus utimur quam amicitia.
Neque ego nunc de vulgari aut de mediocri, quae tamen ipsa et delectat et prodest, sed de vera et
perfecta loquor, qualis eorum, qui pauci nominantur, fuit. Nam et secundas res splendidiores facit
amicitia et adversas partiens communicansque leviores.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
45
In primo luogo, come può essere “vitale” una vita?, per usare le parole di Ennio, che non trovi
sollievo nel reciproco affetto di un amico?
Cosa c'è di più dolce che avere una persona cui confidare tutto, senza timori, come a te stesso? E
che gran frutto ci sarebbe nella prosperità se non avessi qualcuno capace di goderne al par tuo? Con
difficoltà, poi, potresti affrontare le sventure senza un amico che ne soffrisse anche più di te. Infine,
tutti gli altri beni a cui l'uomo aspira, se presi uno a uno, presentano un solo lato vantaggioso - la
ricchezza per spenderla, la potenza per essere riveriti, le cariche per ricever lodi, i piaceri per
goderne, la salute per non provar dolore e per disporre delle forze fisiche. L'amicizia, invece,
racchiude moltissimi vantaggi. Dovunque tu ti volga, è a tua disposizione, non è esclusa da nessun
luogo, non è mai inopportuna, non è mai molesta; e così non dell’acqua, non del fuoco, come si
dice, facciamo uso in più occasioni che dell’amicizia. E io ora non parlo dell'amicizia comune o
media, che tuttavia nch’essa diletta e giova, ma dell'amicizia vera e perfetta, quale fu quella dei
pochi che sono ricordati. L'amicizia, infatti, rende più splendida la buona sorte e più lieve la cattiva
sorte, dividendola e mettendola in comune.
Cicerone, Laelius De Amicitia, 64
Itaque verae amicitiae difficillime reperiuntur in iis, qui in honoribus reque publica versantur; ubi
enim istum invenias, qui honorem amici anteponat suo? Quid? haec ut omittam, quam graves,
quam difficiles plerisque videntur calamitatum societates! ad quas non est facile inventu qui
descendant. Quamquam Ennius recte: Amicus certus in re incerta cernitur, tamen haec duo
levitatis et infirmitatis plerosque convincunt, aut si in bonis rebus contemnunt aut in malis deserunt.
Qui igitur utraque in re gravem, constantem, stabilem se in amicitia praestiterit, hunc ex maxime
raro genere hominum iudicare debemus et paene divino.
E così, è difficilissimo trovare vere amicizie in chi vede nella carriera politica una ragione di vita.
Dove trovare chi preferisca alla propria affermazione quella dell'amico? E, per passare ad altro,
come risulta gravoso e difficile, ai più, condividere gli insuccessi altrui! Non è facile trovare
persone disposte ad abbassarsi a tanto. E benché Ennio abbia ragione nel dire: L'amico certo si
scopre nella sorte incerta tuttavia due sono le situazioni che dimostrano la leggerezza e
l'incostanza dei più: se disprezzano gli amici nel momento del successo o se li abbandonano nelle
difficoltà. Chi, in entrambi i casi, si mostrerà amico serio, coerente e stabile, dobbiamo considerarlo
di una stirpe umana rarissima, quasi divina!
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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VITRUVIO (I a.C.)
A pedibus imis ad summum caput.
Dalle piante dei piedi alla sommità del capo (= da capo a piedi, da cima a fondo).
(Vitruvio, De architectura, III, 1, 3)
Vitruvio, De architectura, III, 1, 1-4
(1) Aedium compositio constat ex symmetria, cuius rationem diligentissime architecti tenere debent.
ea autem paritur a proportione, quae graece analogia dicitur. proportio est ratae partis
membrorum in omni opere totiusque commodulatio, ex qua ratio efficitur symmetriarum. Nmque
non potest aedis ulla sine symmetria atque proportione rationem habere compositionis, nisi uti
hominis bene figurati membrorum habuerit exactam rationem.
(2) Corpus enim hominis ita natura composuit, uti os capitis a mento ad frontem summam et
radices imas capilli esset decimae partis, item manus pansa ab articulo ad extremum medium
digitum tantundem, caput a mento ad summum verticem octavae, cum cervicibus imis ab summo
pectore ad imas radices capillorum sextae, ad summum verticem quartae. ipsius autem oris
altitudinis tertia est pars ab imo mento ad imas nares, nasum ab imis naribus ad finem medium
superciliorum tantundem, ab ea fine ad imas radices capilli frons efficitur item tertiae partis. Pes
vero altitudinis corporis sextae, cubitum quartae, pectus item quartae. reliqua quoque membra suas
habent commensus proportiones, quibus etiam antiqui pictores et statuarii nobiles usi magnas et
infinitas laudes sunt adsecuti.
(3) Similiter vero sacrarum aedium membra ad universam totius magnitudinis summam ex partibus
singulis convenientissimum debent habere commensus responsum. item corporis centrum medium
naturaliter est umbilicus. namque si homo conlocatus fuerit supinus manibus et pedibus pansis
circinique conlocatum centrum in umbilico eius, circumagendo rotundationem utrarumque
manuum et pedum digiti linea tangentur. Non minus quemadmodum schema rotundationis in
corpore efficitur, item quadrata designatio in eo invenietur. Nam si a pedibus imis ad summum
caput mensum erit eaque mensura relata fuerit ad manus pansas, invenietur eadem latitudo uti
altitudo, quemadmodum areae, quae ad normam sunt quadratae.
(4) Ergo si ita natura composuit corpus hominis, uti proportionibus membra ad summam
figurationem eius respondeant, cum causa constituisse videntur antiqui, ut etiam in operum
perfectionibus singulorum membrorum ad universam figurae speciem habeant commensus
exactionem. igitur cum in omnibus operibus ordines traderent, maxime in aedibus deorum, quorum
operum et laudes et culpae aeternae solent permanere.
(1) La composizione dei templi risulta dalla “simmetria” e gli architetti devono conservare in modo
estremamamente scrupoloso i principi di essa. Ed essa nasce dalla proporzione, che in greco è
detta analoghía. La proporzione è la commensurabilità sulla base di un'unità determinata delle
membrature in ogni impianto e in tutta quanta tale opera, con cui viene tradotto in atto il criterio
delle relazioni modulari. E infatti non può alcun tempio avere un principio razionale della
composizione senza «simmetria» e proporzione, se non l'ha avuto aderente al principio razionale
precisamente definito proprio delle membra di un uomo dalla bella forma.
(2) Infatti il corpo dell’uomo è cosí composto per natura che nella testa il volto dal mento alla
sommità della fronte e all'inizio inferiore dei capelli sostituisce la decima parte, cosí pure il palmo
della mano dal polso all'estremità del dito medio altrettanto, la testa dal mento alla sommità
del cranio l'ottava, dalla sommità del petto son la parte piú bassa del collo alle radici inferiori dei
capelli la sesta, dal petto alla sommità del capo la quarta. E della stessa altezza del volto la parte dal
limite inferiore del mento a quello delle narici è la terza, il naso dal limite inferiore delle narici al
tratto intermedio della linea delle sopracciglia altrettanto. Da tale linea all'inizio inferiore della
chioma la fronte è resa pure terza parte. E il piede è la sesta parte dell'altezza del corpo, il cubito la
quarta, il petto pure la quarta. Anche le altre membra hanno le loro proporzioni reciprocamente
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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commensurabili, valorizzando le quali pure rinomati antichi pittori e statuari conseguirono lodi
grandi e illimitate.
(3) E similmente le membrature dei sacri templi debbono essere assai convenientemente
rispondenti per commensurabilità alla somma totale di tutta quanta la grandezza risultante dalle
singole parti. Parimenti il centro in mezzo al corpo per natura è l'ombelico. E infatti se un uomo
fosse collocato supino con le mani e i piedi distesi e il centro del compasso fosse puntato
nell'ombelico di questi, descrivendo una circonferenza le dita di entrambe le mani e dei piedi
sarebbero toccate dalla linea. Analogamente come la forma della circonferenza viene istituita nel
corpo, cosí si rinviene in esso il disegno di un quadrato. Infatti se si misura dalle piante dei
piedi alla sommità del capo e tale misura è riferita alle mani distese, si trova che pure la larghezza è
come l'altezza, come le aree che sono quadrate regolari.
(4) Pertanto se così la natura compose il corpo dell'uomo che nelle proporzioni le membra
rispondono alla figura generale, sembra che gli antichi con ragione abbiano disposto che anche nelle
realizzazioni di impianti questi presentino la perfezione della «simmetria» delle singole
membrature rispetto alla configurazione complessiva della figura. Pertanto come trasmisero le
regole di tutte le opere, lo fecero anche e soprattutto nell’ambito dei templi degli dèi, costruzioni
delle quali sia le lodi sia le colpe sogliono permanere in eterno.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Leonardo da Vinci (1452-1519).
L’uomo di Vitruvio (c. 1490), matita e inchiostro (cm. 34 x 24).
Venezia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe delle Gallerie dell'Accademia.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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VIRGILIO (70 - 19 a.C.)
Latet anguis in herba.
Una serpe si nasconde nell’erba.
(Virgilio, Bucoliche, III, v. 93)
Virgilio, Bucoliche, III, vv. 92-95 (Dameta, Menalca)
92. Dam. Qui legitis flores et humi nascentia fraga,
93. frigidus, o pueri fugite hinc!, latet anguis in herba.
94. Men. Parcite, oves, nimium procedere: non bene ripae
95. creditur; ipse aries etiam nunc vellera siccat.
92. Dam. Voi che cogliete i fiori e le fragole basse sul terreno,
93. scappate via, ragazzi: una fredda serpe si nasconde nell’erba.
94. Men. Restate indietro, pecore, la riva non è solida.
95. Persino il capro si sta ancora asciugando.
Carpent tua poma nepotes.
I nipoti raccoglieranno i tuoi frutti.
(Virgilio, Bucoliche, IX, v. 50)
Omnia fert aetas, animum quoque.
Tutto porta via il tempo, anche il ricordo.
(Virgilio, Bucoliche, IX, v. 51)
Virgilio, Bucoliche, IX, vv. 37-52 (Meri, Licida)
37. Moe. Id quidem ago et tacitus, Lycida, mecum ipse uoluto,
38. si ualeam meminisse; neque est ignobile carmen.
39. “Huc ades, o Galatea; quis est nam ludus in undis?
40. hic uer purpureum, uarios hic flumina circum
41. fundit humus flores, hic candida populus antro
42. imminet et lentae texunt umbracula vites.
43. huc ades; insani feriant sine litora fluctus.”
44. Lyc. Quid, quae te pura solum sub nocte canentem
45. audieram? numeros memini, si uerba tenerem:
46. “Daphni, quid antiquos signorum suspicis ortus?
47. ecce Dionaei processit Caesaris astrum,
48. astrum quo segetes gauderent frugibus et quo
49. duceret apricis in collibus uva colorem.
50. insere, Daphni, piros: carpent tua poma nepotes.”
51. Moe. Omnia fert aetas, animum quoque. saepe ego longos
52. cantando puerum memini me condere soles;
53. nunc oblita mihi tot carmina (...).
Meri
Ci penso, Lìcida, e in silenzio medito
se riesco a ricordarmi: non è un canto da poco.
“Vieni qui, mia Galatèa: che diletto c'è fra fonde?
Qui è purpurea primavera, qui la terra
in riva ai fiumi fa sbocciare tanti fiori; e sulla grotta
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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il bianco pioppo inclina e i molli tralci
tesse la vite in pergolati d'ombra.
Vieni qui: lascia che i flutti battan rabbiosi il lido”.
Licida
E quello che ti sentii cantare tutto solo
nella notte serena? Ricordo l’aria: se avessi le parole!
“Dafni, perché guardi nel cielo l’antico sorgere degli astri?
Ecco, sale la stella di Cesare Dionèo,
la stella a cui gioiscono di frumento i campi,
e indora l’uva sui colli solatii.
Innesta i peri, Dafni: i tuoi nipoti ne coglieranno i frutti”.
Meri
Tutto porta via il tempo, anche il ricordo; quand’ero giovane
ricordo che trascorrevo le lunghe giornate cantando;
ora ho scordato tante canzoni (...).
Omnia vincit Amor.
Amore vince ogni cosa.
(Virgilio, Bucoliche, X, v. 69)
Virgilio, Bucoliche, X, vv. 1-77
1. Extremum hunc, Arethusa, mihi concede laborem:
2. pauca meo Gallo, sed quae legat ipsa Lycoris,
3. carmina sunt dicenda; neget quis carmina Gallo?
4. sic tibi, cum fluctus subterlabere Sicanos,
5. Doris amara suam non intermisceat undam,
6. incipe: sollicitos Galli dicamus amores,
7. dum tenera attondent simae virgulta capellae.
8. non canimus surdis, respondent omnia silvae.
9. Quae nemora aut qui vos saltus habuere, puellae
10. Naides, indigno cum Gallus amore peribat?
11. nam neque Parnasi vobis iuga, nam neque Pindi
12. ulla moram fecere, neque Aonie Aganippe.
13. illum etiam lauri, etiam flevere myricae,
14. pinifer illum etiam sola sub rupe iacentem
15. Maenalus et gelidi fleverunt saxa Lycaei.
16. stant et oves circum; nostri nec paenitet illas,
17. nec te paeniteat pecoris, divine poeta:
18. et formosus ovis ad flumina pavit Adonis.
19. venit et upilio, tardi venere subulci,
20. uvidus hiberna venit de glande Menalcas.
21. omnes “Unde amor iste” rogant “tibi?” venit Apollo:
22. “Galle, quid insanis?” inquit, “tua cura Lycoris
23. perque nives alium perque horrida castra secuta est”.
24. Venit et agresti capitis Silvanus honore,
25. florentis ferulas et grandia lilia quassans.
26. Pan deus Arcadiae venit, quem vidimus ipsi
27. sanguineis ebuli bacis minioque rubentem.
28. “Ecquis erit modus?” inquit. “Amor non talia curat,
29. nec lacrimis crudelis Amor nec gramina rivis
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
51
30. nec cytiso saturantur apes nec fronde capellae”.
31. tristis at ille “tamen cantabitis, Arcades,” inquit
32. “montibus haec vestris; soli cantare periti
33. Arcades. o mihi tum quam molliter ossa quiescant,
34. vestra meos olim si fistula dicat amores!
35. atque utinam ex vobis unus vestrique fuissem
36. aut custos gregis aut maturae vinitor uvae!
37. certe sive mihi Phyllis sive esset Amyntas
38. seu quicumque furor quid tum, si fuscus Amyntas?
39. et nigrae violae sunt et vaccinia nigra,
40. mecum inter salices lenta sub vite iaceret;
41. serta mihi Phyllis legeret, cantaret Amyntas.
42. hic gelidi fontes, hic mollia prata, Lycori,
43. hic nemus; hic ipso tecum consumerer aevo.
44. nunc insanus amor duri me Martis in armis
45. tela inter media atque adversos detinet hostis.
46. tu procul a patria nec sit mihi credere tantum
47. Alpinas, a! dura nives et frigora Rheni
48. me sine sola vides. a, te ne frigora laedant!
49. a, tibi ne teneras glacies secet aspera plantas!
50. ibo et Chalcidico quae sunt mihi condita versu
51. carmina pastoris Siculi modulabor avena.
52. certum est in silvis inter spelaea ferarum
53. malle pati tenerisque meos incidere amores
54. arboribus: crescent illae, crescetis, amores.
55. interea mixtis lustrabo Maenala Nymphis
56. aut acris venabor apros. Non me ulla vetabunt
57. frigora Parthenios canibus circumdare saltus.
58. iam mihi per rupes videor lucosque sonantis
59. ire, libet Partho torquere Cydonia cornu
60. spiculatamquam haec sit nostri medicina furoris,
61. aut deus ille malis hominum mitescere discat.
62. iam neque Hamadryades rursus nec carmina nobis
63. ipsa placent; ipsae rursus concedite silvae.
64. non illum nostri possunt mutare labores,
65. nec si frigoribus mediis Hebrumque bibamus
66. Sithoniasque nives hiemis subeamus aquosae,
67. nec si, cum moriens alta liber aret in ulmo,
68. Aethiopum versemus ovis sub sidere Cancri.
69. omnia vincit Amor: et nos cedamus Amori”.
70. Haec sat erit, divae, vestrum cecinisse poetam,
71. dum sedet et gracili fiscellam texit hibisco,
72. Pierides: vos haec facietis maxima Gallo,
73. Gallo, cuius amor tantum mihi crescit in horas
74. quantum vere novo viridis se subicit alnus.
75. surgamus: solet esse gravis cantantibus umbra,
76. iuniperi gravis umbra; nocent et frugibus umbrae.
77. ite domum saturae, venit Hesperus, ite capellae.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
52
Concedimi, Aretùsa, quest'ultima fatica:
pochi versi - ma che la stessa Licòri li legga voglio dire per Gallo: a lui, chi mai li potrebbe negare? Che tu possa scorrere sotto i flutti sicani,
che mai l'onda amara di Dori alla tua si confonda: comincia, ti prego. Le pene d'amore di Gallo
cantiamo, intanto che teneri germogli brucano le camuse caprette. Non a sordi cantiamo: a ogni
nota rispondono i boschi. Quale selva, quale gola vi tenne, fanciulle Nàiadi,
mentre d'ingiusto amore Gallo si moriva?
Pure, né le vette del Parnàso mai, né il Pindo
vi fermò, né l'aonia Aganìppe.
Per lui, anche l'alloro, anche i merischi han pianto
e ha pianto il Ménalo e i suoi pini e i gelidi sassi del Liceo,
lui che giaceva ai piedi di una deserta roccia.
Anche le pecore gli fanno cerchio intorno
(non ci sdegnano loro, e tu non sdegnarle, divino poeta:
il bell'Adone, lui pure lungo il fiume pascolava il gregge). Venne il pastore, vennero i lenti porcai,
venne Menalca, bagnato ancora per le ghiande invernali.
E chiedono: «Perché tanto amore?». E venne Apollo: «Gallo, perché deliri? L'amore tuo, Licòri,
per distese di neve, fra le armi e ì soldati,
già segue un altro».
Venne Silvano, coronato di fiori:
gli ondeggiano sul capo le verdi canne e i gigli.
E venne Pan, dio dell'Arcadia: anch'io l'ho visto,
rosso di minio e del sanguigno frutto del sambuco. Dice: « Basta! Finisci! Non se ne cura
Amore: di pianto non si sazia Amor crudele,
né il prato di ruscelli, né di cìtiso l'ape,
né di verdi cermogli le caprette».
E lui triste rispose: “Ma, almeno, di me voi canterete
ai vostri monti. Arcadi: solo voi sapete il canto.
Che dolce quiete avranno le mie ossa
se il vostro flauto un giorno racconterà il mio amore! Ah, fossi stato uno di voi, a custodire
i vostri greggi o a vendemmiare i grappoli maturi! Almeno avessi amato Filli o Aminta,
o un altro ancora (Aminta è bruno, e allora?
Le viole sono scure, e scuri anche i giacinti);
fra i salici con me riposerebbe, sotto una molle vite:
Filli coglierebbe per me serti di fiori, e canterebbe Aminta. Qui fresche fonti, qui morbidi prati,
Licòri,
e
il bosco: qui, a te vicino, solo il tempo
mi consumerebbe. E invece un folle amore
mi trattiene in mezzo alle armi del crudele Marte, esposto ai colpi, e col nemico in fronte.
E tu, via dalla patria (cosa darei perché non fosse vero!), le nevi delle Alpi e i brividi del Reno
senza di me - crudele! - da sola vedi.
Ah, non ti ferisca il gelo!
Ah, non ti laceri l'aspro ghiaccio i piedi delicati!
Io me ne andrò. E i canti che ho composto in versi
calcidesi
li voglio modulare con il flauto del siculo pastore.
È certo: meglio soffrire fra le selve, fra i covi delle fiere,
e incidere sugli alberi novelli il nome del mio amore.
e cresceranno; e.crescerai, Amore.
Sul Mènalo andrò vagando con le Ninfe,
oppure in caccia di ispidi cinghiali; né mai mi fermeranno
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
53
i ghiacci dal correre coi cani le gole del Partenio.
Mi sembra già di andare per dirupi e boschi risonanti; scagliare frecce di Cidone con l'arco parto,
è bello! Come se ciò potesse guarire il mio delirio
o si addolcisse il dio per le miserie umane!
Più non amo le Amadrìadi, ormai, né il canto;
e anche voi, selve, via da me! addio!
I nostri sforzi mai non muteranno Amore,
neppure se nel gelo dell'inverno uno bevesse all'Ebro
o affrontasse le nevi e le bufere del Sitone;
o al tempo che la scorza in cima all'olmo inaridisce e muore,
sotto il segno del Cancro pascolasse i greggi d'Etiopia.
Amore vince ogni cosa: anche noi cediamo ad Amore».
Il vostro poeta, dee di Pièria, così ha cantato,
mentre siede e intreccia un cesto di sottile ibisco.
E basterà: per Gallo, voi lo farete grande,
per Gallo, sì, il cui amore mi cresce d'ora in ora,
come cresce il verde ontano alla stagione nuova. Andiamo: gravosa per chi canta è l'ombra,
gravosa l'ombra del ginepro; anche alle messi nuocciono le ombre.
Siete sazie, caprette: andate a casa. Andate: Espero viene.
Agostino Carracci (1557-1602).
Amor vincit omnia (1599), incisione (cm. 12,7 x 18,8).
New York, Metropolitan Museum of Art.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Labor omnia vi(n)cit improbus.
La dura fatica vince ogni cosa.
(Virgilio, Georgiche, I, v. 145-146)
Virgilio, Georgiche, I, v. 125-146
125. Ante Iovem nulli subigebant arva coloni:
126. ne signare quidem aut partiri limite campum
127. fas erat; in medium quaerebant, ipsaque tellus
128. omnia liberius nullo poscente ferebat.
129. ille malum uirus serpentibus addidit atris
130. praedarique lupos iussit pontumque moveri,
131. mellaque decussit foliis ignemque removit
132. et passim riuis currentia vina repressit,
133. ut varias usus meditando extunderet artis
134. paulatim, et sulcis frumenti quaereret herbam,
135. ut silicis uenis abstrusum excuderet ignem.
136. tunc alnos primum fluuii sensere cauatas;
137. navita tum stellis numeros et nomina fecit
138. Pleiadas, Hyadas, claramque Lycaonis Arcton.
139. tum laqueis captare feras et fallere uisco
140. inventum et magnos canibus circumdare saltus;
141. atque alius latum funda iam verberat amnem
142. alta petens, pelagoque alius trahit umida lina.
143. tum ferri rigor atque argutae lammina serrae
144. nam primi cuneis scindebant fissile lignum,
145. tum variae uenere artes. Labor omnia vicit
146. improbus et duris urgens in rebus egestas.
125.
126.
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145.
146.
Prima di Giove non v'erano agricoltori a lavorare la terra,
e neanche si poteva segnare i confini dei campi e spartirli;
tutti gli acquisti erano in comune, la terra da sé donava,
senza richiesta, con grande liberalità, tutti i prodotti.
Egli aggiunse il pericoloso veleno ai tetri serpenti,
e volle che i lupi predassero, che il mare si agitasse,
e scosse il miele dalle foglie e nascose il fuoco
e fermò il vino che fluiva sparso in ruscelli,
affinché il bisogno sperimentando a poco a poco esprimesse
le varie arti e cercasse la pianta del frumento nei solchi
e facesse scoccare il fuoco nascosto nelle vene della selce.
Allora primamente i fiumi sentirono gli ontani incavati:
allora il marinaio numerò e denominò le stelle,
Pleiadi, Iadi,l'Orsa splendente di Licaone.
Allora si apprese a catturare le fiere con lacci, a ingannare
gli uccelli col vischio e a circondare di cani le vaste selve;
e uno già percuote il largo fiume con il giacchio,
un altro spintosi al largo tira le reti bagnate.
Allora si pregiò la durezza del ferro e la lama della stridula sega
- infatti prima gli uomini fendevano il legno con i cunei -;
allora nacquero le diverse arti. La dura fatica vince
ogni cosa e il bisogno che incalza nell'avversità.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Si parva licet componere magnis.
Se è lecito paragonare piccole cose alle grandi.
(Virgilio, Georgiche, IV, v. 176)
Virgilio, Georgiche, IV, vv. 153-183
153. Solae communis natos, consortia tecta
154. urbis habent magnisque agitant sub legibus aeuum,
155. et patriam solae et certos novere penatis;
156. venturaeque hiemis memores aestate laborem
157. experiuntur et in medium quaesita reponunt.
158. namque aliae victu invigilant et foedere pacto
159. exercentur agris; pars intra saepta domorum
160. narcissi lacrimam et lentum de cortice gluten
161. prima favis ponunt fundamina, deinde tenacis
162. suspendunt ceras; aliae spem gentis adultos
163. educunt fetus; aliae purissima mella
164. stipant et liquido distendunt nectare cellas;
165. sunt quibus ad portas cecidit custodia sorti,
166. inque vicem speculantur aquas et nubila caeli,
167. aut onera accipiunt venientum, aut agmine facto
168. ignauum fucos pecus a praesepibus arcent:
169. fervet opus, redolentque thymo fraglantia mella.
170. ac veluti lentis Cyclopes fulmina massis
171. cum properant, alii taurinis follibus auras
172. accipiunt redduntque, alii stridentia tingunt
173. aera lacu; gemit impositis incudibus Aetna;
174. illi inter sese magna vi bracchia tollunt
175. in numerum, versantque tenaci forcipe ferrum:
176. non aliter, si parva licet componere magnis,
177. Cecropias innatus apes amor urget habendi
178. munere quamque suo. Grandaevis oppida curae
179. et munire fauos et daedala fingere tecta.
180. at fessae multa referunt se nocte minores,
181. crura thymo plenae; pascuntur et arbuta passim
182. et glaucas salices casiamque crocumque rubentem
183. et pinguem tiliam et ferrugineos hyacinthos.
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(Le api) sole hanno i figli in comune, case congiunte
a formare una città; vivono sotto leggi magnanime,
e sole riconoscono una patria e sicuri Penati;
pensose dell'inverno che incombe, faticano d'estate
e mettono in comune il frutto della loro ricerca.
Infatti alcune sono preposte al vitto, e secondo un patto,
faticano nei campi; parte, nel chiuso della dimora,
pongono a primo fondamento dei favi stille di narciso
e vischiosa resina di corteccia; poi vi sovrappongono
cera tenace; altre conducono fuori i figli cresciuti,
speranza della stirpe; altre stipano purissimo
miele, e colmano le celle di limpido nettare.
Ad alcune toccò in sorte la vigilanza davanti alle porte,
e a vicenda scrutano le acque e le nubi del cielo,
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ricevono il carico dalle venienti, o strette in schiera,
ricacciano dalle mangiatoie i fuchi, ignavo armento;
ferve ìl lavoro, olezza di timo il dolce miele.
E come i Ciclopi quando dalle duttili masse di metallo
affrettano i fulmini, alcuni raccolgono e risoffiano l'aria
dai mantici di pelle taurina, altri tuffano i metalli
stridenti nell'acqua; geme per le imposte incudini l'Etna;
essi tra loro con grande violenza sollevano
a ritmo le braccia e volgono con le tenaci morse il ferro:
così altrimenti se è lecito paragonare piccole cose alle grandi,
urge le api cecropie un innato amore del possesso,
ognuna con suo compito. Le anziane badano alle rocche,
a munire i favi e a formare le dedàlee stanze.
Le più giovani tornano stanche a notte fonda,
le zampe colme di timo; vagando suggono corbezzoli,
e salici azzurrognoli, cassia, rosseggiante croco,
glutinoso tiglio e giacinti di colore ferrigno.
Rari nantes in gurgite vasto.
Pochi naufraghi che nuotano nel vasto gorgo.
(Virgilio, Eneide, I, v. 118)
Virgilio, Eneide, I, vv. 104-119
104. Franguntur remi, tum prora avertit et undis
105. dat latus, insequitur cumulo praeruptus aquae mons.
106. hi summo in fluctu pendent; his unda dehiscens
107. terram inter fluctus aperit, furit aestus harenis.
108. tris Notus abreptas in saxa latentia torquet
109. saxa vocant Itali mediis quae in fluctibus Aras,
110. dorsum immane mari summo, tris Eurus ab alto
111. in brevia et Syrtis urget, miserabile visu,
112. inliditque vadis atque aggere cingit harenae.
113. unam, quae Lycios fidumque uehebat Oronten,
114. ipsius ante oculos ingens a vertice pontus
115. in puppim ferit: excutitur pronusque magister
116. volvitur in caput, ast illam ter fluctus ibidem
117. torquet agens circum et rapidus vorat aequore vertex.
118. apparent rari nantes in gurgite vasto,
119. arma virum tabulaeque et Troia gaza per undas.
104.
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108.
109.
S'infrangono i remi, la prua si rigira ed espone
il fianco alle onde: incalza un monte d'acqua scosceso.
Alcune navi pendono sulla cresta del flutto; a quelle l'onda
spalanca la. terra tra i flutti; infuria un ribollire di sabbia.
Il Noto afferra e travolge tre navi su scogli
nascosti - rocce tra i flutti, che gli Italici chiamano Are,
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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110.
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119.
immane dorso a fior d'acqua -; tre l'Euro sospinge
dal largo nelle secche delle dune, miserevole vista,
e caccia nei bassifondi e cinge d'un argine di sabbia.
Una, che trasportava i Lici e il fido Oronte,
davanti ai suoi occhi un enorme maroso colpisce
piombando a poppa: il nocchiero è sbalzato e precipita
a capofitto; l'ondata la fa mulinare tre volte
nel medesimo luogo, e un rapido vortice la inghiotte
nel mare. Appaiono pochi naufraghi che nuotano nel vasto gorgo,
e armi di guerrieri, e tavole, e i tesori troiani sulle onde.
Furor arma ministrat.
Il furore fornisce le armi.
(Virgilio, Eneide, I, v. 150)
Virgilio, Eneide, I, vv. 148-156
148. Ac veluti magno in populo cum saepe coorta est
149. seditio saevitque animis ignobile vulgus
150. iamque faces et saxa volant (furor arma ministrat);
151. tum, pietate gravem ac meritis si forte virum quem
152. conspexere, silent arrectisque auribus astant;
153. ille regit dictis animos et pectora mulcet:
154. sic cunctus pelagi cecidit fragor, aequora postquam
155. prospiciens genitor caeloque invectus aperto
156. flectit equos curruque volans dat lora secundo.
148.
149.
150.
151.
152.
153.
154.
155.
156.
E come spesso in un numeroso popolo sorge
una sommossa, e con gli animi infuria l’oscuro volgo
e già volano pietre e tizzoni (il furore fornisce le armi);
allora, se per caso scorgono un uomo autorevole
per pietà e per meriti, tacciono, e stanno quieti con le orecchie tese:
quello con le parole governa gli animi, e placa i cuori:
così si calmò il fragore del mare, dopo che il padre,
guardando dall'alto le acque e trasportato nel limpido cielo,
dirige i cavalli e volando allenta le briglie al docile carro.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Forsan et haec olim meminisse iuvabit.
Forse un giorno sarà dolce ricordare anche questi avvenimenti.
(Virgilio, Eneide, I, v. 203)
Virgilio, Eneide, I, vv. 198-207
198. “O socii neque enim ignari sumus ante malorum,
199. passi graviora, dabit deus his quoque finem.
200. vos et Scyllaeam rabiem penitusque sonantis
201. accestis scopulos, vos et Cyclopia saxa
202. experti: revocate animos maestumque timorem
203. mittite; forsan et haec olim meminisse iuvabit.
204. per varios casus, per tot discrimina rerum
205. tendimus in Latium, sedes ubi fata quietas
206. ostendunt; illic fas regna resurgere Troiae.
207. durate, et vosmet rebus servate secundis.”
198.
199.
200.
201.
202.
203.
204.
205.
206.
207.
“Compagni - poiché conosciamo le passate sventure -,
voi che ne avete sofferte altre peggiori, un dio esaurirà anche queste.
Sfidaste la furia di Scilla e gli scogli dal cupo
fragore, e provaste le rupi ciclopiche: rinfrancate
gli animi, scacciate il mesto timore:
forse un giorno sarà dolce ricordare anche questi avvenimenti.
Per vari casi, per tanti rischi di eventi
tendiamo nel Lazio, laddove i fati ci mostrano
sedi tranquille; là è stabilito che il regno
di Troia risorga. Resistete, e serbatevi alla fortuna”.
Timeo Danaos et dona ferentes.
Temo i Danai anche se recano doni.
(Virgilio, Eneide, II, v. 49)
Ab uno disce omnes.
Da uno solo conoscili tutti!
(Virgilio, Eneide, II, vv. 65-66)
Virgilio, Eneide, II, v. 40-75
40. Primus ibi ante omnis magna comitante caterva
41. Laocoon ardens summa decurrit ab arce,
42. et procul 'o miseri, quae tanta insania, cives?
43. creditis avectos hostis? aut ulla putatis
44. dona carere dolis Danaum? sic notus Vlixes?
45. aut hoc inclusi ligno occultantur Achivi,
46. aut haec in nostros fabricata est machina muros,
47. inspectura domos venturaque desuper urbi,
48. aut aliquis latet error; equo ne credite, Teucri.
49. quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis (= ferentes).”
50. sic fatus validis ingentem viribus hastam
51. in latus inque feri curvam compagibus alvum
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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52. contorsit. stetit illa tremens, uteroque recusso
53. insonuere cavae gemitumque dedere cavernae.
54. et, si fata deum, si mens non laeva fuisset,
55. impulerat ferro Argolicas foedare latebras,
56. Troiaque nunc staret, Priamique arx alta maneres.
57. Ecce, manus iuvenem interea post terga revinctum
58. pastores magno ad regem clamore trahebant
59. Dardanidae, qui se ignotum venientibus ultro,
60. hoc ipsum ut strueret Troiamque aperiret Achivis,
61. obtulerat, fidens animi atque in utrumque paratus,
62. seu versare dolos seu certae occumbere morti.
63. undique uisendi studio Troiana iuventus
64. circumfusa ruit certantque inludere capto.
65. accipe nunc Danaum insidias et crimine ab uno
66. disce omnis (=omnes)
67. namque ut conspectu in medio turbatus, inermis
68. constitit atque oculis Phrygia agmina circumspexit,
69. 'heu, quae nunc tellus,' inquit, 'quae me aequora possunt
70. accipere? aut quid iam misero mihi denique restat,
71. cui neque apud Danaos usquam locus, et super ipsi
72. Dardanidae infensi poenas cum sanguine poscunt?'
73. quo gemitu conversi animi compressus et omnis
74. impetus. Hortamur fari quo sanguine cretus,
75. quidue ferat; memoret quae sit fiducia capto.
40. Per primo accorre, davanti a tutti, dall'alto
41. della rocca Laocoonte adirato, seguito da una grande turba;
42. e di lungi: "Sciagurati cittadini, quale così grande follia?
43. credete partiti i nemici? o stimate alcun dono
44. dei Danai privo d'inganni? Così conoscete Ulisse?
45. O chiusi in questo legno si tengono nascosti Achei,
46. o questa macchina è fabbricata a danno delle nostre mura,
47. per spiare le case e sorprendere dall'alto la città,
48. o cela un'altra insidia: Troiani, non credete al cavallo.
49. Di qualunque cosa si tratti, temo i Danai anche se recano doni".
50. Disse, e avventò con vigore gagliardo la grande asta
51. al fianco della fiera ed al ventre
52. dalle curve giunture. Quella s'infisse vibrando e dall'alvo
53. percosso risuonarono le cavità e diedero un gemito le caverne.
54. E se i fati degli dei, se la nostra mente non era funesta,
55. egli ci aveva sospinti a violare il nascondiglio argolico con il ferro;
56. oggi Troia si ergerebbe, e tu, alta rocca di Priamo, dureresti ancora.
57. Intanto dei pastori dardanidi traevano al re
58. con grande clamore un giovane,
59. con le mani legate sul dorso, che ignoto s'era offerto
60. a chi veniva, per tramare proprio questo, aprire
61. Troia agli Achei, risoluto d'animo e pronto ad entrambe
62. le sorti, ordire inganni o incontrare sicura morte.
63. Per desiderio di vedere, la gioventù troiana s'affolla
64. ed accorre da tutte le parti, e gareggiano a schernire il prigioniero.
65. Ora ascolta le insidie dei Danai e dal crimine di uno solo,
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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66. conoscili tutti.
67. Infatti, come ristette in vista nel mezzo, turbato,
68. inerme, e volse intorno lo sguardo sulle schiere frigie:
69. "Ahi, quale terra ora" disse, "quali mari
70. possono accogliermi, e che cosa ormai mi resta,
71. sventurato che non ha luogo tra i Danai, e gli stessi
72. Dardanidi ostili richiedono una pena di sangue?".
73. Al lamento mutano gli animi e tutto l'impeto s'arresta.
74. Lo esortiamo a dirci da che sangue nacque,
75. e a rivelarci che cosa rechi e con quali speranze si consegnò prigioniero.
Sofocle, Aiace, vv. 664-665
(Aiace)
664. ' ' ·
665. ! " #$.
664.
665.
Ed è vero il proverbio degli uomini:
“I doni dei nemici non sono doni e non sono vantaggiosi”.
Mirabile dictu.
Mirabile a dirsi.
(Virgilio, Eneide, II, v. 26)
Parce sepulto.
Risparmia un cadavere.
(Virgilio, Eneide, III, v. 41)
Auri sacra fames.
Esecrabile fame di oro.
(Virgilio, Eneide, III, v. 57)
Virgilio, Eneide, III, v. 19-68
19. Sacra Dionaeae matri divisque ferebam
20. auspicibus coeptorum operum, superoque nitentem
21. caelicolum regi mactabam in litore taurum.
22. forte fuit iuxta tumulus, quo cornea summo
23. virgulta et densis hastilibus horrida myrtus.
24. accessi viridemque ab humo convellere silvam
25. conatus, ramis tegerem ut frondentibus aras,
26. horrendum et dictu video mirabile monstrum.
27. nam quae prima solo ruptis radicibus arbos
28. vellitur, huic atro liquuntur sanguine guttae
29. et terram tabo maculant. mihi frigidus horror
30. membra quatit gelidusque coit formidine sanguis.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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31. rursus et alterius lentum convellere vimen
32. insequor et causas penitus temptare latentis;
33. ater et alterius sequitur de cortice sanguis.
34. multa movens animo Nymphas venerabar agrestis
35. Gradivumque patrem, Geticis qui praesidet arvis,
36. rite secundarent visus omenque levarent.
37. tertia sed postquam maiore hastilia nisu
38. adgredior genibusque adversae obluctor harenae,
39. eloquar an sileam? gemitus lacrimabilis imo
40. auditur tumulo et vox reddita fertur ad auris:
41. “Quid miserum, Aenea, laceras? iam parce sepulto,
42. parce pias scelerare manus. non me tibi Troia
43. externum tulit aut cruor hic de stipite manat.
44. heu fuge crudelis terras, fuge litus avarum:
45. nam Polydorus ego. hic confixum ferrea texit
46. telorum seges et iaculis increvit acutis”.
47. Tum vero ancipiti mentem formidine pressus
48. obstipui steteruntque comae et vox faucibus haesit.
49. Hunc Polydorum auri quondam cum pondere magno
50. infelix Priamus furtim mandarat alendum
51. Threicio regi, cum iam diffideret armis
52. Dardaniae cingique urbem obsidione videret.
53. ille, ut opes fractae Teucrum et Fortuna recessit,
54. res Agamemnonias victriciaque arma secutus
55. fas omne abrumpit: Polydorum obtruncat, et auro
56. vi potitur. quid non mortalia pectora cogis,
57. auri sacra fames! postquam pavor ossa reliquit,
58. delectos populi ad proceres primumque parentem
59. monstra deum refero, et quae sit sententia posco.
60. omnibus idem animus, scelerata excedere terra,
61. linqui pollutum hospitium et dare classibus Austros.
62. ergo instauramus Polydoro funus, et ingens
63. aggeritur tumulo tellus; stant Manibus arae
64. caeruleis maestae vittis atraque cupresso,
65. et circum Iliades crinem de more solutae;
66. inferimus tepido spumantia cymbia lacte
67. sanguinis et sacri pateras, animamque sepulcro
68. condimus et magna supremum voce ciemus.
19. Facevo sacrifici alla madre dionea ed ai numi
20. auspici dell'opera intrapresa, e mi accingevo a immolare
21. sulla riva uno splendido toro al re dei celesti.
22. V'era lì accanto un'altura, e in cima virgulti
23. di corniolo e un mirto rigido di dense verghe.
24. M'appressai, e tentando di svellere dal suolo un verde
25. cespuglio, per coprire le are di rami frondosi,
26. orrendo e mirabile a dirsi vedo un prodigio.
27. Infatti dall'arbusto che strappo dal suolo per primo,
28. spezzate le radici, colano gocce di nero sangue
29. e macchiano la terra di putredine. Un freddo brivido
30. mi scuote le membra, e il sangue si gela per il terrore.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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31. Di nuovo insisto a strappare il flessibile ramo d'un altro,
32. e a cercare a fondo le cause nascoste.
33. Anche dalla corteccia dell'altro sgorga nero sangue;
34. agitando molti pensieri nell'animo veneravo le agresti
35. Ninfe e il padre Gradivo che presiede ai campi getici,
36. perché propiziassero la visione e alleviassero il presagio.
37. Ma dopo che afferro con maggiore slancio la terza
38. verga, puntando le ginocchia contro la sabbia
39. - devo parlare o tacere? -, s'ode un lacrimoso gemito
40. dalla base del cumulo, e una voce uscendone raggiunge gli
41. orecchi: "Perché laceri uno sventurato, o Enea? Risparmia un cadavere;
42. risparmia di profanare le pie mani. Troia mi ha generato
43. non estraneo a te, e il sangue che vedi non sgorga dal legno.
44. Oh fuggi terre crudeli, fuggi un avido lido.
45. Sono Polidoro. Qui mi trafisse e mi coprì
46. una ferrea messe di dardi e crebbe di acute aste”.
47. Allora, oppresso la mente dubbiosa dall'orrore,
48. stupii, si drizzarono i capelli, e la voce si arrestò nella gola.
49. Lui, Polidoro, un giorno, con grande quantità d'oro
50. l'infelice Priamo aveva affidato in segreto
51. da allevare al re tracio, quando ormai disperava
52. delle armi dei Dardani, e vedeva la città assediata.
53. Quello, appena furono infrante le forze dei Teucri e la fortuna
54. si ritrasse, seguendo le sorti di Agamennone e le armi vincitrici,
55. offende ogni legge; uccide Polidoro, e s'appropria
56. con violenza dell'oro. A cosa non spingi i cuori mortali,
57. o esecrabile fame dell'oro? Dopo che il terrore lasciò
58. le mie ossa, agli scelti capi del popolo e per primo al padre
59. riferisco i prodigi degli dei, e chiedo il parere.
60. Tutti hanno il medesimo proponimento, allontanarsi dalla terra scellerata,
61. lasciare il rifugio contaminato, e affidare le navi ai venti.
62. Dunque prepariamo le esequie a Polidoro: si ammucchia
63. una massa di terra per il tumulo; si ergono ai Mani
64. are meste di livide bende e di nero cipresso,
65. e intorno le donne di Ilio, sciolte secondo l'uso
66. le chiome; offriamo tazze schiumanti di tiepido latte
67. e coppe di sacro sangue, e chiudiamo l'anima
68. nel sepolcro, e gridiamo a gran voce l'estremo saluto.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
63
Agnosco veteris vestigia flammae.
Riconosco i segni dell’antica fiamma.
(Virgilio, Eneide, IV, v. 23)
Tacitum vivit sub pectore vulnus.
Tacita vive la ferita nel cuore.
(Virgilio, Eneide, IV, v. 67)
Virgilio, Eneide, IV, vv. 1-67
1. At regina gravi iamdudum saucia cura
2. vulnus alit venis et caeco carpitur igni.
3. multa viri uirtus animo multusque recursat
4. gentis honos; haerent infixi pectore vultus
5. verbaque nec placidam membris dat cura quietem.
6. postera Phoebea lustrabat lampade terras
7. umentemque Aurora polo dimoverat umbram,
8. cum sic unanimam adloquitur male sana sororem:
9. 'Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent!
10. quis novus hic nostris successit sedibus hospes,
11. quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis!
12. credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.
13. degeneres animos timor arguit. heu, quibus ille
14. iactatus fatis! quae bella exhausta canebat!
15. si mihi non animo fixum immotumque sederet
16. ne cui me vinclo vellem sociare iugali,
17. postquam primus amor deceptam morte fefellit;
18. si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,
19. huic uni forsan potui succumbere culpae.
20. Anna fatebor enim miseri post fata Sychaei
21. coniugis et sparsos fraterna caede penatis
22. solus hic inflexit sensus animumque labantem
23. impulit. Agnosco veteris vestigia flammae.
24. sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat
25. vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras,
26. pallentis umbras Erebo noctemque profundam,
27. ante, pudor, quam te violo aut tua iura resolvo.
28. ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores
29. abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro.'
30. sic effata sinum lacrimis implevit obortis.
31. Anna refert: 'o luce magis dilecta sorori,
32. solane perpetua maerens carpere iuventa
33. nec dulcis natos Veneris nec praemia noris?
34. id cinerem aut manis credis curare sepultos?
35. esto: aegram nulli quondam flexere mariti,
36. non Libyae, non ante Tyro; despectus Iarbas
37. ductoresque alii, quos Africa terra triumphis
38. diues alit: placitone etiam pugnabis amori?
39. nec venit in mentem quorum consederis arvis?
40. hinc Gaetulae urbes, genus insuperabile bello,
41. et Numidae infreni cingunt et inhospita Syrtis;
42. hinc deserta siti regio lateque furentes
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
64
43. Barcaei. quid bella Tyro surgentia dicam
44. germanique minas?
45. dis equidem auspicibus reor et Iunone secunda
46. hunc cursum Iliacas vento tenuisse carinas.
47. quam tu urbem, soror, hanc cernes, quae surgere regna
48. coniugio tali! Teucrum comitantibus armis
49. Punica se quantis attollet gloria rebus!
50. tu modo posce deos veniam, sacrisque litatis
51. indulge hospitio causasque innecte morandi,
52. dum pelago desaevit hiems et aquosus Orion,
53. quassataeque rates, dum non tractabile caelum.”
54. His dictis impenso animum flammavit amore
55. spemque dedit dubiae menti solvitque pudorem.
56. principio delubra adeunt pacemque per aras
57. exquirunt; mactant lectas de more bidentis
58. legiferae Cereri Phoeboque patrique Lyaeo,
59. Iunoni ante omnis, cui vincla iugalia curae.
60. ipsa tenens dextra pateram pulcherrima Dido
61. candentis vaccae media inter cornua fundit,
62. aut ante ora deum pinguis spatiatur ad aras,
63. instauratque diem donis, pecudumque reclusis
64. pectoribus inhians spirantia consulit exta.
65. heu, vatum ignarae mentes! quid vota furentem,
66. quid delubra iuvant? est mollis flamma medullas
67. interea et tacitum vivit sub pectore vulnus.
1. Ma già la regina, tormentata da un profondo affanno,
2. nutre una ferita nelle vene, e un cieco fuoco la divora.
3. II grande valore dell'eroe, la grande gloria della stirpe
4. le ritornano in mente: non dileguano, impressi nel cuore, il volto
5. e le parole; l'affanno non concede alle membra la placida quiete.
6. L'Aurora seguente illuminava le terre con la luce
7. febea e aveva allontanato dal cielo l'umida ombra,
8. quando, già perturbata, parla alla concorde sorella:
9. “Anna, sorella, che sogni mi tengono sospesa e m'angosciano!
10. Che ospite straordinario è entrato nel nostro palazzo,
11. quale mostrandosi in volto! che forza nel cuore e nell'armi!
12. Credo davvero che sia - non è fede illusoria –
13. di stirpe divina. II timore accusa gli animi ignobili.
14. Quali fati lo hanno agitato! Che guerre sofferte narrava!
15. Se non fosse decisione irremovibile e fissa nel cuore
16. di non volermi unire a nessuno con vincolo coniugale,
17. dopo che il primo amore m'ingannò e m'illuse con la morte,
18. se non avessi in odio il talamo e le fiaccole nuziali,
19. forse per questo solo potrei soccombere al peccato.
20. Anna, lo confesso, dopo la morte del misero sposo
21. Sicheo, e la casa insanguinata da fraterna strage,
22. egli soltanto ha scosso i miei sensi, e m'ha fatto
23. vacillare l'animo. Riconosco i segni dell'antica fiamma.
24. Ma voglio che prima la terra mi s'apra in un abisso,
25. e il padre onnipotente mi spinga con il fulmine tra le
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
65
ombre,
26. le ombre del pallido Erebo e la notte profonda,
27. prima che ti violi, o Pudore, o sciolga le tue leggi.
28. Quello che per primo mi unì a sé, mi rapì l'amore;
29. egli lo abbia con sé e lo serbi nel sepolcro”.
30. Detto ciò, riempì la veste di dirotte lagrime.
31. Anna risponde: “O più cara della luce alla sorella,
32. ti consumerai sola e dolente per l'intera giovinezza,
33. e non conoscerai i dolci figli né i doni di Venere?
34. credi che di ciò si curino le ceneri e i Mani sepolti?
35. Sia, un giorno nessun marito ti piegò affranta,
36. né in Libia, né prima in Tiro; hai spregiato larba
37. e gli altri capi che nutre l'Africa, terra
38. ricca di trionfi: resisterai anche a un amore gradito?
39. Non ti viene in mente nei campi di chi sei stanziata?
40. Da, una parte città getule, stirpe invincibile in guerra,
41. e sfrenati Numidi ti attorniano, e le inospitali Sirti;
42. dall'altra una regione desolata dalla sete, e per largo tratto
43. i furenti Barcei. Che dire delle guerre che sorgono da Tiro
44. e delle minacce del fratello?
45. Penso davvero che, auspici gli dei e propizia Giunone,
46. le navi iliache seguirono questa rotta col vento.
47. Quale vedrai questa città, sorella, e quale regno
48. sorgere per tale connubio! Con l'aiuto delle armi dei Teucri
49. per quali grandi eventi si leverà la punica gloria!
50. Ma tu invoca il favore degli dei e, compiuti sacrifici,
51. prolunga l'ospitalità, e intreccia cause d'indugio,
52. mentre imperversa sul mare l'inverno e il piovoso Orione,
53. e le navi sono sconnesse, e il cielo è tempestoso”.
54. Con queste parole infiammò l'animo ardente d'amore,
55. diede speranza alla mente dubbiosa, e dissolse il pudore.
56. Prima si recano nei templi, e implorano la pace
57. sulle are; sacrificano secondo il rito scelte pecore bidenti
58. a Cerere legislatrice e a Febo e al padre Lieo,
59. a Giunone prima di tutti, che tutela i vincoli nuziali.
60. La bellissima Didone, tenendo nella destra una coppa,
61. la versa tra le corna d'una candida giovenca, o s'aggira
62. davanti alle statue degli dei tra le ricche are,
63. e rinnova il giorno con doni, e aperto il petto
64. delle vittime consulta col respiro sospeso le viscere palpitanti.
65. Oh ignare menti dei profeti! che giovano all'invasata
66. i voti e i templi? Frattanto una dolce fiamma
67. divora le midolla, e tacita vive la ferita nel cuore.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Audentes fortuna iuvat.
La fortuna aiuta gli audaci.
(Virgilio, Eneide, X, v. 284)
Virgilio, Eneide, X, vv. 276-286
276. Haud tamen audaci Turno fiducia cessit
277. litora praecipere et venientis pellere terra.
278. [ultro animos tollit dictis atque increpat ultro:]
279. “quod votis optastis adest, perfringere dextra.
280. in manibus Mars ipse viris. Nunc coniugis esto
281. quisque suae tectique memor, nunc magna referto
282. facta, patrum laudes. ultro occurramus ad undam
283. dum trepidi egressisque labant vestigia prima.
284. audentis (= audentes) Fortuna iuvat”. [Piger ipse sibi obstat]
285. haec ait, et secum versat quos ducere contra
286. vel quibus obsessos possit concredere muros.
276.
277.
278.
279.
280.
281.
282.
283.
284.
285.
286.
Tuttavia all'audace Turno non svanì la fiducia
di occupare le rive e di respingere dalla terra i venienti
[Anzi solleva gli animi con le sue parole, e grida:]
“Come invocaste nei voti, potete sterminarli col braccio:
Marte stesso è nelle mani degli uomini. Adesso ciascuno
ricordi la sposa e la casa, rammenti le grandi
imprese, le glorie dei padri. Corriamo subito all'onda,
mentre esitanti allo sbarco vacillano nei primi passi:
la Fortuna favorisce gli audaci”. [Chi è tardo è nemico di sé stesso]
Così dice, e tra sé medita chi possa guidare
all'attacco e a chi affidare l'assedio dei muri.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
67
ORAZIO (65 - 8 a.C.)
Est modus in rebus.
C’è una misura nelle cose.
(Orazio, Satire, I, 1, v. 106)
Orazio, Satire, I, 1, vv. 1-3; 92-112
1. Qui fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem
2. seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa
3. contentus vivat, laudet diversa sequentis?
(...)
92. Denique sit finis quaerendi, cumque habeas plus,
93. pauperiem metuas minus et finire laborem
94. incipias, parto quod avebas, ne facias quod
95. Ummidius quidam; non longa est fabula: dives
96. ut metiretur nummos, ita sordidus, ut se
97. non umquam servo melius vestiret, ad usque
98. supremum tempus, ne se penuria victus
99. opprimeret, metuebat. at hunc liberta securi
100. divisit medium, fortissima Tyndaridarum.
101. 'quid mi igitur suades? ut vivam Naevius aut sic
102. ut Nomentanus?' pergis pugnantia secum
103. frontibus adversis conponere: non ego avarum
104. cum veto te, fieri vappam iubeo ac nebulonem:
105. est inter Tanain quiddam socerumque Viselli:
106. est modus in rebus, sunt certi denique fines,
107. quos ultra citraque nequit consistere rectum.
108. illuc, unde abii, redeo, qui nemo, ut avarus,
109. se probet ac potius laudet diversa sequentis,
110. quodque aliena capella gerat distentius uber,
111. tabescat neque se maiori pauperiorum
112. turbae conparet, hunc atque hunc superare laboret.
(1-3) Come si spiega, o Mecenate, che nessuno al mondo vive contento della sua condizione
(l’abbia egli scelta a suo talento, o gliel’abbia posta innanzi il destino) e ritiene felice chi svolge
attività diverse dalla sua? (...)
(92-112) Infine, per metter punto il ragionamento, quando già possiedi più del bisogno,
abbi mulo timore della povertà e, ottenuto quanto desideravi, comincia a riposarti dalle
fatiche; per non fare come Ummidio (non è lungo il racconto) il quale, essendo tanto ricco,
da misurare le sue monete a staia, e così taccagno, da non vestir mai meglio d'un servo, fino
agli ultimi anni temeva di morire per mancanza del vitto: ma una liberta, emula della
Tindaride più vigorosa (= Clitemnestra, moglie di Agamennone e sorella di Elena), con un
colpo di scure lo divise a mezzo. “Che mi consigli allora? ch'io segua nella vita l'esempio di
Nevio (= famoso per la sua spilorceria), o quello di Nomentano (= famoso per la sua
prodigalità)?” Tu insisti a metter di fronte tra loro due modi, che sono agli antipodi. S'io
t'impedisco di diventare avaro, non ti ordino già d'esser prodigo e scialacquatore.
C’è una misura nelle cose; esistono insomma limiti precisi, oltre i quali, dall'una e
dall'altra parte, non può trovarsi la rettitudine. E torno al punto di partenza: che, a
somiglianza dell'avaro, nessuno è soddisfatto del proprio stato, e leva al cielo quello degli
altri; si affligge che l'altrui capretti riporti la mammella più gonfia, e non paragona sé stesso
con la folla dei meno abbienti, ma cerca sempre di avanzar questo e quello.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
68
Ad unguem.
Fino all’unghia, alla perfezione.
(Orazio, Satire, I, 5, v. 33)
Orazio, Satire, I, 5, 28-34:
28. Huc venturus erat Maecenas optimus atque
29. Cocceius, missi magnis de rebus uterque
30. legati, aversos soliti conponere amicos.
31. hic oculis ego nigra meis collyria lippus
32. inlinere. interea Maecenas advenit atque
33. Cocceius Capitoque simul Fonteius, ad unguem
34. factus homo, Antoni, non ut magis alter, amicus.
Qui ci eravamo dato convegno con l'ottimo Mecenate, e Cocceio, incaricati l'uno e l'altro di mansioni
importanti, soliti com'erano a rappattumare gli amici che erano in rotta fra loro. Attendevo appunto
a ungere, per la mia cispa, gli occhi con un denso collirio, quando arrivano Mecenate e Cocceio, e
con essi Fonteio Capitone, uomo fino all’unghia (= gentiluomo raffinato) e amico di Antonio, quanto
altri mai.
Dente lupus, cornu taurus petit.
Il lupo assale con i denti, il toro con le corna.
(Orazio, Satire, II, 1, v. 52)
Orazio, Satire, II, 1, 1-7; 42-53; 57-60
1. “Sunt quibus in satura videar nimis acer et ultra
2. legem tendere opus; sine nervis altera quidquid
3. conposui pars esse putat similisque meorum
4. mille die versus deduci posse. Trebati,
5. quid faciam? Praescribe”. “Quiescas”. “Ne faciam, inquis,
6. omnino versus?”. “Aio”. “Peream male, si non
7. optimum erat; verum nequeo dormire”.
(...)
42. (...) O pater et rex
43. Iuppiter, ut pereat positum robigine telum
44. nec quisquam noceat cupido mihi pacis! at ille,
45. qui me conmorit - melius non tangere, clamo 46. flebit et insignis tota cantabitur urbe.
47. Cervius iratus leges minitatur et urnam,
48. Canidia Albuci, quibus est inimica, venenum,
49. grande malum Turius, siquid se iudice certes.
50. ut quo quisque valet suspectos terreat utque
51. imperet hoc natura potens, sic collige mecum,
52. dente lupus, cornu taurus petit: unde nisi intus
53. monstratum? (...)
(...)
57. ne longum faciam: seu me tranquilla senectus
58. exspectat seu mors atris circumvolat alis,
59. dives, inops, Romae, seu fors ita iusserit, exsul,
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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60. quisquis erit vitae scribam color.
Vi sono di quelli a cui sembra che io nella satira sia troppo mordace e che trapassi la misura; altri
ritiene che quel che ho scritto sia privo di vigore e che dei versi simili ai miei si possono scodellare
mille al giorno. Consigliami o Trebazio (= dotto e stimato giureconsulto, amico e coetaneo di
Cicerone), ciò che ho da fare. “E tu stattene quieto” “Dici che io non faccia più versi?” “Proprio
così” “Mi venga un malanno se questo non sarebbe un ottimo partito, ma è che io non posso
dormire. (...)”.
O Giove, padre e re nostro, tu fa' che quest'arma irrugginisca, né alcuno cerchi di far male a me, che
voglio la pace! Ma, se qualcuno si attenterà a stuzzicarmi (meglio non far la prova, ve lo avverto!)
avrà da piangere, e diverrà la favola della intera città.
Cervio quando va in bestia, minaccia ricorsi alle leggi e ai tribunali; Canidia minaccia ai suoi
nemici i veleni di Albuzio; Turio una sequela di malanni a chi gli càpiti in qualche processo sotto le
grinfie. Ciascuno cerca di spaventare gli avversari con i mezzi, di cui dispone; e come ciò sia
imposto dalle leggi ineluttabili di natura, convieni con me per queste considerazioni, il lupo assale
con i denti, il toro con le corna: da dove proviene ciò se non dall’istinto? (...)
Per non farla lunga, sia che mi attenda una tranquilla vecchiezza, sia la Morte mi voli intorno con le
sue nere ali; ricco o povero, sia che io rimanga a Roma, sia che il destino mi getti d’un tratto in
esilio; qualunque sia il mio genere di vita, io continuerò a scrivere.
Bella matribus detestata.
Guerre detestate dalle madri.
(Orazio, Odi, I, 1, vv. 24-25)
Orazio, Odi, I, 1
1. Maecenas atavis edite regibus,
2. et praesidium et dulce decus meum:
3. sunt quos curriculo pulverem Olympicum
4. collegisse iuvat metaque fervidis
5. evitata rotis palmaque nobilis
6. terrarum dominos evehit ad deos;
7. hunc, si mobilium turba Quiritium
8. certat tergeminis tollere honoribus;
9. illum, si proprio condidit horreo
10. quidquid de Libycis verritur areis.
11. gaudentem patrios findere sarculo
12. agros Attalicis condicionibus
13. numquam demoveas, ut trabe Cypria
14. Myrtoum pavidus nauta secet mare;
15. luctantem Icariis fluctibus Africum
16. mercator metuens otium et oppidi
17. laudat rura sui: mox reficit rates
18. quassas indocilis pauperiem pati.
19. est qui nec veteris pocula Massici
20. nec partem solido demere de die
21. spernit, nunc viridi membra sub arbuto
22. stratus, nunc ad aquae lene caput sacrae;
23. multos castra iuvant et lituo tubae
24. permixtus sonitus bellaque matribus
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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25. detestata; manet sub Iove frigido
26. venator tenerae coniugis inmemor,
27. seu visa est catulis cerva fidelibus,
28. seu rupit teretes Marsus aper plagas.
O Mecenate, disceso da antenati che furono re, o mio sostegno e dolce ornamento mio: vi son
di quelli a cui piace la polvere raccolta con la biga nelle gare olimpiche, e cui la mèta sfiorata
con le ruote roventi e la palma della vittoria solleva agli dèi, dominatori del mondo. Questi è
felice, se la folla dei volubili Quiriti gareggia per innalzarlo alle tre maggiori magistrature
l; quegli, se poté radunare nel proprio granaio tutto il frumento che si spazza dalle aie della
Libia. Chi gode a sminuzzar col sarchiello le zolle del campo ereditato dal padre, neppure
col miraggio delle ricchezze di Attalo 2 tu lo ìndurrestì a solcare con un legno di Cipro,
timido navigante, il mare mirtoo. Il mercante, sbigottito dal libeccio in lotta con le onde
icarie, loda la pace e le campagne del suo paesello; ma sùbito dopo, insofferente delle
strettezze, ripara le barche sconquassate dalla tempesta.
C'è chi si diletta a, vuotare tazze di annoso Messico e ad accorciar la giornata di lavoro,
sdraiato ora sotto un verdeggiante corbezzolo, ora presso la tranquilla sorgente d'un sacro
fiume. A molti piacciono l'accampamento e il suono della tromba, misto a quello del
lituo, e le guerre detestate dalle madri. Il cacciatore, dimentico della tenera sposa,
pernotta sotto il cielo gelato, sia che i suoi bracchetti fedeli abbiano scovata una cerva,
sia che un cignale marsico abbia spezzate le attorte reti. Me le corone di edera, premio
delle dotte fronti, congiungono agli dèí superni; me il bosco ombroso e le danze leggère delle
Ninfe con i Satiri distinguono dal volgo, se Euterpe non arresta le melodie del flauto e
Polinnia non rifiuta di accordare la lira di Lesbo. Che se tu mi poni nella schiera dei
poeti lirici, io leverò il capo fino a toccare le stelle.
Pallida mors aequo pulsat pede.
La pallida morte bussa con piede imparziale.
(Orazio, Odi, I, 4, v. 13)
Orazio, Odi, I, 4
1. Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni
2. trahuntque siccas machinae carinas,
3. ac neque iam stabulis gaudet pecus aut arator igni
4. nec prata canis albicant pruinis.
5. iam Cytherea choros ducit Venus imminente luna,
6. iunctaeque Nymphis Gratiae decentes
7. alterno terram quatiunt pede, dum gravis Cyclopum
8. Volcanus ardens visit officinas.
9. nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto
10. aut flore, terrae quem ferunt solutae.
11. nunc et in umbrosis Fauno decet immolare lucis,
12. seu poscat agna sive malit haedo.
13. pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas
14. regumque turris. o beate Sesti,
15. vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam;
16. iam te premet nox fabulaeque Manes
17. et domus exilis Plutonia; quo simul mearis,
18. nec regna vini sortiere talis
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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19. nec tenerum Lycidan mirabere, quo calet iuventus
20. nunc omnis et mox virgines tepebunt.
Col dolce arrivo della primavera e del favonio, si dissolve l'aspro inverno, e scivolano sui rulli le
navi che erano all'asciutto. Oramai non è gradita la stalla al bestiame, né il focolare al bifolco; né
più biancheggiano i prati di candide brine. Già Venere, la dea di Citera, guida le danze al lume della
luna e le Grazie leggiadre, traendo per mano le Ninfe, battono con piede alterno la terra; mentre
Vulcano, rosso in volto, sorveglia le faticose officine dei Ciclopi I. Ora conviene intrecciare i
capelli profumati o col verde mirto, o con i fiori nati sulle zolle sciolte dal gelo; ora sacrificare nei
boschi ombrosi a Fauno, sia che domandi un'agnella, sia che preferisca un capretto. La pallida
Morte bussa con piede imparziale ai tuguri dei poveri e ai palazzi dei prìncipi. O ricco Sestio, la
breve durata della vita non ci permette di concepire una lunga speranza. Presto graveranno anche su
te le tenebre e i favolosi Mani e la squallida dimora di Plutone; dove, una volta entrato, non sarai
più eletto co' dadi re del convito, né potrai più ammirare l'avvenente Licida, per cui adesso arde
tutta la gioventù e, quanto prima, proveranno amore le fanciulle.
Carpe diem.
Cogli l’attimo (= cogli la giornata d’oggi)
(Orazio, Odi, I, 11, v. 8)
Orazio, Odi, I, 11
1. Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
2. finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
3. temptaris numeros. ut melius, quidquid erit, pati.
4. seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
5. quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
6. Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
7. spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida
8. aetas: carpe diem quam minimum credula postero.
Non domandare, o Leuconoe (ché saperlo non è lecito), qual termine gli dèi abbiano assegnato a
me, quale a te; e non consultare le cabale babilonesi. Quanto è meglio prendere in pace tutto quello
che ha da venire! Sia che Giove ci abbia concessi molti inverni, sia che l'ultimo sia questo, che ora
fiacca sugli opposti scogli il mare Tirreno, tu sii saggia. Filtra il vino da bere e restringi in un
àmbito breve le lunghe speranze. Mentre noi parliamo, sarà già sparita l'ora, invidiosa del nostro
godere. Cògli la giornata d'oggi e confida il meno possibile in quella di domani.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Nunc est bibendum.
Ora si deve bere.
(Orazio, Odi, I, 37, v. 37)
Orazio, Odi, I, 37, 1-4
1. Nunc est bibendum, nunc pede libero
2. pulsanda tellus, nunc Saliaribus
3. ornare pulvinar deorum
4. tempus erat dapibus, sodales.
Ora si deve bere, o compagni, ora si deve battere con piede sfrenato la terra, ora si deve imbandire
il banchetto di ringraziamento agli dèi con vivande degne dei Salii (era da tanto che s’aspettava!):
Alceo, Fr. 332 L. P.
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Ora bisogna ubriacarsi e bere a forza, poìché è morto Mirsilo...
Aurea mediocritas.
Aurea mediocrità.
(Orazio, Odi, II, 10, v. 5)
Feriunt summos fulgura montes.
I fulmini colpiscono le vette dei monti.
(Orazio, Odi, II, 10, vv. 11-12)
Orazio, Odi, II, 10
1. Rectius vives, Licini, neque altum
2. semper urgendo neque, dum procellas
3. cautus horrescis, nimium premendo
4. litus iniquum.
5. auream quisquis mediocritatem
6. diligit, tutus caret obsoleti
7. sordibus tecti, caret invidenda
8. sobrius aula.
9. saepius ventis agitatur ingens
10. pinus et celsae graviore casu
11. decidunt turres feriuntque summos
12. fulgura montes.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
73
13. sperat infestis, metuit secundis
14. alteram sortem bene praeparatum
15. pectus: informis hiemes reducit
16. Iuppiter, idem
17. submovet; non, si male nunc, et olim
18. sic erit: quondam cithara tacentem
19. suscitat Musam neque semper arcum
20. tendit Apollo.
21. rebus angustis animosus atque
22. fortis adpare, sapienter idem
23. contrahes vento nimium secundo
24. turgida vela.
Vivrai più rettamente, o Licinio, se non ti spingerai di continuo in alto mare, né, ad evitar cauto le
tempeste, rasenterai troppo da vicino il lido insidioso. Chi si compiace dell'aurea mediocrità, resta
lontano, senza preoccupazioni, dal luridume d'una dimora cadente, e lontano, senza intemperanze,
da un palazzo, che desti l'invidia. Più spesso è squassato dai venti il gigantesco pino, e con rovina
maggiore crollano le alte torri, e i fulmini colpiscono le vette dei monti
Nelle avversità spera una fortuna migliore, nelle prosperità teme il mutar della sorte l'animo bene
apparecchiato. Giove apporta gli sgraditi inverni, e Giove li scaccia. Se per il momento le cose
vanno male, non sarà così in altro tempo. Non sempre Apollo sta con l’arco teso, ma talvolta ridesta
con la lira la Musa sopita. Tu mòstrati coraggioso e forte nelle strettezze; saggio del pari,
ammainerai le vele, quando saranno gonfie dal vento troppo favorevole.
Fugaces labuntur anni.
Veloci scorrono gli anni.
(Orazio, Odi, II, 14, vv. 1-2)
Orazio, Odi, II, 14, 1-7
1. Eheu fugaces, Postume, Postume,
2. labuntur anni nec pietas moram
3. rugis et instanti senectae
4. adferet indomitaeque morti,
5. non si trecenis quotquot eunt dies,
6. amice, places inlacrimabilem
7. Plutona tauris (...).
Ahi, Postumo, veloci scorrono gli anni, né la religione porterà alcuna remora alle rughe e alla
vecchiezza incalzante e alla morte ineluttabile; neanche se con trecento tori, quanti sono i giorni
dell’anno, tu plachi l’inflessibile Plutone (...).
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Odi profanum vulgus et arceo.
Odio il volgo ignorante e me ne tengo lontano
(Sdegno la folla dei profani e la respingo dal tempio)
(Orazio, Odi, III, 1, v. 1)
Orazio, Odi, III, 1, 1-4
1. Odi profanum volgus et arceo.
2. Favete linguis: carmina non prius
3. audita Musarum sacerdos
4. virginibus puerisque canto.
1.
2.
3.
4.
Sdegno la folla dei profani e la respingo (dal tempio).
Voi, iniziate, secondate in silenzio il rito:
io, sacerdore delle Nuse, intono un canto non prima tentato,
per le giovinette e per i fanciulli.
Crescentem sequitur cura pecuniam.
Al denaro che si accumula tiene dietro l’ansietà.
(Orazio, Odi, III, 16, v. 17)
Multa petentibus desunt multa.
A chi molto chiede, molto manca.
(Orazio, Odi, III, 16, vv. 42-43)
Orazio, Odi, III, 16, vv. 9-24; vv. 42-44
9. Aurum per medios ire satellites
10. et perrumpere amat saxa potentius
11. ictu fulmineo; concidit auguris
12. Argivi domus ob lucrum
13. demersa exitio; diffidit urbium
14. portas vir Macedo et subruit aemulos
15. reges muneribus; munera navium
16. saevos inlaqueant duces.
17. Crescentem sequitur cura pecuniam
18. maiorumque fames: iure perhorrui
19. late conspicuum tollere verticem,
20. Maecenas, equitum decus.
21. quanto quisque sibi plura negaverit,
22. ab dis plura feret: nil cupientium
23. nudus castra peto et transfuga divitum
24. partes linquere gestio,
(...)
42. Multa petentibus
43. desunt multa: bene est cui deus obtulit
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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44. parca quod satis est manu.
L'oro riesce a farsi strada attraverso le scolte armate e a frantumare le rupi, con maggior forza di un
colpo di fulmine. Per l'oro, cadde la casa dell'àugure di Argo z, sommersa nella rovina; coi doni, il
re Macedone infranse le porte delle città e tolse di mezzo i suoi rivali; i doni stringono nei lacci i
feroci capitani delle navi. Ma al denaro che s'accumula tien dietro l'ansietà e la cupidigia di
ricchezze sempre maggiori: per questo, o Mecenate, onore dei cavalieri, io giustamente mi sono
rattenuto dal sollevare il capo troppo in alto.
Quante più cose uno saprà rifiutare a sé stesso, tante più ne otterrà dagli dèi. Io voglio entrar
disarmato nel campo di chi nulla desidera, e mi affretto ad abbandonare, qual disertore, le file dei
ricchi; (...).
A chi molto chiede, molto manca: avventurato è colui, al quale la divinità largì con mano misurata
quel tanto, che è sufficiente per lui.
Dulce est desipere in loco.
È piacevole folleggiare al momento opportuno
(Orazio, Odi, IV, 12, v. 28)
Orazio, Odi, IV, 12
1. Iam veris comites, quae mare temperant,
2. inpellunt animae lintea Thraciae,
3. iam nec prata rigent nec fluvii strepunt
4. hiberna nive turgidi.
5. nidum ponit Ityn flebiliter gemens
6. infelix avis et Cecropiae domus
7. aeternum opprobrium, quod male barbaras
8. regum est ulta libidines.
9. dicunt in tenero gramine pinguium
10. custodes ovium carmina fistula
11. delectantque deum, cui pecus et nigri
12. colles Arcadiae placent.
13. adduxere sitim tempora, Vergili.
14. sed pressum Calibus ducere Liberum
15. si gestis, iuvenum nobilium cliens,
16. nardo vina merebere.
17. nardi parvus onyx eliciet cadum,
18. qui nunc Sulpiciis accubat horreis,
19. spes donare novas largus amaraque
20. curarum eluere efficax.
21. ad quae si properas gaudia, cum tua
22. velox merce veni: non ego te meis
23. inmunem meditor tinguere poculis,
24. plena dives ut in domo.
25. verum pone moras et studium lucri
26. nigrorumque memor, dum licet, ignium
27. misce stultitiam consiliis brevem:
28. dulce est desipere in loco.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Già le aure della Tracia, compagne della primavera e moderatrici del mare, gonfiano le vele delle
navi; già i prati non sono più stretti dal gelo, né i fiumi rumoreggiano, ingrossati dalle nevi
invernali. Costruisce il nido, flebilmente rimpiangendo il suo Iti, l'uccello sventurato', eterno
disonore della casa di Cecrope, perché sì atrocemente vendicò la sfrenatezza di un re barbaro. Sopra
la molle erbetta, i pastori delle ben pasciute pecore modulano con la zampogna i loro canti, e
dilettano il dio, a cui sono gradite le greggi e le colline ombrose dell'Arcadia.
La bella stagione, o Virgilio, ha riportato la sete: ma tu, commensale di giovani illustri, se brami
anche da me vino pigiato a Calvi, te lo guadagnerai portando del sardo. Un vasetto di sardo farà
comparire un caratello, che ora dorme nei magazzini Sulpicii 2, largo a donare nuove speranze ed
efficace a cancellare ogni doloroso pensiero. Se tu aspiri a questa gioia, vieni di volo con la tua
mercanzia; io non intendo bagnarti a ufo co' miei bicchieri, come potrebbe fare un ricco nella sua
casa ben fornita. Dunque non perdere tempo, e smetti la smania del guadagno; e memore, finché
puoi, del rogo fumoso che ci attende, mescola alla saggezza un granello di follia: è piacevole
folleggiare (= abbandonare la saggezza) al momento opportuno.
Motti simili:
Tolerabile est semel anno insanire.
È tollerabile una volta all’anno uscire di senno.
(Sant’Agostino, De civitate dei, VI, 10)
Semel in anno licet insanire.
È lecito una volta all’anno uscire di senno.
Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt.
Coloro che varcano il mare mutano il cielo, non l’animo.
(Orazio, Epistulae, I, 11, v. 26)
Orazio, Epistulae, I, 11
1. Quid tibi visa Chios, Bullati, notaque Lesbos,
2. quid concinna Samos, quid Croesi regia Sardis,
3. Zmyrna quid et Colophon, maiora minorane fama?
4. cunctane prae campo et Tiberino flumine sordent?
5. an venit in votum Attalicis ex urbibus una?
6. an Lebedum laudas odio maris atque viarum:
7. 'scis, Lebedus quid sit: Gabiis desertior atque
8. Fidenis vicus; tamen illic vivere vellem
9. oblitusque meorum, obliviscendus et illis,
10. Neptunum procul e terra spectare furentem'?
11. sed neque qui Capua Romam petit, imbre lutoque
12. adspersus volet in caupona vivere; nec qui
13. frigus collegit, furnos et balnea laudat
14. ut fortunatam plene praestantia vitam;
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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15. nec si te validus iactaverit Auster in alto,
16. idcirco navem trans Aegaeum mare vendas.
17. incolumi Rhodos et Mytilene pulchra facit quod
18. paenula solstitio, campestre nivalibus auris,
19. per brumam Tiberis, Sextili mense caminus.
20. dum licet ac voltum servat Fortuna benignum,
21. Romae laudetur Samos et Chios et Rhodos absens.
22. tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam
23. grata sume manu neu dulcia differ in annum,
24. ut quocumque loco fueris, vixisse libenter
25. te dicas: nam si ratio et prudentia curas,
26. caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt.
27. strenua nos exercet inertia: navibus atque
28. quadrigis petimus bene vivere. quod petis, hic est,
29. est Ulubris, animus si te non deficit aequus.
Che t'è parso, o Bullazio, di Chio e della famosa Lesbo? che dell'adorna Samo, che di Sardi, già
reggia di Creso, e di Smirne e di Colofone? son esse maggiori o minori della fama loro? Forse tutte
a confronto del nostro Campo di Marte e del fiume Tevere impallidiscono, o t'è rimasta in cuore
qualcuna delle città di Attalo? oppure, stanco dei viaggi per mare e per terra, tu preferisci Lebedo?
“Sai bene quello che è Lebedo: un villaggio più deserto di Gabii e di Fidene Pure, vorrei vivere colà
e, dimentico de' miei, sperando anche d'esser dimenticato da loro, osservare da un punto remoto
della costa le tempeste del mare”
Ma non vorrà il viaggiatore diretto da Capua a Roma, fradicio dalla pioggia e pieno di
zacchere, rimanere tutto il tempo all'osteria; né chi soffre di reumi loderà i baghi e le terme,
come se quelle potessero apprestargli la vita beata in tutto e per tutto; né tu, se il violento
scirocco t'abbia sballottato in alto mare, venderai per questo la nave, trovandoti ancora oltre
l'Egeo. All'uomo sano, per quanto belle, Rodi e Mitilene si confanno, come d'estate un
tabarro, alle brezze invernali una maglietta, un bagno in dicembre e il caminetto in agosto.
Finché ci è dato e la fortuna ci fa buon viso, si lodino, rimanendo a Roma, Samo e Chio e
Rodi, di lontano. Tu, qualunque ora felice ti sarà largita dagli dèi, accettala con grato
animo, e non attender l'anno venturo per goderne; acciocché tu possa dire d'esser vissuto
lietamente dovunque ti trovassi. Poiché, se il senno e la ragione han forza di rimuovere gli
affanni, e non il luogo che domina l'ampia distesa delle acque, coloro che varcano il mare
mutano il cielo, non l'animo. Noi affatica un'accidia irrequieta. Inseguiamo su navi e su
quadrighe la felicità: ma quel che tu cerchi è qui; è ad Ulubra , se non ti manca l'animo
equilibrato.
De lana caprina.
(Questioni) di lana caprina.
(Orazio, Epistole, I, 18, v. 15)
Orazio, Epistole, I, 18, 1-18
1. Si bene te novi, metues, liberrime Lolli,
2. scurrantis speciem praebere, professus amicum.
3. ut matrona meretrici dispar erit atque
4. discolor, infido scurrae distabit amicus.
5. est huic diversum vitio vitium prope maius,
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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6. asperitas agrestis et inconcinna gravisque,
7. quae se commendat tonsa cute, dentibus atris,
8. dum volt libertas dici mera veraque virtus.
9. virtus est medium vitiorum et utrimque reductum.
10. alter in obsequium plus aequo pronus et imi
11. derisor lecti sic nutum divitis horret,
12. sic iterat voces et verba cadentia tollit,
13. ut puerum saevo credas dictata magistro
14. reddere vel partis mimum tractare secundas;
15. alter rixatur de lana saepe caprina,
16. propugnat nugis armatus: “Scilicet ut non
17. sit mihi prima fides?” et “vere quod placet ut non
18. acriter elatrem? pretium aetas altera sordet.”
Se io ti ho bene inteso, o molto indipendente Lollio, professandoti amico di un signore tu
temerai di fare la figura di un buffone, buffone: ma tanto differisce un amico da un
parassita, quanto una matrona, per contegno e pudore, da una sgualdrina. Diverso poi da
questo, e forse maggiore, è il vizio della rozzezza contadinesca e scontrosa e sgarbata di
chi, mentre aspira alla fama di indipendente e virtuoso a tutta prova, si pavoneggia della
zucca rasa a fior di pelle e dei denti neri. La virtù è nel mezzo dei due vizi, e lontana
dall'uno e dall'altro. Il parassita, chinandosi più del giusto, e occupando l'infimo divano,
teme così il cenno del signore, così ne trasmette gli ordini e ne raccoglie le parole che gli
cadono di bocca, che tu lo crederesti uno scolaro, il quale reciti la lezione al burbero
maestro, ovvero un mimo addetto a svolgere le seconde parti. Il rustico il più delle volte fa
questioni di lana caprina, e le sostiene armato di cavilli: “Non volete dunque credermi a
prima giunta? e ch'io non gridi ben alto quel che mi garba? una seconda vita in prezzo del
silenzio non vale per me tanto”.
Graecia capta ferum victorem cepit.
La Grecia conquistata conquistò il suo fiero vincitore.
(Orazio, Epistole, II, 1, v. 156)
Orazio, Epistulae, II, 1, vv. 156-163
156. Graecia capta ferum victorem cepit et artis
157. intulit agresti Latio. sic horridus ille
158. defluxit numerus Saturnius et grave virus
159. munditiae pepulere; sed in longum tamen aevum
160. manserunt hodieque manent vestigia ruris.
161. serus enim Graecis admovit acumina chartis
162. et post Punica bella quietus quaerere coepit,
163. quid Sophocles et Thespis et Aeschylos utile ferrent.
La Grecia conquistata conquistò il suo fiero vincitore, e introdusse le arti nel Lazio, dedito
all'agricoltura. Così scomparve quell'orrido verso saturnio, e le eleganze scacciarono la pesante
rozzezza: ma tracce di rusticità sopravvissero per lungo tempo, e oggi ancora sopravvivono, perché
tardi il Romano volse il proprio acume alle opere dei Greci e, solo dopo le guerre puniche, cominciò
riposato a considerare qual frutto potevano arrecargli Sofocle e Tespi ed Eschilo.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Desinit in piscem .
Finisce in pesce.
(Orazio, Ars poetica, v. 4)
Orazio, Ars poetica, vv. 1-13
1. Humano capiti cervicem pictor equinam
2. iungere si velit et varias inducere plumas
3. undique conlatis membris, ut turpiter atrum
4. desinat in piscem mulier formosa superne,
5. spectatum admissi risum teneatis, amici?
6. credite, Pisones, isti tabulae fore librum
7. persimilem, cuius, velut aegri somnia, vanae
8. fingentur species, ut nec pes nec caput uni
9. reddatur formae. “Pictoribus atque poetis
10. quidlibet audendi semper fuit aequa potestas.”
11. Scimus, et hanc veniam petimusque damusque vicissim;
12. sed non ut placidis coeant inmitia, non ut
13. serpentes avibus geminentur, tigribus agni.
Se ad un pittore venisse talento di congiungere a una testa umana un collo equino, e a
membra accozzate da cento parti inserir piume variopinte, facendo sì che una donna, bella
in viso, terminasse sconciamente in un sozzo pesce, ammessi a contemplare il quadro,
sapreste, amici miei, trattener le risa? Ebbene, o Pìsoni, assai simile a questo dipinto sarà il
libro, ove ricorrano, come incubi di un febbricitante, vane immagini, in modo che né il
principio, né la fine si possano ricomporre in un sol tutto. “Ma i pittori e i poeti ebbero
sempre plausibile licenza di ardire checchessia”. Lo sappiamo: e tale privilegio noi
chiediamo e concediamo vicendevolmente: non al punto però, che le bestie feroci vadano
assieme alle miti, e i serpenti siano accoppiati agli uccelli, le agnelle alle tigri.
Parturient montes, nascetur ridiculus mus.
Partoriranno le montagne, nascerà un ridicolo topolino.
(Orazio, Ars poetica, v. 139)
Ab ovo.
Dall’uovo (= dalle più remote origini)
(Orazio, Ars poetica, v. 147)
In medias res.
In mezzo agli eventi.
(Orazio, Ars poetica, v. 148)
Orazio, Ars poetica, vv. 128-152
128. Difficile est proprie communia dicere, tuque
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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129.
130.
131.
132.
133.
134.
135.
136.
137.
138.
139.
140.
141.
142.
143.
144.
145.
146.
147.
148.
149.
150.
151.
152.
rectius Iliacum carmen deducis in actus
quam si proferres ignota indictaque primus:
publica materies privati iuris erit, si
non circa vilem patulumque moraberis orbem
nec verbo verbum curabis reddere fidus
interpres nec desilies imitator in artum,
unde pedem proferre pudor vetet aut operis lex,
nec sic incipies, ut scriptor cyclicus olim:
'fortunam Priami cantabo et nobile bellum.'
quid dignum tanto feret hic promissor hiatu?
parturient montes, nascetur ridiculus mus.
quanto rectius hic, qui nil molitur inepte:
'dic mihi, Musa, virum, captae post tempora Troiae
qui mores hominum multorum vidit et urbes.'
non fumum ex fulgore, sed ex fumo dare lucem
cogitat, ut speciosa dehinc miracula promat,
Antiphaten Scyllamque et cum Cyclope Charybdim;
nec reditum Diomedis ab interitu Meleagri
nec gemino bellum Troianum orditur ab ovo:
semper ad eventum festinat et in medias res
non secus ac notas auditorem rapit et quae
desperat tractata nitescere posse relinquit
atque ita mentitur, sic veris falsa remiscet,
primo ne medium, medio ne discrepet imum.
Non è facile impresa dar forma conveniente a un soggetto a disposizione di tutti; e più
agevolmente tu potrai ridurre in atti i canti omerici, che rappresentare per il primo fatti nuovi e non
trattati. La materia comune diverrà tua, se tu non indulgerai in un raggirarti piatto e pedestre, e non
ti curerai di render parola per parola, da semplice interprete; né imitando scivolerai dentro una
stretta, d'onde t'impediscano di ritrarre il piede la tua timidezza o le esigenze artistiche. Né darai
mimo al poema, come una volta quel poeta ciclico: “Canterò la potenza di Priamo e la famosa
guerra”. Che mai recherà l'autore di corrispondente a un così rimbombante esordio? Partoriranno
le montagne, e nascerà un ridicolo topolino. Quanto più opportunamente colui, che nulla ordisce
a caso: “Cantami, o Musa, l'eroe che, dopo la conquista di Troia, conobbe i costumi e le città di
molti popoli”. Non dallo splendore egli intende cavar fumo, ma dal fumo spandere la luce, per
quindi suscitar quei meravigliosi episodi: Antifate (= re dei Lestrigoni) e Scilla e il Ciclope e
Cariddi. Né, per cantare il ritorno di Diomede, egli prende le mosse dalla morte di Meleagro; né, per
la guerra troiana, dall'uovo di Leda; egli avanza sempre diritto alla mèta, e rapisce il lettore, come
attraverso una via conosciuta, in mezzo agli eventi; e quel che non può sperare di mettere in luce
passa sotto silenzio: e così finge, così mescola le cose immaginate alle vere, che il mezzo non
discorda dall'inizio, né la fine dal mezzo.
Motti simili:
Ab ovo usque ad mala.
Dall’uovo fino alle mele (= dall’inizio alla fine).
(Orazio, Satire, I, 3, vv. 6-7).
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Laudator temporis acti.
Lodatore del tempo passato.
(Orazio, Ars poetica, v. 173)
Coram populo.
Davanti a tutti.
(Orazio, Ars poetica, v. 185)
Orazio, Ars Poetica, vv. 153-187
153. Tu, quid ego et populus mecum desideret, audi,
154. si plausoris eges aulaea manentis et usque
155. sessuri, donec cantor “vos plaudite” dicat.
156. aetatis cuiusque notandi sunt tibi mores,
157. mobilibusque decor naturis dandus et annis.
158. reddere qui voces iam scit puer et pede certo
159. signat humum, gestit paribus conludere et iram
160. colligit ac ponit temere et mutatur in horas.
161. inberbis iuvenis, tandem custode remoto,
162. gaudet equis canibusque et aprici gramine campi,
163. cereus in vitium flecti, monitoribus asper,
164. utilium tardus provisor, prodigus aeris,
165. sublimis cupidusque et amata relinquere pernix.
166. conversis studiis aetas animusque virilis
167. quaerit opes et amicitias, inservit honori,
168. conmisisse cavet quod mox mutare laboret.
169. multa senem circumveniunt incommoda, vel quod
170. quaerit et inventis miser abstinet ac timet uti,
171. vel quod res omnis timide gelideque ministrat,
172. dilator, spe longus, iners avidusque futuri,
173. difficilis, querulus, laudator temporis acti
174. se puero, castigator censorque minorum.
175. multa ferunt anni venientes commoda secum,
176. multa recedentes adimunt: ne forte seniles
177. mandentur iuveni partes pueroque viriles:
178. semper in adiunctis aevoque morabitur aptis.
179. Aut agitur res in scaenis aut acta refertur.
180. segnius inritant animos demissa per aurem
181. quam quae sunt oculis subiecta fidelibus et quae
182. ipse sibi tradit spectator: non tamen intus
183. digna geri promes in scaenam multaque tolles
184. ex oculis, quae mox narret facundia praesens:
185. ne pueros coram populo Medea trucidet
186. aut humana palam coquat exta nefarius Atreus
187. aut in avem Procne vertatur, Cadmus in anguem.
Ascolta ora quali siano le esigenze del popolo e le mie. Se vuoi che lo spettatore ti apllaudisca e si
trattenga per tutta la rappresentazione, e resti a sedere fino a quando il cantore dica: “Applaudite”, a
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
82
te conviene osservare le tendenze di ciascheduno dei personaggi e assegnare atti dicevoli all'indole
e all'età di essi.' Il fanciullo, che sa appena formar le parole e muovere sicuramente i primi passi,
ama giocare con gli altri bambini, e si adira e si placa a capriccio, e muta i suoi gusti da un'ora
all'altra. Il giovane imberbe, libero alfine dal precettore, si diletta dei cavalli e dei cani e degli
esercizi sull'erboso Campo di Mai-te; facile a cadere nel vizio, sgarbato con chi l'ammonisce, lento
a procacciarsi le cose utili, prodigo del denaro, generoso negl'impeti, pieno di desidèri e pronto ad
abbandonare le cose desiderate. Con diversa inclinazione, l'età e la mente dell'uomo adulto cerca le
ricchezze e le amicizie, appetisce gli onori, e si guarda dal fare quello che poi stenti a modificare.
Cento molestie sopraggiungono al vecchio, o perché tende ad acquistar beni e, da taccagno,
risparmia quelli che ha radunati e ha timore di usarne, o perché tratta tutti gli affari freddo e
sospettoso, rinviandoli al giorno dopo; lento a crearsi illusioni, accidioso e cupido del bene
avvenire, diffidente, brontolone, lodatore del tempo passato, quand'era fanciullo, ammonitore e
censore dei giovani. Così gli anni al loro giungere arrecano molti beni, e molti portano via al loro
partire. Che non si assegnino dunque al giovane parti da vecchio, né da uomo maturo al fanciullo;
ma a ciascuno si serbi il contegno adatto e proprio dell'età. Un'azione drammatica o si svolge sulla
scena, o si racconta come avvenuta. I fatti appresi per udita scuotono più debolmente gli animi, che
quelli messi sotto gli occhi attenti dello spettatore e da lui stesso osservati. Tuttavia non esporrai sul
palcoscenico quello che è opportuno si svolga di dentro; e molte cose sottrarrai alla vista, le quali
più tardi potrà riferire un dicitore che ne fu testimone. Medea non tagli a pezzi i propri figli in
presenza del pubblico, né l'empio Atreo cucini viscere umane alla vista di tutti, né Progne si
trasformi in uccello, o Cadmo in serpente.
Miscēre utile dulci.
Contemperare l’utile con il dilettevole.
(Orazio, Ars poetica, v. 343)
Quandoque bonus dormitat Homerus.
Talvolta sonnecchia il valente Omero.
(Orazio, Ars poetica, v. 359)
Ut pictura poesis.
La poesia è come la pittura.
(Orazio, Ars poetica, v. 361)
Orazio, Ars Poetica, vv. 333-365
333. Aut prodesse volunt aut delectare poetae
334. aut simul et iucunda et idonea dicere vitae.
335. Quidquid praecipies, esto brevis, ut cito dicta
336. percipiant animi dociles teneantque fideles:
337. omne supervacuum pleno de pectore manat.
338. ficta voluptatis causa sint proxima veris:
339. ne quodcumque volet poscat sibi fabula credi
340. neu pransae Lamiae vivum puerum extrahat alvo.
341. centuriae seniorum agitant expertia frugis,
342. celsi praetereunt austera poemata Ramnes:
343. omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci
344. lectorem delectando pariterque monendo.
345. hic meret aera liber Sosiis, hic et mare transit
346. et longum noto scriptori prorogat aevum.
347. sunt delicta tamen, quibus ignovisse velimus:
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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348.
349.
350.
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365.
nam neque chorda sonum reddit quem volt manus et mens,
poscentique gravem persaepe remittit acutum,
nec semper feriet quodcumque minabitur arcus.
verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis
offendar maculis, quas aut incuria fudit
aut humana parum cavit natura. Quid ergo est?
ut scriptor si peccat idem librarius usque,
quamvis est monitus, venia caret, et citharoedus
ridetur, chorda qui semper oberrat eadem,
sic mihi, qui multum cessat, fit Choerilus ille,
quem bis terve bonum cum risu miror; et idem
indignor, quandoque bonus dormitat Homerus;
verum operi longo fas est obrepere somnum.
Ut pictura poesis: erit quae, si propius stes,
te capiat magis, et quaedam, si longius abstes;
haec amat obscurum, volet haec sub luce videri,
iudicis argutum quae non formidat acumen;
haec placuit semel, haec deciens repetita placebit.
Il fine dei poeti è di giovare, o di dilettare, o di dire a un tempo cose piacevoli e utili alla vita.
Nell'impartir precetti sii breve; che la mente del discepolo li afferri sùbito e li ritenga tenacemente:
tutto ciò ch'è superfluo trabocca dall'intelletto ricolmo. Le cose immaginate allo scopo di dilettare
siano verosimili; né il dramma esiga che si presti fede a qualsiasi panzana; né dal ventre della
strega, che l'ha divorato, estragga il bambino vivo e verde. Le centurie degli anziani deridono i
drammi, che non contengano ammaestramenti; i cavalieri boriosi disprezzano le composizioni serie.
Raccoglie tutti i suffragi chi abbia contemperato con l'utile il dilettevole, offrendo spasso al
lettore e insieme istruendolo. Un libro di siffatto genere frutterà ai Sosii 23 buona moneta; varcherà
il mare, e assicurerà per gran tempo la fama al celebrato scrittore.
Vi sono tuttavia alcune mancanze, alle quali vorremmo perdonare; perché non sempre la corda
produce il suono che vogliono la mano e l'intenzione del sonatore; ma rende spessissimo una nota
acuta a chi richiede la grave; né sempre la freccia colpisce il bersaglio. Però in un canto, dove
risplendano parecchie bellezze, io non avrò fastidio di poche mende causate da una svista, o non
avvertite dalla debole natura umana. E che perciò? Come non merita venia un copista che, benché
ammonito, ricade ancora nel medesimo errore, ed è esposto ai fischi un citaredo, che intoppa
sempre sulla medesima corda; così per me chi è troppo trascurato rassomiglia a quel famoso
Cherilo, i cui pregi son mosche bianche, e che mi procura stupore e riso; mentre mi fa dispiacere se
talvolta sonnecchia il valente Omero. Se non che in un'opera lunga è meritevole di scusa il
lasciarsi cogliere dal sonno.
La poesia è come la pittura. Vi sono quadri, che ti colpiscono di più, se li osservi da vicino, e altri,
se resti un po' lontano; l'uno ama la penombra, l'altro, che non teme lo sguardo acuto di un esperto,
vuol esser posto in piena luce; questo è piaciuto una sola volta, e questo piacerà, anche se riveduto
dieci volte.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Invita Minerva
Lett.: “contro la volontà di Minerva”
(= mancare di estro, di ispirazione, di predisposizione naturale).
(Orazio, Ars poetica, v. 385)
Nescit vox missa reverti.
Le parole, una volta uscite, non possono tornare indietro.
(Orazio, Ars poetica, v. 390)
Orazio, Ars Poetica, vv. 385-390
385. Tu nihil invita dices faciesve Minerva:
386. id tibi iudicium est, ea mens. siquid tamen olim
387. scripseris, in Maeci descendat iudicis auris
388. et patris et nostras nonumque prematur in annum
389. membranis intus positis: delere licebit,
390. quod non edideris, nescit vox missa reverti.
Ma tu non dirai, né farai cosa alcuna contro la volontà di Minerva (= contro la tua indole
naturale): tanto è il tuo criterio, tanta la tua saggezza! e, se pure talvolta avrai scritto qualcosa,
passi prima per la trafila di Mezio e di tuo padre e mia, e sia trattenuta per nove anni riposta nel
cassetto: quello che non avrai messo fuori, potrai sempre ricorreggerlo; ma le parole, una volta
uscite, non possono tornare indietro.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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LIVIO (59 a.C. – 17 d.C.)
Vae victis.
Guai ai vinti.
(Livio, Ab urbe condita, V, 48)
Livio, Ab urbe condita, V, 48-49
(48) Sed ante omnia obsidionis bellique mala fames utrimque exercitum urgebat, Gallos pestilentia
etiam, cum loco iacente inter tumulos castra habentes, tum ab incendiis torrido et vaporis pleno
cineremque non pulverem modo ferente cum quid venti motum esset. Quorum intolerantissima gens
umorique ac frigori adsueta cum aestu et angore vexati volgatis velut in pecua morbis morerentur,
iam pigritia singulos sepeliendi promisce acervatos cumulos hominum urebant, bustorumque inde
Gallicorum nomine insignem locum fecere. Indutiae deinde cum Romanis factae et conloquia
permissu imperatorum habita; in quibus cum identidem Galli famem obicerent eaque necessitate ad
deditionem vocarent, dicitur avertendae eius opinionis causa multis locis panis de Capitolio
iactatus esse in hostium stationes. Sed iam neque dissimulari neque ferri ultra fames poterat. Itaque
dum dictator dilectum per se Ardeae habet, magistrum equitum L. Valerium a Veiis adducere
exercitum iubet, parat instruitque quibus haud impar adoriatur hostes, interim Capitolinus
exercitus, stationibus vigiliis fessus, superatis tamen humanis omnibus malis cum famem unam
natura vinci non sineret, diem de die prospectans ecquod auxilium ab dictatore appareret,
postremo spe quoque iam non solum cibo deficiente et cum stationes procederent prope obruentibus
infirmum corpus armis, vel dedi vel redimi se quacumque pactione possint iussit, iactantibus non
obscure Gallis haud magna mercede se adduci posse ut obsidionem relinquant. Tum senatus
habitus tribunisque militum negotium datum ut paciscerentur. Inde inter Q. Sulpicium tribunum
militum et Brennum regulum Gallorum conloquio transacta res est, et mille pondo auri pretium
populi gentibus mox imperaturi factum. Rei foedissimae per se adiecta indignitas est: pondera ab
Gallis allata iniqua et tribuno recusante additus ab insolente Gallo ponderi gladius, auditaque
intoleranda Romanis vox: “Vae victis!”.
(49) Sed dique et homines prohibuere redemptos vivere Romanos. Nam forte quadam priusquam
infanda merces perficeretur, per altercationem nondum omni auro adpenso, dictator intervenit,
auferrique aurum de medio et Gallos submoveri iubet. Cum illi renitentes pactos dicerent sese,
negat eam pactionem ratam esse quae postquam ipse dictator creatus esset iniussu suo ab inferioris
iuris magistratu facta esset, denuntiatque Gallis ut se ad proelium expediant.
(48) Ma più che da tutti i mali dell'assedio e della guerra, entrambi gli eserciti erano tormentati dalla
fame e i Galli anche da un'epidemia dovuta al fatto che il loro accampamento si trovava in un punto
depresso in mezzo alle alture, bruciato dagli incendi e pieno di esalazioni, dove bastava un alito di
vento per sollevare polvere e cenere. I Galli, non riuscendo a sopportare quelle esalazioni proprio
perché erano un popolo abituato al freddo e all'umidità, morivano soffocati dal grande calore mentre
il contagio si diffondeva come se si fosse trattato di bestiame, per pigrizia di seppellire i cadaveri ad
uno ad uno li bruciavano a mucchi accatastati alla rinfusa, rendendo così in seguito famoso quel
luogo col nome di Tombe dei Galli. Venne poi stipulata una tregua con i Romani e, con
l'autorizzazione dei comandanti, si iniziarono colloqui. Ma dato che durante queste conversazioni i
Galli non perdevano occasione per rinfacciare agli avversari la fame che pativano e li invitavano ad
arrendersi piegandosi a questa necessità, pare che per far loro cambiare idea a tale riguardo venne
gettato già da molti punti del Campidoglio del pane in direzione dei posti di guardia nemici.
Soltanto che ormai la fame non poteva più né essere dissimulata né tollerata a lungo. E così, mentre
il dittatore era impegnato a realizzare di persona una leva militare ad Ardea, e dopo aver ordinato al
maestro di cavalleria Lucio Valerio di marciare da Veio a capo di un esercito disponeva e preparava
le truppe per affrontare i nemici in condizioni di parità, nel frattempo gli uomini attestati sul
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Campidoglio, stremati dai turni di guardia e dai picchetti armati, non riuscivano a superare
quell'unico ostacolo, la fame. La natura non permetteva di averne ragione non ostante avessero già
affrontato con successo tutti i mali che possono capitare a degli esseri umani, spiavano di giorno in
giorno se apparisse un qualche aiuto da parte del dittatore; alla fine, quando ormai non solo il cibo
ma anche la speranza era venuta a mancare e i loro corpi indeboliti erano quasi schiacciati dal peso
delle armi nell'incalzare dei turni di guardia, il dittatore ordinò loro di chiedere la resa e il riscatto a
qualunque condizione, anche perché i Galli avevano fatto sapere in maniera più che chiara di essere
disposti a togliere l'assedio a un prezzo per nulla esorbitante. Allora si tenne una seduta del senato
nella quale venne dato ai tribuni militari l'incarico di definire i termini dell'accordo. La questione
venne regolata in un colloquio tra il tribuno militare Quinto Sulpicio e il capo dei Galli Brenno: il
prezzo pattuito per un popolo presto destinato a regnare sul mondo fu di mille libbre d'oro. A questa
trattativa già di per sé infamante venne aggiunto anche un oltraggio: i Galli portarono dei pesi tarati
in maniera disonesta e siccome il tribuno protestò, l'insolente comandante dei Galli aggiunse al peso
la propria spada, pronunciando una frase insopportabile per le orecchie dei Romani: “Guai ai
vinti!”.
(49) Ma né gli dèi né gli uomini tollerarono che i Romani sopravvivessero a prezzo di un riscatto.
Infatti, per una sorte provvidenziale, prima ancora che il vergognoso mercato fosse concluso,
mentre si era nel pieno delle trattative e l'oro non era stato pesato del tutto, sopraggiunse il dittatore
che ordinò di far sparire l'oro e ingiunse ai Galli di andarsene. Siccome questi ultimi si rifiutavano
sostenendo di aver stipulato un accordo, Camillo disse che non poteva avere validità un patto
siglato, senza sua autorizzazione, dopo che era stato nominato dittatore, da un magistrato di rango
inferiore, e intimò ai Galli di prepararsi alla battaglia.
Hic manebimus optime
Qui staremo benissimo.
(Livio, Ab urbe condita, V, 55)
Livio, Ab Urbe condita libri, V, 55
(55) Movisse eos Camillus cum alia oratione, tum ea quae ad religiones pertinebat maxime dicitur;
sed rem dubiam decrevit vox opportune emissa, quod cum senatus post paulo de his rebus in curia
Hostilia haberetur cohortesque ex praesidiis revertentes forte agmine forum transirent, centurio in
comitio exclamavit: “Signifer, statue signum; hic manebimus optime”. Qua voce audita, et senatus
accipere se omen ex curia egressus conclamavit et plebs circumfusa adprobavit. Antiquata deinde
lege, promisce urbs aedificari coepta. Tegula publice praebita est; saxi materiaeque caedendae
unde quisque vellet ius factum, praedibus acceptis eo anno aedificia perfecturos. Festinatio curam
exemit uicos dirigendi, dum omisso sui alienique discrimine in vacuo aedificant. Ea est causa ut
veteres cloacae, primo per publicum ductae, nunc privata passim subeant tecta, formaque urbis sit
occupatae magis quam divisae similis.
(55) Pare che il discorso di Camillo, sia nell'insieme, sia soprattutto nella parte attinente alla sfera
religiosa, suscitasse grande commozione. A dissipare ogni dubbio residuo furono però delle parole
pronunciate in maniera tempestiva: mentre, poco dopo, il senato era riunito nella curia Ostilia per
deliberare circa questo problema, e alcune coorti, di ritorno dai posti di guardia, attraversavano per
puro caso a passo di marcia il foro, un centurione gridò nella piazza del comizio: “O alfiere, pianta
l'insegna: qui staremo benissimo”. Udita questa frase, i senatori uscirono dalla curia e gridarono
all'unisono di voler accettare l'augurio e la plebe, accorsa tutta intorno, approvò. Respinta quindi la
proposta di legge, si iniziò a riedificare la città senza un preciso progetto. Le tegole per i tetti
vennero fornite a spese dello stato. Ognuno venne autorizzato a prender pietre e tagliar legname
dovunque avesse voluto, a patto però di completare gli edifici entro la fine dell'anno. La fretta liberò
dalla preoccupazione di tracciare vie diritte, e tutti, non essendoci più alcuna distinzione tra le
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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proprie e le altrui proprietà, costruivano là dove trovavano spazi liberi. Ecco la ragione per cui le
vecchie cloache, un tempo condotte sotto le pubbliche vie, oggi passano in più punti sotto le case
private, e la pianta di Roma somiglia a quella di una città nella quale il terreno sia stato occupato a
casaccio più che diviso secondo un piano determinato.
Ostendite modo bellum, habebitis pacem.
Minacciate soltanto la guerra, avrete la pace.
(Livio, Ab urbe condita, VI, 18, 7)
Livio, Ab urbe condita, VI, 18
[18] Recrudescente Manliana seditione sub exitum anni comitia habita creatique tribuni militum
consulari potestate Ser. Cornelius Maluginensis iterum P. Valerius Potitus iterum M. Furius
Camillus quintum Ser. Sulpicius Rufus iterum C. Papirius Crassus T. Quinctius Cincinnatus iterum.
Cuius principio anni et patribus et plebi peropportune externa pax data: plebi, quod non avocata
dilectu spem cepit, dum tam potentem haberet ducem, fenoris expugnandi: patribus, ne quo externo
terrore avocarentur animi ab sanandis domesticis malis. Igitur cum pars utraque acrior aliquanto
coorta esset, iam propinquum certamen aderat. et Manlius advocata domum plebe cum principibus
novandarum rerum interdiu noctuque consilia agitat, plenior aliquanto animorum irarumque quam
antea fuerat (...), incitabat plebis animos. “Quousque tandem ignorabitis vires vestras, quas natura
ne beluas quidem ignorare voluit? Numerate saltem quot ipsi sitis, quot adversarios habeatis. Quot
enim clientes circa singulos fuistis patronos, tot nunc adversus unum hostem eritis. Si singuli
singulos adgressuri essetis, tamen acrius crederem vos pro libertate quam illos pro dominatione
certaturos. Ostendite modo bellum; pacem habebitis. Videant vos paratos ad vim; ius ipsi
remittent. Audendum est aliquid universis aut omnia singulis patienda. Quousque me
circumspectabitis? Ego quidem nulli vestrum deero; ne fortuna mea desit videte. ipse vindex vester,
ubi visum inimicis est, nullus repente fui, et vidistis in vincula duci universi eum qui a singulis vobis
vincula depuleram. Quid sperem, si plus in me audeant inimici? An exitum Cassi Maelique
exspectem? bene facitis quod abominamini. Di prohibebunt haec; sed nunquam propter me de caelo
descendent; vobis dent mentem oportet ut prohibeatis, sicut mihi dederunt armato togatoque ut vos
a barbaris hostibus, a superbis defenderem civibus. Tam parvus animus tanti populi est ut semper
vobis auxilium adversus inimicos satis sit nec ullum, nisi quatenus imperari vobis sinatis, certamen
adversus patres noritis? nec hoc natura insitum vobis est, sed usu possidemini. Cur enim adversus
externos tantum animorum geritis ut imperare illis aequum censeatis? Quia consuestis cum eis pro
imperio certare, adversus hos temptare magis quam tueri libertatem. Tamen, qualescumque duces
habuistis, qualescumque ipsi fuistis, omnia adhuc quantacumque petistis obtinuistis, seu vi seu
fortuna vestra. Tempus est etiam maiora conari. Experimini modo et vestram felicitatem et me, ut
spero, feliciter expertum; minore negotio qui imperet patribus imponetis quam qui resisterent
imperantibus imposuistis. Solo aequandae sunt dictaturae consulatusque, ut caput attollere
Romana plebes possit. Proinde adeste; prohibete ius de pecuniis dici. Ego me patronum profiteor
plebis, quod mihi cura mea et fides nomen induit: vos si quo insigni magis imperii honorisve
nomine vestrum appellabitis ducem, eo utemini potentiore ad obtinenda ea quae voltis”.
(18) Mentre i disordini causati da Manlio si stavano aggravando, verso la fine dell'anno ci furono
delle elezioni nelle quali risultarono eletti tribuni militari con potere consolare Servio Cornelio
Maluginense, Publio Valerio Potito, Servio Sulpicio Rufo, Gaio Papirio Crasso, Tito Quinzio
Cincinnato (tutti per la seconda volta) e Marco Furio Camillo (per la quinta). La pace esterna della
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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quale si godette all'inizio di quell'anno fu estremamente vantaggiosa sia per la plebe che per la
nobiltà. E se per i plebei lo fu perché, non dovendo prestare servizio militare, finché avevano dalla
loro un capo prestigioso come Marco Manlio, nutrivano la speranza di eliminare i debiti, per i
patrizi lo fu in quanto non desideravano che preoccupazioni provenienti dall'esterno distogliessero
gli animi dal pensiero di risanare i mali interni. E così, visto che entrambe le parti si erano buttate
nella contesa con maggiore accanimento, l'ora dello scontro era ormai vicina. Manlio invitava i
plebei a casa sua e discuteva coi loro capi giorno e notte progetti rivoluzionari, era più arrogante e
irato di quanto non fosse stato prima (...), istigava gli animi già di per sé eccitati della plebe.
“Fino a quando”, chiedeva, “continuerete a ignorare la vostra forza, cosa che la natura non consente
nemmeno alle fiere di ignorare? Fate almeno il conto del vostro numero e del numero dei vostri
avversari. Infatti quanti eravate in qualità di clienti intorno a un solo patrono, altrettanti adesso
sarete contro un solo nemico. Se doveste affrontarli uno contro uno, anche così credo che
combattereste con maggiore accanimento voi per la libertà di quanto non farebbero loro per il
potere. Minacciate soltanto la guerra e avrete la pace. Fatevi vedere che siete pronti a ricorrere
alla forza, essi rinunceranno ai loro diritti. Bisogna osare qualcosa tutti insieme. Oppure dovrete a
uno a uno sopportare tutto. Fino a quando starete a guardare me? Lo sapete benissimo, io non
abbandonerò mai nessuno di voi. Ma badate che la buona sorte non abbandoni me. Io, il vostro
difensore, quando è parso opportuno ai miei nemici, sono stato annientato all'improvviso. E voi tutti
avete visto trascinare in prigione l'uomo che aveva allontanato le catene da ciascuno di voi. Che
cosa potrei sperare, se i nemici osassero di più nei miei confronti? Una fine come quella di Cassio e
di Melio? Fate bene a pronunziare scongiuri. “Gli dèi non lo permetteranno!”; ma per me non
scenderanno mai dall'alto del cielo. Devono infondere a voi il coraggio di impedirlo, così come a
me hanno dato, in pace e in guerra, il coraggio necessario per difendervi dalla barbarie dei nemici e
dall'arroganza dei concittadini. Questo grande popolo ha così poco carattere che per contrastare i
vostri nemici continuate ancora ad accontentarvi del diritto di ausilio e non conoscete nessun altro
tipo di lotta contro i patrizi, se non in quali limiti permettere che spadroneggino su di voi? Anche
questa non è in voi una caratteristica congenita, ma vi lasciate dominare per abitudine. Perché, vi
domando, con i popoli stranieri combattete con tanta animosità da ritenere giusto di ridurli in vostro
potere? Perché con loro siete abituati da sempre a combattere per la supremazia, mentre contro i
senatori siete avvezzi a combattere più per cercare di ottenere la libertà che per difenderla. Tuttavia,
qualunque sia stato il valore specifico vostro e degli uomini che vi hanno guidato, fino a oggi avete
ottenuto, vuoi con la violenza, vuoi con l'aiuto della vostra buona stella, tutto ciò che avete voluto.
Ma ora è tempo di aspirare anche a qualcosa di più grande. Mettete solo alla prova la vostra buona
sorte e me (che, lo spero, avete già messo alla prova con esiti felici). Vi costerà meno fatica imporre
ai patrizi qualcuno che li comandi di quanta non ve ne sia costata l'imporre qualcuno che si
opponesse al loro potere. Bisogna fare tabula rasa del consolato e della dittatura, perché la plebe di
Roma possa alzare la testa. Perciò siate pronti: impedite che si pronuncino le sentenze nelle cause
per debiti. Io mi dichiaro protettore della plebe, titolo del quale sono stato investito per il mio zelo e
il mio leale attaccamento alla causa: se voi deciderete di attribuirne al vostro capo uno più
prestigioso per autorità e dignità, egli avrà maggiore potere per ottenere ciò che volete”.
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Absit invidia verbo.
Possano le mie parole non essere fraintese.
(Sia detto senza offendere nessuno)
(Livio, Ab urbe condita, IX, 19, 15)
Tito Livio, Ab Urbe Condita, IX, 19, 1-15
(19, 1) Restat ut copiae copiis comparentur vel numero vel militum genere vel multitudine
auxiliorum. Censebantur eius aetatis lustris ducena quinquagena milia capitum. Itaque in omni
defectione sociorum Latini nominis urbano prope dilectu decem scribebantur legiones; quaterni
quinique exercitus saepe per eos annos in Etruria, in Umbria Gallis hostibus adiunctis, in Samnio,
in Lucanis gerebat bellum. Latium deinde omne cum Sabinis et Volscis et Aequis et omni Campania
et parte Umbriae Etruriaeque et Picentibus et Marsis Paelignisque ac Vestinis atque Apulis,
adiuncta omni ora Graecorum inferi maris a Thuriis Neapolim et Cumas et inde Antio atque Ostiis
tenus Samnites aut socios validos Romanis aut fractos bello invenisset hostes. Ipse traiecisset mare
cum veteranis Macedonibus non plus triginta milibus hominum et quattuor milibus equitum,
maxime Thessalorum; hoc enim roboris erat. Persas Indos aliasque si adiunxisset gentes,
impedimentum maius quam auxilium traheret. Adde quod Romanis ad manum domi supplementum
esset, Alexandro, quod postea Hannibali accidit, alieno in agro bellanti exercitus consenuisset.
Arma clupeus sarisaeque illis; Romano scutum, maius corpori tegumentum, et pilum, haud paulo
quam hasta vehementius ictu missuque telum.
Statarius uterque miles, ordines servans; sed illa phalanx immobilis et unius generis, Romana acies
distinctior, ex pluribus partibus constans, facilis partienti, quacumque opus esset, facilis iungenti.
Iam in opere quis par Romano miles? quis ad tolerandum laborem melior? uno proelio victus
Alexander bello victus esset: Romanum, quem Caudium, quem Cannae non fregerunt, quae
fregisset acies? ne ille saepe, etiamsi prima prospere evenissent, Persas et Indos et imbellem Asiam
quaesisset et cum feminis sibi bellum fuisse dixisset, quod Epiri regem Alexandrum mortifero
volnere ictum dixisse ferunt, sortem bellorum in Asia gestorum ab hoc ipso iuvene cum sua
conferentem.
Equidem cum per annos quattuor et viginti primo Punico bello classibus certatum cum Poenis
recordor, vix aetatem Alexandri suffecturam fuisse reor ad unum bellum. Et forsitan, cum et
foederibus vetustis iuncta res Punica Romanae esset et timor par adversus communem hostem duas
potentissimas armis virisque urbes armaret, [et] simul Punico Romanoque obrutus bello esset. Non
quidem Alexandro duce nec integris Macedonum rebus sed experti tamen sunt Romani Macedonem
hostem adversus Antiochum Philippum Persen non modo cum clade ulla sed ne cum periculo
quidem suo.
(19, 15) Absit invidia verbo et civilia bella sileant: nunquam ab equite hoste, nunquam a pedite,
nunquam aperta acie, nunquam aequis, utique nunquam nostris locis laboravimus: equitem,
sagittas, saltus impeditos, avia commeatibus loca gravis armis miles timere potest. Mille acies
graviores quam Macedonum atque Alexandri avertit avertetque, modo sit perpetuus huius qua
vivimus pacis amor et civilis cura concordiae?
(19, 1) Restano da confrontare le forze messe in campo dalle due parti: il numero e la qualità degli
uomini, l'entità dei contingenti ausiliari. Nei censimenti di quell'epoca i cittadini romani
ammontavano a 250.000 unità: di conseguenza, anche nell'eventualità che tutti gli alleati latini si
fossero dissociati in massa, la sola leva dei cittadini romani avrebbe permesso l'arruolamento di
dieci legioni. In quegli anni spesso accadeva che partissero per il fronte quattro o cinque eserciti per
volta, in Etruria, in Umbria (dove ai nemici si erano aggiunti i Galli), nel Sannio e in Lucania. In
séguito, in tutto il Lazio, con i Sabini, i Volsci, gli Equi, nell'intera Campania, in parte dell'Umbria e
dell'Etruria, tra i Piceni, i Marsi, i Peligni, i Vestini e gli Apuli, e lungo tutta la costa tirrenica
abitata da Greci, da Turi fino a Napoli e Cuma e di lì fino ad Anzio e Ostia, Alessandro avrebbe
trovato validi alleati oppure nemici già sconfitti in guerra. Quanto a lui, avrebbe attraversato il mare
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coi veterani macedoni (non più di 30.000 uomini) e con 4.000 cavalieri, provenienti per buona parte
dalla Tessaglia. Era infatti questo il meglio delle sue truppe. Se invece avesse portato con sé anche i
Persiani, gli abitanti dell'India e altre popolazioni, si sarebbe trascinato dietro un fastidio più che un
valido supporto. Si aggiunga poi a tutto ciò il fatto che i Romani avevano a portata di mano dei
riservisti da richiamare in servizio, mentre Alessandro, combattendo in territorio nemico, avrebbe
subito la stessa sorte toccata in séguito ad Annibale, cioè il progressivo indebolimento dell'esercito
col passare del tempo. Passiamo, ora, alle armi: i Macedoni avevano il clipeo e la sarissa (ovvero
l'asta); i Romani lo scudo rettangolare, che proteggeva meglio la figura, e il giavellotto, ovvero
un'arma da lancio capace di colpire con più precisione dell'asta.
Erano entrambi, Macedone e Romano, soldati di posizione, abituati a mantenere il proprio posto
nello schieramento, ma la falange macedone era poco mobile e compatta, mentre la legione romana
risultava più articolata, composta di varie parti e non aveva difficoltà a doversi eventualmente
dividere o ricomporre a seconda del bisogno. E poi, chi era il soldato che potesse stare alla pari col
Romano nel campo dei lavori di fortificazione? Chi era più adatto a sopportare le fatiche? Se
Alessandro fosse stato sconfitto in un'unica battaglia, avrebbe perso la guerra: quale armata avrebbe
potuto piegare i Romani, che non erano stati annientati dagli eventi di Caudio o di Canne? Se avesse
riportato delle vittorie anche solo all'inizio, avrebbe rimpianto le spedizioni contro i Persiani, gli
Indiani e l'imbelle Asia, e avrebbe affermato di aver combattuto fino a quel momento contro delle
femminucce (come pare abbia detto Alessandro re dell'Epiro, ferito a morte, paragonando i successi
nelle guerre combattute dal giovane re con le sue).
A dir la verità, quando penso che nel corso della prima guerra punica i Romani combatterono
ventiquattro anni di battaglie navali contro i Cartaginesi, mi sembra che la vita di Alessandro
sarebbe bastata a stento per portare a termine quella sola guerra. E siccome Cartagine era unita a
Roma da un antico trattato di alleanza, è probabile che il timore avrebbe portato a prendere insieme
le armi contro il comune nemico le due città più potenti per armamenti e per uomini, e Alessandro
sarebbe stato schiacciato dalle forze congiunte dei Cartaginesi e dei Romani. Anche se i Macedoni
non erano più sotto la guida di Alessandro e se la loro forza non era più integra, i Romani ebbero
ciò nonostante l'opportunità di sperimentare le armi macedoni nei conflitti contro Antioco, Filippo e
Perseo, non solo senza mai subire sconfitte, ma senza mai correre alcun pericolo.
(19, 15) Possano le mie parole non essere fraintese e tacciano le guerre civili: noi Romani non
siamo mai stati messi in difficoltà da nemici a cavallo o a piedi, in campo aperto, a parità di
posizioni, e tanto meno in zone a noi favorevoli. La nostra fanteria pesante può temere la cavalleria,
le frecce, gli avvallamenti del terreno, i punti dove i rifornimenti risultino difficili, ma è
perfettamente in grado di respingere - e sempre lo sarà - migliaia di eserciti più imponenti di quello
dei Macedoni e di Alessandro, a patto però che duri per sempre l'amore per questa pace nella quale
adesso viviamo e la preoccupazione per l'armonia nei rapporti tra i cittadini.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Bellum se ipsum alet.
La guerra si nutrirà da sé.
(Livio, Ab urbe condita, XXXIV, 9, 12)
Livio, Ab urbe condita, XXXIV, 8, 7; 9, 1-3; 11-13
Ab Rhoda secundo vento Emporias perventum: ibi copiae omnes praeter socios navales in terram
expositae. Iam tunc Emporiae duo oppida erant muro divisa. Unum Graeci habebant, a Phocaea,
unde et Massilienses, oriundi, alterum Hispani; sed Graecum oppidum in mare expositum totum
orbem muri minus quadringentos passus patentem habebat, Hispanis retractior a mari trium
milium passuum in circuitu murus erat. Tertium genus Romani coloni ab divo Caesare post devictos
Pompei liberos adiecti. Nunc in corpus unum confusi omnes Hispanis prius, postremo et Graecis in
civitatem Romanam adscitis. (...)
Paucos ibi moratus dies Cato, dum exploraret ubi et quantae hostium copiae essent, ut ne mora
quidem segnis esset, omne id tempus exercendis militibus consumpsit. Id erat forte tempus anni ut
frumentum in areis Hispani haberent; itaque redemptoribus vetitis frumentum parare ac Romam
dimissis “Bellum” inquit “se ipsum alet”. Profectus ab Emporiis agros hostium urit vastatque,
omnia fuga et terrore complet.
Da Roda, col vento favorevole, si giunse a Emporie. Qui vennero sbarcate tutte le truppe ad
eccezione dei marinai alleati.
Già allora Emporie era formata da due città divise da un muro. L'una era occupata da Greci oriundi
di Focea, come i Marsigliesi, l'altra da Ispani; ma la città greca, completamente esposta sul mare,
aveva un giro di mura di meno di quattrocento passi, mentre la cerchia di mura degli Ispani, più
lontano dal mare, era lunga tremila passi. Un terzo gruppo di abitanti, dei coloni romani, vi furono
aggiunti dal divino Cesare dopo la sconfitta dei figli di Pompeo. Ora sono stati fusi tutti quanti in
una sola popolazione, dato che è stata concessa la cittadinanza romana prima agli Ispani, poi ai
Greci.
Catone, trattenutosi colà per pochi giorni, il tempo necessario per scoprire dove fossero e quante
fossero le forze nemiche, perché neppure questo tempo di attesa trascorresse nell'inerzia lo impegnò
completamente in esercitazioni della truppa. Era proprio la stagione in cui gli Ispani avevano il
grano nelle aie; perciò, dopo aver proibito ai fornitori di farne provvista ed averli rimandati a Roma,
disse: “La guerra si nutrirà da sé”. Partito da Emporie incendia e devasta il territorio nemico
spargendo ovunque terrore e fuga.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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OVIDIO (43 a.C. – 18 d.C.)
Casta est quam nemo rogavit.
Casta è colei che nessuno ha cercato.
(Ovidio, Amores, I, 8, v. 43)
De rugis crimina multa cadent.
Dalle rughe cadranno molti peccati.
(Ovidio, Amores, I, 8, v. 46)
Ovidio, Amores, I, 8, vv. 1-6; vv. 21-46
1. Est quaedam - quicumque volet cognoscere lenam,
2. audiat! - est quaedam nomine Dipsas anus.
3. ex re nomen habet nigri non illa parentem
4. Memnonis in roseis sobria vidit equis.
5. illa magas artes Aeaeaque carmina novit
6. inque caput liquidas arte recurvat aquas.
(...)
21. fors me sermoni testem dedit; illa monebat
22. talia (me duplices occuluere fores):
23. “Scis here te, mea lux, iuveni placuisse beato?
24. haesit et in vultu constitit usque tuo.
25. et cur non placeas? nulli tua forma secunda est;
26. me miseram, dignus corpore cultus abest!
27. tam felix esses quam formosissima, vellem.
28. Non ego, te facta divite, pauper ero.
29. stella tibi oppositi nocuit contraria Martis.
30. Mars abiit; signo nunc Venus apta suo.
31. prosit ut adveniens, en adspice! dives amator
32. te cupiit; curae, quid tibi desit, habet.
33. est etiam facies, qua se tibi conparet, illi;
34. si te non emptam vellet, emendus erat.”
35. Erubuit. 'decet alba quidem pudor ora, sed iste,
36. si simules, prodest; verus obesse solet.
37. cum bene deiectis gremium spectabis ocellis,
38. quantum quisque ferat, respiciendus erit.
39. forsitan inmundae Tatio regnante Sabinae
40. noluerint habiles pluribus esse viris;
41. nunc Mars externis animos exercet in armis,
42. at Venus Aeneae regnat in urbe sui.
43. ludunt formosae; casta est quam nemo rogavit
44. aut, si rusticitas non vetat, ipsa rogat.
45. has quoque, quae frontis rugas in vertice portant,
46. excute; de rugis crimina multa cadent.
C’è una – tutti quelli che vorranno conoscere una mezzana stiano a sentire – c’è una vecchia di
nome Dipsa. Il nome le viene da una caratteristica: non è mai riuscita senza essere ubriaca a vedere
la madre (= Aurora) del nero Mèmnone (= re dell’Etiopia) sui suoi rosati cavalli. Lei conosce le arti
magiche, le parole di Circe, e con artifici fa rifluire alla fonte le limpide acque. (...) Il caso mi ha
fatto testimone del discorso; lei dava tali consigli (due porte mi tenevano nascosto): “Sai che ieri, o
luce mia, hai conquistato un giovane ricco? È rimasto fisso e continuamente incantato sul tuo volto.
E perché non dovresti piacergli? La tua bellezza non è seconda a nessuna ma ti manca - me
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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disgraziata - un abbigliamento degno del corpo. Vorrei che tu fossi tanto fortunata quanto sei bellissima: diventata tu ricca, io non sarò povera. Tí ha danneggiato la stella, che sta dalla parte opposta,
di Marte contrario; Marte se ne è andato; ora Venere sta nel suo segno favorevolmente. Ecco,
guarda come, venendo avanti, ti è propizia: un amante ricco ti ha desiderata: si preoccupa di quello
che ti manca. Ha anche l'aspetto che si adatta a te: se egli non volesse comprare te, sarebbe da
comprare lui. (È arrossita!) (= espressione che la donna mormora tra sé). Sta bene il rossore su un
volto bianco, ma serve se tu lo produci con simulazione; quello vero di solito danneggia. Quando ti
guarderai il grembo, abbassàti bene gli occhi, dovrai osservare di sottecchi quanto uno ti offre.
Forse durante il reghno di Tazio, le rozze non avranno essere disponibili per molti uomini; ora
Marte tiene desti gli animi in guerre straniere, mentre Venere impèra nella città del suo Enea. Le
belle donne si divertono: casta è colei che nessuno ha cercato: oppure se non la trattiene la ritrosia,
è lei che cerca. Prova a scuotere anche costoro che portano le rughe sulla cima della fronte: dalle
rughe cadranno molti peccati.
Militat omnis amans.
Ogni amante è un soldato.
(Ovidio, Amores, I, 9, v. 1)
Ovidio, Amores, I, 9, vv. 1-20; 21-46
Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido;
Attice, crede mihi, militat omnis amans.
quae bello est habilis, Veneri quoque convenit aetas.
turpe senex miles, turpe senilis amor.
quos petiere duces animos in milite forti,
hos petit in socio bella puella viro.
pervigilant ambo; terra requiescit uterque:
ille fores dominae servat, at ille ducis.
militis officium longa est via; mitte puellam,
strenuus exempto fine sequetur amans.
ibit in adversos montes duplicataque nimbo
flumina, congestas exteret ille nives,
nec freta pressurus tumidos causabitur Euros
aptaque verrendis sidera quaeret aquis.
quis nisi vel miles vel amans et frigora noctis
et denso mixtas perferet imbre nives?
mittitur infestos alter speculator in hostes;
in rivale oculos alter, ut hoste, tenet.
ille graves urbes, hic durae limen amicae
obsidet; hic portas frangit, at ille fores.
(...)
Ipse ego segnis eram discinctaque in otia natus;
mollierant animos lectus et umbra meos.
inpulit ignavum formosae cura puellae
iussit et in castris aera merere suis.
inde vides agilem nocturnaque bella gerentem.
qui nolet fieri desidiosus, amet!
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Ogni amante è un soldato; anche Amore ha il suo campo militare; crèdimi, Attico, ogni amante è
un soldato. L'età che è adatta alla guerra, si addice anche all'amore: è brutto un soldato vecchio, è
brutto un amore senile. Gli stessi anni che i condottieri richiedono al soldato robusto li richiede la
donna bella per l'uomo suo compagno: entrambi fanno la veglia di notte, tutti e due dormono per
terra: l'uno custodisce la porta della donna, l'altro quella del suo capo. Dovere del soldato sono i
lunghi spostamenti: manda lontano la donna, l'amante risoluto la seguirà, superando ogni confine:
andrà incontro all'ostacolo delle montagne, e ai fiumi ingrossati dai temporali, calpesterà mucchi di
neve, e dopo aver deciso di solcare le onde, non addurrà come pretesto i venti impetuosi.
né aspetterà le costellazioni favorevoli a far solcare il mare. Chi mai, se non un soldato o un amante,
sopporterà il freddo della notte e la neve mista a fitta pioggia' L'uno viene mandato come
esploratore verso i nemici crudeli, l'altro tiene gli occhi fissi sul rivale, come su un nemico. Ouello
assedia le città di difficile conquista, questi la soglia dell'amante che non cede; questi abbatte le
porte della città, quello la porta della casa. (...)
Io stesso ero pigro per natura e nato per la tranquillità senza impegni; il riposo a letto e l'ombra
avevano reso fiacchi i miei sentimenti; ma le preoccupazioni per una bella donna stimolarono la mia
indolenza e mi costrinsero a militare nell'accampamento di Amore. In conseguenza di questo mi
vedi attivo e impegnato in lotte notturne: chi non vorrà diventare accidioso, si metta ad amare.
Dicere quae puduit, scribere iussit
Amore ha ordinato di scrivere ciò che ebbi pudore di dire a voce.
(Ovidio, Heroides, IV – Fedra ad Ippolito - v. 10)
Venit amor gravius, quo serius.
L’amore è tanto più profondo quanto più tardi giunge.
(Ovidio, Heroides, IV – Fedra ad Ippolito - v. 19)
Ovidio, Heroides, IV (Fedra ad Ippolito), vv. 1-26
Quam nisi tu dederis, caritura est ipsa, salutem
mittit Amazonio Cressa puella viro.
Perlege, quodcumque est: quid epistula lecta nocebit?
Te quoque in hac aliquid quod iuvet esse potest;
his arcana notis terra pelagoque feruntur.
Inspicit acceptas hostis ab hoste notas.
Ter tecum conata loqui ter inutilis haesit
lingua, ter in primo restitit ore sonus.
Qua licet et sequitur, pudor est miscendus amori;
dicere quae puduit, scribere iussit amor.
Quidquid Amor iussit, non est contemnere tutum;
regnat et in dominos ius habet ille deos.
Ille mihi primo dubitanti scribere dixit:
“Scribe! dabit victas ferreus ille manus”.
Adsit et, ut nostras avido fovet igne medullas,
figat sic animos in mea vota tuos!
Non ego nequitia socialia foedera rumpam;
fama - velim quaeras - crimine nostra vacat.
venit amor gravius, quo serius - urimur intus;
urimur, et caecum pectora vulnus habent.
Scilicet ut teneros laedunt iuga prima iuvencos,
frenaque vix patitur de grege captus equus,
sic male vixque subit primos rude pectus amores,
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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sarcinaque haec animo non sedet apta meo.
Ars fit, ubi a teneris crimen condiscitur annis;
cui venit exacto tempore, peius amat.
La giovane donna di Creta augura all’eroe figlio dell’Amazzone quella salute di cui ella stessa sarà
priva, se tu non gliela darai. Leggi questa lettera fino in fondo, qualunque cosa valga: che male
potrà farti la lettura? In essa può esservi qualcosa che piaccia anche a te. Con questi segni si portano
i segreti per terra e per mare: anche il nemico esamina le parole ricevute da un nemico. Per tre volte
ho tentato di parlare con te, ma per tre volte la lingua si inceppò, incapace, e per tre volte la voce si
spense a fior di labbra.
Finché si può ed è lecito, amore e pudore si devono unire; l'amore mi ha ordinato di scrivere
quello che ebbi pudore di dire a voce. Tutto quello che l'amore ordina, è prudente non disdegnarlo: egli comanda ed esercita la sua legge anche sugli dèi sovrani. Egli dunque impose a me, che
dapprima ero incerta, di porre i miei sentimenti per. iscritto: « Scrivi: quel crudele si arrenderà! n
Ali assista l'amore e come scalda le mie viscere col fuoco che divora, così pieghi il tuo cuore ai miei
desideri. Io non romperò per cattiveria il patto che mi lega a te: la mia fama - vorrei che ti
informassi - è senza macchia. L'amore è tanto più profondo quanto più tardi giunge; io ardo
dentro, ardo e il mio petto ha una ferita nascosta. Certo, come il giogo per la prima volta irrita i
giovani giovenchi, e un puledro preso fuori dalla mandra a stento tollera il freno, così un cuore
inesperto con affanno e fastidio sopporta il primo amore e questo fardello grava importuno sul mio
cuore. La passione amorosa diviene un'arte quando si impara dai teneri anni; se essa coglie quando
l'età è matura, si ama con maggiore pericolo.
Dum novus est, pugnemus amori
Opponiamoci all’amore, finché è nuovo.
(Ovidio, Heroides, XVII – Elena a Paride - v. 191)
Ovidio, Eroidi, XVII (Elena a Paride), vv. 167-194; vv. 263-270
Sic meus hinc vir abest ut me custodiat absens.
An nescis longas regibus esse manus?
Forma quoque est oneri; nam quo constantius ore
laudamur vestro, iustius ille timet.
Quae iuvat, ut nunc est, eadem mihi gloria damno est,
et melius famae verba dedisse fuit.
nec, quod abest hic me tecum, mirare, relicta;
moribus et vitae credidit ille meae.
De facie metuit, vitae confidit, et illum
securum probitas, forma timere facit.
Tempora ne pereant ultro data praecipis, utque
simplicis utamur commoditate viri.
Et libet et timeo, nec adhuc exacta voluntas
est satis; in dubio pectora nostra labant.
Et vir abest nobis, et tu sine coniuge dormis,
inque vicem tua me, te mea forma capit;
et longae noctes, et iam sermone coimus,
et tu, me miseram! blandus, et una domus.
Et peream, si non invitant omnia culpam;
nescio quo tardor sed tamen ipsa metu!
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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quod male persuades, utinam bene cogere posses!
Vi mea rusticitas excutienda fuit.
utilis interdum est ipsis iniuria passis.
sic certe felix esse coacta forem.
Dum novus est, potius coepto pugnemus amori!
flamma recens parva sparsa residit aqua.
Certus in hospitibus non est amor; errat, ut ipsi,
cumque nihil speres firmius esse, fugit.
(...)
263. Quod petis, ut furtim praesentes ista loquamur,
264. scimus, quid captes conloquiumque voces;
265. sed nimium properas, et adhuc tua messis in herba est.
266. Et mora sit voto forsan amica tuo.
267. Hactenus; arcanum furtivae conscia mentis
268. littera iam lasso pollice sistat opus.
269. Cetera per socias Clymenen Aethramque loquamur,
270. quae mihi sunt comites consiliumque duae.
Egli ha diretto le vele verso Creta col favore dei venti: ma tu non credere per questo che ti sia lecito
tutto. Mio marito è lontano di qua, ma è tale da custodirmi, anche se assente. O non lo sai che i re
hanno braccia lunghe? Anche la fama è un peso; quanto più costantemente sono lodata dalla tua
bocca, più giustamente egli teme. Quella stessa gloria che ora mi piace mi è poi di danno; meglio
sarebbe stato raggirare la fama.
Non meravigliarti che in sua assenza mi abbia lasciato qui con te: egli si è fidato del mio carattere e
del mio comportamento. Teme per il mio aspetto ma ha fiducia nella mia condotta: l'onestà lo fa
sicuro, la bellezza lo inquieta. Tu mi esorti a non perdere un'occasione inaspettatamente offerta e a
usare della compiacenza di, un uomo ingenuo. Mi seduce la proposta e mi fa paura: la volontà non è
ancora decisa a sufficienza; il mio cuore erra nel dubbio. Mio marito è lontano e tu dormi senza la
sposa e, vicendevolmente, la tua bellezza prende me e te la mia; le notti sono lunghe e già a parole
siamo uniti; tu sei, me infelice!, seducente; comune è la casa; possa io morire se tutto non ci spinge
al peccato; tuttavia mi trattengo non so per quale paura. Oh, se tu potessi costringermi senza colpa a
quello cui mi induci con colpa! La mia ritrosia dovrebbe essere vinta con la violenza. L'offesa è a
volte utile a quelli che la subiscono: almeno sarei costretta a essere fortunata. Combattiamo
l'amore, finché è nuovo, piuttosto che quando è cominciato; una fiamma recente si spegne anche
versandovi sopra poca acqua. L'amore degli ospiti non è duraturo: va in giro, come loro e quando
pensi che non esiste nulla di più sicuro, si allontana. (...)
Circa quello che chiedi, cioè discutere questi problemi di nascosto e di presenza, so che cosa intendi
e cosa chiami colloquio; ma corri troppo e la tua messe è ancora erba: questa dilazione forse è
favorevole ai tuoi desideri.
Basta; la lettera, consapevole di un piano furtivo, poiché la mano è stanca, sospenda il suo nascosto
lavoro. Diciamoci il resto per mezzo di Clìmene ed Etra, mie compagne che sono entrambe mie
amiche e consigliere.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Lacrimis adamanta movebis.
Con le lacrime muoverai le rocce.
(Ovidio, Ars amatoria, I, v. 656)
Ovidio, Ars amatoria, I, vv. 1-4; vv. 656-659
1. Siquis in hoc artem populo non novit amandi,
2. Hoc legat et lecto carmine doctus amet.
3. Arte citae veloque rates remoque moventur,
4. Arte leves currus: arte regendus amor.
(...)
656. Et lacrimae prosunt; lacrimis adamanta movebis:
657. Fac madidas videat, si potes, illa genas.
658. Si lacrimae neque enim veniunt in tempore semper
659. Deficient, uda lumina tange manu.
Se qualcuno tra questa gente non conosce la scienza dell’amore, legga quest’opera poetica e, dopo
averla letta, ami con competenza. Con la scienza si muovono le navi veloci a vela e coi remi, con la
scienza gli agili cocchi: con la scienza bisogna guidare Amore. (...)
Anche le lacrime servono; con le lacrime muoverai le rocce: se puoi, fa’ in modo che lei veda
guance umide: se ti mancheranno le lacrine – infatti non sempre vengono al momneto giusto –
tòccati gli occhi con la mano bagnata.
Ut ameris, amabilis esto.
Per essere amato, sii amabile.
(Ovidio, Ars amatoria, II, v. 107)
Dos est uxoria lites.
Dote della donna sono i litigi.
(Ovidio, Ars amatoria, II, v. 155)
Amor odit inertes.
Amore odia gli inerti.
(Ovidio, Ars amatoria, II, v. 229)
Litore quot sunt conchae, tot sunt in amore dolores.
Quante sono le conchiglie sulla spiaggia, tanti sono i tormenti in amore.
(Ovidio, Ars amatoria, II, v. 519)
Ovidio, Ars amatoria, II, vv. 99-124
99.
Fallitur, Haemonias siquis decurrit ad artes,
100. Datque quod a teneri fronte revellit equi.
101. Non facient, ut vivat amor, Medeides herbae
102. Mixtaque cum magicis nenia Marsa sonis.
103. Phasias Aesoniden, Circe tenuisset Ulixem,
104. Si modo servari carmine posset amor.
105. Nec data profuerint pallentia philtra puellis:
106. Philtra nocent animis, vimque furoris habent.
107. Sit procul omne nefas; ut ameris, amabilis esto:
108. Quod tibi non facies solave forma dabit:
109. Sis licet antiquo Nireus adamatus Homero,
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110.
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118.
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120.
121.
122.
123.
124.
Naiadumque tener crimine raptus Hylas,
Ut dominam teneas, nec te mirere relictum,
Ingenii dotes corporis adde bonis.
Forma bonum fragile est, quantumque accedit ad annos
Fit minor, et spatio carpitur ipsa suo.
Nec violae semper nec hiantia lilia florent,
Et riget amissa spina relicta rosa.
Et tibi iam venient cani, formose, capilli,
Iam venient rugae, quae tibi corpus arent.
Iam molire animum, qui duret, et adstrue formae:
Solus ad extremos permanet ille rogos.
Nec levis ingenuas pectus coluisse per artes
Cura sit et linguas edidicisse duas.
Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes,
Et tamen aequoreas torsit amore deas.
Si inganna uno che ricorre alle arti emonie e offre la sostanza che toglie dalla fronte di un giovane
cavallo. Non faranno durare l'amore né le erbe di Medea né i canti marsici uniti a suoni magici: la
donna del Fasi avrebbe trattenuto il figlio di Esone e Circe Ulisse, se l'amore si potesse conservare
solo con gli incantesimi. Non serviranno a niente i filtri che fanno impallidire, somministrati alle
fanciulle; i filtri fanno male alla mente e dànno la pazzia. Stia lontano ogni mezzo illecito ! Per
essere amato, sii amabile; e questa dote non te la daranno né l'aspetto né la sola bellezza fisica.
Anche se tu fossi Nireo amato dall'antico Omero o il delicato Ila portato via dalla colpa delle
Naiadi, per conservarti la tua donna e non avere la sorpresa d'essere stato abbandonato, aggiungi
alle bellezze del corpo le doti dello spirito. La bellezza è un bene fragile: quanto più va avanti con
gli anni, diminuisce e viene consumata dal suo stesso durare. Le viole e i gigli aperti non sempre
sono in fiore e, sfiorita la rosa, si irrigidisce e rimane il ramo spinoso; anche a te, bell'uomo, presto
verranno bianchi i capelli, presto verranno le rughe a solcarti il corpo. Ormai educa il tuo spirito,
che resista, e uniscilo alla bellezza fisica: solo quello rimane fino al rogo dell'ultimo giorno. E sia
un serio impegno ornare la mente con le arti liberali e imparare bene le due lingue. Ulisse non era
bello, ma era facondo, e pure fece struggere d'amore le dèe del mare.
Ovidio, Ars amatoria, II, vv. 145-166
145. Dextera praecipue capit indulgentia mentes;
146. Asperitas odium saevaque bella movet.
147. Odimus accipitrem, quia vivit semper in armis,
148. Et pavidum solitos in pecus ire lupos.
149. At caret insidiis hominum, quia mitis, hirundo,
150. Quasque colat turres, Chaonis ales habet.
151. Este procul, lites et amarae proelia linguae:
152. Dulcibus est verbis mollis alendus amor.
153. Lite fugent nuptaeque viros nuptasque mariti,
154. Inque vicem credant res sibi semper agi;
155. Hoc decet uxores; dos est uxoria lites:
156. Audiat optatos semper amica sonos.
157. Non legis iussu lectum venistis in unum:
158. Fungitur in vobis munere legis amor.
159. Blanditias molles auremque iuvantia verba
160. Adfer, ut adventu laeta sit illa tuo.
161. Non ego divitibus venio praeceptor amandi:
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Nil opus est illi, qui dabit, arte mea;
Secum habet ingenium, qui, cum libet, 'accipe' dicit;
Cedimus: inventis plus placet ille meis.
Pauperibus vates ego sum, quia pauper amavi;
Cum dare non possem munera, verba dabam.
Anzitutto conquista i cuori una mitezza accorta; l'asprezza suscita odio e risse feroci. Odiamo lo
sparviero, poiché vive sempre in lotta, e i lupi, che sono soliti assalire il gregge timoroso; ma la
rondine, che è mite, non conosce le insidie degli uomini e gli uccelli dei Caoni (= popolazione
dell’Epiro) hanno le colombaie che possono abitare senza timore. State lontani, litigi e contrasti di
pungente linguaggio: il delicato amore deve essere nutrito con parole dolci. Con i litigi le mogli
scaccino i mariti e i mariti le mogli, e vicendevolmente credano che il vantaggio sia sempre il loro:
questo si addice alle mogli: dote della donna sono i litigi; l'amante ascolti sempre le parole
desiderate. Voi non vi siete uniti in un unico letto per ordine della legge; in voi è l'amore che agisce
in funzione di legge. Pòrtale delicate carezze e parole che piacciano alle orecchie, così che ella sia
lieta del tuo arrivo. Io non vengo maestro d'amore per i ricchi; chi fa regali non ha bisogno per
niente della mia scienza. Ha con sé la capacità colui che, quando gli fa piacere, può dire: “Prendi”;
mi tiro indietro: egli piace più dei miei ritrovati. Io sono poeta per i poveri, perché ho amato da
povero; non potendo offrire regali, offrivo parole.
Ovidio, Ars amatoria, II, vv. 225-238
225.
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238.
“Occurras aliquo”, tibi dixerit: omnia differ,
Curre, nec inceptum turba moretur iter.
Nocte domum repetens epulis perfuncta redibit:
Tum quoque pro servo, si vocat illa, veni.
Rure erit, et dicet “venias”: Amor odit inertes:
Si rota defuerit, tu pede carpe viam.
Nec grave te tempus sitiensque Canicula tardet,
Nec via per iactas candida facta nives.
Militiae species amor est; discedite, segnes:
Non sunt haec timidis signa tuenda viris.
Nox et hiems longaeque viae saevique dolores
Mollibus his castris et labor omnis inest.
Saepe feres imbrem caelesti nube solutum,
Frigidus et nuda saepe iacebis humo.
Mettiamo che ti abbia detto: “Viènimi incontro in quel posto”: rimanda tutto; corri, e la folla non
ritardi la tua strada già iniziata. Di notte, dopo aver banchettato, dirigendosi verso casa, lei dovrà
tornare: anche allora, se ti chiama, vieni, al posto di un servo. Sarà in campagna e ti dirà: “Vieni!”;
Amore odia gli inerti: se non avrai un cocchio, fa' la strada a piedi. Non ti facciano ritardare né il
cattivo tempo né la riarsa Canicola né una strada divenuta bianca per la neve caduta. L'amore è una
forma di servizio militare: allontanàtevi, uomini pigri; questi non sono stendardi che devono essere
difesi da uomini paurosi. La notte, l'inverno, i lunghi viaggi, i dolori crudeli, ogni tipo di fatica c'è
in questo accampamento sentimentale. Spesso sopporterai la pioggia lasciata cadere dalle nubi del
cielo e spesso, intirizzito, giacerai sulla terra nuda.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
100
Ovidio, Ars amatoria, II, vv. 511-530
511. Ad propiora vocor. Quisquis sapienter amabit
512. Vincet, et e nostra, quod petet, arte feret.
513. Credita non semper sulci cum faenore reddunt,
514. Nec semper dubias adiuvat aura rates;
515. Quod iuvat, exiguum, plus est, quod laedat amantes;
516. Proponant animo multa ferenda suo.
517. Quot lepores in Atho, quot apes pascuntur in Hybla,
518. Caerula quot bacas Palladis arbor habet,
519. Litore quot conchae, tot sunt in amore dolores;
520. Quae patimur, multo spicula felle madent.
521. Dicta erit isse foras: intus fortasse videre est:
522. Isse foras, et te falsa videre puta.
523. Clausa tibi fuerit promissa ianua nocte:
524. Perfer et inmunda ponere corpus humo.
525. Forsitan et vultu mendax ancilla superbo
526. Dicet 'quid nostras obsidet iste fores?'
527. Postibus et durae supplex blandire puellae,
528. Et capiti demptas in fore pone rosas.
529. Cum volet, accedes: cum te vitabit, abibis;
530. Dedecet ingenuos taedia ferre sui.
Sono chiamato ad argomenti più vicini: chiunque amerà con saggezza vincerà e dalla mia
scienza otterrà quel che desidera. Non sempre i solchi rendono con l’interesse quel che è
stato loro affidato; non sempre il vento favorisce le navi incerte: quello che favorisce gli
amanti è poco; è più quello che loro nuoce: si mettano in testa che devono sopportare molte
cose. Quante sono le lepri che pascolano sul monte Atos, quante le api sull'Ibla, quante
bacche ha l'albero argenteo di Minerva (= l’ulivo); quante sono le conchiglie sulla
spiaggia, tanti sono i tormenti in amore; le frecce che riceviamo sono intrise di molto
fiele. Ti sarà detto che lei è andata fuori, e tu forse la vedrai in casa: pensa che sia andata
fuori e di vedere il falso. Dopo che ti era stata promessa una nottata, ti sarà chiusa la porta:
sopporta anche di posare il corpo sul terreno sporco. Forse una serva bugiarda con faccia
insolente dirà anche: “Perché costui assedia la nostra porta?”. Tu supplice rivolgi
lusinghiere parole alla soglia e alla donna crudele e deponi sulla porta le rose tolte dal capo.
Quando vorrà, entrerai; quando ti eviterà, te ne andrai: non è bello che uomini bene educati
siano importuni.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Nullis amor est sanabilis herbis.
L’amore non può essere guarito da nessuna erba.
(Ovidio, Metamorfosi, I, v. 523)
Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 452-477; vv. 490-530
452.
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(...)
490.
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Primus amor Phoebi Daphne Peneia, quem non
fors ignara dedit, sed saeva Cupidinis ira,
Delius hunc nuper, victa serpente superbus,
viderat adducto flectentem cornua nervo
'quid' que 'tibi, lascive puer, cum fortibus armis?'
dixerat: 'ista decent umeros gestamina nostros,
qui dare certa ferae, dare vulnera possumus hosti,
qui modo pestifero tot iugera ventre prementem
stravimus innumeris tumidum Pythona sagittis.
tu face nescio quos esto contentus amores
inritare tua, nec laudes adsere nostras!'
filius huic Veneris 'figat tuus omnia, Phoebe,
te meus arcus' ait; 'quantoque animalia cedunt
cuncta deo, tanto minor est tua gloria nostra.'
dixit et eliso percussis aere pennis
inpiger umbrosa Parnasi constitit arce
eque sagittifera prompsit duo tela pharetra
diversorum operum: fugat hoc, facit illud amorem;
quod facit, auratum est et cuspide fulget acuta,
quod fugat, obtusum est et habet sub harundine plumbum.
hoc deus in nympha Peneide fixit, at illo
laesit Apollineas traiecta per ossa medullas;
protinus alter amat, fugit altera nomen amantis
silvarum latebris captivarumque ferarum
exuviis gaudens innuptaeque aemula Phoebes:
vitta coercebat positos sine lege capillos.
Phoebus amat visaeque cupit conubia Daphnes,
quodque cupit, sperat, suaque illum oracula fallunt,
utque leves stipulae demptis adolentur aristis,
ut facibus saepes ardent, quas forte viator
vel nimis admovit vel iam sub luce reliquit,
sic deus in flammas abiit, sic pectore toto
uritur et sterilem sperando nutrit amorem.
spectat inornatos collo pendere capillos
et 'quid, si comantur?' ait. videt igne micantes
sideribus similes oculos, videt oscula, quae non
est vidisse satis; laudat digitosque manusque
bracchiaque et nudos media plus parte lacertos;
si qua latent, meliora putat. fugit ocior aura
illa levi neque ad haec revocantis verba resistit:
“Nympha, precor, Penei, mane! non insequor hostis;
nympha, mane! sic agna lupum, sic cerva leonem,
sic aquilam penna fugiunt trepidante columbae,
hostes quaeque suos: amor est mihi causa sequendi!
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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me miserum! ne prona cadas indignave laedi
crura notent sentes et sim tibi causa doloris!
aspera, qua properas, loca sunt: moderatius, oro,
curre fugamque inhibe, moderatius insequar ipse.
cui placeas, inquire tamen: non incola montis,
non ego sum pastor, non hic armenta gregesque
horridus observo. nescis, temeraria, nescis,
quem fugias, ideoque fugis: mihi Delphica tellus
et Claros et Tenedos Patareaque regia servit;
Iuppiter est genitor; per me, quod eritque fuitque
estque, patet; per me concordant carmina nervis.
certa quidem nostra est, nostra tamen una sagitta
certior, in vacuo quae vulnera pectore fecit!
inventum medicina meum est, opiferque per orbem
dicor, et herbarum subiecta potentia nobis.
ei mihi, quod nullis amor est sanabilis herbis
nec prosunt domino, quae prosunt omnibus, artes!'
Plura locuturum timido Peneia cursu
fugit cumque ipso verba inperfecta reliquit,
tum quoque visa decens; nudabant corpora venti,
obviaque adversas vibrabant flamina vestes,
et levis inpulsos retro dabat aura capillos,
auctaque forma fuga est.
Il primo amore di Febo fu Dafne figlia di Peneo: lo suscitò non la cieca Fortuna, ma la feroce ira di
Cupido. Apollo, fiero per la vittoria sul serpente, lo aveva poco prima visto mentre cercava di
piegare l'arco tirando a sé la corda e così gli disse: “Che cosa hai da fare con le forti armi, o
fanciullo arrogante? codesti pesi si addicono alle nostre spalle, noi che possiamo infliggere ferite
mortali alle fiere, ferite ai nemici, noi che poco fa abbiamo abbattuto con migliaia di dardi il
minaccioso serpente che occupava con il suo fetido ventre molti iugeri di terra. Tu accontentati di
suscitare con la tua fiaccola non so quali amori e non attribuirti i nostri meriti». A lui il figlio di
Venere: “O Febo - disse - il tuo arco trafigga pure ogni cosa, ma il mio colpisca te, e di quanto tutti
gli esseri animati sono inferiori a un dio, di tanto è minore; la tua gloria della mia”. Finì di parlare e
muovendo rapido le ali fende l'aria e si ferma sulla cima ombrosa del Parnaso e tira fuori dalla
faretra, due dardi dagli effetti opposti: ché uno suscita l'amore, l'altro lo impedisce; quello che fa
innamorare è dorato e risplende nella sua punta aguzza, smussato invece quello che tiene lontano
l'amore e con la punta di piombo. Quest'ultimo il dio conficcò nel corpo della ninfa Peneia, mentre
con l’altro trapassandogli le ossa ferì fin nelle midolla Apollo: subito uno si innamora, l’altra ha
orrore del nome dell’amore, allietandosi dei recessi dei boschi e delle spoglie delle fiere catturate,
emula della vergine Diana; una fascia tratteneva i capelli scomposti.
(...)
Febo arde d'amore e brama l'unione con Dafne appena vista, e spera d'avere ciò che desidera e resta
ingannato dai suoi stessi oracoli; come la secca stoppia va in fiamme una volta mietute le spighe,
come bruciano le siepi per una fiaccola qualora un viandante casualmente ve l'abbia accostata
troppo o l'abbia abbandonata sul far del giorno: così il dio fu in preda del fuoco, così arde in tutto il
cuore e nutre un vano amore continuando a sperare. Guarda i capelli che le scendono spettinati sul
collo e si chiede “Che cosa sarebbero, se venissero acconciati?”; guarda gli occhi luminosi simili
alle stelle, guarda la boccuccia, che non si sazia di rimirare; ammira le dita, le mani, i polsi e le
braccia scoperte più che a metà: e le parti nascoste se le immagina più attraenti. Ma quella fugge più
veloce del vento leggero e non si ferma a queste parole da lui dette per richiamarla:
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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“Ninfa, figlia di Peneo, ti prego, fermati! non ti seguo come nemico; ninfa, fermati! In tale maniera
l'agnella fugge il lupo, così la cerva il leone, così le colombe con trepido volo l'aquila: ciascuna
stirpe ha un proprio nemico; ma per me è l'amore la causa per venirti dietro. O me infelice! Che tu
non debba cadere inciampando e che i rovi non ti lacerino le gambe che non meritano alcuna ferita
e che io non sia causa del tuo dolore. I luoghi, per i quali corri, sono selvaggi: corri, ti prego, con
meno impeto e modera la fuga: da parte mia ti seguirò più lentamente. Chiediti però chi sia quello
a cui piaci: non sono un montanaro, non sono un pastore irsuto che qui fa la guardia ad armenti e
greggi. Tu, impulsiva, non sai chi fuggi e per questo motivo fuggi. Sotto il mio dominio sta la
regione di Delfi e Claro e Tenedo e la rocca di Patara; mio padre è Giove. Per opera mia viene svelato il futuro, il passato e il presente; per opera mia i carmi si accordano con la cetra. La mia saetta
poi è infallibile, tuttavia ce n'è un'altra più infallibile della mia, che ha provocato una ferita nel
petto sinora libero dall'amore. La medicina fu inventata per opera mia, e in tutto il mondo mi si
chiama soccorritore e la virtù delle erbe è a me soggetta: ahimè, perché l'amore non può essere
guarito da nessuna erba, né al maestro porta aiuto la sua arte, che aiuta invece tutti gli altri!».
La figlia di Peneo impaurita corre via da lui che voleva dire di più e gli tronca a metà il discorso.
Anche allora sembrò bella: i venti mettevano a nudo il corpo e il loro soffio faceva svolazzare
l'abito investendolo di fronte e la corrente d'aria leggera spingeva indietro i capelli, sicché la bellezza cresceva con la fuga.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Piero del Pollaiolo (1441-1496).
Apollo e Dafne (1470-1480), tempera su tavola (cm. 29,5 x 20).
Londra, National Gallery.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Paolo Caliari, detto il Veronese (1528-1588).
Apollo e Dafne (ca. 1575), olio su tela (cm. 100,2 x 100,5).
San Diego, Museum of Art.
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Gian Lorenzo Bernini (1598-1680).
Apollo e Dafne (1622-1625), gruppo scultoreo a tutto tondo (h. 2,43 m.)
Roma, Galleria Borghese.
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Amor crescit dolore repulsae.
L’amore cresce per il dolore del rifiuto.
(Ovidio, Metamorfosi, III, v. 395)
Ovidio, Metamorfosi, III, vv. 370-401
370. Ergo ubi Narcissum per devia rura vagantem
371. vidit et incaluit, sequitur vestigia furtim,
372. quoque magis sequitur, flamma propiore calescit,
373. non aliter quam cum summis circumlita taedis
374. admotas rapiunt vivacia sulphura flammas.
370. quotiens voluit blandis accedere dictis
375. et mollis adhibere preces! Natura repugnat
376. nec sinit, incipiat, sed, quod sinit, illa parata est
377. exspectare sonos, ad quos sua verba remittat.
378. Forte puer comitum seductus ab agmine fido
379. dixerat: “Ecquis adest?” et “adest” responderat Echo.
380. hic stupet, utque aciem partes dimittit in omnis,
381. voce “veni!” magna clamat: vocat illa vocantem.
382. Respicit et rursus nullo veniente “quid” inquit
383. “me fugis?” et totidem, quot dixit, verba recepit.
384. perstat et alternae deceptus imagine vocis
385. “Huc coeamus” ait, nullique libentius umquam
386. responsura sono “coeamus” rettulit Echo
387. et verbis favet ipsa suis egressaque silva
388. ibat, ut iniceret sperato bracchia collo;
389. ille fugit fugiensque “Manus conplexibus aufer!
390. ante” ait “emoriar, quam sit tibi copia nostri”;
391. rettulit illa nihil nisi “sit tibi copia nostri!”
392. spreta latet silvis pudibundaque frondibus ora
393. protegit et solis ex illo vivit in antris;
394. sed tamen haeret amor crescitque dolore repulsae;
395. extenuant vigiles corpus miserabile curae
396. adducitque cutem macies et in aera sucus
397. corporis omnis abit; vox tantum atque ossa supersunt:
398. vox manet, ossa ferunt lapidis traxisse figuram.
399. inde latet silvis nulloque in monte videtur,
400. omnibus auditur: sonus est, qui vivit in illa.
Orbene, quando essa vide Narciso che vagava per le campagne solitarie, se ne innamorò e si mise
furtivamente sulle sue orme, e quanto più lo segue, più intimamente brucia del fuoco d'amore, non
diversamente di quando lo zolfo infiammabile spalmato sulla sommità delle fiaccole, capta il fuoco
che gli è stato accostato. O quante volte avrebbe voluto avvicinarlo con parole carezzevoli e
porgergli supplichevoli preghiere! ma la sua natura si oppone non permettendole di iniziare il
discorso; invece, essa - questo le viene permesso - è preparata ad ascoltare solo suoni, cui rinviare
da parte sua le parole. Per caso il giovinetto., allontanatosi dalla schiera dei fedeli compagni aveva
gridato “Chi mai è qui?” a cui Eco aveva risposto “è qui”. Egli si stupisce e volgendo gli occhi
verso ogni dove grida a gran voce “vieni”: quella gli rivolge lo stesso invito. Guarda di nuovo e
poiché non vede venire nessuno “Perché” - disse – “mi fuggi?” e risentì altrettante parole di quante
ne aveva dette. Insiste e, ingannato dal riflesso della voce alternantesi con la sua, “Incontriamoci
qui” disse, ed Eco, che a nessuna voce mai avrebbe risposto più volentieri; ripeté “incontriamoci”:
asseconda allora le proprie parole e uscita dalla selva si avvia a gettare le braccia a quel collo
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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desiderato. Quello fugge e nella fuga “Tieni lontane le mani, non abbracciarmi! - grida - Che possa
morire prima di concedermi a te”. Quella non rispose se non “concedermi a te”. Così respinta si
nasconde nelle selve e copre il viso pieno di rossore con fogliame e da allora vive nelle spelonche
solitarie; ma l’amore le rimane fisso nel cuore e cresce per il dolore del rifiuto: gli affanni e le
veglie le fanno smagrire il miserevole corpo. la magrezza fa raggrinzire la pelle e ogni sua linfa
vitale si disperde nell'aria: sopravvivono solo la voce e le ossa: ma, mentre la voce rimane.
Video meliora proboque, deteriora sequor.
Vedo il meglio e lo approvo, ma seguo il peggio.
(Ovidio, Metamorfosi, VII, v. 20-21)
Ovidio, Metamorfosi, VII, vv. 1-31
1. Iamque fretum Minyae Pagasaea puppe secabant,
2. perpetuaque trahens inopem sub nocte senectam
3. Phineus visus erat, iuvenesque Aquilone creati
4. virgineas volucres miseri senis ore fugarant,
5. multaque perpessi claro sub Iasone tandem
6. contigerant rapidas limosi Phasidos undas.
7. Dumque adeunt regem Phrixeaque vellera poscunt
8. lexque datur Minyis magnorum horrenda laborum,
9. concipit interea validos Aeetias ignes
10. et luctata diu, postquam ratione furorem
11. vincere non poterat, 'frustra, Medea, repugnas:
12. nescio quis deus obstat,' ait, 'mirumque, nisi hoc est,
13. aut aliquid certe simile huic, quod amare vocatur.
14. nam cur iussa patris nimium mihi dura videntur?
15. Sunt quoque dura nimis! cur, quem modo denique vidi,
16. ne pereat, timeo? quae tanti causa timoris?
17. Excute virgineo conceptas pectore flammas,
18. si potes, infelix! si possem, sanior essem!
19. sed trahit invitam nova vis, aliudque cupido,
20. mens aliud suadet: video meliora proboque,
21. deteriora sequor. quid in hospite, regia virgo,
22. ureris et thalamos alieni concipis orbis?
23. Haec quoque terra potest, quod ames, dare. Vivat an ille
24. occidat, in dis est. vivat tamen! Idque precari
25. vel sine amore licet: quid enim commisit Iason?
26. quem, nisi crudelem, non tangat Iasonis aetas
27. et genus et virtus? quem non, ut cetera desint,
28. ore movere potest? certe mea pectora movit.
29. At nisi opem tulero, taurorum adflabitur ore
30. concurretque suae segeti, tellure creatis
31. hostibus, aut avido dabitur fera praeda draconi.
32. Hoc ego si patiar, tum me de tigride natam,
33. tum ferrum et scopulos gestare in corde fatebor!
Già i Minii solcavano il mare con la nave armata a Pagase e avevano visitato Fineo che trascinava la
sua misera vecchiaia in una perpetua cecità e i giovani figli di Aquilone avevano allontanato dal
volto dell'infelice vecchio gli uccelli dal sembiante di fanciulle; dopo molte fatiche quelli
finalmente, sotto la guida dell'illustre Giasone, avevano toccato le acque impetuose del limaccioso
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Fasi; e quando, presentatisi ai re Eeta, chiedono il vello di Frisso, viene loro imposta una gran mole
di pericolose fatiche, allora la figlia di Eeta si accende di un violento fuoco d'amore e dopo che,
avendo lottato a lungo, non poté vincere con la ragione il furore della passione, “Invano, Medea,
resisti; c'è un dio non so quale che ti sta contro” - si disse tra sé -, “è qualcosa di straordinario ciò
che provi o di certo qualcosa di simile a quel che si chiama amore. Perché, infatti, i comandi del
padre mi sembrano troppo duri? E lo sono veramente troppo! Perché temo che incontri la morte
l'uomo che ho appena visto? Quale il motivo di sì grande timore? Caccia dal tuo petto di fanciulla le
fiamme che si sono accese, se lo puoi, o misera. Se lo potessi, sarei un po' più saggia: ma una nuova
forza mi attira contro mia voglia e la passione mi suggerisce un atteggiamento, un altro invece la
ragione: vedo il meglio e l'approvo, ma seguo il peggio! Perché, fanciulla regale, bruci d`amore
per lo straniero e desideri un matrimonio in una terra straniera? Anche questa terra ti può offrire
qualcuno da amare. Se quello vivrà o morrà dipende dagli dèi: però resti in vita! È lecito innalzare
tale preghiera anche senza esserne innamorata: infatti, che male ha commesso Giasone? Chi, se non
un animo crudele, non si lascerebbe commuovere dall’età, dal lignaggio e dalla virtù di Giasone?
Chi non potrebbe essere colpito dal suo aspetto, anche se mancassero tutte le altre doti? Di certo
egli ha conquistato il mio cuore. Ora, se non gli darò aiuto, sarà assalito dal soffio infuocato dei tori
e dovrà misurarsi con uomini creati dalla terra, ma da lui seminati, oppure sarà dato in pasto
all’avido e feroce dragone. Se tollerassi tutto questo, allora ammetterà di essere nata da una tigre,
allora confesserò di portare in petto ferro e macigni.
Petrarca, Canzoniere, 264, vv. 127-136
Canzon, qui sono, ed ò 'l cor via più freddo
de la paura che gelata neve,
sentendomi perir senz'alcun dubbio:
ché pur deliberando ò vòlto al subbio
gran parte omai de la mia tela breve;
né mai peso fu greve
quanto quel ch'i' sostengo in tale stato:
ché co la morte a lato
cerco del viver mio novo consiglio,
et veggio 'l meglio, et al peggior m'appiglio.
--------Foscolo, Sonetti, 2, «Non son chi fui; perì di noi gran parte»
Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avvanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto.
Perché dal dì ch'empia licenza e Marte
vestivan me del lor sanguineo manto,
cieca è la mente e guasto il core, ed arte
la fame d'oro, arte è in me fatta, e vanto.
Che se pur sorge di morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di gloria, e carità di figlio.
Tal di me schiavo, e d'altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Donec eris sospes, multos numerabis amicos.
Finché sarai incolume, conterai molti amici.
(Ovidio, Metamorfosi, I, v. 523)
Ovidio, Tristia, I, 9, 1-10
1. Detur inoffenso vitae tibi tangere metam,
2. qui legis hoc nobis non inimicus opus.
3. atque utinam pro te possint mea vota valere,
4. quae pro me duros non tetigere deos!
5. donec eris sospes, multos numerabis amicos:
6. tempora si fuerint nubila, solus eris.
7. aspicis, ut veniant ad candida tecta columbae,
8. accipiat nullas sordida turris aves.
9. horrea formicae tendunt ad inania numquam:
10. nullus ad amissas ibit amicus opes.
11. utque comes radios per solis euntibus umbra est,
12. cum latet hic pressus nubibus, illa fugit
13. mobile sic sequitur Fortunae lumina vulgus:
14. quae simul inducta nube teguntur, abit.
15. haec precor ut semper possint tibi falsa videri:
16. sunt tamen eventu vera fatenda meo.
17. dum stetimus, turbae quantum satis esset, habebat
18. nota quidem, sed non ambitiosa domus.
19. at simul impulsa est, omnes timuere ruinam,
20. cautaque communi terga dedere fugae.
A te, che i leggi questo mio lavoro senza malevolenza, sia dato di giungere al termine della vita
senza disgrazie: possano realizzarsi per te quei miei voti, che per me non hanno potuto commuovere
gli dèi implacabili! Finché sarai incolume, conterai molti amici: se invece il tempo si rannuvolerà, rimarrai solo. Vedi come le colombe vengono nelle candide casette, mentre la squallida torre
non ospita alcun uccello. Le formiche non si dirigono mai verso i granai vuoti: mai un amico si
recherà dove è scomparsa la ricchezza. Come l'ombra accompagna quelli che camminano sotto i
raggi del sole, e quando questo si nasconde coperto dalle nubi, quella sparisce, così il volgo
incostante va dietro lo splendore della Fortuna: appena questa si oscura per il calare della notte, si
dilegua. Io mi auguro che queste considerazioni possano sempre sembrarti false: ma per mia esperienza si deve riconoscere che sono vere. Finché fui in auge, la mia casa, conosciuta certo, ma non
fastosa, era frequentata da un buon numero di gente. Ma appena subì il colpo, tutti temettero la
rovina e tutti insieme, in fuga, volsero prudentemente le spalle.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Dare poma Alcinoo.
Dare frutti ad Alcinoo.
(Ovidio, Epistulae ex Ponto, IV, 2, v. 10)
Ovidio, Epistulae ex Ponto, IV, 2, 1-22:
1. Quod legis, o vates magnorum maxime regum,
2. venit ab intonsis usque, Severe, Getis,
3. cuius adhuc nomen nostros tacuisse libellos,
4. si modo permittis dicere vera, pudet.
5. Orba tamen numeris cessavit epistula numquam
6. ire per alternas officiosa vices.
7. Carmina sola tibi memorem testantia curam
8. non data sunt: quid enim quae facis ipse darem?
9. Quis mel Aristaeo, quis Baccho uina Falerna,
10. Triptolemo fruges, poma det Alcinoo?
11. Fertile pectus habes interque Helicona colentes
12. uberius nulli provenit ista seges.
13. Mittere ad hunc carmen frondes erat addere silvis.
14. Haec mihi cunctandi causa, Severe, fuit.
15. Nec tamen ingenium nobis respondet ut ante,
16. sed siccum sterili vomere litus aro.
17. Scilicet ut limus venas excaecat in undis
18. laesaque subpresso fonte resistit aqua,
19. pectora sic mea sunt limo vitiata malorum
20. et carmen vena pauperiore fluit.
21. Si quis in hac ipsum terra posuisset Homerum,
22. esset, crede mihi, factus et ille Getes.
23. Da veniam fasso, studiis quoque frena remisi
24. ducitur et digitis littera rara meis.
25. Impetus ille sacer qui vatum pectora nutrit,
26. qui prius in nobis esse solebat, abest.
27. Vix venit ad partes, vix sumptae Musa tabellae
28. imponit pigras paene coacta manus,
29. parvaque, ne dicam scribendi nulla voluptas
30. est mihi nec numeris nectere verba iuvat.
Quello che leggi, o Severo, il più grande poeta dei grandi re, ti viene dai Geti dai lunghi capelli: mi
vergogno di aver finora taciuto il tuo nome nei miei libri, se solo mi permetti di dire la verità.
Tuttavia, la nostra amichevole corrispondenza, anche con lettere senza ritmi, non si è mai interrotta.
Solo poesie non ti ho dedicato ad attestare il mio vivo ricordo. Perché dovrei dare quello che fai tu
stesso? Chi darebbe miele ad Aristeo, vino falerno a Bacco, grano a Trittolemo, frutti ad Alcinoo?
Tu possiedi uno spirito fecondo e fra tutti i poeti che coltivano l'Elicona a nessuno nasce una messe
più abbondante che a te. Inviare versi a un tale poeta sarebbe stato come aggiungere foglie alla
foresta. Questo è stato il motivo del mio ritardo, o Severo. Il mio talento, tuttavia, non mi risponde
più come prima, ma sto arando un'arida riva con uno sterile vomere. Certo, come il fango ostruisce
le vene dell'acqua, e come l'acqua si arresta, quando non fluisce per un impedimento alla fonte, così
il mio cuore è viziato dal fango dei miei mali e i versi fluiscono con una vena più povera. Se
qualcuno l'avesse posto in questo paese, persino Omero, credimi, come me sarebbe diventato un
Geta. Perdonami se ti confesso che ho allentato il morso anche del mio zelo e le mie dita scrivono
ben poche lettere. Quello slancio sacro che nutre il cuore dei poeti e che un tempo solevo avere in
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
112
me, ora non c'è più. A fatica la Musa arriva per recitare la sua parte, a fatica pone, quasi forzata, le
sue mani pigre sulle tavolette che ho preso. Scarso, per non dire nullo, è il piacere di comporre e
non mi dà più gusto unire le parole in versi.
Gutta cavat lapidem.
La goccia scava la pietra.
(Ovidio, Epistulae ex Ponto, IV, 10, v. 5)
Tempus edax omnia perdit.
Il tempo divoratore distrugge ogni cosa.
(Ovidio, Epistulae ex Ponto, IV, 10, v. 7)
Ovidio, Epistulae ex Ponto, IV, 10, vv. 1-10
1. Haec mihi Cimmerio bis tertia ducitur aestas
2. litore pellitos inter agenda Getas.
3. Ecquos tu silices, ecquod, carissime, ferrum
4. duritiae confers, Albinovane, meae?
5. Gutta cavat lapidem, consumitur anulus usu,
6. atteritur pressa vomer aduncus humo.
7. Tempus edax igitur praeter nos omnia perdit:
8. cessat duritia mors quoque victa mea.
9. Exemplum est animi nimium patientis Ulixes
10. iactatus dubio per duo lustra mari,
11. tempora solliciti sed non tamen omnia fati
12. pertulit et placidae saepe fuere morae.
13. An graue sex annis pulchram fovisse Calypson
14. aequoreaeque fuit concubuisse deae?
15. Excipit Hippotades qui dat pro munere ventos,
16. curvet ut impulsos utilis aura sinus.
17. Nec bene cantantis labor est audire puellas
18. nec degustanti lotos amara fuit.
19. Hos ego qui patriae faciant oblivia sucos
20. parte meae vitae, si modo dentur, emam.
Questa è la sesta estate che io passo sulla riva cimmeria, in mezzo ai Geti vestiti di pelli. Quale
selce, quale ferro, mio caro Albinovano, puoi confrontare con la mia resistenza? La goccia d'acqua
scava la pietra, l'anello si consuma con l’uso, il vomere adunco si logora affondato nel suolo.
Dunque, il tempo divoratore distrugge ogni cosa, non me; la morte stessa disarma, vinta dalla mia
resistenza. Si cita come esempio di estrema pazienza Ulisse, sballottato sul mare incerto per due
lustri. Tuttavia, egli non poté sopportare continuamente tutte le prove del destino; ebbe sovente
momenti di riposo. O forse gli fu penoso accarezzare sei anni la bella Calipso e coricarsi con la dea
del mare? Fu accolto dal figlio di Ippota, che gli diede in regalo i venti, perché un soffio favorevole
dirigesse le sue vele gonfie. Non fu per lui una fatica ascoltare il bel canto delle fanciulle né fu per
lui amara bevanda il loto. Questi succhi, che fanno dimenticare la patria, se solo me li dessero, io li
comprerei con una parte della mia vita.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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SENECA (4 a.C. – 65 d.C.)
Aut regem aut fatuum nasci oportet.
O si nasce re o si nasce cretino.
(Seneca, Apokolokyntosis, 1)
Seneca, Apocolokyntosis, 1
Quid actum sit in caelo ante diem III idus Octobris anno novo, initio saeculi felicissimi, volo
memoriae tradere. Nihil nec offensae nec gratiae dabitur. Haec ita vera. Si quis quaesiverit unde
sciam, primum, si noluero, non respondebo. Quis coacturus est? Ego scio me liberum factum, ex
quo suum diem obiit ille, qui verum proverbium fecerat, “aut regem aut fatuum nasci oportere”. Si
libuerit respondere, dicam quod mihi in buccam venerit. Quis umquam ab historico iuratores
exegit? Tamen si necesse fuerit auctorem producere, quaerito ab eo qui Drusillam euntem in
caelum vidit: idem Claudium vidisse se dicet iter facientem “non passibus aequis”. Velit nolit,
necesse est illi omnia videre quae in caelo aguntur: Appiae viae curator est, qua scis et divum
Augustum et Tiberium Caesarem ad deos isse. Hunc si interrogaveris, soli narrabit: coram pluribus
numquam verbum faciet. Nam ex quo in senatu iuravit se Drusillam vidisse caelum ascendentem et
illi pro tam bono nuntio nemo credidit quod viderit, verbis conceptis affirmavit se non indicaturum
etiam si in medio foro hominem occisum vidisset. Ab hoc ego quae tum audivi, certa clara affero,
ita illum salvum et felicem habeam.
I fatti che si svolsero nei cieli il tredici ottobre dell'anno di grazia, primo di un'era di beatitudine,
ecco quanto voglio tramandare alla storia. Qui non si farà posto né ai risentimenti né alle simpatie.
Se per caso qualcuno domanderà come faccio a sapere le cose così precise, prima di tutto, se non
mi garba, non risponderò. Chi mi può obbligare? So pure di essere diventato un uomo libero sin da
quando finì i suoi giorni colui che aveva confermato la verità del proverbio: “O si nasce re o si
nasce cretino”. Se mi piacerà di rispondere, dirò quello che mi viene alla bocca. Gli storici? Chi
ha mai preteso da loro dei testimoni giurati? E poi, se proprio bisognerà mettere avanti la fonte,
domandatelo a quello che vide Drusilla salire al cielo: lui vi dirà magari anche di aver visto fare a
Claudio "trimpellando coi suoi passetti" quello stesso viaggio. Volere o no, gli tocca pure di vedere
tutto quello che succede in cielo; soprintende alla via Appia, che presero, lo sai, anche Augusto e
Tiberio Cesare, per andare fra gli dèi. Se lo domandi a lui, a quattr'occhi, te lo dirà: davanti a più
persone non si lascerà cavare una parola: perché dal giorno che in senato giurò di avere visto
Drusilla salire in cielo, e, per ringraziamento di una notizia così bella, nessuno volle credere quello
che egli aveva pur visto, proclamò solennemente che non avrebbe fatto più rivelazioni neanche se
avesse visto ammazzare un uomo nel mezzo del foro. Quanto seppi da lui allora, io ve lo riporto
pari pari, per quanto mi è caro saperlo contento e in buona salute.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Qui dedit beneficium taceat; narret qui accepit.
Chi ha fatto un beneficio, taccia; parli chi lo ha ricevuto.
(Seneca, De beneficiis, II, 11, 2)
Seneca, De beneficiis, II, 11, 2
Non est dicendum, quid tribuerimus: qui admonet, repetit; non est instandum, non est memoria
renovanda, nisi ut aliud dando prioris admoneas. Ne aliis quidem narrare debemus; qui dedit
beneficium, taceat; narret, qui accepit.
Non bisogna dire quello che abbiamo fatto di bene: chi lo ricorda chiede il contraccambio; non
bisogna insistere, non bisogna risvegliarne il ricordo, a meno che tu non lo faccia con un altro dono.
E non dobbiamo neppure raccontarlo ad altri: chi ha fatto un beneficio taccia; parli chi lo ha
ricevuto.
Ignis aurum probat, miseria fortes viros.
Il fuoco prova l’oro, la sventura (prova) gli uomini forti.
(Seneca, De providentia, 5, 10)
Seneca, De providentia, 5, 9-10
(9)“Quare tamen deus tam iniquus in distributione fati fuit ut bonis viris paupertatem et vulnera et
acerba funera adscriberet?”.
Non potest artifex mutare materiam: hoc passa est. Quaedam separari a quibusdam non possunt,
cohaerent, individua sunt. Languida ingenia et in somnum itura aut in vigiliam somno simillimam
inertibus nectuntur elementis: ut efficiatur vir cum cura dicendus, fortiore fato opus est. Non erit illi
planum iter: sursum oportet ac deorsum eat, fluctuetur ac navigium in turbido regat. Contra
fortunam illi tenendus est cursus; multa accident dura, aspera, sed quae molliat et conplanet ipse.
(10) Ignis aurum probat, miseria fortes viros.
(9) “Eppure, perché Dio fu tanto ingiusto nel distribuire il destino da assegnare agli uomini buoni
povertà, ferite e acerbi lutti?”.
L’artista non può cambiare la materia. Il primo patto è questo: certe cose non possono essere
separate da certe altre cose: sono loro connesse e formano un essere solo. Le personalità
insignificanti, destinate al sonno o ad una veglia molto simile al sonno, sono un tessuto di elementi
inerti. Per fare un uomo, che debba essere nominato con rispetto, ci vuole un ordito più resistente. E
non camminerà in pianura: dovrà salire e scendere, sentirsi sbattuto dai flutti e pilotare la nave nella
tempesta, dovrà tenersi in rotta contro la sorte avversa. S’imbatterà in tante difficoltà ed asprezze,
ma dovrà essere lui ad ammorbidirle e ad appianarle. (10) Il fuoco prova l’oro, la sventura gli
uomini forti.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Vita brevis, ars longa,
La vita è breve, l’arte (è) lunga.
(Seneca, De brevitate vitae, 1)
Seneca, De brevitate vitae, 1, 1-4
(1) Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aevi
gignimur, quod haec tam velociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrunt, adeo ut
exceptis admodum paucis ceteros in ipso vitae apparatu vita destituat. Nec huic publico, ut
opinantur, malo turba tantum et inprudens vulgus ingemuit: clarorum quoque uirorum hic adfectus
querellas evocavit. (2)Inde illa maximi medicorum exclamatio est, “vitam brevem esse, longam
artem”; inde Aristotelis cum rerum natura exigentis minime conueniens sapienti uiro lis est:
“aetatis illam animalibus tantum indulsisse ut quina aut dena saecula educerent, homini in tam
multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare”. (3) Non exiguum temporis habemus, sed
multum perdimus. Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota
bene conlocaretur; sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit, ubi nulli bonae rei impenditur,
ultima demum necessitate cogente quam ire non intelleximus transisse sentimus. (4) Ita est: non
accipimus brevem vitam sed facimus nec inopes eius sed prodigi sumus. Sicut amplae et regiae
opes, ubi ad malum dominum peruenerunt, momento dissipantur, at quamuis modicae, si bono
custodi traditae sunt, usu crescunt, ita aetas nostra bene disponenti multum patet.
(1) La maggior parte dei mortali, o Paolino, lamenta la taccagneria della natura: nasciamo destinati
ad una vita molto breve ed il tempo che ci è stato assegnato scorre tanto veloce, tanto in fretta che,
fatte ben poche eccezioni, la vita pianta tutti in asso proprio nel momento in cui s'apprestano a
viverla. Di questa presunta calamità, non si lamenta soltanto il volgo irriflessivo; è un'impressione
che ha indotto a lagnarsi anche uomini celebri. Esce da qui l'esclamazione del più grande tra i medici: “La vita è breve, l'arte (è) lunga”. (2) Da qui è nata anche la sentenza, per nulla degna di un
saggio, con la quale Aristotele ha condannato la natura: “Agli animali ha concesso una vita lunga
quanto basta a raggiungere la quinta o la decima generazione, mentre all'uomo, che è nato per molte
immense imprese, è stato assegnato un limite ben più ristretto”.
(3) Non è vero che abbiamo poco tempo: la verità è che ne perdiamo molto. Ci è stata concessa una
vita sufficientemente lunga, bastevole al conseguimento degli ideali supremi, purché la sappiamo
impiegare tutta a dovere. Invece, dopo che l'abbiamo lasciata trascorrere nel lusso e nell'ignavia,
dopo che non l'abbiamo impegnata in nessuna impresa degna, quando, alla fine, si presenta la
necessità ineluttabile, ci accorgiamo che è passata senza che ne avvertissimo il trascorrere.
(4) È così: la vita non l'abbiamo ricevuta breve, ma l'abbiamo fatta diventare tale, ed in ciò non
siamo dei poveri, ma degli sciuponi. È come una ricchezza: anche se è immensa e degna di un re,
quando càpita nelle mani di un padrone inetto, finisce dissipata in un attimo, mentre, anche se è
modesta, ma affidata ad un depositario capace, cresce con l'uso. È così che la nostra vita riesce
molto lunga a chi la sa ordinare bene.
Ippocrate di Coo, Aforismi, 1, 1
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“La vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione fuggevole, l'esperimento pericoloso, il giudizio difficile”.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt.
Abbiamo davanti agli occhi i vizi degli altri, i nostri ci stanno dietro la schiena.
(Seneca, De ira, II, 28, 8)
Seneca, De ira, II, 28, 1, 7-8
(1) Si volumus aequi rerum omnium iudices esse, hoc primum nobis persuadeamus, neminem
nostrum esse sine culpa; hinc enim maxima indignatio oritur: Nihil peccavi” et “Nihil feci”. Immo
nihil fateris. Indignamur aliqua admonitione aut coercitione nos castigatos, cum illo ipso tempore
peccemus, quod adicimus malefactis adrogantiam et contumaciam.
(7) Sed ubi tam aequum iudicem invenies? Is qui nullius non uxorem concupiscit et satis iustas
causas putat amandi quod aliena est, idem uxorem suam aspici non vult; et fidei acerrimus exactor
est perfidus, et mendacia persequitur ipse periurus, et litem sibi inferri aegerrime calumniator
patitur; pudicitiam servulorum adtemptari non uult qui non pepercit suae.(8) Aliena vitia in oculis
habemus, a tergo nostra sunt: inde est quod tempestiua filii conuiuia pater deterior filio castigat,
et nihil alienae luxuriae ignoscit qui nihil suae negavit, et homicidae tyrannus irascitur, et punit
furta sacrilegus. Magna pars hominum est quae non peccatis irascitur sed peccantibus. Faciet nos
moderatiores respectus nostri, si consuluerimus nos: “Numquid et ipsi aliquid tale commisimus?
Numquid sic erravimus? Expeditne nobis ista damnare?”.
(1) Se vogliamo essere giudici giusti di tutte le situazioni, in primo luogo dobbiamo convincerci che
nessuno di noi è senza colpa. Lo sdegno maggiore nasce da questa mentalità: “Non ho commesso
colpa” e “Non ho fatto niente”. No: è che non confessi nulla! Ci sdegniamo se ci è stata inflitta
un’ammonizione o una pena e, nello stesso tempo, pecchiamo di nuovo, aggiungendo al male fatto
l’arroganza e la ribellione.
(7) Ma un giudice così giusto, dove lo troverai? Colui che non desidera una donna, se non è moglie
di un altro, e ritiene che l'esser la donna altrui sia motivo sufficiente per innamorarsene, non
permette a nessuno di guardare sua moglie; lo sleale è il più esigente nel pretendere la lealtà; il
calunniatore non sopporta assolutamente che gli si faccia causa e colui che non ha alcun riguardo al
proprio pudore, non vuole che s'attenti a quello dei suoi schiavetti.
(8) Abbiamo davanti agli occhi i vizi degli altri, i nostri ci stanno dietro la schiena: ed ecco che
un padre, più intemperante del figlio, ne rimprovera i banchetti troppo prolungati, che non perdona
nulla all'altrui lussuria quel tizio che nulla nega alla propria, che il tiranno s'adira contro l'omicida
ed il sacrilego punisce i furti.
Ci sono moltissimi uomini che s'adirano non contro i peccati, ma contro i peccatori. Diventeremo
più moderati, se volteremo lo sguardo a noi stessi e ci chiederemo: “Non abbiamo fatto anche noi
cose simili? Non abbiamo sbagliato allo stesso modo? Ci giova condannare queste azioni?”.
Esopo, Favole, 229
La favola delle due bisacce spiega perchè gli uomini vedono facilmente i vizi altrui, ma non i
propri.
7
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A6
Quando Prometeo fabbricò gli uomini, appese loro al collo due bisacce, piene l’una dei vizi altrui e
l’altra dei vizi propri, e quella dei vizi altrui la pose davanti, l’altra la appese dietro. Da ciò accadde
che gli uomini scorgono a prima vista i difetti altrui, ma non hanno mai sott’occhio i propri.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Homines, dum docent, discunt.
Gli uomini, mentre insegnano, imparano.
(Seneca, Epistulae ad Lucilium, VII, 8)
Seneca, Epistulae ad Lucilium, VII, 1, 2, 7-8
(1) Quid tibi vitandum praecipue existimes quaeris? turbam. (...)
(2) Inimica est multorum conversatio: nemo non aliquod nobis vitium aut commendat aut inprimit
aut nescientibus adlinit. Utique quo maior est populus cui miscemur, hoc periculi plus est. Nihil
vero tam damnosum bonis moribus quam in aliquo spectaculo desidere; tunc enim per voluptatem
facilius vitia subrepunt. (..)
(7) Unum exemplum luxuriae aut avaritiae multum mali facit: convictor delicatus paulatim enervat
et mollit, vicinus dives cupiditatem inritat, malignus comes quamvis candido et simplici rubiginem
suam adfricuit: quid tu accidere his moribus credis in quos publice factus est impetus? (8) Necesse
est aut imiteris aut oderis. Utrumque autem devitandum est: neve similis malis fias, quia multi sunt,
neve inimicus multis, quia dissimiles sunt. Recede in te ipse quantum potes; cum his versare qui te
meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere meliores. Mutuo ista fiunt, et homines dum
docent discunt.
(1) Mi chiedi che cosa io ritenga che tu debba soprattutto evitare? La folla.
(2) Frequentare molta gente è deleterio: c’è sempre qualcuno che ci raccomanda qualche vizio o ce
lo inculca o ce lo attacca senza che ce ne accorgiamo. E tanto maggiore è il pericolo, quanto
maggiore è la gente con cui abbiamo contatto. Niente è, in verità, più dannoso per i buoni costumi
quanto l’assistere oziosamente a qualche spettacolo; allopra infatti più facilmente i vizi si insinuano
attraverso il piacere.
(7) Un solo esempio di dissolutezza o di cupidigia produce un grave danno: un commensale voluttuoso a poco a poco ci snerva e ci infiacchisce, un vicino che sia ricco eccita la nostra brama di
ricchezze, un compagno maligno contamina anche l'anima più schietta ed ingenua; ora che cosa, a
tuo giudizio, accadrà ai costumi di quelli, che sono assaliti dai cattivi esempi della folla? (8)
Necessariamente li devi imitare od odiare. Ma bisogna evitare l'una e l'altra cosa: non diverrai
simile ai cattivi, perché sono la moltitudine, e neppure diverrai avverso alla moltitudine, perché è
diversa da te. Raccogliti in te stesso, per quanto puoi; trattienti con quelli che sono capaci di
renderti migliore, lasciati avvicinare da quelli che tu puoi rendere migliori. Queste sono cose
reciproche: gli uomini, mentre insegnano, imparano.
Si vis amari, ama.
Se vuoi essere amato, ama.
(Seneca, Apokolokyntosis, 1)
Seneca, Epistulae ad Lucilium, IX, 5-6
(5) Ita sapiens se contentus est, non ut velit esse sine amico sed ut possit; et hoc quod dico 'possit'
tale est: amissum aequo animo fert. Sine amico quidem numquam erit: in sua potestate habet quam
cito reparet. Quomodo si perdiderit Phidias statuam protinus alteram faciet, sic hic faciendarum
amicitiarum artifex substituet alium in locum amissi. (6) Quaeris quomodo amicum cito facturus
sit? Dicam, si illud mihi tecum convenerit, ut statim tibi solvam quod debeo et quantum ad hanc
epistulam paria faciamus. Hecaton ait: “Ego tibi monstrabo amatorium sine medicamento, sine
herba, sine ullius veneficae carmine: si vis amari, ama”. Habet autem non tantum usus amicitiae
veteris et certae magnam voluptatem sed etiam initium et comparatio novae.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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(5) Così il saggio basta a se stesso non nel senso che vuole stare senza amici, ma nel senso che può
stare senza amici; e questo può significa che ne sopporta con serenità la perdita. Ma non rimarrà
mai senza amici: è in suo potere farsi al più presto nuovi amici. Come Fidia, se avesse perso una
statua, ne avrebbe fatta subito un'altra, così questo artefice di amicizie, se perderà un amico, lo
sostituirà subito con un altro.
(6) Mi chiedi come farà a stringere in fretta un'amicizia? Te lo dirò se sarai d'accordo che io saldi
subito il mio debito e, per quanto riguarda questa lettera, consideriamo chiuso il nostro conto. Dice
Ecatone: «Ti indicherò un filtro amoroso senza veleni, senza erbe, senza formule magiche: se vuoi
essere amato, ama”. Si ricava grande piacere non soltanto dalle amicizie sicure e di vecchia data,
ma anche dall'iniziarne e dal procurarsene di nuove.
Copiā ciborum subtilitas impeditur.
L’acutezza d’ingegno è ostacolata dall’abbondanza di cibo.
(Seneca, Epistulae ad Lucilium, XV, 3)
Seneca, Epistulae ad Lucilium, XV, 1-5
(1) Mos antiquis fuit, usque ad meam servatus aetatem, primis epistulae verbis adicere 'si vales
bene est, ego valeo'. Recte nos dicimus 'si philosopharis, bene est'. Valere enim hoc demum est.
Sine hoc aeger est animus; corpus quoque, etiam si magnas habet vires, non aliter quam furiosi aut
frenetici validum est. (2) Ergo hanc praecipue valetudinem cura, deinde et illam secundam; quae
non magno tibi constabit, si volueris bene valere. Stulta est enim, mi Lucili, et minime conveniens
litterato viro occupatio exercendi lacertos et dilatandi cervicem ac latera firmandi; cum tibi
feliciter sagina cesserit et tori creverint, nec vires umquam opimi bovis nec pondus aequabis. Adice
nunc quod maiore corporis sarcina animus eliditur et minus agilis est. Itaque quantum potes
circumscribe corpus tuum et animo locum laxa. (3) Multa sequuntur incommoda huic deditos
curae: primum exercitationes, quarum labor spiritum exhaurit et inhabilem intentioni ac studiis
acrioribus reddit; deinde copia ciborum subtilitas impeditur. Accedunt pessimae notae mancipia in
magisterium recepta, homines inter oleum et vinum occupati, quibus ad votum dies actus est si bene
desudaverunt, si in locum eius quod effluxit multum potionis altius in ieiuno iturae regesserunt.
Bibere et sudare vita cardiaci est. (4) Sunt exercitationes et faciles et breves, quae corpus et sine
mora lassent et tempori parcant, cuius praecipua ratio habenda est: cursus et cum aliquo pondere
manus motae et saltus vel ille qui corpus in altum levat vel ille qui in longum mittit vel ille, ut ita
dicam, saliaris aut, ut contumeliosius dicam, fullonius: quoslibet ex his elige usum rude facile. (5)
Quidquid facies, cito redi a corpore ad animum; illum noctibus ac diebus exerce. Labore modico
alitur ille; hanc exercitationem non frigus, non aestus inpediet, ne senectus quidem. Id bonum cura
quod vetustate fit melius.
(1) Era abitudine degli antichi, in uso fino ai miei tempi, scrivere all'inizio delle lettere "Se tu stai
bene, ne sono contento, io sto bene". Giustamente noi diciamo: "Se ti dedichi alla filosofia, ne sono
contento", poiché alla fin fine questo significa stare bene. Senza la filosofia l'anima è malata; e
anche il corpo, se pure è in forze, è sano come può esserlo quello di un pazzo o di un forsennato. (2)
Se vuoi star bene, dunque, cura soprattutto la salute dello spirito, e poi quella del corpo, che non ti
costerà molto. È sciocco, mio caro Lucilio, e sconveniente per uno studioso esercitare i muscoli,
sviluppare il collo e irrobustire i fianchi; quand'anche ti sarai ingrossato e avrai rinforzato i muscoli,
non uguaglierai né il vigore, né il peso di un bue ben nutrito. Inoltre, se il peso del corpo è
eccessivo, lo spirito ne è schiacciato ed è meno agile. Perciò riduci quanto più puoi la cura del corpo
e lascia spazio allo spirito. (3) Se uno si occupa troppo del fisico, ha molti fastidi: per prima cosa la
fatica degli esercizi ginnici estenua lo spirito e lo rende incapace di concentrarsi e di dedicarsi agli
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
119
studi più impegnativi; l’acutezza d’ingegno è ostacolata dall’abbondanza di cibo. A questo
aggiungi che come allenatori si prendono schiavi della peggior specie, uomini occupati a ungersi
d'olio e a bere, che giudicano soddisfacente una giornata se hanno sudato abbondantemente e se al
posto del sudore versato hanno ingerito molto vino che a digiuno fa più effetto. Bere e sudare è la
vita dell'ammalato di stomaco. (4) Ci sono, invece, esercizi facili e brevi che spossano sùbito il
corpo e fanno risparmiare quel tempo che va tenuto in gran conto: la corsa, il sollevamento pesi, il
salto in alto, in lungo e quello, per così dire, tipico dei Salii o, per usare una definizione più volgare,
del "lavandaio": scegli uno qualsiasi di questi semplici e facili esercizi. (5) Ma qualunque cosa tu
faccia, ritorna sùbito dal corpo allo spirito ed esercitalo notte e giorno. L'animo si rafforza con poca
fatica; né il freddo, né il caldo e neppure la vecchiaia ne impediscono l'allenamento. Cura quel bene
che migliora col tempo.
Animum debes mutare, non caelum.
Devi cambiare animo, non cielo.
(Seneca, Epistulae ad Lucilium, XXVIII, 1)
Seneca, Epistulae ad Lucilium, XXVIII, 1-2
(1) Hoc tibi soli putas accidisse et admiraris quasi rem novam quod peregrinatione tam longa et
tot locorum varietatibus non discussisti tristitiam gravitatemque mentis? Animum debes mutare,
non caelum. Licet vastum traieceris mare, licet, ut ait Vergilius noster, terraeque urbesque
recedant, sequentur te quocumque perveneris vitia. (2) Hoc idem querenti cuidam Socrates ait,
'quid miraris nihil tibi peregrinationes prodesse, cum te circumferas? premit te eadem causa quae
expulit'. Quid terrarum iuvare novitas potest? quid cognitio urbium aut locorum? in inritum cedit
ista iactatio. Quaeris quare te fuga ista non adiuvet? tecum fugis. Onus animi deponendum est: non
ante tibi ullus placebit locus.
(1) Pensi che sia capitato solo a te e ti stupisci come di un fatto inaudito, perché, pur avendo
viaggiato a lungo e in tanti posti diversi, non ti sei scrollato di dosso la tua tristezza e il tuo
malessere spirituale? Devi cambiare animo, non cielo. Attraversa pure il mare, lascia, come dice il
nostro Virgilio, che “scompaiano terre e città all'orizzonte” i tuoi vizi ti seguiranno dovunque
andrai.
(2) Socrate, a un tale che si lagnava per la stessa ragione, disse: "Perché ti stupisci se viaggiare non
ti serve? Porti in giro te stesso. Ti perseguitano i medesimi motivi che ti hanno fatto fuggire". A che
possono giovare nuove terre? A che la conoscenza di città e posti diversi? Tutto questo agitarsi è
vano. Chiedi perché questa fuga non ti sia di aiuto? Tu fuggi con te stesso. Deponi il peso
dell'anima: prima di allora non ti sarà gradito nessun luogo.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Aequat omnes cinis.
La cenere (= la morte) rende tutti uguali.
(Seneca, Epistulae ad Lucilium, XCI, 16)
Impares nascimur, pares morimur.
Nasciamo diversi, moriamo uguali.
(Seneca, Epistulae ad Lucilium, XCI, 16)
Seneca, Epistulae ad Lucilium, XCI, 13-16
(13) Haec ergo atque eiusmodi solacia admoveo Liberali nostro incredibili quodam patriae suae
amore flagranti, quae fortasse consumpta est ut in melius excitaretur. Saepe maiori fortunae locum
fecit iniuria: multa ceciderunt ut altius surgerent. Timagenes, felicitati urbis inimicus, aiebat
Romae sibi incendia ob hoc unum dolori esse, quod sciret meliora surrectura quam arsissent. (14)
In hac quoque urbe veri simile est certaturos omnes ut maiora celsioraque quam amisere restituant.
Sint utinam diuturna et melioribus auspiciis in aevum longius condita! Nam huic coloniae ab
origine sua centensimus annus est, aetas ne homini quidem extrema. A Planco deducta in hanc
frequentiam loci opportunitate convaluit: quot tamen gravissimos casus intra spatium humanae
pertulit senectutis! (15) Itaque formetur animus ad intellectum patientiamque sortis suae et sciat
nihil inausum esse fortunae, adversus imperia illam idem habere iuris quod adversus imperantis,
adversus urbes idem posse quod adversus homines. Nihil horum indignandum est: in eum
intravimus mundum in quo his legibus vivitur. Placet: pare. Non placet: quacumque vis exi.
Indignare si quid in te iniqui proprie constitutum est; sed si haec summos imosque necessitas
alligat, in gratiam cum fato revertere, a quo omnia resolvuntur. (16) Non est quod nos tumulis
metiaris et his monumentis quae viam disparia praetexunt: aequat omnes cinis. Impares nascimur,
pares morimur.
(13) Perciò al nostro Liberale che arde di un amore straordinario per la sua patria - e forse è stata
distrutta per risorgere migliore - rivolgo queste e altre simili parole di conforto. Spesso una
disgrazia apre la strada a un destino più felice: molte opere sono risorte più splendide dalla loro
rovina. Timagene, ostile alla fortuna di Roma, diceva che gli incendi di quella città lo facevano
soffrire solo perché sapeva che sarebbero sorti edifici migliori di quelli bruciati. (14) È probabile
che anche in questa città tutti faranno a gara per ricostruire edifici più imponenti e grandiosi di
prima. Voglia il cielo che viva nel tempo e sia edificata con auspici più fausti e durevoli! Dalla
fondazione di questa colonia sono passati cento anni, che non sono il limite massimo neppure per
un uomo. Fondata da Planco, ebbe questo aumento demografico per la sua posizione favorevole: ma
quante terribili disgrazie ha subìto nello spazio di una vita umana! (15) Sappia, dunque, il nostro
animo comprendere e sopportare il proprio destino, sappia che la fortuna può osare tutto e ha gli
stessi diritti sull'autorità e su chi la detiene e lo stesso potere sulla città e sui cittadini. Non
indignamoci per questi fatti: sono le leggi che regolano la vita dell'universo di cui facciamo parte.
Ti va bene: accettale. Non ti va bene: vattene per la via che preferisci. Potresti sdegnarti se
l'ingiustizia fosse deliberata esclusivamente contro di te; ma se questa è una necessità che vincola
tutti, dal più piccolo al più grande, riconcìliati col destino, che tutto viola. (16) Non giudicare gli
uomini dalla diversità dei monumenti funebri e delle tombe che adornano le strade: la cenere rende
tutti uguali. Nasciamo diversi, moriamo uguali.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Non scholae, sed vitae discimus.
Attenzione: ordine delle parole mutato rispetto all’originale frase di Seneca!
Non studiamo per la scuola, ma per la vita.
(Seneca, Epistulae ad Lucilium, CVI, 12)
Seneca, Epistulae ad Lucilium, CVI, 12
Apertior res est sapere, immo simplicior: paucis satis est ad mentem bonam uti litteris, sed nos ut
cetera in supervacuum diffundimus, ita philosophiam ipsam. Quemadmodum omnium rerum, sic
litterarum quoque intemperantia laboramus: non vitae sed scholae discimus.
La saggezza è una cosa più chiara, anzi più semplice: basta poco studio per arrivare alla saggezza;
noi, invece, disperdiamo in speculazioni inutili anche la filosofia come tutto il resto. Pure negli studi
soffriamo di intemperanza come in ogni altra attività: impariamo per la scuola, non per la vita.
Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.
Il fato guida chi vuole lasciarsi guidare, trascina chi non vuole.
(Seneca, Epistulae ad Lucilium, CVII, 11)
Seneca, Epistolae ad Lucilium, CVII, 8-12
(8) Natura autem hoc quod vides regnum mutationibus temperat: nubilo serena succedunt;
turbantur maria cum quieverunt; flant in vicem venti; noctem dies sequitur; pars caeli consurgit,
pars mergitur: contrariis rerum aeternitas constat. (9) Ad hanc legem animus noster aptandus est;
hanc sequatur, huic pareat; et quaecumque fiunt debuisse fieri putet nec velit obiurgare naturam.
Optimum est pati quod emendare non possis, et deum quo auctore cuncta proveniunt sine
murmuratione comitari: malus miles est qui imperatorem gemens sequitur. (10) Quare inpigri
atque alacres excipiamus imperia nec deseramus hunc operis pulcherrimi cursum, cui quidquid
patiemur intextum est; et sic adloquamur Iovem, cuius gubernaculo moles ista derigitur,
quemadmodum Cleanthes noster versibus disertissimis adloquitur, quos mihi in nostrum sermonem
mutare permittitur Ciceronis, disertissimi viri, exemplo. Si placuerint, boni consules; si
displicuerint, scies me in hoc secutum Ciceronis exemplum.
(11) Duc, o parens celsique dominator poli,
quocumque placuit: nulla parendi mora est;
adsum inpiger. Fac nolle, comitabor gemens
malusque patiar facere quod licuit bono.
Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.
(12) Sic vivamus, sic loquamur; paratos nos inveniat atque inpigros fatum. Hic est magnus animus
qui se ei tradidit: at contra ille pusillus et degener qui obluctatur et de ordine mundi male existimat
et emendare mavult deos quam se.
(8) La natura governa coi cambiamenti il regno che tu vedi: alle nuvole succede il sereno; il mare è
calmo e poi si agita; i venti soffiano ora in una direzione, ora nell'altra; il giorno segue la notte; una
parte del cielo si leva, un'altra sprofonda: è la legge degli opposti a perpetuare l'universo. (9) A essa
noi dobbiamo uniformare il nostro spirito; seguiamola, obbediamole; e ogni avvenimento
stimiamolo necessario: non rimproveriamo la natura. L'atteggiamento migliore è sopportare quello
che non si può correggere e seguire la volontà di dio senza lagnarsi: tutto proviene da lui; non è un
buon soldato chi segue il comandante e si lamenta. (10) Accogliamo perciò gli ordini senza pigrizia,
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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prontamente, e non abbandoniamo il corso di questa meravigliosa opera, intessuta anche di ogni
nostra sofferenza; e a Giove, che governa e dirige l'universo, rivolgiamoci con quegli eloquentissimi
versi con cui gli si è rivolto il nostro Cleante e che io, sull'esempio di Cicerone, uomo di grande
eloquenza, mi permetto di tradurre nella nostra lingua. Se ti piacciono prendili per buoni; in caso
contrario sai che ho seguìto in questo l'esempio di Cicerone.
(11) Conducimi dove vuoi, Padre e Signore dell'alto cielo:
non esiterò a ubbidirti; sono pronto.
Se non volessi, dovrei seguirti piangendo
e dovrei subire di malanimo ciò che potevo fare volentieri.
Il fato guida chi vuole ladciarsi guidare, trascina chi non vuole.
(12) Sia questa la nostra vita, siano queste le nostre parole; il destino ci trovi pronti e attivi. È
grande l'anima che si abbandona al destino: ma è meschina e vile se lotta contro di esso e disprezza
l'ordine dell'universo e preferisce correggere gli dèi piuttosto che se stessa.
Imperare sibi maximum imperium est.
Dominare se stessi è il massimo dominio.
(Seneca, Epistulae ad Lucilium, CXIII, 30)
Seneca, Epistulae ad Lucilium, CXIII, 29-30
(29) Alexander Persas quidem et Hyrcanos et Indos et quidquid gentium usque in oceanum extendit
oriens vastabat fugabatque, sed ipse modo occiso amico, modo amisso, iacebat in tenebris, alias
scelus, alias desiderium suum maerens, victor tot regum atque populorum irae tristitiaeque
succumbens; id enim egerat ut omnia potius haberet in potestate quam adfectus. (30) O quam
magnis homines tenentur erroribus qui ius dominandi trans maria cupiunt permittere
felicissimosque se iudicant si multas [pro] milite provincias obtinent et novas veteribus adiungunt,
ignari quod sit illud ingens parque dis regnum: imperare sibi maximum imperium est.
(29) Alessandro metteva in fuga i Persiani, gli Ircani, gli Indi e tutti i popoli orientali fino
all'oceano, e ne devastava i territori, ma egli stesso, ora per l'uccisione di un amico, ora per la
perdita di un altro, giaceva nelle tenebre, afflitto dai suoi delitti o dal rimpianto; egli, vincitore di
tanti re e di tanti popoli, soccombeva all'ira e all'afflizione; aveva cercato di tenere tutto in suo
potere, ma non le passioni. (30) Quanto si ingannano quegli uomini che bramano di spingere il loro
dominio al di là del mare e pensano di essere veramente felici se occupano militarmente molte
regioni e alle vecchie ne aggiungono di nuove, e sono ignari di quale sia quello straordinario potere,
pari al potere degli dèi: dominare se stessi è il massimo dominio.
Cui prodest?
A chi giova?
(Seneca, Medea, v. 500)
Seneca, Medea, vv. 490-514
490. Ia. Perimere cum te vellet infestus Creo,
491. lacrimis meis evictus exilium dedit.
492. Me. Poenam putabam: munus, ut video, est fuga.
493. Ia. Dum licet abire, profuge teque hinc eripe:
494. gravis ira regum est semper. Me. Hoc suades mihi,
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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495.
496.
497.
498.
499.
500.
501.
502.
503.
504.
505.
506.
507.
508.
509.
510.
511.
512.
513.
514.
praestas Creusae: paelicem invisam amoves.
Ia. Medea amores obicit? Me. Et caedem et dolos.
Ia. Obicere crimen quod potes tandem mihi?
Me. Quodcumque feci. Ia. Restat hoc unum insuper,
tuis ut etiam sceleribus fiam nocens.
Me. Tua illa, tua sunt illa: cui prodest scelus,
is fecit - omnes coniugem infamem arguant,
solus tuere, solus insontem voca:
tibi innocens sit quisquis est pro te nocens.
Ia. Ingrata vita est cuius acceptae pudet.
Me. Retinenda non est cuius acceptae pudet.
Ia. Quin potius ira concitum pectus doma,
placare natis. Me. Abdico eiuro abnuo meis Creusa liberis fratres dabit?
Ia. Regina natis exulum, afflictis potens.
Me. Ne veniat umquam tam malus miseris dies,
qui prole foeda misceat prolem inclitam,
Phoebi nepotes Sisyphi nepotibus.
Ia. Quid, misera, meque teque in exitium trahis?
abscede, quaeso. Me. Supplicem audivit Creo.
Gia. Quando Creonte nel suo odio voleva eliminarti,
lo vinsero le mie lacrime e ti concesse l’esilio.
Me. La credevao una punizione, a quanto vedo, l’esilio è un regalo.
Gia. Fin tanto che ti è possibile andartene,
fuggi e togliti di qui; l’ira dei re è sempre tremenda. Me. Questo esilio che a me consigli
è un servigio reso a Creusa: allontani da lei l’odiata rivale.
Gia. Medea mi rinfaccia i miei amori? Me. Anche gli assassinii e gli inganni.
Gia. Ma dopo tutto quale delitto mi puoi rinfacciare?
Me. Tutti quelli che io ho compiuto. Gia. Ci mancava solo questo,
che io sia reso colpevole anche per i tuoi delitti.
Me. Essi sono tuoi, tuoi: il delitto lo compie veramente colui al quale esso giova –
anche se tutti accusano come infame tua moglie,
tu solo difendila, tu solo chiamala innocente:
deve essere per te innocente chiunque è diventato colpevole per amor tuo.
Gia. È ingrata la vita quando ci si vergogna di averla ricevuta.
Me. Non si deve conservare la vita quando ci si vergogna di averla ricevuta.
Gia. Piuttosto, placa il tuo petto sconvolto dall'ira,
calmati per i tuoi figli. Me. Li abbandono, rinuncio a loro, li rifiuto –
Creusa dunque darà dei fratelli ai miei figli?
Gia. Lei che è regina darà fratelli ai figli degli esuli, lei che è potente darà fratelli a degli sventurati.
Me. Non venga mai per quegli sventurati un giorno così funesto,
che mescoli una prole illustre a una prole infame,
i discendenti di Febo ai discendenti di Sisifo.
Gia. Perché, infelice, trascini nella rovina me e te insieme?
Me. Vai via, te ne prego.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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PETRONIO (? – 65 d.C.)
Quem amat, amat; quem non amat, non amat.
(La donna) chi ama, ama; chi non ama, non ama.
(Petronio, Satyricon, 37)
Petronio, Satyricon, 37
“Uxor – inquit - Trimalchionis, Fortunata appellatur, quae nummos modio metitur. Et modo modo
quid fuit? Ignoscet mihi genius tuus, noluisses de manu illius panem accipere. nunc, nec quid nec
quare, in caelum abiit et Trimalchionis topanta est. Ad summam, mero meridie si dixerit illi
tenebras esse, credet. Ipse nescit quid habeat, adeo saplutus est; sed haec lupatria providet omnia,
est ubi non putes. Est sicca, sobria, bonorum consiliorum: tantum auri vides. Est tamen malae
linguae, pica pulvinaris. Quem amat, amat; quem non amat, non amat. Ipse [Trimalchio] fundos
habet, qua milvi volant, nummorum nummos. Argentum in ostiarii illius cella plus iacet quam
quisquam in fortunis habet. Familia vero babae babae, non mehercules puto decumam partem esse
quae dominum suum noverit. Ad summam, quemvis ex istis babaecalis in rutae folium coniciet.
“La moglie di Trimalcione- dice – “si chiama Fortunata e i soldi li conta a palate. E lo sai cos'era
fino all'altro ieri? Lasciamelo dire: era una che da lei non avresti accettato nemmeno un tozzo di
pane. Adesso, non chiedermi come né perché, ha toccato il cielo con il dito ed è il braccio destro di
Trimalcione. Al punto che se a mezzogiorno spaccato lei gli dice che è notte, lui ci crede anche. Lui
stesso non lo sa mica quanto ha, tanto è ricco sfondato; a questa lupastra ne sa una più del diavolo e
non le sfugge niente. Mangia poco, non beve, e ha la testa sul collo: tutto oro quel che vedi. Però ha
una lingua, una vera cornacchia! Chi ama ama, chi non ama non ama. Lui, Trimalcione, ha tante
terre che per vederle ci vorrebbero le ali di un nibbio e fa soldi su soldi. Nella guardiola del suo
portiere c'è più oro di quanto altri ne hanno in un patrimonio intiero. Circa la servitù, lasciamo
perdere: ad aver visto in faccia il padrone, porcaccia la miseria, ce ne sarà sì e no uno su dieci.”
Antiquus amor cancer est.
Un vecchio amore è un cancro.
(Petronio, Satyricon, 42)
Petronio, Satyricon, 42
Excepit Seleucus fabulae partem et “Ego” inquit “non cotidie lavor; balniscus enim fullo est, aqua
dentes habet, et cor nostrum cotidie liquescit. sed cum mulsi pultarium obduxi, frigori laecasin
dico. nec sane lavare potui; fui enim hodie in funus. homo bellus, tam bonus Chrysanthus animam
ebulliit. modo modo me appellavit. videor mihi cum illo loqui. heu, eheu. utres inflati ambulamus.
Minoris quam muscae sumus, muscae tamen aliquam virtutem habent, nos non pluris sumus quam
bullae. Et quid si non abstinax fuisset! Quinque dies aquam in os suum non coniecit, non micam
panis. tamen abiit ad plures. medici illum perdiderunt, immo magis malus fatus; medicus enim nihil
aliud est quam animi consolatio. Tamen bene elatus est, vitali lecto, stragulis bonis. Planctus est
optime - manu misit aliquot - etiam si maligne illum ploravit uxor. quid si non illam optime
accepisset! Sed mulier quae mulier milvinum genus. neminem nihil boni facere oportet; aeque est
enim ac si in puteum conicias. Sed antiquus amor cancer est.”
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Alla conversazione prende parte anche Seleuco dicendo: “Io non mi lavo mica tutti i giorni, perché
il bagno è una cosa da lavandaie: l'acqua ha i denti e ogni giorno ti scola via un pezzo di cuore. Ma
basta che mi faccia un bel bicchiere di vino al miele e al freddo gli dico di fottersi. E poi oggi il
bagno non l'ho potuto fare perché sono andato a un funerale. Quel gentiluomo così perbene di
Crisanto se n'è andato e mi aveva fatto chiamare un attimo prima. Mi sembra ancora di averlo qui
davanti che parliamo. Mah! Siamo otri gonfiati che camminano. Siamo meno delle mosche, che
almeno un po' di vitalità ce l'hanno, mentre noi non siamo altro che bolle. E se non avesse fatto la
dieta terribile che sappiamo! È andato avanti cinque giorni senza inghiottire una goccia d'acqua o
una briciola di pane. Eppure è finito nel mondo dei più. La sua morte ce l'hanno sulla coscienza i
medici, o piuttosto un destino stramaledetto. A cosa servono poi i medici se non a tirare su il
morale? Però gli hanno fatto un funerale coi fiocchi, disteso sul suo letto pieno di addobbi di lusso.
In più l'hanno pianto di cuore per tutti quegli schiavi che aveva affrancato, mentre la sola che
fingesse di essere straziata era la moglie. E che diamine avrebbe fatto, se lui non l'avesse sempre
trattata come una regina? Ma la donna come donna è della razza dei nibbi! Non si dovrebbe mai
farle del bene, perchè è come buttarlo in un pozzo. Ma un vecchio amore è un cancro.”
Manus manum lavat.
Una mano lava l’altra.
(Petronio, Satyricon, 45)
Petronio, Satyricon, 45
Sed subolfacio quia nobis epulum daturus est Mammaea, binos denarios mihi et meis. Quod si hoc
fecerit, eripiat Norbano totum favorem. Quod si hoc fecerit, eripiet Norbano totum favorem. Scias
oportet plenis velis hunc vinciturum. Et revera, quid ille nobis boni fecit? Dedit gladiatores
sestertiarios iam decrepitos, quos si sufflasses cecidissent; iam meliores bestiarios vidi. occidit de
lucerna equites, putares eos gallos gallinaceos; alter burdubasta, alter loripes, tertiarius mortuus
pro mortuo, qui habebat nervia praecisa. Unus alicuius flaturae fuit Thraex, qui et ipse ad dictata
pugnavit. Ad summam, omnes postea secti sunt; adeo de magna turba “Adhibete" acceperant, plane
fugae merae. “Munus tamen” inquit, “tibi dedi”: et ego tibi plodo. Computa, et tibi plus do quam
accepi. Manus manum lavat.
Io sento già il profumo del banchetto che ci offrirà Mammea, e le due monete d'oro che ci
scapperanno per me e per i miei. Se lo farà davvero, porterà via a Norbano tutto il favore della
gente. Puoi scommetterci che per lui sarà un trionfo. Ma, a conti fatti, da quello lì che cosa ci
abbiamo ricavato? Ha fatto gareggiare dei gladiatori da due lire, con un piede nella bara, che li
sbattevi a terra con un soffio. In passato ho visto dei condannati che di fronte alle bestie erano molto
meglio di loro. Ha fatto ammazzare dei cavalieri da lampade, che sembravano dei galli da pollaio.
Uno era da caricarlo sul mulo, l'altro aveva i piedi piatti e il terzo, che doveva sostituire un morto,
era gi? morto pure lui con i tendini tagliati. L'unico con un po' di fiato da spendere era un Trace, ma
pure lui combatteva come se fosse in palestra. Alla fine li dovettero frustare, tanto la folla gridava
“Dagli, dagli!”: dei veri campioni dell'arte della fuga. “Io comunque uno spettacolo te l'ho offerto”,
dice lui. E io ti rispondo: “Ti ho battuto le mani. Tu fatti i tuoi bravi conti, e vedrai che ti ho dato
più di quello che ho ricevuto. Una mano lava l'altra.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Asinus in tegulis.
Un asino (che vola) sui tetti.
(Petronio, Satyricon, 37)
Petronio, Satyricon, 63-64
(63) Attonitis admiratione universis “Salvo” inquit “tuo sermone” Trimalchio “si qua fides est, ut
mihi pili inhorruerunt, quia scio Niceronem nihil nugarum narrare: immo certus est et minime
linguosus. nam et ipse vobis rem horribilem narrabo. Asinus in tegulis. Cum adhuc capillatus
essem, nam a puero vitam Chiam gessi, ipsimi nostri delicatus decessit, mehercules margaritum,
catamitus et omnium numerum. Cum ergo illum mater misella plangeret et nostrum plures in
tristimonio essemus, subito strigae coeperunt: putares canem leporem persequi. Habebamus tunc
hominem Cappadocem, longum, valde audaculum et qui valebat: poterat bovem iratum tollere. Hic
audacter stricto gladio extra ostium procucurrit, involuta sinistra manu curiose, et mulierem
tamquam hoc loco - salvum sit quod tango - mediam traiecit. Audimus gemitum, et - plane non
mentiar - ipsas non vidimus. Baro autem noster introversus se proiecit in lectum, et corpus totum
lividum habebat quasi flagellis caesus, quia scilicet illum tetigerat mala manus. Nos cluso ostio
redimus iterum ad officium, sed dum mater amplexaret corpus filii sui, tangit et videt manuciolum
de stramentis factum. Non cor habebat, non intestina, non quicquam: scilicet iam puerum strigae
involaverant et supposuerant stramenticium vavatonem. Rogo vos, oportet credatis, sunt mulieres
plussciae, sunt Nocturnae, et quod sursum est, deorsum faciunt. Ceterum baro ille longus post hoc
factum numquam coloris sui fuit, immo post paucos dies phreneticus periit”.
(64) Miramur nos et pariter credimus, osculatique mensam rogamus Nocturnas ut suis se teneant,
dum redimus a cena.
(63) Rimasti tutti a bocca aperta. “Con buona pace” commenta Trimalcione “della tua storia – sì che
mi è venuta la pelle d’oca, c’è da credermi, perch so benissimo che Nicerone frottole non ne
racconta, anzi è un tipo serio che non ama le chiacchiere. Ma una storia incredibile ve la voglio
raccontare anch'io. Un asino (che vola) sui tetti. Quando avevo ancora una testa di capelli così, che
da ragazzo io facevo il sibarita, muore il bambino del mio padrone, un ragazzino affettuoso, per dio
una perla come non ce ne sono. Mentre quella poveraccia della madre lo stava piangendo e noi
eravamo in moltissimi là intorno a vegliarlo, ecco che all'improvviso sentiamo urlare le streghe. Era
come un cane che insegue una lepre. C'era con noi uno della Cappadocia, uno spilungone, tutto
muscoli e niente paura, e così forte che riusciva a sollevarti un toro imbestialito. Questo qui, allora,
impugnata coraggiosamente la spada e proteggendosi con cura la mano sinistra con la veste, si
precipita fuori della porta e infilza per bene una di quelle donne, proprio qui nel nel mezzo, che dio
me lo conservi! Noi sentiamo un gemito, ma - non è una bugia, ve lo giuro - delle streghe nemmeno
la traccia. Ma appena rientra dentro, il nostro marcantonio si va ad accasciare sul letto col corpo
pieno di lividi, come se lo avessero preso a frustate, perché evidentemente lo aveva toccato una
mano stregata. Sprangata la porta, noi ce ne torniamo alla nostra veglia, ma quando la madre fa per
abbracciare il corpicino del figlio, mette avanti le mani e trova soltanto un fantoccio di paglia.
Niente più cuore, niente più intestino, niente di niente: era chiaro che le streghe si erano portate via
il bambino e al suo posto avevano messo quel fantoccio di paglia. Vi prego, mi dovete credere:
esistono realmente queste donne che ne sanno una più del diavolo, queste creature della notte che
sconvolgono ogni cosa. Del resto quel pezzo di spilungone, dopo il fattaccio, non ha più ripreso il
suo colorito e, tempo pochi giorni, è morto pazzo da legare”.
(64) Noi rimaniamo senza fiato come se fossimo convinti e, baciando la tavola, imploriamo le
creature della notte di restare nelle loro dimore, quando di là a poco ce ne saremmo tornati dalla
cena.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
127
PLINIO IL VECCHIO (23/23 d.C. – 79 d.C.)
Lupus in fabula
Il lupo nella conversazione
(= ecco la persona di cui si sta parlando, il cui arrivo provoca un improvviso,
imbarazzante silenzio).
La spiegazione di questa espressione proverbiale è in Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, VIII, 80.
Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, VIII, 80-81
(80) Sed in Italia quoque creditur luporum visus esse noxius vocemque homini, quem priores
contemplentur, adimere ad praesens. inertes hos parvosque Africa et Aegyptus gignunt, asperos
trucesque frigidior plaga. homines in lupos verti rursusque restitui sibi falsum esse confidenter
existimare debemus aut credere omnia quae fabulosa tot saeculis conperimus. unde tamen ista
vulgo infixa sit fama in tantum, ut in maledictis “versipelles habeat”, indicabitur.
(81) Evanthes, inter auctores Graeciae non spretus, scribit Arcadas tradere ex gente Anthi
cuiusdam sorte familiae lectum ad stagnum quoddam regionis eius duci vestituque in quercu
suspenso tranare atque abire in deserta transfigurarique in lupum et cum ceteris eiusdem generis
congregari per annos VIIII. Quo in tempore si homine se abstinuerit, reverti ad idem stagnum et,
cum tranaverit, effigiem recipere, ad pristinum habitum addito novem annorum senio. Id quoque
adicit, eandem recipere vestem. Mirum est quo procedat Graeca credulitas! nullum tam impudens
mendacium est, ut teste careat.
(80) Anche in Italia si crede che lo sguardo dei lupi sia dannoso e che tolgano l'uso della voce ad un
uomo, se lo fissano per primi. Africa ed Egitto li producono senza vigore e piccoli', mentre i paesi
piú freddi generano esemplari forti e feroci. Dobbiamo ritenere senz'altro falso che gli uomini
possano trasformarsi in lupi e poi tornare uomini, oppure dobbiamo credere a tutte quelle favole che
da tanti secoli sappiamo essere tali. Nondimeno indicherò l'origine di questa diceria, tosi radicata
fra il popolo che l'espressione «lupo mannaro» si usa come insulto. (= il versipellis è il
voltagabbana, insulto usato ad esempio da Plauto).
(81) Secondo Evante, che pure non è disprezzabile fra gli autori greci, in Arcadia si racconta che un
membro della famiglia di un certo Anto viene tirato a sorte e condotto presso uno stagno di quella
regione. Appesa la veste ad una quercia, egli passa a nuoto lo specchio d'acqua e se ne va in luoghi
deserti e si trasforma in lupo, e rinian: per 9 anni in un branco insieme agli altri di quella specie. Se
durante questo periodo si è tenuto lontano dall'uomo, ritorna poi a quello stesso stagno e,
riattraversatolo, riprende il suo aspetto umano, e alla sua antica immagine si aggiunge un
invecchiamento di nove anni. Lo scrittore aggiunge anche questo particolare, che riprende la stessa
veste. È straordinario fino a che punto si spinga la credulità dei Greci. Nessuna bugia è tanto
spudorata da essere priva dell'autorità di un testimone.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
128
Cum grano salis.
Letteralmente “con un pizzico di sale”, cioè “con un pizzico di buon senso”.
(“addito salis grano” in Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXIII, 149)
Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXIII, 147-149
(147) Nuces (...) sunt autem recentes iucundiores; siccae unguinosiores et stomacho inutiles,
difficiles concoctu, capitis dolorem inferentes, tussientibus inimicae, vomituris ieiunis aptae in
tenesmo solo, trahunt enim pituitam. Eaedem praesumptae venena hebetant, item adversantur cepis
leniuntque earum saporem. (148) Aurium inflammationi inponuntur, cum mellis exiguo et ruta
mammis et luxatis, anginae cum ruta et oleo, cum cepa autem et sale et melle canis hominisque
morsui. putamine nucis iuglandis dens cavus inuritur. putamen combustum tritumque in oleo aut
vino infantium capite peruncto nutrit capillum; ideo ad alopecias sic utuntur. Quo plures nuces quis
ederit, hoc facilius taenias pellit. quae perveteres sunt, nuces gangraenis et carbunculis medentur,
item suggillatis; cortex iuglandium lichenum vitio et dysintericis, folia trita cum aceto aurium
dolori. (149) In sanctuariis Mithridatis, maximi regis, devicti Cn. Pompeius invenit in peculiari
commentario ipsius manu conpositionem antidoti e II nucibus siccis, item ficis totidem et rutae
foliis XX simul tritis, addito salis grano: ei, qui hoc ieiunus sumat, nullum venenum nociturum illo
die. contra rabiosi quoque canis morsum nuclei a ieiuno homine commanducati inlitique praesenti
remedio esse dicuntur.
(147) Le noci fresche sono più amabili; quelle secche sono più oleose e nocive allo stomaco, di
difficile digestione; provocano mal di testa, sono controindicate a chi ha la tosse, adatte per chi vuole vomitare a digiuno, per il tenesmo e la colite, in quanto espellono il muco. Mangiate in
precedenza, smorzano l'effetto dei veleni, combattono parimenti l'acidità delle cipolle e ne
addolciscono il sapore. (148) Se ne fanno applicazioni per l'infiammazione delle orecchie; con
l'aggiunta di poco miele e di ruta, per le mammelle e le lussazioni, con ruta ed olio per l'angina,
mentre con cipolla, sale e miele per i morsi di cani ed uomini. Usando il guscio di noce si
cauterizzano i denti cariati. Il guscio, bruciato e pestato in olio o vino, frizionato sul capo dei
bambini, ne nutre i capelli e nello stesso modo esso è adoperato per trattare l'alopecia. Quante più
noci si mangiano, tanto più facilmente si espelle la tenia. Le noci molto stagionate sono una cura
contro la cancrena e le bolle nere nonché le contusioni; il mallo delle noci guarisce i licheni e la dissenteria, le foglie, pestate con l'aceto, il mal d'orecchi. (149) Nell'archivio segreto del potente re
Mitridate*, dopo averlo sconfitto, Gneo Pompeo trovò in un registro personale, scritto di suo pugno,
la ricetta di un antidoto, composto da 2 noci secche, altrettanti fichi e 20 foglie di ruta, il tutto
pestato ed amalgamato, con l'aggiunta di un granello di sale; a chi avesse preso questo antidoto a
digiuno, nessun veleno avrebbe nuociuto durante tutta la giornata. Anche contro il morso di un cane
rabbioso le noci, masticate a digiuno e poi applicate, sono un rimedio efficace, pare.
*Si tratta di Mitridate VI Eupatore, re del Ponto, morto nel 63 a.C., contro il quale Roma combatté tre guerre, finché
fu definitivamente sconfitto da Pompeo. Egli fu famoso nell'antichità per la sua grande competenza di veleni, contro
il cui effetto aveva preparato una sorta di antidoto universale (Mithridaticum antidoton) la cui formula era stata
scoperta da Pompeo e da lui fatta tradurre dal suo affrancato Pompeo Leneo.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
129
Nulla dies sine linea.
Nessun giorno senza una linea.
(da Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXV, 84)
Sutor, ne ultra crepidam.
Nessun giorno senza una linea.
(da Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXV, 85)
Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXV, 84-85
(84) Apelli fuit alioqui perpetua consuetudo numquam tam occupatum diem agendi, ut non
lineam ducendo exerceret artem, Quod ab eo in proverbium venit. Idem perfecta opera proponebat
in pergula transeuntibus atque, ipse post tabulam latens, vitia quae notarentur auscultabat, vulgum
diligentiorem iudicem quam se praeferens; (85) feruntque reprehensum a sutore, quod in crepidis
una pauciores intus fecisset ansas, eodem postero die superbo emendatione pristinae admonitionis
cavillante circa crus, indignatum prospexisse denuntiantem, ne supra crepidam sutor iudicaret,
quod et ipsum in proverbium abiit.
Del resto Apelle ebbe sempre l'abitudine di non trascorrere mai un giorno tosi occupato da
impedirgli di esercitare l'arte tracciando almeno una linea, da dove il noto proverbio. Egli stesso
esponeva le sue opere finite in una loggia ai passanti, e, nascosto dietro il quadro, ascoltava le
critiche che gli venivano fatte preferendo, in quanto giudice piú diligente, il volgo a se stesso; e
raccontano che una volta fu rimproverato da un calzolaio poiché nei sandali aveva fatto all'interno
un occhiello in meno; il giorno dopo, lo stesso calzolaio, inorgoglito che il difetto fosse stato
corretto in seguito alla sua osservazione del giorno precedente, voleva cavillare sulla gamba; allora
Apelle si parò dinanzi al suo accusatore, e disse indignato che la sua critica non doveva salire
oltre il calzare, e anche questa espressione è divenuta proverbiale.
Carthago delenda est.
Cartagine deve essere distrutta.
(da Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XV, 74)
Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XV, 74-76
Sed a Catone appellata iam tum Africana admonet Africae ad ingens docimentum usi eo pomo.
namque perniciali odio Carthaginis flagrans nepotumque securitatis anxius, cum clamaret omni
senatu Carthaginem delendam (esse), adtulit quodam die in curiam praecocem ex ea provincia
ficum ostendensque patribus: "Interrogo vos," inquit, "quando hanc pomum demptam putetis ex
arbore." cum inter omnes recentem esse constaret: "Atqui tertium," inquit, "ante diem scitote
decerptam Carthagine. tam prope a moeris habemus hostem!" statimque sumptum est Punicum
tertium bellum, quo Carthago deleta est, quamquam Catone anno sequente rapto. Quid primum in
eo miremur, curam ingeni an occasionem fortuitam, celeritatemque cursus an vehementiam viri?
super omnia est, quo nihil equidem duco mirabilius, tantam illam urbem et de terrarum orbe per
CXX annos aemulam unius pomi argumento eversam, quod non Trebia aut Trasimenus, non
Cannae busto Romani nominis perficere potuere, non castra Punica ad tertium lapidem vallata
portaeque Collinae adequitans ipse Hannibal. tanto propius Carthaginem pomo Cato admovit!
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
130
(74) Ma la varietà denominata già allora africana da Catone mi fa ricordare l'uso che egli fece di
quel frutto per compiere un'esemplare dimostrazione riguardo all'Africa. Infatti, infiammato da un
odio mortale contro Cartagine e preoccupato per la sicurezza dei discendenti, gridando ad ogni
riunione del senato che bisognava distruggere Cartagine, un giorno portò nella Curia un fico precoce proveniente da quella provincia e, mostrandolo ai senatori, disse: «Io vi domando quando
pensate che questo frutto sia stato colto dall'albero».
(75) Poiché l'opinione comune era che esso fosse fresco: «Ebbene, sappiate, disse, che è stato colto
tre giorni fa a Cartagine. Tanto vicino alle mura abbiamo il nemico!» E subito fu intrapresa la terza
guerra punica, in seguito alla quale Cartagine fu distrutta, benché Catone ci fu strappato l'anno
successivo. Che cosa dobbiamo piú ammirare al riguardo, l'ingegnosità della mente o la coincidenza
fortuita, la rapidità del viaggio o la forza di carattere dell’uomo?
(76) Supera tutto il fatto, del quale per parte mia ritengo non ci sia nulla di piú sorprendente, che
questa città cosí importante, che per 120 anni era stata rivale di Roma per il dominio sul mondo, fu
distrutta per le argomentazioni fornite da un solo frutto, cosa che non la Trebbia o il Trasimeno, non
Canne, tomba della gloria romana, non l'accampamento punico piazzato a tre miglia da Roma, non
Annibale in persona che cavalcava davanti alla porta Collina, avevano potuto ottenere. Cosí tanto,
con un frutto, Catone fece sentire piú vicina Cartagine!
MARZIALE (ca. 40 d.C. – 101/104 d.C.)
Nolo nimis facilem, nimis difficilem.
Non la voglio troppo facile, (non la voglio) troppo difficile.
(Marziale, Epigrammi, I, 57, v.2)
Marziale, Epigrammi, I, 57
Qualem, Flacce, velim quaeris nolimve puellam?
Nolo nimis facilem difficilemque nimis.
Illud quod medium est atque inter utrumque probamus:
Nec volo quod cruciat, nec volo quod satiat.
Mi chiedi, o Flacco, quale tipo di donna voglio o non voglio.
Non la voglio troppo facile e (non la voglio) troppo difficile.
Ci va bene ciò che è nel mezzo e tra i due estremi:
non voglio qualcosa che mi metta in croce e non voglio qualcosa che mi venga a noia.
Cras vives? Hodie iam vivere serum est.
Vivrai domani? Ma se è già tardi vivere oggi!
(Marziale, Epigrammi, V, 58, v.7)
Marziale, Epigrammi, V, 58
1. Cras te victurum, cras dicis, Postume, semper:
2. dic mihi, cras istud, Postume, quando venit?
3. Quam longe cras istud! ubi est? aut unde petendum?
4. Numquid apud Parthos Armeniosque latet?
5. Iam cras istud habet Priami vel Nestoris annos.
6. Cras istud quanti, dic mihi, possit emi?
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
131
7. Cras vives? Hodie iam vivere, Postume, serum est:
8. ille sapit quisquis, Postume, vixit heri.
Dici che domani vivrai, o Postumo, dici sempre domani:
dimmi, o Postumo, questo “domani” quando viene?
Quanto è lontano questo “domani”? Dove abita? O dove bisogna cercarlo?
Si nasconde forse tra i Parti, tra gli Armeni?
Questo “domani” ha ormai gli anni di Priamo o di Nestore?
Dimmi, questo “domani” a che prezzo potrebbe essere comprato?
Vivrai domani? Ma se è già tardi, o Postumo, vivere oggi!
È saggio, o Postumo, quello che ha vissuto ieri.
Nec tecum possum vivere, nec sine te.
Non posso vivere né con te, né senza di te.
(Marziale, Epigrammi, XII, 46, v.2)
Marziale, Epigrammi, XII, 46
1. Difficilis facilis, iucundus acerbus es idem:
2. Nec tecum possum vivere, nec sine te.
1. Sei al tempo stesso facile e difficile, dolce e amaro:
2. non posso vivere né con te, né senza di te.
GIOVENALE (50/60 d.C. – dopo il 127 d.C.)
Probitas laudatur et alget.
L’onestà viene lodata, ma muore di freddo.
(Giovenale, Satire, I, v. 74)
Facit indignatio versum.
L’indignazione detta i versi.
(Giovenale, Satire, I, v. 79)
Giovenale, Satire, I, vv. 69-80
Occurrit matrona potens, quae molle Calenum
porrectura viro miscet sitiente rubetam
instituitque rudes melior Lucusta propinquas
per famam et populum nigros efferre maritos.
Aude aliquid brevibus Gyaris et carcere dignum,
si vis esse aliquid. Probitas laudatur et alget;
criminibus debent hortos, praetoria, mensas,
argentum vetus et stantem extra pocula caprum.
Quem patitur dormire nurus corruptor auarae,
quem sponsae turpes et praetextatus adulter?
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
132
Si natura negat, facit indignatio versum
qualemcumque potest, quales ego vel Cluvienus.
Arriva una gran dama che, all'atto di porgere al marito assetato l'amabile vino di Cales, vi
mescola veleno di rana e, più abile di Locusta, insegna alle inesperte cognate a seppellire i mariti
illividiti tra le chiacchiere della gente. Se vuoi essere qualcuno, devi osare un misfatto degno della
piccola Giaro o del carcere. L'onestà viene lodata, ma muore di freddo: è ai delitti che si
devono i giardini, i palazzi, le mense, le stoviglie di argento antico e questo caprone che si stacca in
rilievo sulla coppa. A chi non tolgono il sonno il seduttore di un’avida nuora, le fidanzate già
corrotte e un adultero ancora in pretesta? Se la natura non lo concede, l’indignazione detta i versi
come può: come posso farli io o un Cluvieno qualsiasi.
Omnia cum pretio.
Ogni cosa ha un prezzo.
(Giovenale, Satire, III, v. 183-184)
Giovenale, Satire, III, vv. 160-185
160. Quis gener hic placuit censu minor atque puellae
161. sarcinulis inpar? Quis pauper scribitur heres?
162. Quando in consilio est aedilibus? Agmine facto
163. debuerant olim tenues migrasse Quirites.
164. haut facile emergunt quorum virtutibus obstat
165. res angusta domi, sed Romae durior illis
166. conatus: magno hospitium miserabile, magno
167. servorum ventres, et frugi cenula magno.
168. Fictilibus cenare pudet, quod turpe negabis
169. translatus subito ad Marsos mensamque Sabellam
170. contentusque illic Veneto duroque cucullo.
171. Pars magna Italiae est, si verum admittimus, in qua
172. nemo togam sumit nisi mortuus. Ipsa dierum
173. festorum herboso colitur si quando theatro
174. maiestas tandemque redit ad pulpita notum
175. exodium, cum personae pallentis hiatum
176. in gremio matris formidat rusticus infans,
177. aequales habitus illic similesque videbis
178. orchestram et populum; clari velamen honoris
179. sufficiunt tunicae summis aedilibus albae.
180. Hic ultra vires habitus nitor, hic aliquid plus
181. quam satis est interdum aliena sumitur arca.
182. Commune id vitium est: hic vivimus ambitiosa
183. paupertate omnes. Quid te moror? Omnia Romae
184. cum pretio. Quid das, ut Cossum aliquando salutes,
185. ut te respiciat clauso Veiiento labello?
Qual genero mai è ben accetto qui, se non arriva alla dote della fanciulla e non pareggia il suo
corredo? Quale povero è compreso in un testamento? Quando mai è scelto come assessore degli edili?
Da tempo i Quiriti poveri avrebbero dovuto emigrare tutti in massa. Non è facile che possano
emergere coloro alle cui virtù è di ostacolo la ristrettezza del patrimonio domestico; ma a Roma
il loro sforzo è più duro: un miserabile appartamento costa molto, molto il mantenimento dei servi e
molto una frugale cenetta. Si ha vergogna a mangiare con stoviglie di coccio, ma non lo troveresti
disonorevole se fossi trasportato ad un tratto fra i Marsi o alla tavola dei Sabini, ove ti
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
133
contenteresti di una rozza cappa verde chiaro. C'è una gran parte d'Italia - bisogna riconoscere la
verità - in cui nessuno veste la toga, se non quando è morto. Se talvolta la solennità dei giorni di festa
viene celebrata in un teatro ove cresce l'erba, e infine torna sulla scena la ben nota farsa, durante la
quale il rustico bimbo, nel grembo della madre, trepida al ghigno della pallida maschera, quivi tu puoi
vedere abiti uguali e nessuna differenza tra quelli che siedono nell'orchestra e il popolo; le tuniche
bianche, ornamento della loro alta carica, bastano alla maestà degli edili. Qui invece l'abito è splendido oltre le possibilità; qui c'è sempre qualcosa di superfluo; e talvolta si prende dallo scrigno
d'altri. Questo è un vizio comune. Qui tutti viviamo in una povertà piena di ambizioni.
Per dirla in breve, a Roma tutto ha un prezzo. Che cosa paghi per poter salutare qualche volta
Cosso o perché Veientone ti dia un'occhiata senza neppure aprire bocca?
Rara avis.
Uccello raro.
(Giovenale, Satire, VI, v. 165)
Quis feret uxorem cui constant omnia?
Chi potrà sopportare una donna che abbia ogni virtù?
(Giovenale, Satire, VI, v. 166)
Quis custodiet ipsos custodes?
Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?
(Giovenale, Satire, VI, v. 347-348)
Giovenale, Satire, VI, 161-183; 346-351
161 “Nullane de tantis gregibus tibi digna videtur?”
162 sit formonsa, decens, diues, fecunda, vetustos
163 porticibus disponat avos, intactior omni
164 crinibus effusis bellum dirimente Sabina,
165 rara avis in terris nigroque simillima cycno,
166 quis feret uxorem cui constant omnia? Malo,
167 malo Venustinam quam te, Cornelia, mater
168 Gracchorum, si cum magnis virtutibus adfers
169 grande supercilium et numeras in dote triumphos.
170 tolle tuum, precor, Hannibalem victumque Syphacem
171 in castris et cum tota Carthagine migra.
172 “Parce, precor, Paean, et tu, dea, pone sagittas;
173 nil pueri faciunt, ipsam configite matrem”.
174 Amphion clamat, sed Paean contrahit arcum.
175 extulit ergo greges natorum ipsumque parentem,
176 dum sibi nobilior Latonae gente videtur
177 atque eadem scrofa Niobe fecundior alba.
178 quae tanti gravitas, quae forma, ut se tibi semper
179 imputet? huius enim rari summique voluptas
180 nulla boni, quotiens animo corrupta superbo
181 plus aloes quam mellis habet. Quis deditus autem
182 usque adeo est, ut non illam quam laudibus effert
183 horreat inque diem septenis oderit horis?
(...)
Audio quid veteres olim moneatis amici,
“Pone seram, cohibe”. Sed quis custodiet ipsos
custodes? Cauta est et ab illis incipit uxor.
Iamque eadem summis pariter minimisque libido,
nec melior silicem pedibus quae conterit atrum
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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quam quae longorum vehitur cervice Syrorum.
“Dunque non trovi proprio nessuna degna di te in queste schiere così numerose?” Poniamo che sia
bella, elegante, ricca, feconda: e che, più illibata della Sabina che seppe un giorno a chiome sciolte
stroncare la guerra, ostenti nell'atrio antenati di antica nobiltà (uccello raro, in verità, simile in
tutto al cigno nero!): chi potrà sopportare una donna che abbia ogni virtù? Preferisco allora
l'umile Venustina a te, Cornelia madre dei Gracchi, se mi porti in casa con le tue eccellenti virtù un
sussiego sdegnoso e conti nella dote anche i trionfi di famiglia! Riprenditi, per piacere, il tuo
Annibale, Siface vinto nel suo accampamento e sgombra con l'intera Cartagine! “Pietà, Apollo ti
supplico! E tu, o dea, deponi l'arco! Questi fanciulli sono innocenti, colpite solo la madre!” grida
Anfione; ma Apollo tende il suo arco. E così Niobe seppellì le schiere dei suoi figli e lo stesso padre,
per essersi creduta più nobile dei figli di Latona e persino più feconda della scrofa bianca. Non v'è
austerità o bellezza di tanto pregio da doversela continuamente sentir rinfacciare. Anche il
piacere che può derivare da queste virtù eccelse e rare svanisce se è guastato dalla superbia e viene a
contenere più fiele che miele. Chi è a tal punto succube della moglie da non odiare almeno sette ore al
giorno colei che a parole esalta? (...)
Ascolto, vecchi amici, il consiglio che mi date da tempo: “Metti il catenaccio, chiudila in casa!”.
Ma chi sorveglierà i sorveglianti stessi? Mia moglie è furba e comincia da quelli. Le più altolocate
e le più umili sono ormai ugualmente libidinose. Quella che calca con i suoi piedi il polversoso
selciato non è migliore di quella che si fa portare sulle spalle dei lunghi schiavi siriaci.
Panem et circenses.
Pane e giochi del circo.
(Giovenale, Satire, X, v. 81)
Expende Hannibalem.
Pesa (le ceneri di) Annibale.
(Giovenale, Satire, X, v. 147)
Mens sana in corpore sano.
Uno spirito sano in un corpo sano.
(Giovenale, Satire, X, v. 356)
Giovenale, Satire, X, vv. 74-81
Idem populus, si Nortia Tusco
favisset, si oppressa foret secura senectus
principis, hac ipsa Seianum diceret hora
Augustum. Iam pridem, ex quo suffragia nulli
vendimus, effudit curas; nam qui dabat olim
imperium, fasces, legiones, omnia, nunc se
continet atque duas tantum res anxius optat,
panem et circenses.
Questo popolo medesimo, se Norzia avesse favorito il suo Toscano e il vecchio Imperatore, ignaro,
fosse stato tolto di mezzo, in questo momento stesso proclamerebbe Seiano Augusto. Già da tempo,
da quando non si vendono più i voti, ha perduto ogni interesse alla politica; esso che una volta
attribuiva i pieni poteri, i fasci, le legioni, tutto, ora lascia fare e brama ansioso solo due cose: il pane
e i giochi.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
135
Giovenale, Satire, X, vv. 133-167
133. Bellorum exuviae, truncis adfixa tropaeis
134. lorica et fracta de casside buccula pendens
135. et curtum temone iugum uictaeque triremis
136. aplustre et summo tristis captiuos in arcu
137. humanis maiora bonis creduntur. Ad hoc se
138. Romanus Graiusque et barbarus induperator
139. erexit, causas discriminis atque laboris
140. inde habuit: tanto maior famae sitis est quam
141. virtutis. Quis enim virtutem amplectitur ipsam,
142. praemia si tollas? patriam tamen obruit olim
143. gloria paucorum et laudis titulique cupido
144. haesuri saxis cinerum custodibus, ad quae
145. discutienda valent sterilis mala robora fici,
146. quandoquidem data sunt ipsis quoque fata sepulcris.
147. Expende Hannibalem: quot libras in duce summo
148. invenies? Hic est quem non capit Africa Mauro
149. percussa oceano Niloque admota tepenti
150. rursus ad Aethiopum populos aliosque elephantos.
151. additur imperiis Hispania, Pyrenaeum
152. transilit. Opposuit natura Alpemque nivemque:
153. diducit scopulos et montem rumpit aceto.
154. Iam tenet Italiam, tamen ultra pergere tendit.
155. “Acti” inquit “nihil est, nisi Poeno milite portas
156. frangimus et media vexillum pono Subura.”
157. O qualis facies et quali digna tabella,
158. cum Gaetula ducem portaret belua luscum!
159. Exitus ergo quis est? O gloria! Vincitur idem
160. nempe et in exilium praeceps fugit atque ibi magnus
161. mirandusque cliens sedet ad praetoria regis,
162. donec Bithyno libeat vigilare tyranno.
163. Finem animae, quae res humanas miscuit olim,
164. non gladii, non saxa dabunt nec tela, sed ille
165. Cannarum vindex et tanti sanguinis ultor
166. anulus. I, demens, et saevas curre per Alpes
167. ut pueris placeas et declamatio fias.
Le spoglie di guerra, una corazza appesa a mutili trofei, una gorgiera che pende da un elmo rotto, un
giogo tronco del timone, l'aplustro di una vinta trireme e un prigioniero avvilito al sommo
dell'arco trionfale sono stimati beni più che umani. A questo fine si fece forza, in questo trovò
ragione di affrontare pericoli e fatiche il condottiero romano e greco e barbaro; tanto è superiore la
sete di gloria a quella di virtù. Toltone il profitto, chi mai abbraccia la virtù per se stessa? E
tuttavia, un tempo, trasse a rovina la patria l'ambizione di pochi e il desiderio della fama o di
un'iscrizione da incidersi sulla pietra custode delle ceneri: pietra che bastano a disgregare le inutili
radici di uno sterile fico, poiché anche i sepolcri hanno segnata la sorte. Pesa un po' le ceneri
di Annibale: quante libbre troverai in questo eccelso condottiero? Eppure è colui a cui non basta
l'Africa battuta dall'oceano Mauro e confinante dalla parte opposta col tepido Nilo fino ai popoli
dell'Etiopia ove sono altri elefanti. Aggiunge alle sue conquiste la Spagna, oltrepassa i Pirenei. La
natura gli oppose le Alpi nevose: ed egli rimuove le rupi e disgrega la montagna con l'aceto. È
ormai in Italia, ma vuole spingersi più avanti: «Non ho fatto nulla», esclama, «se non rompo
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
136
le porte col mio esercito cartaginese e non pianto lo stendardo in mezzo alla Suburra! » Quale
scena degna veramente di un gran quadro, l'elefante getulico che trasporta l'orbo duce. Qual è
dunque la fine? O gloria! Viene battuto, naturalmente, e scappa in esilio a precipizio e lì siede, cliente
nobile ed eccezionale, dinanzi alla tenda pretoria del re, fino a quando il tiranno di Bitinia si degnerà
di aprire gli occhi. E a quella vita che un giorno mise sossopra l'universo, non metteran fine né pietre,
né dardi, ma quel famoso anello, vindice di Canne e punitore di tante stragi. Su, dunque, o pazzo,
corri attraverso le Alpi crudeli, per divertire i ragazzi e diventare tema di declamazioni!
Giovenale, Satire, X, vv. 346-366
346. Nil ergo optabunt homines? si consilium vis,
347. permittes ipsis expendere numinibus quid
348. conveniat nobis rebusque sit utile nostris;
349. nam pro iucundis aptissima quaeque dabunt di.
350. carior est illis homo quam sibi. nos animorum
351. inpulsu et caeca magnaque cupidine ducti
352. coniugium petimus partumque uxoris, at illis
353. notum qui pueri qualisque futura sit uxor.
354. ut tamen et poscas aliquid voveasque sacellis
355. exta et candiduli divina tomacula porci,
356. orandum est ut sit mens sana in corpore sano.
357. fortem posce animum mortis terrore carentem,
358. qui spatium vitae extremum inter munera ponat
359. naturae, qui ferre queat quoscumque labores,
360. nesciat irasci, cupiat nihil et potiores
361. Herculis aerumnas credat saevosque labores
362. et venere et cenis et pluma Sardanapalli.
363. monstro quod ipse tibi possis dare; semita certe
364. tranquillae per virtutem patet unica uitae.
365. nullum numen habes, si sit prudentia: nos te,
366. nos facimus, Fortuna, deam caeloque locamus.
Gli uomini non esprimeranno dunque alcun desiderio? Se vuoi un consiglio, lascia agli dèi
medesimi il giudicare che cosa ci convenga e sia favorevole ai nostri interessi. Gli dèi infatti, invece
di ciò che piace, ci daranno ogni volta ciò che è più utile, l’uomo è più caro ad essi che a se stesso.
Trasportati dall'impulso del cuore e dal desiderio cieco e ardente noi vogliamo una moglie e dei figli:
ma essi sanno che cosa saranno i fanciulli e che cosa sarà la moglie. Ma affinché tu possa
invocare qualcosa e offrire nei santuari le viscere e le sacre salsicce di un bianco porco, prega di
avere uno spirito sano in un corpo sano. Chiedi un animo virile e libero dalla paura della morte,
che conti la lunghezza della vita come l'ultimo tra i doni della natura, che sappia tollerare
qualunque fatica, che non conosca la collera, nulla desìderi e preferisca i travagli e le dure fatiche di
Ercole agli amori, ai festini e alle piume di Sardanapalo. Ti ho indicato dei beni che tu stesso
puoi procurarti; un sentiero soltanto si apre ad una vita tranquilla: quello della virtù. Dov'è la
saggezza, non manca l'aiuto degli dèi: siamo noi, o Fortuna, che ti facciamo dea e ti innalziamo al
cielo.
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Maxima debetur puero reverentia.
Al fanciullo si deve il massimo rispetto.
(Giovenale, Satire, XIV, v. 47)
Giovenale, Satire, XIV, vv. 38-58
Abstineas igitur damnandis. huius enim uel
una potens ratio est, ne crimina nostra sequantur
ex nobis geniti, quoniam dociles imitandis
turpibus ac pravis omnes sumus, et Catilinam
quocumque in populo uideas, quocumque sub axe,
sed nec Brutus erit Bruti nec auunculus usquam.
nil dictu foedum uisuque haec limina tangat
intra quae pater est. Procul, a procul inde puellae
lenonum et cantus pernoctantis parasiti.
maxima debetur puero reverentia, si quid
turpe paras, nec tu pueri contempseris annos,
sed peccaturo obstet tibi filius infans.
Nam si quid dignum censoris fecerit ira
quandoque et similem tibi se non corpore tantum
nec uultu dederit, morum quoque filius et qui
omnia deterius tua per vestigia peccet,
corripies nimirum et castigabis acerbo
clamore ac post haec tabulas mutare parabis.
Unde tibi frontem libertatemque parentis,
cum facias peiora senex vacuumque cerebro
iam pridem caput hoc ventosa cucurbita quaerat?
Tienti, dunque, lontano da azioni condannabili; di ciò infatti, anche se unica, hai una ragione
pressante: che i nati da noi non seguano i nostri delitti; poiché tutti siamo docili nell'imitare le
turpitudini e le malvagità. Presso qualsiasi popolo, sotto qualunque latitudine tu potresti vedere un
Catilina; ma non ci sarà un Bruto né uno zio di Bruto in alcun luogo. Nessuna cosa che sia turpe a dirsi
o a vedersi tocchi le soglie entro cui si trova un padre. Lontano, oh, lontano dì qui le cortigiane e i
canti del parassita nottambulo! Al fanciullo si deve il massimo rispetto, se stai macchinando
qualcosa di turpe; non mancare di rispetto all'età di tuo figlio, ma proprio il figlio bambino sia di
ostacolo alla tua intenzione di peccare. Infatti, se un giorno commetterà un'azione degna dell'ira del
censore e si mostrerà simile a te non soltanto nel corpo o nel volto ma anche figlio dei tuoi costumi e
tale da peccare più gravemente di te, seguendo le tue tracce, lo rimprovererai certamente e lo
castigherai con urla tremende e ti accingerai dopo di ciò a cambiare il testamento. Ma da
dove trarrai l'ardire e la franchezza dì un padre, quando tu, vecchio, ne fai di peggiori, e già da un
pezzo la tua testa vuota di cervello reclama le ventose?
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TACITO (55/57 d.C. – dopo il 117 d.C.)
Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.
Dove fanno il deserto dicono che è la pace.
(Tacito, Agricola, 30)
Tacito, Agricola, 30
“Quotiens causas belli et necessitatem nostram intueor, magnus mihi animus est hodiernum diem
consensumque vestrum initium libertatis toti Britanniae fore: nam et universi coistis et servitutis
expertes, et nullae ultra terrae ac ne mare quidem securum inminente nobis classe Romana. Ita
proelium atque arma, quae fortibus honesta, eadem etiam ignavis tutissima sunt. Priores pugnae,
quibus adversus Romanos varia fortuna certatum est, spem ac subsidium in nostris manibus
habebant, quia nobilissimi totius Britanniae eoque in ipsis penetralibus siti nec ulla servientium
litora aspicientes, oculos quoque a contactu dominationis inviolatos habebamus. nos terrarum ac
libertatis extremos recessus ipse ac sinus famae in hunc diem defendit: nunc terminus Britanniae
patet, atque omne ignotum pro magnifico est; sed nulla iam ultra gens, nihil nisi fluctus ac saxa, et
infestiores Romani, quorum superbiam frustra per obsequium ac modestiam effugias. raptores
orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si
pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari
adfectu concupiscunt. auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem
faciunt, pacem appellant”.
“Quando ripenso alle cause della guerra e alla terribile situazione in cui versiamo, nutro la grande
speranza che questo giorno, che vi vede concordi, segni per tutta la Britannia l'inizio della libertà.
Sì, perché per voi tutti qui accorsi in massa, che non sapete cosa significhi servitù, non c'è altra terra
oltre questa e neanche il mare è sicuro, da quando su di noi incombe la flotta romana. Perciò
combattere con le armi in pugno, scelta gloriosa dei forti, è sicura difesa anche per i meno
coraggiosi. I nostri compagni che si sono battuti prima d'ora con varia fortuna contro i Romani
avevano nelle nostre braccia una speranza e un aiuto, perché noi, i più nobili di tutta la Britannia perciò vi abitiamo proprio nel cuore, senza neanche vedere le coste dove risiede chi ha accettato la
servitù - avevamo perfino gli occhi non contaminati dalla dominazione romana. Noi, al limite
estremo del mondo e della libertà, siamo stati fino a oggi protetti dall'isolamento e dall'oscurità del
nome. Ora si aprono i confini ultimi della Britannia e l'ignoto è un fascino: ma dopo di noi non ci
sono più popoli, bensì solo scogli e onde e il flagello peggiore, i Romani, alla cui prepotenza non
fanno difesa la sottomissione e l'umiltà. Predatori del mondo intero, adesso che mancano terre alla
loro sete di totale devastazione, vanno a frugare anche il mare: avidi se il nemico è ricco, arroganti
se povero, gente che né l'oriente né l'occidente possono saziare; loro soli bramano possedere con
pari smania ricchezze e miseria. Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano
impero; infine, dove fanno il deserto, dicono che è la pace.”
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Proprium humani ingenii est odisse quem laeseris.
È tipico della natura umana odiare la persona a cui si è rivolta un’offesa.
(Tacito, Agricola, 42)
Tacito, Agricola, 42
Aderat iam annus, quo proconsulatum Africae et Asiae sortiretur, et occiso Civica nuper nec
Agricolae consilium deerat nec Domitiano exemplum. Accessere quidam cogitationum principis
periti, qui iturusne esset in provinciam ultro Agricolam interrogarent. Ac primo occultius quietem
et otium laudare, mox operam suam in adprobanda excusatione offerre, postremo non iam obscuri
suadentes simul terrentesque pertraxere ad Domitianum. Qui paratus simulatione, in adrogantiam
compositus, et audiit preces excusantis, et, cum adnuisset, agi sibi gratias passus est, nec erubuit
beneficii invidia. Salarium tamen proconsulare solitum offerri et quibusdam a se ipso concessum
Agricolae non dedit, sive offensus non petitum, sive ex conscientia, ne quod vetuerat videretur
emisse. Proprium humani ingenii est odisse quem laeseris: Domitiani vero natura praeceps in
iram, et quo obscurior, eo inrevocabilior, moderatione tamen prudentiaque Agricolae leniebatur,
quia non contumacia neque inani iactatione libertatis famam fatumque provocabat. Sciant, quibus
moris est inlicita mirari, posse etiam sub malis principibus magnos viros esse, obsequiumque ac
modestiam, si industria ac vigor adsint, eo laudis excedere, quo plerique per abrupta, sed in nullum
rei publicae usum ambitiosa morte inclaruerunt.
Era ormai giunto l'anno in cui si doveva sorteggiare il proconsolato d'Africa e quello d'Asia e la
recente uccisione di Civica non poteva non essere un avvertimento per Agricola e un valido
precedente per Domiziano. Alcune persone, bene informate delle intenzioni del principe,
avvicinarono Agricola in forma ufficiosa per sondare se fosse disposto a recarsi come governatore
in una provincia. Cominciarono con aria distaccata a lodare i vantaggi di una vita tranquilla, poi
offrirono il loro interessamento per far accettare al principe la sua rinuncia e alla fine, ormai a carte
scoperte, con pressioni sfioranti la minaccia, lo condussero da Domiziano. Costui, pronto a fingere e
con tono di sdegnosa degnazione, ascoltò la preghiera di esonero e, nell'accoglierla, ebbe il coraggio
di stare a sentire i ringraziamenti senza arrossire dell'odiosa sua concessione. Non offerse tuttavia
ad Agricola lo stipendio proconsolare, per consuetudine accordato e che lui stesso aveva già
concesso ad altri: offeso forse perché nessuna richiesta era venuta da Agricola o forse per il timore
che risultasse aver egli comprato un rifiuto imposto. È tipico della natura umana odiare la
persona a cui si è rivolta l’offesa; Domiziano, d'altra parte, pur incline per indole all'ira tanto più
implacabile se soffocata, era in parte acquietato dalla misurata prudenza di Agricola, che non
cercava la gloria sfidando la morte con spavalderia e con vana esibizione di libertà di spirito.
Sappiano coloro che son soliti ammirare i gesti di ribellione che anche sotto cattivi prìncipi vi
possono essere uomini grandi e che una riservata obbedienza, se accompagnata da energica
operosità, può innalzare al vertice di quella gloria di cui molti si ammantano ostentando il sacrificio
della propria vita, attraverso arduo percorso e senza vantaggio per lo stato.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Sic vivendum, sic pereundum.
Così si deve vivere, così si deve morire.
(Tacito, Germania, 18)
Tacito, Germania, 18-19
(18) Quamquam severa illic matrimonia, nec ullam morum partem magis laudaveris. Nam prope
soli barbarorum singulis uxoribus contenti sunt, exceptis admodum paucis, qui non libidine, sed ob
nobilitatem plurimis nuptiis ambiuntur. Dotem non uxor marito, sed uxori maritus offert. Intersunt
parentes et propinqui ac munera probant, munera non ad delicias muliebres quaesita nec quibus
nova nupta comatur, sed boves et frenatum equum et scutum cum framea gladioque. In haec
munera uxor accipitur, atque in vicem ipsa armorum aliquid viro adfert: hoc maximum vinculum,
haec arcana sacra, hos coniugales deos arbitrantur. Ne se mulier extra virtutum cogitationes
extraque bellorum casus putet, ipsis incipientis matrimonii auspiciis admonetur venire se laborum
periculorumque sociam, idem in pace, idem in proelio passuram ausuramque. Hoc iuncti boves,
hoc paratus equus, hoc data arma denuntiant. Sic vivendum, sic pereundum: accipere se, quae
liberis inviolata ac digna reddat, quae nurus accipiant, rursusque ad nepotes referantur.
(19) Ergo saepta pudicitia agunt, nullis spectaculorum inlecebris, nullis conviviorum inritationibus
corruptae. Litterarum secreta viri pariter ac feminae ignorant. Paucissima in tam numerosa gente
adulteria, quorum poena praesens et maritis permissa: abscisis crinibus nudatam coram propinquis
expellit domo maritus ac per omnem vicum verbere agit; publicatae enim pudicitiae nulla venia:
non forma, non aetate, non opibus maritum invenerit. Nemo enim illic vitia ridet, nec corrumpere et
corrumpi saeculum vocatur. Melius quidem adhuc eae civitates, in quibus tantum virgines nubunt et
eum spe votoque uxoris semel transigitur. Sic unum accipiunt maritum quo modo unum corpus
unamque vitam, ne ulla cogitatio ultra, ne longior cupiditas, ne tamquam maritum, sed tamquam
matrimonium ament. Numerum liberorum finire aut quemquam ex adgnatis necare flagitium
habetur, plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges.
(18) Per altro i rapporti coniugali sono severi e, nei loro costumi, nulla v'è che meriti altrettanta
lode. Infatti, quasi soli fra i barbari, sono paghi di una sola moglie, salvo pochissimi, e non per sete
di piacere, ma perché, a causa della loro nobiltà, sono oggetto di molte offerte di matrimonio. La
dote non la porta la moglie al marito, ma il marito alla moglie. Intervengono i genitori e i parenti e
valutano i doni, scelti non per soddisfare i piaceri femminili o perché se ne adorni la nuova sposa,
ma consistenti in buoi, in un cavallo bardato, in uno scudo con framea e spada. Come corrispettivo
di tali doni si riceve la moglie, che, a sua volta, porta qualche arma al marito: questo è il vincolo più
solido, questo l'arcano rito, queste le divinità nuziali. E perché la donna non si creda estranea ai
pensieri di gloria militare o esente dai rischi della guerra, nel momento in cui prende avvio il
matrimonio, le si ricorda che viene come compagna nelle fatiche e nei pericoli, per subire e
affrontare la stessa sorte, in pace come in guerra: questo significano i buoi aggiogati, questo il
cavallo bardato, questo il dono delle armi. Così deve vivere, così morire: sappia di ricevere armi
che dovrà consegnare inviolate e degne ai figli, che le nuore riceveranno a loro volta, per
trasmetterle ai nipoti.
(19) Vivono dunque in riservata pudicizia, non corrotte da seduzioni di spettacoli o da eccitamenti
conviviali. Uomini e donne ignorano egualmente i segreti delle lettere. Rarissimi, tra gente così
numerosa, gli adulterii, la cui punizione è immediata e affidata al marito: questi le taglia i capelli, la
denuda e, alla presenza dei parenti, la caccia di casa e la incalza a frustate per tutto il villaggio. Non
esiste perdono per la donna disonorata: non le varranno bellezza, giovinezza, ricchezza, per trovare
un marito. Perché là i vizi non fanno sorridere e il corrompere e l'essere corrotti non si chiama
moda. Ancora più austere sono le tribù in cui solo le vergini si sposano e la speranza e l'attesa del
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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matrimonio si appagano una volta sola. Un solo marito ricevono così come hanno un solo corpo e
una sola vita, perché il loro pensiero non vada oltre e non si prolunghi il desiderio e perché amino
non tanto il marito, bensì il matrimonio. Limitare il numero dei figli o ucciderne qualcuno dopo il
primogenito è considerata colpa infamante e là hanno più valore i buoni costumi che non altrove le
buone leggi.
Sine ira et studio.
Senza animosità e senza simpatia
(= senza rancore e senza partigianeria).
(Tacito, Annales, I, 1)
Tacito, Annales, I, 1
Urbem Romam a principio reges habuere; libertatem et consulatum L. Brutus instituit. dictaturae
ad tempus sumebantur; neque decemviralis potestas ultra biennium, neque tribunorum militum
consulare ius diu valuit. non Cinnae, non Sullae longa dominatio; et Pompei Crassique potentia
cito in Caesarem, Lepidi atque Antonii arma in Augustum cessere, qui cuncta discordiis civilibus
fessa nomine principis sub imperium accepit. sed veteris populi Romani prospera vel adversa claris
scriptoribus memorata sunt; temporibusque Augusti dicendis non defuere decora ingenia, donec
gliscente adulatione deterrerentur. Tiberii Gaique et Claudii ac Neronis res florentibus ipsis ob
metum falsae, postquam occiderant, recentibus odiis compositae sunt. inde consilium mihi pauca de
Augusto et extrema tradere, mox Tiberii principatum et cetera, sine ira et studio, quorum causas
procul habeo.
Roma in origine fu una città governata dai re. L'istituzione della libertà e del consolato spetta a
Lucio Bruto. L'esercizio della dittatura era temporaneo e il potere dei decemviri non durò più di un
biennio, né a lungo resse la potestà consolare dei tribuni militari. Non lunga fu la tirannia di Cinna
né quella di Silla; e la potenza di Pompeo e Crasso finì ben presto nelle mani di Cesare, e gli eserciti
di Lepido e di Antonio passarono ad Augusto, il quale, col titolo di principe, concentr? in suo potere
tutto lo stato, stremato dalle lotte civili. Ora, scrittori di fama hanno ricordato la storia, nel bene e
nel male, del popolo romano dei tempi lontani e non sono mancati chiari ingegni a narrare i tempi di
Augusto, sino a che, crescendo l'adulazione, non ne furono distolti. Quanto a Tiberio, a Gaio, a
Claudio e a Nerone, il racconto risulta falsato: dalla paura, quand'erano al potere, e, dopo la loro
morte, dall'odio, ancora vivo. Di qui il mio proposito di riferire pochi dati su Augusto, quelli degli
ultimi anni, per poi passare al principato di Tiberio e alle vicende successive, senza animosità e
senza simpatia, non avendone motivo alcuno.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Viri in eo culpa, si femina modum excedat.
La colpa è dell’uomo se la donna esce dai limiti
(= le intemperanze della moglie sono imputabili al marito).
(Tacito, Annales, III, 34)
Tacito, Annali, III, 33-34
(33) Inter quae Severus Caecina censuit ne quem magistratum cui provincia obvenisset uxor
comitaretur, multum ante repetito concordem sibi coniugem et sex partus enixam, seque quae in
publicum statueret domi servavisse, cohibita intra Italiam, quamquam ipse pluris per provincias
quadraginta stipendia explevisset. haud enim frustra placitum olim ne feminae in socios aut gentis
externas traherentur: inesse mulierum comitatui quae pacem luxu, bellum formidine morentur et
Romanum agmen ad similitudinem barbari incessus convertant. non imbecillum tantum et imparem
laboribus sexum sed, si licentia adsit, saevum, ambitiosum, potestatis avidum; incedere inter
milites, habere ad manum centuriones; praesedisse nuper feminam exercitio cohortium, decursu
legionum. cogitarent ipsi quotiens repetundarum aliqui arguerentur plura uxoribus obiectari: his
statim adhaerescere deterrimum quemque provincialium, ab his negotia suscipi, transigi; duorum
egressus coli, duo esse praetoria, pervicacibus magis et impotentibus mulierum iussis quae Oppiis
quondam aliisque legius constrictae nunc vinclis exolutis domos, fora, iam et exercitus regerent.
(34) Paucorum haec adsensu audita: plures obturbabant neque relatum de negotio neque
Caecinam dignum tantae rei censorem. mox Valerius Messalinus, cui parens Messala ineratque
imago paternae facundiae, respondit multa duritiae veterum [in] melius et laetius mutata; neque
enim, ut olim, obsideri urbem bellis aut provincias hostilis esse. et pauca feminarum necessitatibus
concidi quae ne coniugum quidem penatis, adeo socios non onerent; cetera promisca cum marito
nec ullum in eo pacis impedimentum. Bella plane accinctis obeunda: sed revertentibus post laborem
quod honestius quam uxorium levamentum? At quasdam in ambitionem aut avaritiam prolapsas.
Quid? ipsorum magistratuum nonne plerosque variis libidinibus obnoxios? Non tamen ideo
neminem in provinciam mitti. Corruptos saepe pravitatibus uxorum maritos: num ergo omnis
caelibes integros? Placuisse quondam Oppias leges, sic temporibus rei publicae postulantibus:
remissum aliquid postea et mitigatum, quia expedierit. Frustra nostram ignaviam alia ad vocabula
transferri: nam viri in eo culpam si femina modum excedat. Porro ob unius aut alterius
imbecillum animum male eripi maritis consortia rerum secundarum adversarumque. simul sexum
natura invalidum deseri et exponi suo luxu, cupidinibus alienis. Vix praesenti custodia manere
inlaesa coniugia: quid fore si per pluris annos in modum discidii oblitterentur? Sic obviam irent iis
quae alibi peccarentur ut flagitiorum urbis meminissent. addidit pauca Drusus de matrimonio suo;
nam principibus adeunda saepius longinqua imperii. quoties divum Augustum in Occidentem atque
Orientem meavisse comite Livia! se quoque in Illyricum profectum et, si ita conducat, alias ad
gentis iturum, haud semper aeque animo si ab uxore carissima et tot communium liberorum parente
divelleretur. sic Caecinae sententia elusa.
(33) Nel contesto di tali discussioni, Severo Cecina propose di votare il divieto, per ogni magistrato
incaricato di governare una provincia, di farsi accompagnare dalla moglie, dopo aver però ribadito
con forza l'armonia esistente con la propria moglie, che gli aveva dato ben sei figli, e dopo aver
detto di aver già attuato, in casa sua, quanto intendeva stabilire per tutti: aveva infatti imposto alla
sua donna di restare in Italia, benché avesse compiuto missioni nelle più diverse province per
quarant'anni. Non certo a caso - sosteneva - gli antichi avevano fissato il divieto di tirarsi dietro
donne in mezzo agli alleati o in terre straniere; in un seguito femminile non manca mai chi ritarda la
pace per smania di lusso, la guerra per paura, e chi trasforma la marcia di un esercito romano in
un'avanzata di barbari. La femmina non è solo debole e incapace di sopportare le fatiche ma, solo
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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che le si lasci mano libera, è capace di reazioni furiose, intrigante, avida di potere; le donne vanno a
mettersi tra i soldati, tengono ai loro ordini i centurioni; e citava il caso recente di una donna che
aveva voluto sovraintendere alle esercitazioni delle coorti e alla sfilata delle legioni. E i senatori
dovevano riflettere che, in ogni processo per concussione, i peggiori addebiti erano rivolti alle
mogli: con loro sùbito facevano lega i peggiori elementi delle province, esse intraprendevano affari
e facevano accomodamenti; due corteggi seguivano l’uscita di due persone e due erano i corpi di
guardie pretoriane.
Ostinati e dispotici erano i comandi delle donne , una volta tenute a freno dalle leggi Oppie e da
altre, ora, sciolte da ogni vincolo, avevano in pugno la vita privata, quella pubblica e ormai anche
l'esercito.
(34) Queste parole trovarono ben pochi consensi: i più protestavano che la discussione non era
all'ordine del giorno, né Cecina il censore adatto per un argomento così rilevante. Ma la risposta la
diede, subito dopo, Valerio Messalino, somigliantissimo al padre Messalla e, come lui, brillante
oratore: molte intransigenze del passato avevano subìto accomodamenti e attenuazioni; né, come un
tempo, la guerra attanagliava Roma né esisteva l'ostilità delle province; poche peraltro erano le
concessioni alle necessità delle donne, e non pesavano sulle sostanze dei mariti e tanto meno degli
alleati; il resto l'anno in comune con il marito, senza che ciò comprometta la pace. La guerra era
compito di uomini liberi da impacci, d'accordo, ma al loro ritorno, dopo le fatiche, quale più degno
conforto della presenza della moglie? Certo, alcune sono state preda di ambizione e avidità. Ma gli
stessi magistrati, in molti casi, non sono forse stati vittima delle più disparate passioni? E non per
questo tutti costoro sono esclusi dal governo delle province! I mariti sarebbero spesso corrotti dalle
iniziative personali delle mogli: ma i celibi sono tutti irreprensibili? Un tempo si erano volute le
leggi Oppie, perché questa era l'esigenza politica del momento, ma poi erano state in parte abrogate
e in parte attenuate, perché così era parso utile. Vano perciò mascherare sotto altro nome la nostra
debolezza, perché le intemperanze delle mogli sono imputabili al marito. Inoltre sarebbe
davvero un male togliere, per la inconsistenza di carattere di uno o due magistrati, le loro compagne
nei momenti di gioia o di sconforto; e, nel contempo, si lascerebbe la donna, già fragile per natura,
esposta alle proprie intemperanze e alle voglie altrui. Già era difficile conservare intatto il
matrimonio con il controllo del marito presente: cosa accadrebbe, se fossero dimenticate per più
anni, in una sorta di divorzio? Era bene, certo, trovare un rimedio a colpe commesse altrove, ma
senza dimenticare gli scandali che avvenivano a Roma. Aggiunse poche parole Druso, con
riferimento al suo matrimonio: molto spesso infatti i principi dovevano portarsi nelle più lontane
regioni dell'impero. Quante volte infatti il divo Augusto s'era recato in Occidente e in Oriente in
compagnia di Livia! Quanto a sé, era stato nell'Illirico e, in caso di necessit?, sarebbe andato presso
altri popoli, ma con l'animo non sereno, se doveva staccarsi dalla sposa carissima, madre di tanti
figli comuni. E così la proposta di Cecina venne accantonata.
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SVETONIO (dopo il 70 d.C. – 126/132 d.C.)
Alea iacta est.
Il dado è tratto
(da Svetonio, Cesare, 32)
Svetonio, Cesare, 31-32
(31) Cum ergo sublatam tribunorum intercessionem ipsosque urbe cessisse nuntiatum esset,
praemissis confestim clam cohortibus, ne qua suspicio moveretur, et spectaculo publico per
dissimulationem interfuit et formam, qua ludum gladiatorium erat aedificaturus, consideravit et ex
consuetudine convivio se frequenti dedit. Dein post solis occasum mulis e proximo pistrino ad
vehiculum iunctis occultissimum iter modico comitatu ingressus est; et cum luminibus extinctis
decessisset via, diu errabundus tandem ad lucem duce reperto per angustissimos tramites pedibus
evasit. consecutusque cohortis ad Rubiconem flumen, qui provinciae eius finis erat, paulum
constitit, ac reputans quantum moliretur, conversus ad proximos: “Etiam nunc,” inquit, “regredi
possumus; quod si ponticulum transierimus, omnia armis agenda erunt”.
(32) Cunctanti ostentum tale factum est. Quidam eximia magnitudine et forma in proximo sedens
repente apparuit harundine canens; ad quem audiendum cum praeter pastores plurimi etiam ex
stationibus milites concurrissent interque eos et aeneatores, rapta ab uno tuba prosiliuit ad flumen
et ingenti spiritu classicum exorsus pertendit ad alteram ripam. Tunc Caesar: “Eatur,” inquit,
“quo deorum ostenta et inimicorum iniquitas vocat. Iacta alea esto,” inquit.
(31) Come dunque fu noto che era stata respinta l'opposizione dei tribuni e che questi erano usciti
da Roma, mandate innanzi in fretta e di nascosto, perché non sorgesse alcun sospetto, le coorti,
intervenne per infingimento a un pubblico spettacolo, ed esaminò il disegno di un circo gladiatorio
che voleva costruire, e secondo l'uso partecipò a un affollato banchetto. Poi, dopo il tramonto,
attaccati a un veicolo muli presi là presso in un mulino, si avviò segsetissimamente con piccolo
séguito; e, uscito di strada a cagione (lei lumi spenti e vagando a lungo, finalmente trovò sul far del
giorno una guida e per angustissimi viottoli se ne trasse fuori a piedi, e, raggiunte le coorti presso il
fiume Rubícone che segnava il confine della sua provincia, ristette un poco; e là, ripensando qual
grande passo egli faceva, disse volgendosi ai più vicini: «Possiamo ancora tornare indietro; ma se
passeremo il ponticello tutto sarà da affidare alle armi».
(32) Mentre stava esitante gli apparve questa mirabile cosa: un uomo grande di statura e di aspetto,
seduto là presso in atto di sonare un flauto; e come accorrevano a udirlo, oltre moltissimi pastori,
anche molti soldati venuti dai loro posti, e con questi anche trombettieri, quello, presa la tromba a
imo, balzò verso il fiume, e, intonato con gran fiato il segnale di battaglia, si diresse all'altra riva.
Allora Cesare esclamò: «Si vada là dove ci chiamano i prodigi degli Dei e l'iniquità dei nemici; si
getti il dado!».
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Veni, vidi, vici.
Venni, vidi, vinsi.
(Svetonio, Cesare, 37)
Svetonio, Cesare, 37
Confectis bellis quinquiens triumphauit, post deuictum Scipionem quater eodem mense, sed
interiectis diebus, et rursus semel post superatos Pompei liberos. Primum et excellentissimum
triumphum egit Gallicum, sequentem Alexandrinum, deinde Ponticum, huic proximum Africanum,
nouissimum Hispaniensem, diverso quemque apparatu et instrumento. Gallici triumphi die
Velabrum praeteruehens paene curru excussus est axe diffracto ascenditque Capitolium ad lumina
quadraginta elephantis dextra sinistraque lychnuchos gestantibus. Pontico triumpho inter pompae
fercula trium verborum praetulit titulum veni, vidi, vici non acta belli significantem sicut ceteris,
sed celeriter confecti notam.
Concluse le guerre, riportò il trionfo cinque volte: quattro volte nello stesso mese, ma a qualche
giorno di intervallo, dopo aver sconfitto Scipione, e una volta ancora, dopo aver superato i figli di
Pompeo. Il primo, e il più bello, dei suoi trionfi fu quello Gallico, poi l'Alessandrino, quindi il
Pontico, dopo l'Africano e infine lo Spagnolo, ciascuno differente per apparato e varietà di
particolari. Nel giorno del trionfo sui Galli, attraversando il Velabro, per poco non fu sbalzato dal
carro a causa della rottura di un assale; sal? poi sul Campidoglio alla luce delle fiaccole che
quaranta elefanti, a destra e a sinistra, recavano sui candelieri. Nel corso del trionfo Pontico, tra gli
altri carri presenti nel corteo, fece portare davanti a sé un cartello con queste tre parole: “Venni,
vidi, vinsi”, volendo indicare non tanto le imprese della guerra, come aveva fatto per le altre,
quanto la rapidità con cui era stata conclusa.
Ad Kalendas graecas.
Alle calende greche (= mai).
(Svetonio, Augusto, 87)
Svetonio, Augusto, 87
Cotidiano sermone quaedam frequentius et notabiliter usurpasse eum, litterae ipsius autographae
ostentant, in quibus identidem, cum aliquos numquam soluturos significare vult, “ad Kalendas
Graecas soluturos” ait.
Le sue lettere autografe rivelano che nelle conversazioni quotidiane si serviva spesso di locuzioni
curiose, e più di una volta, come ad esempio quando, per indicare debitori che non avrebbero mai
pagato, disse che “avrebbero saldato il conto alle calende greche”.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
146
Have, imperator, morituri te salutant.
Ave, o Cesare, coloro che stanno per morire ti salutano.
(Svetonio, Claudio, 21)
Svetonio, Claudio, 21
Gladiatoria munera plurifariam ac multiplicia exhibuit: anniversarium in castris praetorianis sine
venatione apparatuque, iustum atque legitimum in Saeptis; ibidem extraordinarium et breve
dierumque paucorum, quodque appellare coepit 'sportulam,' quia primum daturu[m]s edixerat,
velut ad subitam condictamque cenulam invitare se populum. Nec ullo spectaculi genere
communior aut remissior erat, adeo ut oblatos victoribus aureos prolata sinistra pariter cum vulgo
voce digitisque numeraret ac saepe hortando rogandoque ad hilaritatem homines provocaret,
dominos identidem appellans, immixtis interdum frigidis et arcessitis iocis; qualis est ut cum
Palumbum postulantibus daturum se promisit, si captus esset. Illud plane quantumvis salubriter et
in tempore: cum essedario, pro quo quattuor fili deprecabantur, magno omnium favore indulsisset
rudem, tabulam ilico misit admonens populum, quanto opere liberos suscipere deberet, quos videret
et gladiatori praesidio gratiaeque esse. edidit et in Martio campo expugnationem direptionemque
oppidi ad imaginem bellicam et deditionem Britanniae regum praeseditque paludatus. Quin et
emissurus Fucinum lacum naumachiam ante commisit. sed cum proclamantibus naumachiariis:
'Have imperator, morituri te salutant!' respondisset: 'aut non,' neque post hanc vocem quasi venia
data quisquam dimicare vellet, diu cunctatus an omnes igni ferroque absumeret, tandem e sede sua
prosiluit ac per ambitum lacus non sine foeda vacillatione discurrens partim minando partim
adhortando ad pugnam compulit. hoc spectaculo classis Sicula et Rhodia concurrerunt,
duodenarum triremium singulae, exciente bucina Tritone argenteo, qui e medio lacu per machinam
emerserat.
Quanto ai combattimenti di gladiatori ne diede di vario genere e in diversi posti: uno, per un
anniversario, nel campo dei pretoriani, senza caccia e senza nessun apparato; un altro, regolare e
completo, nel recinto delle elezioni; nello stesso luogo ne diede un terzo, a titolo straordinario, che
durò qualche giorno soltanto, e che cominciò a chiamare “sportula”, perché nell'editto che
annunciava questo spettacolo dato per la prima volta, egli aveva dichiarato che “invitava il popolo,
in qualche modo, ad una piccola colazione improvvisata e concordata”. Non vi era tipo di spettacolo
per il quale non si mostrasse più familiare e più disponibile, giacché arrivò a contare ad alta voce
sulle sue dita, tendendo la sinistra, insieme con il popolo, i pezzi d'oro offerti ai vincitori, e spesso
stimolò le risate degli spettatori con le sue esortazioni e le sue preghiere, chiamando questi stessi
vincitori “signori”, con battute talvolta spiritose, lanciate da lontano; così, quando il popolo
reclamava il gladiatore Palumbo, promise che glielo avrebbe portato, “se fosse riuscito ad
acchiapparlo”. Ecco pertanto una lezione salutare che seppe impartire al momento opportuno:
poiché, tra gli applausi di tutti, aveva concesso la verga ad un conduttore di carro, in favore del
quale intercedevano i suoi quattro figli, fece subito circolare tra in pubblico una tavoletta che
segnalava agli spettatori “come fosse necessario che allevassero ragazzi dal momento che si
rendevano conto che un semplice gladiatore trovava nei figli protettori influenti”. Fece anche
rappresentare al Campo di Marte la conquista e la distruzione di una città, con aderenza alla realtà
di guerra, e pure la sottomissione del re della Britannia e presiedette allo spettacolo con il suo
mantello di generale. Per di più, prima di liberare le acque dal lago Fucino, vi allestì un
combattimento navale, ma quando i combattenti gridarono: “Ave, o Cesare! Coloro che stanno
per morire ti salutano,” egli rispose: “Magari no!” A queste parole, come se avesse concesso loro
la grazia, alcuni di loro non vollero più battersi; allora stette per un po' a domandarsi se non dovesse
farli ammazzare tutti col ferro e col fuoco, poi alla fine si alzò dal suo posto e correndo qua e là
attorno al lago, ora minacciando, ora esortando, non senza una certa esitazione ridicola, li spinse
alla battaglia. In questo spettacolo una flotta siciliana e una flotta di Rodi, comprendenti ciascuna
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
147
dodici triremi, si diedero battaglia al suono di una tromba uscita da un Tritone d'argento che un
congegno aveva fatto sorgere in mezzo al lago.
Vulpes pilum mutat, non mores.
La volpe cambia (o perde) il pelo, ma non il vizio.
(Svetonio, Vespasiano, 16)
Svetonio, Vespasiano, 16
Sola est, in qua merito culpetur, pecuniae cupiditas. Non enim contentus omissa sub Galba
vectigalia revocasse, novas et gravia addidisse, auxisse, tributa provinciis, nonnullis et duplicasse,
negotiationem quoque vel privato pudendas propalam exercuit, coemendo quaedam, tantum ut
pluris postea distraheret. Ne candidatis quidem honores, reisve tam innoxiis quam nocentibus
absolutione venditare cunctatus est. Creditur etiam procuratorum rapacissimus quemque ad
ampliora officia ex industria solitus promovere, quo locupletiores mox condemnaret; quibus
quidem vulgo pro spongiis dicebatur uti, quod quasi et siccos madefaceret et exprimeret umentis.
Quidam natura cupidissimum tradunt, idque exprobratum ei a sene bubulco, qui negata sibi
gratuita libertate, quam imperium adeptum suppliciter orabat, proclamaverit vulpem pilum
mutare, non mores. Sunt contra qui opinentur ad manubias et rapinas necessitate compulsum
summa aerarii fiscique inopia; de qua testificatus sit initio statim principatus, professus
quadringenties milies opus esse, ut res p. stare posset. Quod et veri similius videtur, quando et male
partis optime usus est.
Il solo difetto che gli si può rimproverare con ragione è l'avidità del denaro. Infatti non contento di
aver reclamato le imposte che non erano state pagate sotto Galba, di averne aggiunte di nuove e
assai gravose, di aver aumentato, e talvolta raddoppiato, i tributi delle province, si diede anche
apertamente a speculazioni disonorevoli perfino per un semplice cittadino, acquistando merci
all'ingrosso, con il solo scopo di venderle in seguito, più care, al dettaglio. Non esitò neppure a
vendere le magistrature ai candidati e le grazie agli accusati, tanto innocenti, quanto colpevoli. Si
crede anche che, volutamente, innalzasse agli impieghi più importanti gli agenti del tesoro più
rapaci, proprio per condannarli quando si fossero arricchiti; così si diceva che li utilizzava come le
spugne, che si bagnano quando sono secche e che si spremono quando sono piene d'acqua. Alcuni
sostengono che questa sua estrema avidità faceva parte della sua natura e citano il rimprovero di un
vecchio bovaro che, non potendo ottenere da lui, nonostante le suppliche, la libertà a titolo gratuito,
dopo che aveva conquistato il potere, gridò: “La volpe cambia il pelo, ma non il vizio”.
Altri, al contrario, pensano che fu costretto al saccheggio e alla rapina a causa dell'estrema povertà
del tesoro e del fisco, che egli segnalò fin dall'inizio del suo principato: “Lo Stato, perché possa
sopravvivere, ha bisogno di quaranta miliardi di sesterzi”. Questa seconda opinione è resa ancora
più verosimile dal fatto che fece buon uso di ciò che aveva male acquisito.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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Pecunia non olet.
Il denaro non puzza.
(da Svetonio, Vespasiano, 23)
Svetonio, Vespasiano, 23
Maxime tamen dicacitatem adfectabat in deformibus lucris, ut invidiam aliqua cavillatione dilueret
transferretque ad sales. Quendam e caris ministris dispensationem cuidam quasi fratri petentem
cum distulisset, ipsum candidatum ad se vocavit; exactaque pecunia, quantam is cum suffragatore
suo pepigerat, sine mora ordinavit; interpellanti mox ministro: Alium tibi, ait, quaere fratrem; hic,
quem tuum putas, meus est. Mulionem in itinere quodam suspicatus ad calciandas mulas desiluisse,
ut adeunti litigatori spatium moramque praeberet, interrogavit quanti calciasset, et pactus est lucri
partem. Reprehendenti filio Tito, quod etiam urinae vectigal commentus esset, pecuniam ex prima
pensione admovit ad nares, sciscitans num odore offenderetur; et illo negante: Atqui, inquit, e lotio
est.
Nuntiantis legatos decretam ei publice non mediocris summae statuam colosseam, iussit vel
continuo ponere, cavam manum ostentans et paratam basim dicens. Ac ne metu quidem ac periculo
mortis extremo abstinuit iocis. Nam cum inter cetera prodigia Mausoleum derepente patuisset et
stella crinita in caelo apparuisset, alterum ad Iuniam Calvinam e gente Augusti pertinere dicebat,
Parthorum regem qui capillatus esset; prima quoque morbi accessione: Vae, inquit, puto, deus fio.
Ma soprattutto a proposito dei profitti indegni egli ostentava tutta la sua mordacità, per attenuarne il
carattere odioso con qualche battuta e buttarli sullo scherzo.
Quando uno dei suoi servitori favoriti gli domandò un posto di intendente per un uomo di cui si
diceva fratello, egli prese tempo per rispondere e fece venire di persona il candidato. Dopo avergli
fatto versare esattamente la somma che costui aveva pattuito con il suo protettore, lo nominò
immediatamente e quando, più tardi, il servitore gli chiese notizie, gli rispose: “Cercati un altro
fratello, perché quello che credevi il tuo, è divenuto il mio”. Durante un viaggio, poiché un
mulattiere era saltato a terra con la scusa di dover ferrare le sue mule, Vespasiano sospettò che
volesse dare ad un tizio coinvolto in una causa, il tempo e la possibilità di avvicinarlo; allora gli
chiese quanto gli fruttassero quei ferri e pretese una parte del guadagno.
Poiché suo figlio Tito gli rimproverava di aver avuto l'idea di tassare anche le urine, gli mise sotto il
naso la prima somma resa da questa imposta, chiedendogli se fosse offeso dal suo odore e quando
Tito gli disse di no, riprese: “Eppure è il prodotto dell'urina”.
Quando una delegazione gli annunciò che si era deciso di erigergli a spese pubbliche una statua
colossale, di prezzo considerevole, ordinò di farlo al più presto e mostrò loro il cavo della mano
dicendo che il basamento era già pronto. Anche il timore della morte e la sua minaccia pressante
non gli impedirono di scherzare. Infatti quando, tra gli altri prodigi, il Mausoleo si era aperto
improvvisamente e una cometa era apparsa nel cielo, egli dichiarò che il primo presagio riguardava
Giunia Calvina, discendente di Augusto, e il secondo il re dei Parti che era ben chiomato. Anche al
primo attacco della malattia disse: “Accidenti! credo che sto diventando un dio?”.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
149
APPENDICE:
Alcune Sentenze di Publilio Siro (I a.C.)
6. Aut amat aut odit mulier, nihil est tertium.
La donna o ama o odia, non c’è una terza via.
8. Ames parentem, si aequus est; si aliter, feras.
Ama il tuo genitore, se è giusto, altrimenti sopportalo!
22. Amare et sapere vix deo conceditur.
A stento dal dio è concesso amare ed essere saggi (nello stesso tempo).
40. Amor, ut lacrima, ab oculo oritur, in pectus cadit.
L’amore, come la lacrima, sorge dall’occhio, cade ne petto.
97. Cotidie damnatur, qui semper timet.
È quotidianamente condannato, colui che ha sempre paura.
111. Cave quicquam incipias, quod paeniteat postea.
Guàrdati dal fare qualcosa di cui poi tu ti debba pentire.
214. Habet suum venenum blanda oratio.
Un discorso dolce ha il suo veleno.
247. In amore semper mendax iracundia est.
In amore l’iracondia è sempre menzognera.
265. Iniuriam aures quam oculi facilius ferunt.
Le orecchie sopportano un’offesa più facilmente degli occhi.
335. Mulier cum sola cogitat, male cogitat.
Una donna quando pensa da sola, pensa male.
340. Mulier quae multis nubit, multis non placet.
La donna che si sposa con molti, non piace a molti.
451. Nec mortem effugere quisquam nec amorem potest.
Nessuno può evitare né la morte né l’amore.
565. Quam magnum est non laudari et esse laudabilem.
Che grande cosa è non essere lodati, ma essere degni di lode.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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“Siés baraòs trapolorum”
Manzoni, I Promessi Sposi, XIV
Qui è necessario tutto l'amore, che portiamo alla verità, per farci proseguire fedelmente un
racconto di così poco onore a un personaggio tanto principale, si potrebbe quasi dire al primo
uomo della nostra storia. Per questa stessa ragione d'imparzialità, dobbiamo però anche avvertire
ch'era la prima volta, che a Renzo avvenisse un caso simile: e appunto questo suo non esser uso a
stravizi fu cagione in gran parte che il primo gli riuscisse così fatale. Que' pochi bicchieri che
aveva buttati giù da principio, l'uno dietro l'altro, contro il suo solito, parte per quell'arsione che si
sentiva, parte per una certa alterazione d'animo, che non gli lasciava far nulla con misura, gli
diedero subito alla testa: a un bevitore un po' esercitato non avrebbero fatto altro che levargli la
sete. Su questo il nostro anonimo fa una osservazione, che noi ripeteremo: e conti quel che può
contare. Le abitudini temperate e oneste, dice, recano anche questo vantaggio, che, quanto più
sono inveterate e radicate in un uomo, tanto più facilmente, appena appena se n'allontani, se ne
risente subito; dimodoché se ne ricorda poi per un pezzo; e anche uno sproposito gli serve di scola.
Comunque sia, quando que' primi fumi furono saliti alla testa di Renzo, vino e parole continuarono
a andare, l'uno in giù e l'altre in su, senza misura né regola: e, al punto a cui l'abbiam lasciato,
stava già come poteva. Si sentiva una gran voglia di parlare: ascoltatori, o almeno uomini presenti
che potesse prender per tali, non ne mancava; e, per qualche tempo, anche le parole eran venute
via senza farsi pregare, e s'eran lasciate collocare in un certo qual ordine. Ma a poco a poco,
quella faccenda di finir le frasi cominciò a divenirgli fieramente difficile. Il pensiero, che s'era
presentato vivo e risoluto alla sua mente, s'annebbiava e svaniva tutt'a un tratto; e la parola, dopo
essersi fatta aspettare un pezzo, non era quella che fosse al caso. In queste angustie, per uno di que'
falsi istinti che, in tante cose, rovinan gli uomini, ricorreva a quel benedetto fiasco. Ma di che aiuto
gli potesse essere il fiasco, in una tale circostanza, chi ha fior di senno lo dica.
Noi riferiremo soltanto alcune delle moltissime parole che mandò fuori, in quella sciagurata sera:
le molte più che tralasciamo, disdirebbero troppo; perché, non solo non hanno senso, ma non fanno
vista d'averlo: condizione necessaria in un libro stampato.
- Ah oste, oste! - ricominciò, accompagnandolo con l'occhio intorno alla tavola, o sotto la cappa
del cammino; talvolta fissandolo dove non era, e parlando sempre in mezzo al chiasso della
brigata: - oste che tu sei! Non posso mandarla giù... quel tiro del nome, cognome e negozio. A un
figliuolo par mio...! Non ti sei portato bene. Che soddisfazione, che sugo, che gusto... di mettere in
carta un povero figliuolo? Parlo bene, signori? Gli osti dovrebbero tenere dalla parte de' buoni
figliuoli... Senti, senti, oste; ti voglio fare un paragone... per la ragione... Ridono eh? Ho un po' di
brio, sì... ma le ragioni le dico giuste. Dimmi un poco; chi è che ti manda avanti la bottega? I
poveri figliuoli, n'è vero? dico bene? Guarda un po' se que' signori delle gride vengono mai da te a
bere un bicchierino.
- Tutta gente che beve acqua, - disse un vicino di Renzo.
- Vogliono stare in sé, - soggiunse un altro, - per poter dir le bugie a dovere.
"Ah!" gridò Renzo: "ora è il poeta che ha parlato. Dunque intendete anche voi altri le mie ragioni.
Rispondi dunque, oste: e Ferrer, che è il meglio di tutti, è mai venuto qui a fare un brindisi, e a
spendere un becco d'un quattrino? E quel cane assassino di don...? Sto zitto, perché sono in cervello
anche troppo. Ferrer e il padre Crrr... so io, son due galantuomini; ma ce n'è pochi de' galantuomini.
I vecchi peggio de' giovani; e i giovani... peggio ancora de' vecchi. Però, son contento che non si sia
fatto sangue: oibò; barbarie, da lasciarle fare al boia. Pane; oh questo sì. Ne ho ricevuti degli urtoni;
ma... ne ho anche dati. Largo! abbondanza! viva!... Eppure, anche Ferrer... qualche parolina in
latino... siés baraòs trapolorum... Maledetto vizio! Viva! giustizia! pane! ah, ecco le parole
giuste!... Là ci volevano que' galantuomini... quando scappò fuori quel maledetto ton ton ton, e poi
ancora ton ton ton. Non si sarebbe fuggiti, ve', allora. Tenerlo lì quel signor curato... So io a chi
penso!"
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
151
INDICE ALFABETICO DELLE FRASI D’AUTORE
Ab ovo. (Orazio)
Dall'uovo (= dalle più remote origini).
Absit invidia verbo. (Livio)
Possano le mie parole non essere fraintese.
(= sia detto senza offendere nessuno)
Ab uno disce omnes. (Virgilio)
Da uno solo conoscili tutti!
Ad Kalendas graecas. (Svetonio)
Alle calende greche.
Ad unguem. (Orazio)
Fino all'unghia, alla perfezione.
Aequat omnes cinis. (Seneca)
La cenere (= la morte) rende tutti uguali.
Agnosco veteris vestigia flammae. (Virgilio)
Riconosco i segni dell’antica fiamma.
Alea iacta est. (da Svetonio)
Il dado è tratto.
Aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt. (Seneca)
Abbiamo davanti agli occhi i vizi degli altri, i nostri ci stanno dietro la schiena.
Amare et sapere vix deo conceditur. (Publilio Siro)
A stento dal dio è concesso amare ed essere saggi (nello stesso tempo).
Amantes amentes. (Terenzio)
Amanti pazzi.
Amantium irae amoris integratio est. (Terenzio)
Le ire degli amanti sono un rinnovamento dell’amore.
Amare et sapere vix deo conceditur. (Publilio Siro)
A stento dal dio è concesso amare ed essere saggi (nello stesso tempo).
Amator, quasi piscis, nequam est, nisi recens. (Plauto)
L’amante, come il pesce, è cattivo se non è fresco.
Ames parentem, si aequus est; si aliter, feras. (Publilio Siro)
Ama il tuo genitore, se è giusto; altrimenti sopportalo!
Amicus certus in re incerta cernitur. (Cicerone)
L’amico certo si scopre nella sorte incerta.
Amor crescit dolore repulsae. (Ovidio)
L’amore cresce per il dolore del rifiuto.
Amor et melle et felle est fecundissimus. (Plauto)
L’Amore è fecondissimo di miele e di fiele.
Amor odit inertes. (Ovidio)
Amore odia gli inerti.
Amor, ut lacrima, ab oculo oritur, in pectus cadit. (Publilio Siro)
L’amore, come la lacrima, sorge dall’occhio, cade ne petto.
Animum debes mutare non caelum. (Seneca)
Devi cambiare animo, non cielo.
Antiquus amor cancer est. (Petronio)
p. 79
p. 89
p. 58
p. 145
p. 68
p. 120
p. 63
p. 144
p. 116
p. 149
p. 23
p. 23
p. 149
p. 19
p. 149
p. 44
p. 107
p. 18
p. 97
p. 149
p. 119
p. 124
Un vecchio amore è un cancro.
A pedibus imis ad summum caput. (Vitruvio)
Dalle piante dei piedi alla sommità del capo (= da capo a piedi, da cima a fondo).
Asinus in tegulis. (Petronio)
p.
46
p. 126
Un asino (che vola) sui tetti.
Audentes fortuna iuvat. (Virgilio)
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
p. 66
152
La fortuna aiuta gli audaci.
Aurea mediocritas. (Orazio)
Aurea mediocrità.
Auri sacra fames! (Virgilio)
Esecrabile fame di oro!
Aut amat aut odit mulier, nihil est tertium. (Publilio Siro)
La donna o ama o odia, non c’è una terza via.
Aut regem aut fatuum nasci oportet. (Seneca)
O si nasce re o si nasce cretino.
Bella matribus detestata. (Orazio)
Guerre detestate dalle madri.
Bellum se ipsum alet. (Livio)
La guerra si nutrirà da sé.
Caelum non animum mutant qui trans mare currunt. (Orazio)
Il cielo, non l'animo mutano quelli che, attraverso il mare corrono.
Carpe diem. (Orazio)
Cogli l’attimo (= cogli la giornata d’oggi).
Carpent tua poma nepotes. (Virgilio)
p. 72
p. 60
p. 149
p. 113
p. 69
p. 91
p. 76
p. 71
p. 49
I nipoti raccoglieranno i tuoi frutti.
Carthago delenda est. (da Plinio il Vecchio)
Cartagine dev’essere distrutta.
Casta est quam nemo rogavit. (Ovidio)
Casta è colei che nessuno ha cercato.
Cave quicquam incipias, quod paeniteat postea. (Publilio Siro)
Guàrdati dal fare qualcosa di cui poi tu ti debba pentire.
Cedant arma togae. (Cicerone)
Le armi cedano alla toga.
Certa mittimus, dum incerta petimus. (Plauto)
Perdiamo il certo, mentre corriamo dietro all'incerto.
Copiā ciborum subtilitas impeditur. (Seneca)
L’acutezza d’ingegno è ostacolata dall’abbondanza di cibo.
Coram populo. (Orazio)
Davanti a tutti.
Cotidie damnatur, qui semper timet. (Publilio Siro)
È quotidianamente condannato, colui che ha sempre paura.
Cras vives? Hodie iam vivere serum est. (Marziale)
Vivrai domani? Ma se è già tardi vivere oggi!
Crescentem sequitur cura pecuniam. (Orazio)
Al denaro che si accumula tiene dietro l’ansietà.
Cui prodest? (Seneca)
A chi giova?
Cum grano salis. (Plinio il Vecchio)
Letteralmente “con un pizzico di sale”, cioè “con un pizzico di buon senso”.
Dare poma Alcinoo. (Ovidio)
Dare frutti ad Alcinoo.
De lana caprina. (Orazio)
(Questioni) di lana caprina.
Dente lupus, cornu taurus petit. (Orazio)
Il lupo assale con i denti, il toro con le corna.
De rugis crimina multa cadent. (Ovidio)
Dalle rughe cadranno molti peccati.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
p. 129
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Desinas ineptire. (Catullo)
Smetti di fare follie!
Desinit in piscem. (Orazio)
Finisce in pesce.
Dicere quae puduit, scribere iussit amor. (Ovidio)
Amore ha ordinato di scrivere ciò che ebbi pudore di dire a voce.
Difficile est longum deponere amorem. (Catullo)
È difficile deporre ad un tratto una lunga passione.
Donec eris sospes, multos numerabis amicos. (Ovidio)
Finché sarai incolume conterai molti amici.
Dos est uxoria lites. (Ovidio)
Dote della donna sono i litigi.
Ducunt volentem fata, nolentem trahunt. (Seneca)
Il fato guida chi vuole lasciarsi guidare, trascina chi non vuole.
Dulce est desipere in loco. (Orazio)
È piacevole folleggiare al tempo opportuno.
Dum novus est, pugnemus amori. (Ovidio)
Opponiamoci all’amore, finche è nuovo.
Est modus in rebus. (Orazio)
C’è una misura nelle cose.
Expende Hannibalem. (Giovenale)
Pesa (le ceneri di) Annibale.
Ex una scintilla incendia. (Lucrezio)
(Nascono) incendi da una sola scintilla.
Faber est suae quisque fortunae. (Appio Claudio Cieco)
Ciascuno è artefice della propria sorte.
Facit indignatio versum. (Giovenale)
L’indignazione detta i versi.
Feriunt summos fulgura montes. (Orazio)
I fulmini colpiscono le vette dei monti.
Forsan et haec olim meminisse iuvabit. (Virgilio)
Forse un giorno sarà dolce ricordare anche questi avvenimenti.
Fugaces labuntur anni. (Orazio)
Veloci scorrono gli anni.
Furor arma ministrat. (Virgilio)
Il furore fornisce le armi.
Graecia capta ferum victorem cepit. (Orazio)
La Grecia conquistata (dai Romani) conquistò il fiero vincitore.
Gutta cavat lapidem. (Ovidio)
La goccia scava la pietra.
Habet suum venenum blanda oratio. (Publilio Siro)
Un discorso dolce ha il suo veleno.
Have, imperator, morituri te salutant (Svetonio)
Ave, o Cesare, coloro che stanno per morire ti salutano.
Hic manebimus optime. (Livio)
Qui staremo benissimo.
Homines, dum docent, discunt. (Seneca)
Gli uomini, mentre insegnano, imparano.
Homo homini lupus. (Plauto)
L’uomo è un lupo per l’altro uomo.
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Homo sum, humani nihil a me alienum puto. (Terenzio)
Sono un uomo, ritengo che nulla di umano mi sia estraneo.
Honos alit artes. (Cicerone)
L'onore alimenta le arti.
Ignis aurum probat, miseria fortes viros. (Seneca)
Il fuoco prova l’oro, la sventura (prova) gli uomini forti.
Impares nascimur, pares morimur. (Seneca)
Nasciamo diversi, moriamo uguali.
Imperare sibi maximum imperium est. (Seneca)
Dominare se stessi è il massimo dominio.
In amore semper mendax iracundia est. (Publilio Siro)
In amore l’iracondia è sempre menzognera.
Iniuriam aures quam oculi facilius ferunt. (Publilio Siro)
Le orecchie sopportano un’offesa più facilmente degli occhi.
In medias res. (Orazio)
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In mezzo agli eventi.
Invidia gloriae comes. (Cornelio Nepote)
Invidia compagna della gloria.
Invita Minerva. (Orazio)
Lett.: “contro la volontà di Minerva”
(= mancare di estro, di ispirazione, di predisposizione naturale).
Ipse dixit. (Cicerone)
L’ha detto lui.
Labitur interea res. (Lucrezio)
Frattanto il patrimonio si dilegua.
Labor omnia vi(n)cit improbus. (Virgilio)
La dura fatica vince ogni cosa.
Lacrimis adamanta movebis. (Ovidio)
Con le lacrime muoverai le rocce.
Languent officia. (Lucrezio)
I doveri sono trascurati.
Latet anguis in herba. (Virgilio)
Una serpe si nasconde nell'erba.
Laudator temporis acti. (Orazio)
Lodatore del tempo passato.
Litore quot conchae, tot sunt in amore dolores. (Ovidio)
Quante sono le conchiglie sulla spiaggia, tanti sono i tormenti in amore.
Lupus in fabula. (Plinio il Vecchio)
Il lupo nella conversazione.
Manus manum lavat. (Petronio)
Una mano lava l'altra.
Maxima debetur puero reverentia. (Giovenale)
Al fanciullo si deve il massimo rispetto.
Mens sana in corpore sano. (Giovenale)
Uno spirito sano in un corpo sano.
Militat omnis amans. (Ovidio)
Ogni amante è un soldato.
Mirabile dictu. (Virgilio)
Mirabile a dirsi.
Miscere utile dulci. (Orazio)
Contemperare l’utile con il dilettevole.
Modus vivendi. (Cicerone)
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Modo di vivere (originariamente: “equilibrio nel vivere”).
Mulier cum sola cogitat, male cogitat. (Publilio Siro)
Una donna quando pensa da sola, pensa male.
Mulier quae multis nubit, multis non placet. (Publilio Siro)
La donna che si sposa con molti, non piace a molti.
Mulier recte olet ubi nihil olet. (Plauto)
La donna ha un buon odore quando non ha nessun odore.
Multa petentibus desunt multa. (Orazio)
A chi molto chiede, molto manca.
Nec mortem effugere quisquam nec amorem potest. (Publilio Siro)
Nessuno può evitare né la morte né l’amore.
Nec tecum possum vivere, nec sine te. (Marziale)
Non posso vivere né con te, né senza di te.
Nescit vox missa reverti. (Orazio)
Le parole, una volta uscite, non possono tornare indietro.
Nihil difficile amanti. (Cicerone)
Non c’è nulla di difficile per chi ama.
Nolo nimis facilem, nimis difficilem. (Marziale)
Non la voglio troppo facile, (non la voglio) troppo difficile.
Non aqua, non igni utimur locis pluribus quam amicitia. (Cicerone)
Non dell’acqua, non del fuoco facciamo uso in più occasioni che dell’amicizia.
Non scholae, sed vitae discimus. (Seneca)
Non studiamo per la scuola, ma per la vita.
Nulla dies sine linea. (da Plinio il Vecchio)
Nessun giorno senza una linea.
Nullis amor est sanabilis herbis. (Ovidio)
L’amore non può essere guarito da nessuna erba.
Nunc est bibendum. (Orazio)
Ora si deve bere.
Oderint dum metuant. (Cicerone)
Mi odino, purché mi temano.
Odi et amo. (Catullo)
Odio e amo.
Odi profanum vulgus et arceo. (Orazio)
Odio il volgo ignorante e me ne tengo lontano
(Sdegno la folla dei profani e la respingo dal tempio).
Omnia cum pretio. (Giovenale)
Ogni cosa ha un prezzo.
Omnia fert aetas, animum quoque. (Virgilio)
Tutto porta via il tempo, anche il ricordo.
Omnia vincit amor. (Virgilio)
Amore vince ogni cosa.
Ostendite modo bellum, pacem habebitis. (Livio)
Minacciate soltanto la guerra, avrete la pace.
Pallida mors aequo pulsat pede. (Orazio)
La pallida morte bussa con piede imparziale.
Panem et circenses. (Giovenale)
Pane e giochi del circo.
Parce sepulto. (Virgilio)
Risparmia un cadavere.
Paritur pax bello. (Cornelio Nepote)
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La pace si ottiene con la guerra.
Parturient montes, nascetur ridiculus mus. (Orazio)
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Partoriranno le montagne, nascerà un ridicolo topolino.
Pecunia non olet. (Svetonio)
Il denaro non puzza.
Perfidiosus est Amor. (Plauto)
L’Amore è perfido.
Probitas laudatur et alget. (Giovenale)
L’onestà viene lodata, ma muore di freddo.
Pro domo sua. (Cicerone)
Cicerone in difesa della sua casa.
Proprium humani ingenii est odisse quem laeseris. (Tacito)
È tipico della natura umana odiare la persona a cui si è rivolta un’offesa.
Quam magnum est non laudari et esse laudabilem. (Publilio Siro)
Che grande cosa è non essere lodati, ma essere degni di lode.
Quandoque bonus dormitat Homerus. (Orazio)
Talvolta sonnecchia il valente Omero.
Quem amat, amat; quem non amat, non amat. (Petronio)
La donna ama chi ama; chi non ama, non ama.
Qui dedit beneficium taceat; narret qui accepit.
Chi ha fatto un beneficio, taccia; parli chi lo ha ricevuto
(Seneca)
Qui desiderat pacem, praeparet bellum. (Vegezio)
Chi desidera la pace, prepari la guerra.
Quis custodiet ipsos custodes? (Giovenale)
Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?
Quis feret uxorem cui constant omnia? (Giovenale)
Chi potrà sopportare una donna che abbia ogni virtù?
Quot homines, tot sententiae. (Terenzio)
Quanti uomini, tanti pareri.
Quousque tandem? (Cicerone)
Fino a quando?
Rara avis. (Giovenale)
Uccello raro.
Rari nantes in gurgite vasto. (Virgilio)
Pochi naufraghi che nuotano nel vasto gorgo.
Scribere in vento et rapida aqua. (Catullo)
Scrivere sul vento e sull’acqua che scorre veloce.
Sic vivendum, sic pereundum. (Tacito)
Così si deve vivere, così si deve morire.
Silent leges inter arma. (Cicerone)
Le leggi tacciono in mezzo alle armi.
Sine ira et studio. (Tacito)
Senza animosità e senza simpatia
Si parva licet componere magnis. (Virgilio)
Se è lecito paragonare piccole cose alle grandi.
Si vis amari, ama. (Seneca)
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Se vuoi essere amato, ama.
Si vis pacem, para bellum. (da Cornelio Nepote)
Se vuoi la pace, prepara la guerra.
Summum ius, summa iniuria. (Cicerone)
Somma giustizia, somma ingiustizia.
Sutor, ne supra crepidam. (da Plinio il Vecchio)
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Ciabattino, non oltre il calzare.
Tacitum vivit sub pectore vulnus. (Virgilio)
Tacita vive la ferita nel cuore.
Tantum religio potuit suadere malorum. (Lucrezio)
Tanto grandi delitti ha potuto ispirare la religione.
Tempus edax omnia perdit. (Ovidio)
Il tempo divoratore distrugge ogni cosa.
Timeo Danaos et dona ferentes. (Virgilio)
Temo i Danai anche se recano doni.
Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant. (Tacito)
Dove fanno il deserto, dicono che è la pace.
Ut ameris, amabilis esto. (Ovidio)
Per essere amato, sii amabile.
Ut pictura poesis. (Orazio)
La poesia è come la pittura.
Vae victis! (Livio)
Guai ai vinti.
Venit amor gravius, quo serius. (Ovidio)
L’amore è tanto più profondo quanto più tardi giunge.
Veni vidi vici. (Svetonio)
Venni, vidi, vinsi.
Video meliora proboque, deteriora sequor. (Ovidio)
Vedo il meglio e lo approvo, ma seguo il peggio.
Viri in eo culpa, si femina modum excedat. (Tacito)
La colpa è dell’uomo se la donna esce dai limiti
(= le intemperanze della moglie sono imputabili al marito).
Vita brevis, ars longa. (Seneca)
La vita è breve, l’arte (è) lunga.
Vulpes pilum mutat, non mores. (Svetonio)
La volpe cambia (o perde) il pelo, ma non il vizio.
Marinella De Luca - Detti e motti latini (usi e abusi)
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