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La paga dei padroni
FOCUS La paga dei padroni, un doppio scandalo All’uscita del libro di Gianni Dragoni e Giorgio Meletti la polemica esplode due volte. Da un lato emergono i retroscena di un sistema capitalistico malato, dall’altro si punta il dito contro l’intera classe manageriale. Ma occorre fare chiarezza: il saggio parla di retribuzioni, fatti e misfatti di alcuni top manager e soprattutto imprenditori. Eppure da alcuni è stato travisato e preso come spunto per fare di tutta l’erba un fascio. Abbiamo allora chiesto a uno dei due autori di spiegarci perché è sbagliato accomunare tutta la dirigenza a pochissimi top troppo alto lo stipendio di quasi 9,5 milioni di euro lordi nel 2007 del potente banchiere che ha trasformato una vecchia banca statale in uno dei gruppi più dinamici in Europa? Secondo il centro studi della Cgil, l’amministratore delegato di Unicredit Alessandro Profumo ha ricevuto una busta paga pari a 365 volte lo stipendio medio di un lavoratore dipendente, ovvero 24.890 euro lordi. Come dire che un impiegato o un operaio “medio” impiegherebbe 365 anni per portare a casa lo stesso compenso. E questo senza considerare le azioni gratuite assegnate dalla banca al suo numero uno, per un valore all’epoca di 3,92 milioni lordi, tassato come un reddito. Se escludiamo buonuscite o premi straordinari, lo stipendio del numero uno di Unicredit è il più alto tra quelli pagati nel 2007 ai massimi dirigenti (amministratori delegati, direttori generali o presidenti) dalle società italiane quotate in Borsa. Si tratta di top manager. Casi simili sono quelli di Pirelli-Telecom, del gruppo Agnelli, delle famiglie È La casta dei top manager e gli stipendi con sei zeri Il mondo della dirigenza media italiana non ha niente a che fare con l’eldorado di pochi privilegiati, spesso più imprenditori che top manager, eppure si fa troppo spesso confusione. Di questo si parla nel libro La paga dei padroni, scritto a quattro mani da Gianni Dragoni e Giorgio Meletti (Chiarelettere, pagg. 278, € 14,60). Berlusconi, di De Benedetti e Pesenti di Alitalia, dell’Eni e dell’Enel, indicati nel libro La paga dei padroni (Chiarelettere). Si parte dagli stipendi, cioè dal quanto guadagnano. Ma il punto di approdo è piuttosto il come o il perché le buste paga dei “supermanager” debbano raggiungere certi livelli. Sarebbe un mero esercizio di populismo limitarsi a osservare che gli stipendi dei superdirigenti appaiono esagerati. Il vero punto è capire se certe somme siano meritate, se siano giustificate dai risultati e dalla crescita delle aziende. Senza limitare l’orizzonte al breve termine, al contrario di quanto invece accade per molte gratifiche o incentivi, dai bonus milionari alle stock option. Così è lecito avanzare qualche dubbio sul superpremio pagato nel 2007 da Capitalia al ragazzo prodigio Matteo Arpe, uscito dalla banca il 31 maggio a causa della violenta rottura con Cesare Geronzi. È stato circa sei anni al vertice, di cui cinque come amministratore delegato, e ha ottenuto 31 milioni lordi di buonuscita, che insieme ai sei milioni di stipendio e ai premi per cinque mesi di lavoro hanno portato la sua busta paga nel 2007 a 37 milioni lordi. E ha ricevuto altri 15 milioni rivendendo alla banca le azioni che aveva sottoscritto reinvestendo le plusvalenze delle stock option. Se Unicredit è stata investita dalla bufera finanziaria nei mesi scorsi lo si deve anche, secondo molti, all’eredità di Capitalia. Dunque anche i meriti di Arpe meriterebbero una rilettura. Sicuramente, rispetto a quanto guadagna Profumo, è meno comprensibile lo stipendio di due milioni lordi l’anno che Maurizio Romiti riceveva dall’Hdp, la società divenuta Rcs Mediagroup, quando per le incursioni nella moda e nell’abbigliamento (da Valentino a Fila) i bilanci si chiudevano con voragini degne dell’Alitalia. Appare ingiustificato lo stipendio che l’immobiliarista Luigi Zunino si è autoattribuito nella Risanamento: è partito da 1 milione e 900mila euro nel 2004 ed è sempre cresciuto, fino a 4 䊳 DIRIGENTE 12|2008 䡵 37 FOCUS milioni e 800mila euro nel 2007. Nel frattempo i debiti sono raddoppiati, mentre l’ultimo utile e dividendo è nel bilancio 2005. Come spiega il sottotitolo, il saggio è dedicato a “Banchieri, manager, imprenditori. Come e quanto guadagnano i protagonisti del capitalismo all’italiana”. Il tema degli stipendi dei vertici, un dato certo e ufficiale perché le società quotate so- Ad “Anno Zero” Manageritalia fa chiarezza su chi sono i veri manager Manageritalia è sempre più sotto i riflettori. Una presenza ampia e di qualità elevata su quotidiani, settimanali, mensili, riviste di settore, trasmissioni radiofoniche, televisive e testate web. Significa solo una cosa: la nostra è un’Organizzazione che dice e fa cose interessanti, legate non solo al mondo dei manager ma alla società, all’economia e alla cultura. Non passa giorno senza che la rassegna stampa si arricchisca di un nuovo articolo che parla di noi e delle nostre attività e soprattutto dei manager e dell’importanza del loro ruolo. Recentemente siamo stati ospiti, rappresentati da Marisa Montegiove, vicepresidente Manageritalia Milano, della trasmissione “Anno Zero” condotta da Michele Santoro su Rai 2, dove abbiamo dato un’immagine realistica dei manager, sfatando tanti stereotipi e luoghi comuni. Tutto questo è molto importante. Infatti, più visibilità acquistiamo e soprattutto più riusciamo ad essere interlocutori affidabili e ad avere una buona reputazione, più la società si accorge di quanto i manager ricoprano un ruolo fondamentale e insostituibile dentro e fuori gli uffici aziendali. no obbligate a renderli pubblici nei bilanci, è la chiave per leggere le distorsioni del capitalismo “all’italiana” e capire perché ci sia una crescita zero e una bassa produttività delle imprese. Un sistema sempre più povero di grandi aziende e di capitali ma ricco di patti di sindacato e scatole cinesi che consentono a un club esclusivo e blindato di eserci- 38 䡵 DIRIGENTE 12|2008 tare il potere anche senza denaro. Molti imprenditori e finanzieri rinunciano a investire e sacrificano la crescita delle aziende all’obiettivo di mantenere il controllo. E molti di essi, collocando se stessi o i propri figli al vertice dei gruppi di cui sono soci principali (ma non esclusivi), incassano una ricchezza superiore a quella che, più correttamente, riceverebbero come tutti gli altri azionisti attraverso la distribuzione degli utili. I tre figli di Salvatore Ligresti nel 2007 hanno ricevuto stipendi lordi complessivi per circa 13 milioni di euro, mentre i dividendi spettanti alla famiglia attraverso il sistema che va da Premafin a Fondiaria-Sai alla Milano Assicurazioni e all’Immobiliare Lombarda si sono fermati a 2,8 milioni. Così anche il supermanager, cooptato o affiancato al “padrone”, spesso riceve uno stipendio d’oro, senza un legame con i risultati. Nel 2007 i cento top manager più I MANAGER IN ITALIA LA PAROLA A GIANNI DRAGONI pagati dalle società quotate hanno ricevuto 403 milioni lordi, in media quattro milioni a testa, con un incremento del 17% rispetto al 2006. Nello stesso periodo la Borsa di Milano ha perso in media il 7,8 per cento. Anche nel 2006 i cento più pagati avevano avuto un incremento del 17% rispetto al 2005. I normali dirigenti non vanno confusi con i supermanager. Secondo i dati di Od&M Consulting, i circa 120mila dirigenti di aziende private italiane hanno avuto nel 2007 una busta paga media di 101mila euro lordi, compresa la retribuzione variabile. Questo aspetto, non affrontato nel libro, è uno degli argomenti che fa maggiormente discutere i manager. 䡺 l’azienda e del mantenimento della proprietà spesso prevale su quello dello sviluppo e della crescita delle imprese. Se l’imprenditore non dispone di capitali sufficienti o se non vuole rischiare vengono sacrificate anche la ricerca e l’innovazione, che sono condizioni essenziali per far rimanere l’impresa competitiva». Parliamo ora del sistema economico italiano, fatto di tantissimi imprenditori e imprese, commercianti, artigiani ecc., ma di pochissimi dirigenti, lo 0,9% dei dipendenti nel settore privato (anche in rapporto con quanto avviene all’estero, 3-4% in Francia e Germania, 6% nel Regno Unito). Una mancanza non solo di presenza manageriale (c’è solo mezzo dirigente per ognuna delle oltre 210.000 aziende con più di 10 dipendenti), ma anche e soprattutto di cultura e competenza manageriali in ogni dove nell’economia e nella società. Secondo lei perché c’è poca presenza, cultura e competenza manageriale in Italia? «Credo sia frutto di un sistema imprenditoriale piuttosto chiuso, nel quale l’obiettivo del controllo del- In che modo si può favorire l’attività del manager e incrementare la cultura manageriale? «La riduzione dei settori protetti e la crescente apertura del sistema economico alla concorrenza, oggi ancora scarsa, dovrebbero spingere le imprese a cercare profili di maggiore qualità e capacità tra i dirigenti e i quadri, come nelle altre risorse. È compito anche di queste categorie professionali perseguire un miglioramento della propria formazione». Cosa fare per far sì che i manager bravi possano svolgere appieno il loro lavoro con indubbi vantaggi anche per l’economia e per tutti noi? «Credo che la medicina migliore sia l’affermazione di una vera concorrenza nei servizi e nell’industria. Se si riducono i settori protetti, le imprese sono costrette a offrire servizi migliori e alle migliori condizioni per i clienti e i consumatori. Di conseguenza, anche i proprietari di imprese a controllo familiare, o comunque i titolari di quote di controllo se si tratta di società quotate o con altri soci, avrebbero interesse ad avere i dirigenti migliori e orientati a risultati di medio e lungo termine». La retribuzione media annua lorda è di poco più di 100mila euro. Che Vicepresidente Manageritalia Milano fare per far capire al Paese che la stragrande maggioranza dei manager sono questi e non quei pochissimi spesso sulle pagine dei giornali? «Non conosco i dati della categoria per pronunciarmi su queste cifre. Peraltro rappresentano una media, con situazioni dunque molto variabili. A volte le statistiche o gli studi non dicono tutto sulle realtà economiche che vengono censite. Sono comunque d’accordo che vi sia una forte differenza tra gli stipendi dei dirigenti intesi come vasta categoria in generale e quelli dei vertici delle società quotate in Borsa, che sono l’oggetto principale dell’analisi svolta nel libro La paga dei padroni. Nel 2007 i primi 100 più pagati tra le aziende quo- tate, comprese le superbuonuscite di Matteo Arpe, Carlo Buora e Riccardo Ruggiero, o i premi assegnati a Cesare Geronzi o Giovanni Bazoli, hanno ricevuto in media 4 milioni di euro lordi. Il primo (Arpe) ha ricevuto 37,4 milioni. Il centesimo, Pietro Giuliani, presidente e amministratore delegato di Azimut Holding, 1,49 milioni. Ma c’è una forte differenza anche tra le stesse società quotate: non tutte strapagano i vertici e non tutte presentano difficoltà a capire la correlazione tra risultati e compensi dei top manager. Un esempio positivo che abbiamo notato è quello del gruppo Pininfarina. Oppure alla Fiat: se il presidente Luca Cordero di Montezemolo nel 2007 ha guadagnato 7,07 milioni lordi, per lo più per gli incarichi nella controllata Ferrari e l’amministratore delegato che ha guidato l’inversione di tendenza nei conti, Sergio Marchionne, un po’ meno di lui, pur avendo un ottimo stipendio (6,9 milioni), si intuisce subito che c’è uno squilibrio». stione. È vero che i dirigenti “normali”, se vogliamo etichettare in questo modo coloro che non guadagnano cifre con sei zeri, non possono essere automaticamente assimilati ad alcune migliaia di privilegiati. Il tarlo del sistema è la scarsa attenzione ai risultati di medio e lungo periodo, per privilegiare il breve». Non pensa che addossare la colpa della crisi a questi pochissimi e spregiudicati top manager sia del tutto fuorviante e ci allontani dalla verità? «I grandi manager sono i principali responsabili dell’andamento delle aziende che dirigono. Quando i risultati sono positivi vengono elogiati e ricevono ricchi premi, bonus o stock option se le aziende sono quotate. Molti di questi hanno però il difetto di addossare la colpa ad altri (politici, sindacati, dipendenti, cause internazionali) quando la situazione si rovescia. L’economia di carta e la finanza spregiudicata hanno una forte responsabilità nella crisi scoppiata a fine settembre, ma anche questi fenomeni sono stati governati e cavalcati dai principali dirigenti dei maggiori gruppi. Non è solo colpa dei manager americani delle grandi banche d’affari. Anche alcuni celebrati banchieri italiani hanno ecceduto nel ricorso a cartolarizzazioni, strumenti derivati e altri marchingegni che assomigliano alla catena di Sant’Antonio più che a una sana e corretta ge- Concludendo, vorremmo chiederle cosa pensa del settore pubblico. Come consentire alla PA di utilizzare maggiormente il metodo manageriale e ai dirigenti pubblici di fare veramente i manager? «In seguito alla legge Bassanini e all’ufficializzazione dello spoil system soprattutto per i vertici delle PA, il governo è stato legittimato a sostituire, confermare e comunque ad esprimere un gradimento sui dirigenti in posizione più elevata. L’adozione di questa formula che imita situazioni già applicate negli Usa si è rivelata una scelta poco felice, in quanto aumenta l’interferenza in un contesto in cui il merito era già poco presente e risultava schiacciante il peso della burocrazia. Credo che la PA avrebbe bisogno soprattutto di un giusta dose di meritocrazia e valutazione di dirigenti e personale, secondo obiettivi e risultati. In questo modo si valorizzerebbero le risorse di qualità presenti anche nel settore pubblico e si attirerebbero risorse dal mercato». 䡵 Insomma, per ripartire potremmo cominciare dai manager, mettendone di più e di più competenti nel sistema. «Certamente. C’è bisogno di più manager e più competenti. Nella formazione e selezione dei dirigenti devono assumere più importanza i criteri di merito, la preparazione e la qualità rispetto alle amicizie così rilevanti nel nostro (povero) capitalismo di relazioni. Le risorse di qualità esistono, non solo tra i dirigenti, ma spesso non sono valorizzate a sufficienza. Credo che un vero rinnovamento non possa esserci senza un’autocritica da parte di chi dirige le aziende». DIRIGENTE 12|2008 䡵 39