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L`arca di Noè

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L`arca di Noè
Riflessioni sulla natura
proposte alla classe 5^D figurativo
per l’attività di discipline pittoriche
e per il progetto “Barbiana è qui”
dalla prof. Santina Tagliati
come organismo vivente e luogo simbolico
6 – 10 – 17 – 20 – 26 – 32
Come proiezione del paesaggio interiore
9 – 19 -
Come problema ecologico
7 – 8 – 13 – 14 – 21 – 29/30
NATURA
Come riflessione sulla storia e sulla tecnologia
16 – 22 – 23/24/25 – 27/28 –
come occasione per il ricordo
come riflessione sulla vita e ritorno a Dio
5 – 15 –33 – 35
3 – 4 – 11/12 – 18 – 31 – 34
Trasaliscono i monti al soffio lieve
Endecasillabi sciolti
Trasaliscono i monti al soffio lieve
del respiro serale, e rabbrividendo
si velano d’un velo di viola
che si vena d’un tremulo affiorare
d’oro, nel verde argenteo del tuo cielo. 5
Dove tu stendi l’eccitata luce
delle tue prospettive, ivi t’innalzo,
dal mio segreto fremito, l’offerta
di questo breve tempo della terra,
ch’è il ritmo del mio petto, ove mi parli. 10
Dagli spazi lucenti, sulla soglia
della notte, al fiorir delle tue stelle,
trasaliscono i monti, in un respiro
che rassomiglia al mio, nel dolce suono
del tempo di quaggiù, che d’uomo ha il canto 15
e di terra la forma e la speranza.
Arturo Onofri (1885 – 1928)
4 – 5 tutte le cose sembrano svanire nella
pura melodia coloristica del cielo
6 – 7 la luce del tramonto allude a
prospettive nuove, a spazi interinati
9 – 10 il ritmo vitale del mondo si raccoglie in
quello del cuore umano, aperto alla voce di
Dio
Nel terreno umido delle rive
Il salice grigio, tremulo,
il pioppo ibrido, già bianco già nero,
e più in là l’olmo minore,
l’acero campestre e gelsi, cespugli.
E più giù, di radice in radice,
giungo alla radice di tutte le cose.
E penso a come sacra è questa unione.
E più su un diffondersi vivo nell’aria,
un guardare in posizione d’ascolto.
E, ascoltando, con lei vado
che fa brillare di quiete le cose,
che fa tornare allo splendore
le distrutte.
Vittorio Cozzoli
La poesia è tratta dalla raccolta
“La splendida luce” edita nel 1992
Vittorio Cozzoli ha lasciato
l’insegnamento nel 1999 per
dedicarsi all’attività di poeta e
scrittore
Traversando la Maremma toscana
Dolce paese, onde portai conforme
l’abito fiero e lo sdegnoso canto
e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme,
pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.
1 Onde portai conforme: dal quale ho tratto simile a te
2 l’abito fiero… canto il carattere severo, l’ispirazione
poetica che rifiuta ogni compromesso
3 il petto: il cuore;s’addorme: si addormenta
4 pur ancora
5 le usate forme le immagini consuete e familiari
7 in quelle riferito a forme
Ben riconosco in te le usate forme
con gli occhi incerti tra ‘l sorriso e il pianto,
e in quelle seguo de’ miei sogni l’orme
erranti dietro il giovanile incanto.
Oh, quel che amai, quel che sognai, fu invano;
e sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
e dimani cadrò. Ma di lontano
pace dicono al cor le tue colline
con le nebbie sfumanti e il verde piano
ridente ne le piogge mattutine.
Giosuè Carducci (1835 – 1907)
8 erranti… incanto erranti riferito a orme: i sogni del
poeta inseguono le illusioni della giovinezza
10 giunsi raggiunsi
11 cadrò morirò
13 Nebbie sfumanti che sfumano all’alba verde piano la
pianura
Notturno [frammento 58D]
Dormono le cime dei monti e gli abissi
e le colline e le valli
e tutte le stirpi degli animali
che la nera terra nutre,
e gli animali feroci che abitano sui monti e le api
e i pesci nella profondità del mare di colore azzurro scuro;
e gli uccelli dalle ampie ali.
Alcmane VII sec. a. C.
Trad. dal greco di B. Panebianco
L’arca di Noè
Un volo di gabbiani telecomandati
e una spiaggia di conchiglie morte
nella notte una stella d’acciaio
confonde il marinaio;
strisce bianche nel cielo azzurro
per incantare e far sognare i bambini,
la luna è piena di bandiere senza vento,
che fatica essere uomini!
Partirà, la nave partirà
dove arriverà, questo non si sa
sarà come l’arca di Noè:
il cane, il gatto, io e te.
Un toro è disteso sulla sabbia
il suo cuore perde cherosene,
a ogni curva un cavallo di latta
distrugge il cavaliere.
Terra e mare, polvere bianca;
una città si è perduta nel deserto
la casa è vuota, non aspetta più nessuno,
che fatica essere uomini!
Partirà, la nave partirà
dove arriverà, questo non si sa
sarà come l’arca di Noè:
il cane, il gatto, io e te.
Canzone di Sergio Endrigo presentata a Sanremo nel 1970
Chico
I signori della morte hanno detto sì,
l’albero più bello è stato abbattuto,
Canzone dei NOMADI tratta dall’album “Le
strade, gli amici, il concerto” del 1997
i signori della morte non vogliono capire,
non si uccide la vita, la memoria resta.
così l’albero cadendo, ha sparso i suoi semi
e in ogni angolo del mondo, nasceranno foreste.
ma salvare le foreste vuol dire salvare l’uomo,
perché l’uomo non può vivere tra acciaio e cemento,
non ci sarà mai pace, mai vero amore,
finchè l’uomo non imparerà a rispettare la vita.
per questo l’albero abbattuto non è caduto invano,
cresceranno foreste e una nuova idea dell’uomo.
Ma lunga sarà la strada e tanti gli alberi abbattuti,
prima che l’idea trionfi, senza che nessuno muoia,
forse un giorno uomo e foresta vivranno insieme,
speriamo che quel giorno ci sia ancora.
Se quel giorno arriverà, ricordati di un amico
morto per gli indios e la foresta, ricordati di Chico.
La canzone ricorda la lotta contro
l’abbattimento degli alberi nella foresta
amazzonica e la morte del sindacalista Chico
Mendes
O falce di luna calante
1 falce di luna la luna all’ultimo quarto
O falce di luna calante
2 su… deserte sulle acque senza imbarcazioni
che brilli su l’acque deserte,
3 messe mietitura
o falce d’argento, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
5 aneliti respiri
6 sospiri profumi come fruscii
7 esalano al mare vanno verso il mare
10 il popol de’ vivi s’addorme tutti gli esseri viventi si
addormentano
Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori dal bosco
esalano al mare: non canto non grido
non suono pe ‘l vasto silenzio va.
Oppresso d’amor, di piacere,
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù
Gabriele D’Annunzio da “Canto Novo” 1882
Corrispondenze
È un tempio la Natura ove viventi
pilastri a volte confuse parole
mandano fuori; la attraversa l’uomo
tra foreste di simboli dagli occhi
familiari. I profumi e i colori
e i suoni si rispondono come echi
lunghi che di lontano si confondono
in unità profonda e tenebrosa,
vasta come la notte ed il chiarore.
Esistono profumi freschi come
carni di bimbo, dolci come gli oboi,
e verdi come praterie; e degli altri
corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno
l’espansione propria alle infinite
cose, come l’incenso, l’ambra, il muschio,
il benzoino, e cantano dei sensi
e dell’anima i lunghi rapimenti.
Charles Baudelaire da “I fiori del male” 1857
1-2 è un tempio…parole la Natura è un tempio e, agli
occhi del poeta, gli alberi si trasformano in colonne, che
lasciano intuire misteriose rivelazioni
3-5 la attraversa…familiari l’uomo vive ignaro in una
realtà di cui è compartecipe ma che allude a qualcosa di
misterioso
5-9 i profumi … chiarore fra le sensazioni esistono delle
corrispondenze che, come echi che svaniscono lontano, si
confondono e diventano una cosa sola
15 l’incenso… muschio l’incenso è una resina profumata,
l’ambra è una sostanza animale utilizzata per i profumi, il
muschio è una sostanza aromatica
16 benzoino è una pianta originaria della Malesia dalla quale
si ottiene una resina balsamica nota come incenso di Giava
Se la materia della terra, l’acqua, i soffi leggeri dei venti, i vapori brucianti del fuoco, la cui unione costituisce il nostro
universo, sono tutti formati da una sostanza soggetta alla nascita e alla morte, bisogna ben pensare che lo stesso valga
per l’insieme del mondo. Qualsiasi composto, di cui vediamo le parti e le membra formate da una sostanza soggetta a
nascere e da elementi mortali, ci appare allo stesso modo sottomesso alle leggi della nascita e della morte. Quando,
considerando le membra gigantesche e le parti di questo mondo, le vedo morire e nascere, non posso dubitare che
anche il cielo e la terra non abbiano avuto la loro prima ora e non debbano soccombere un giorno.
Non credere che io abbia snaturato i fatti a mio vantaggio, quando ho preteso che la terra e il fuoco sono di natura
mortale, quando ho affermato con sicurezza che l’acqua e l’aria sono periture, e che queste stesse sostanze nascono e
crescono di nuovo. In primo luogo, una parte non trascurabile della terra, calcinata dall’ardore incessante del sole,
calpestata da infinite moltitudini, esala nugoli di polvere, nubi dal volo leggero, che il potente soffio del vento dissipa in
tutta l’atmosfera. Un’altra parte delle zolle è diluita dalle piogge, e le rive dei corsi d’acqua sono rose dalla corrente che
le leviga. Ogni corpo che la terra nutre e fa crescere, rende alla terra la parte ricevuta. Se sembra fuori dubbio ch’è
insieme la madre di tutte le cose e la loro tomba comune, vedi dunque che volta per volta essa si esaurisce, si rinforza e
cresce.
Ma non è necessario dire che le nuove onde affluiscono senza tregua verso il mare, i fiumi, le sorgenti, che le acque
sgorgano in un flusso inesauribile : l’immensa quantità di acque che cadono da ogni parte, lo prova a sufficienza. Le
acque si sperdono nella misura della loro formazione, tanto che, nell’insieme, da nessuna parte l’elemento liquido
trabocca. I venti, spazzando il mare col loro soffio potente, e il sole etereo, aspirando con i nuovi raggi, ne diminuiscono
il volume; un’altra parte si distribuisce ovunque sotto terra dove si infiltra e deposita i suoi veleni, poi l’elemento liquido,
ritornando sui suoi passi, risale verso la sorgente dei fiumi dove si riunisce; e di là il suo flutto, addolcito, scorre e
cammina alla superficie del suolo, seguendo la via scavata un tempo, che scende lungo la marcia limpida delle onde.
Passiamo all’aria, che in tutta la sua sostanza subisce a ogni istante innumerevoli mutamenti. Sempre ogni emanazione
dei corpi è trasportata tutta intera nel vasto oceano dell’aria; e se questo non restituisse alle cose altri elementi per
rimediare alle loro perdite, da molto tempo tutto sarebbe disciolto e convertito in aria. Essa non smette quindi di essere
generata a spese dei corpi e di risolversi in essi: tutto – è chiaro – è in un flusso perpetuo.
Periture: destinate a morire calcinata: sgretolata, come calce dissipa: disperde il sole etereo:secondo gli antichi gli astri erano immersi in uno
spazio limpido e purissimo chiamato etere
da Lucrezio “La natura” trad. di O. Cescatti, Milano, Garzanti 1975
Continua alla pagina seguente
Allo stesso modo, questa grande sorgente della limpida luce, il sole etereo, bagna il cielo con un chiarore che rinasce
senza sosta e alimenta la luce sempre nuova. Ognuno dei suoi raggi si perde, appena formato, in qualsiasi luogo
cada. E infatti quando una nuvola viene a passare sotto il sole, interrompendo il cammino dei raggi luminosi, subito
la parte inferiore di questo sparisce interamente, e la terra si copre d’ombra dovunque si porta la nuvola. Vedi così
che le cose hanno continuamente bisogno di una nuova illuminazione che i getti di luce muoiono nella misura in cui
si formano; sarebbe impossibile scorgere gli oggetti al chiarore del sole, se questo chiarore non fosse
incessantemente rinnovato dalla sua stessa fonte. Anche le nostre luci notturne, che sono d’origine terrestre –queste
lampade sospese, queste grosse torce, che mescolano al chiarore delle luci intermittenti nero e spesso fumo – si
affrettano ugualmente con le risorse delle loro fiamme, a rinnovare senza tregua la luce; i fuochi tremanti si
accalcano, e malgrado la loro intermittenza, la luce non smette di bagnare ogni luogo: tanto tutti i fuochi si
affrettano a dissimulare la morte della vecchia fiamma con la nascita rapida di una nuova.
Allo stesso modo – secondo noi – il sole, la luna, le stelle devono inviarci la loro luce, con emissioni incessantemente
rinnovate; le loro fiamme devono perdersi senza tregua nella misura in cui si formano. Non supporre quindi in loro
un vigore che nessuna violenza potrà distruggere.
Non vedi le pietre stesse soccombere agli assalti del tempo, le alte torri crollare, le rocce cadere in polvere? Non vedi
i templi e le statue degli dei fendersi per la stanchezza dell’età, e la potenza divina incapace di respingere i limiti del
destino, di lottare contro le leggi della natura? Non vedi forse i monumenti degli eroi rovinare, e invecchiare i bronzi
e le pietre? Non vedi cadere, strappate alle alte montagne, masse di roccia incapaci di resistere ancora ai potenti
sforzi per un tempo anche assai breve? Non si strapperebbero per cadere in un sol colpo, se da tutta l’eternità
avessero potuto sostenere imperterrite gli assalti dei secoli.
Considera questo vasto insieme che, tutt’intorno e al di sopra di noi, avvolge tutta la terra nella sua vasta stretta: se
– come si dice – esso procrea tutte le cose dalla sua stessa sostanza, e le riceve dopo la sua morte, è costituito tutto
da una materia soggetta a nascere e a perire. Qualsiasi sostanza che fornisce ad altri corpi degli alimenti per la
crescita, deve subire delle perdite, e riformarsi, quando i corpi vi fanno ritorno.
Getti di luce: raggi luminosi mescolano…spesso fumo:le torce bruciavano sostanze grasse che producevano denso fumo questo vasto
insieme: l’universo
da Lucrezio “La natura” trad. di O. Cescatti, Milano, Garzanti 1975
da Finale di Partita di Samuel Beckett
Clov spinge Nagg in fondo al bidone, abbassa il coperchio
CLOV (tornando al suo posto accanto alla poltrona) Se i vecchi sapessero!
HAMM Sieditici sopra.
CLOV Non posso star seduto.
HAMM Già. E io non posso stare in piedi.
CLOV Così è.
HAMM A ciascuno la sua specialità. [pausa] Nessuna telefonata? [pausa] Non ridi?
CLOV [dopo aver riflettuto] Non ci tengo.
HAMM [come sopra] Neanch’io [pausa] Clov.
CLOV Sì.
HAMM La natura ci ha dimenticati.
CLOV Non c’è più natura.
HAMM Più natura! Adesso esageri.
CLOV Nei dintorni.
HAMM Ma noi continuiamo a respirare, a cambiare! Perdiamo i capelli, i denti! La nostra
freschezza! I nostri ideali!
CLOV E allora non ci ha dimenticati.
HAMM Ma tu dici che non esiste più.
“Alcuni problemi di ordine ecologico derivano infatti dalle nostre concezioni sbagliate sul
modo di vivere. L’uomo occidentale crede di essere superiore agli altri e di avere il
predominio su tutta la natura. L’uomo primitivo, invece, dipendeva dai prodotti della terra e
viveva in stretto contatto con essa. Il suo rispetto per i processi biologici era talmente
grande che identificò con alcune divinità le forze della natura. Come si può ancora osservare
in certe religioni orientali, egli non si pone in concorrenza con la natura. Infatti entrambi
appartengono alla stessa biosfera. Prendono, ma danno anche qualcosa.
L’uomo moderno si è illuso di poter dominare tutti gli altri esseri viventi. Siamo ormai giunti
a un punto tale che dal nostro ambiente prendiamo a man bassa senza mai restituire nulla.
Con le nostre azioni irresponsabili assomigliamo a quei parassiti che uccidono l’ospite presso
cui si sono installati firmando così la propria condanna. Noi siamo ospiti del pianeta Terra e
dobbiamo renderci conto, al più presto, che occorre restituire alla Terra quello che essa ci
dà. Dobbiamo capire una volta per sempre che non ci possiamo permettere il lusso di
distruggere con i nostri sprechi e i nostri rifiuti questo sistema vitale. Basta dare un’occhiata
a una qualsiasi città moderna per convincerci che la strada da percorrere per ritrovare un
contatto con l’equilibrio naturale è assai lunga”
J.Y. Cousteau
Temporale
Un bubbolio lontano…
Rosseggia l’orizzonte,
come affocato, a mare;
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un’ala di gabbiano.
Il lampo
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
Giovanni Pascoli
dalla raccolta Myricae 1894
s’aprì si chiuse, nella notte nera.
Il pioppo di Karlsplatz
Un pioppo c’è, sulla Karlsplatz,
in mezzo a Berlino, città di rovine,
e chi passa per la Karlsplatz
vede quel verde gentile.
Nell’inverno del Quarantasei
gelavano gli uomini, la legna era rara
e tanti mai alberi caddero
e fu l’ultimo anno per loro.
Ma sempre il pioppo sulla Karlsplatz
quella sua foglia verde ci mostra:
sia grazie a voi, gente della Karlsplatz,
se ancora è nostra.
Bertolt Brecht (trad. F. Fortini)
Paesaggio
Il campo
di ulivi
s’apre e si chiude
come un ventaglio.
Sull’oliveto
c’è un cielo sommerso
e una pioggia scura
di freddi astri.
Tremano giunco e penombra
sulla riva del fiume.
S’increspa il vento grigio.
Gli ulivi
sono carichi
di gridi.
Uno stormo
d’uccelli prigionieri
che agitano lunghissime
code nel buio.
Federico Garcia Lorca
S’aprono come foglie
i giorni, pallidi
come tendaggi
ad uno ad uno spinti
dal vento,
dalla luce
che cresce dietro ad essi
o al loro interno,
leggeri e curvi
solo per essere ammirati.
Valerio Magrelli da Nature e venature 1987
Lieve offerta
Vorrei che la mia anima ti fosse
leggera
come le estreme foglie
dei pioppi, che s’accendono di sole
in cima ai tronchi fasciati
di nebbia –
Vorrei condurti con le mie parole
ANTONIA POZZI (1912 – 1938)
per un deserto viale, segnato
d’esili ombre –
fino a una valle d’erboso silenzio,
al lago –
ove tinnisce per un fiato d’aria
il canneto
e le libellule si trastullano
con l’acqua non profonda –
Vorrei che la mia anima ti fosse
leggera,
che la mia poesia ti fosse un ponte,
sottile e saldo,
bianco –
sulle oscure voragini
della terra.
Autunno
Autunno. Già lo sentimmo venire
Nel vento d’agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
Vincenzo Cardarelli
Versi liberi
Al mare (o quasi)
L’ultima cicala stride
sulla scorza gialla dell’eucalipto
i bambini raccolgono pinoli
indispensabili per la galantina
un cane alano urla dall’inferriata
di una villa ormai disabitata
le ville furono costruite dai padri
ma i figli non le hanno volute
ci sarebbe spazio per centomila terremotati
di qui non si vede nemmeno la proda
Chi vuole respirare a grandi zaffate
la musa del nostro tempo la precarietà
può passare di qui senza affrettarsi
è il colpo secco quello che fa orrore
non già l’evanescenza il dolce afflato del nulla
Hic manebimus se vi piace non proprio
ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile
alla morte (e questa piace solo ai giovani)
Eugenio Montale (1896 – 1981)
se può chiamarsi così quell’ottanta per cento
ceduta in uso ai bagnini
e sarebbe eccessivo pretendervi
una pace alcionica
il mare è d’altronde infestato
mentre i rifiuti in totale
formano ondulate collinette plastiche
esaurite le siepi hanno avuto lo sfratto
i deliziosi figli della ruggine
gli scriccioli o reatini come spesso
li citano i poeti E c’è anche qualche boccio
di magnolia l’etichetta d’un pediatra
ma qui i bambini volano in bicicletta
e non hanno bisogno delle sue cure
In questa, che è una delle ultime liriche di
Montale (1976 ripubblicata l’anno dopo in
Quaderno di quattro anni), si delinea
nettamente l’immagine del poeta prigioniero
della storia; ma non più di quella violenta e
atroce della guerra o delle dittature, bensì di
quella del grigiore avvilente della civiltà
consumistica, banalizzante, ma soprattutto
negatrice integrale della cultura e quindi
dell’umano. Ritornano in scena cose e luoghi
della precedente poesia montaliana, con un
gusto di autocitazione che rende più evidente
il nulla della vita attuale: la cicala, l’eucalipto,
la villa, il mare, la magnolia. Tutti divengono
emblemi d’una civiltà perduta, irta di
contraddizioni, ma pur sempre migliore della
vacuità totale dell’oggi. Tutto qui si svolge nel
segno del volgare, della sporcizia e della
precarietà, della totale assenza di rispetto per
la natura e il vivere civile.
10 la proda la riva
14 una pace alcionica il tempo di pace sul
mare, in settembre, quando gli alcioni
nidificano (è forse un ironico ricordo della
poesia di D’Annunzio)
15 infestato inquinato
22 l’etichetta intendi “c’è anche la targa”
25-30 Qui, dunque, si può respirare il cattivo
odore che manda la musa del nostro tempo,
la precarietà, che non significa soltanto
rinuncia ai valori per mediocri interessi
effimeri, ma anche incapacità, o meglio, non
volontà di costruire qualcosa di solido e
duraturo nella vita associata. Ne è riprova lo
scempio che si fa della natura, senza pensare
alle immancabili conseguenze che certo
saranno vicine nel tempo. Ma gli uomini
hanno orrore del colpo secco, cioè della
morte ( o magari della guerra), non della
dissolvenza lenta, dell’evanescenza che è il
respiro (la manifestazione) del nulla, ma che
per loro è dolce, in quanto non assume volti
minacciosi. Il poeta si sente come travolto da
una stupidità colossale, che mozza il respiro.
30-32 Hic manebimus riecheggia la frase
classica “Qui resteremo ottimamente”!,
caduta ormai in proverbio, e lo fa con
evidente ironia; ma il sarcasmo maggiore
consiste nell’affermare che questa gente non
vuole il meglio, in quanto segnerebbe il crollo
di questi falsi valori e di questa falsa civiltà,
perché comporterebbe vita, azione,
responsabili scelte e crollo di basse ma
comode certezze. Una morte del genere
potrebbe piacere solo ai giovani, che qui
paiono assenti, perché questo mondo di
falsità e conformismo è vecchio, di là da ogni
considerazione dell’età di chi lo accetta.
I FIUMI
Cotici il 16 agosto 1916
Mi tengo a quest’albero mutilato
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato
L’Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua
Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole
Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo
Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.
Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia
Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza
Nelle distese pianure
Ma quelle occulte
Mani
Che m’intridono
Mi regalano
La rara
Felicità
Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita
Questi sono
I miei fiumi
Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre
Giuseppe Ungaretti
Dalla raccolta
L’Allegria
MALARIA
E’ vi par di toccarla colle mani - come dalla terra grassa che fumi, là, dappertutto, torno torno alle montagne che la chiudono, da Agnone al Mongibello
incappucciato di neve - stagnante nella pianura, a guisa dell’afa pesante di luglio. Vi nasce e vi muore il sole di brace, e la luna smorta, e la Puddara,
che sembra navigare in un mare che svapori, e gli uccelli e le margherite bianche della primavera, e l’estate arsa, e vi passano in lunghe file nere le
anitre nel nuvolo dell’autunno, e il fiume che luccica quasi fosse di metallo, fra le rive larghe e abbandonate, bianche, slabbrate, sparse
di ciottoli; e in fondo il lago di Lentini, come uno stagno, colle sponde piatte, senza una barca, senza un albero sulla riva, liscio ed immobile. Sul greto
pascolano svogliatamente i buoi, rari, infangati sino al petto, col pelo irsuto. Quando risuona il campanaccio della mandra, nel gran silenzio, volan via le
cutrettole, silenziose, e il pastore istesso, giallo di febbre, e bianco di polvere anche lui, schiude un istante le palpebre gonfie, levando il capo all’ombra
dei giunchi secchi. È che la malaria v’entra nelle ossa col pane che mangiate, e se aprite bocca per parlare, mentre camminate lungo le strade
soffocanti di polvere e di sole, e vi sentite mancar le ginocchia, o vi accasciate sul basto della mula che va all’ambio, colla testa bassa. Invano Lentini, e
Francofonte, e Paternò, cercano di arrampicarsi come pecore sbrancate sulle prime colline che scappano dalla pianura, e si circondano di aranceti, di
vigne, di orti sempre verdi; la malaria acchiappa gli abitanti per le vie spopolate, e li inchioda dinanzi agli usci delle case scalcinate dal sole, tremanti di
febbre sotto il pastrano, e con tutte le coperte del letto sulle spalle. Laggiù, nella pianura, le case sono rare e di aspetto malinconico, lungo le strade
mangiate dal sole, fra due mucchi di concime fumante, appoggiate alle tettoie crollanti, dove aspettano coll’occhio spento, legati alla mangiatoia vuota,
i cavalli di ricambio. - O sulla sponda del lago, colla frasca decrepita dell’osteria appesa all’uscio, le grandi stanzucce vuote, e l’oste che sonnecchia
accoccolato sul limitare, colla testa stretta nel fazzoletto, spiando ad ogni svegliarsi, nella campagna deserta, se arriva un passeggiero assetato.
Oppure come cassette di legno bianco, impennacchiate da quattro eucalipti magri e grigi, lungo la ferrovia che taglia in due la pianura come un colpo
d’accetta, dove vola la macchina fischiando al pari di un vento d’autunno, e la notte corruscano scintille infuocate.
O infine qua e là, sul limite dei poderi segnato da un pilastrino appena squadrato, coi tetti appuntellati dal di fuori, colle imposte sconquassate, dinanzi
all’aia screpolata, all’ombra delle alte biche di paglia dove dormono le galline colla testa sotto l’ala, e l’asino lascia cascare il capo, colla bocca ancora
piena di paglia, e il cane si rizza sospettoso, e abbaia roco al sasso che si stacca dall’intonaco, alla lucertola che striscia, alla foglia che si muove nella
campagna inerte. La sera, appena cade il sole, si affacciano sull’uscio uomini arsi dal sole, sotto il cappellaccio di paglia e colle larghe mutande di tela,
sbadigliando e stirandosi le braccia; e donne seminude, colle spalle nere, allattando dei bambini già pallidi e disfatti, che non si sa come si faranno
grandi e neri, e come ruzzeranno sull’erba quando tornerà l’inverno, e l’aia diverrà verde un’altra volta, e il cielo azzurro e tutt’intorno la campagna
riderà al sole. E non si sa neppure dove stia e perché ci stia tutta quella gente che alla domenica corre per la messa alle chiesuole solitarie, circondate
dalle siepi dei fichidindia, a dieci miglia in giro, sin dove si ode squillare la campanella fessa nella pianura che non finisce mai. Però dov’è la malaria è
terra benedetta da Dio. In giugno le spighe si coricano dal peso, e i solchi fumano quasi avessero sangue nelle vene appena c’entra il vomero in
novembre. Allora bisogna pure che chi semina e chi raccoglie caschi come una spiga matura, perchè il Signore ha detto: “Il pane che si mangia bisogna
sudarlo”. Come il sudore della febbre lascia qualcheduno stecchito sul pagliericcio di granoturco, e non c’è più bisogno di solfato né di decotto
d’eucalipto, lo si carica sulla carretta del fieno, o attraverso il basto dell’asino, o su di una scala, come si può, con un sacco
sulla faccia, e si va a deporlo alla chiesuola solitaria, sotto i fichidindia spinosi di cui nessuno perciò mangia i frutti. Le donne piangono in crocchio, e gli
uomini stanno a guardare, fumando.
continua
Così s’erano portato il camparo di Valsavoia, che si chiamava massaro Croce, ed erano trent’anni che inghiottiva solfato e decotto d’eucalipto. In
primavera stava meglio, ma d’autunno, come ripassavano le anitre, egli si metteva il fazzoletto in testa, e non si faceva più vedere sull’uscio che
ogni due giorni; tanto che si era ridotto pelle ed ossa, e aveva una pancia grossa come un tamburo, che lo chiamavano il Rospo anche pel suo fare
rozzo e selvatico, e perché gli erano diventati gli occhi smorti e a fior di testa. Egli diceva sempre prima di morire: - Non temete, che pei miei figli il
padrone ci penserà! - E con quegli occhiacci attoniti guardava in faccia ad uno ad uno coloro che gli stavano attorno al letto, l’ultima sera, e gli
mettevano la candela sotto il naso. Lo zio Menico, il capraio, che se ne intendeva, disse che doveva avere il fegato duro come un sasso e pesante
un
rotolo e mezzo. Qualcuno aggiungeva pure: - Adesso se ne impipa! ché s’è ingrassato e fatto ricco a spese del padrone, e i suoi figli non hanno
bisogno di nessuno! Credete che l’abbia preso soltanto pei begli occhi del padrone tutto quel solfato e tutta quella malaria per trent’anni? –
Compare Carmine, l’oste del lago, aveva persi allo stesso modo i suoi figliuoli tutt’e cinque, l’un dopo l’altro, tre maschi e due femmine. Pazienza le
femmine! Ma i maschi morivano appunto quando erano grandi,nell’età di guadagnarsi il pane. Oramai egli lo sapeva; e come le febbri vincevano il
ragazzo, dopo averlo travagliato due o tre anni, non spendeva più un soldo, né per solfato né per decotti, spillava del buon vino e si metteva ad
ammanire tutti gli intingoli di pesce che sapeva, onde stuzzicare l’appetito al malato. Andava apposta colla barca a pescare la mattina, tornava
carico di cefali, di anguille grosse come il braccio, e poi diceva al figliuolo, ritto dinanzi al letto e colle lagrime agli occhi: - Tè! mangia! - Il resto lo
pigliava Nanni, il carrettiere per andare a venderlo in città. - Il lago vi dà e il lago vi piglia! - Gli diceva Nanni, vedendo piangere di nascosto
compare Carmine. - Che volete farci, fratel mio? - Il lago gli aveva dato dei bei guadagni. E a Natale, quando le anguille si vendono bene, nella
casa in riva al lago, cenavano allegramente dinanzi al fuoco, maccheroni, salsiccia e ogni ben di Dio, mentre il vento urlava di fuori come un lupo
che abbia fame e freddo. In tal modo coloro che restavano si consolavano dei morti. Ma a poco a poco andavano assottigliandosi così che la madre
divenne curva come un gancio dai crepacuori, e il padre che era grosso e grasso, stava sempre sull’uscio, onde non vedere quelle stanzacce vuote,
dove prima cantavano e lavoravano i suoi ragazzi. L’ultimo rimasto non voleva morire assolutamente, e piangeva e si disperava allorché lo coglieva
la febbre, e persino andò a buttarsi nel lago dalla paura della morte. Ma il padre che sapeva nuotare lo ripescò, e lo sgridava che quel bagno
freddo gli avrebbe fatto tornare la febbre peggio di prima. - Ah! - singhiozzava il giovanetto colle mani nei capelli, - per me non c’è più speranza!
per me non c’è più speranza! Tutto sua sorella Agata, che non voleva morire perché era sposa! - osservava compare Carmine di faccia a sua moglie, seduta accanto al letto; e
lei, che non piangeva più da un pezzo, confermava col capo, curva al pari di un gancio. Lei, ridotta a quel modo, e suo marito grasso e grosso
avevano il cuoio duro, e rimasero soli a guardar la casa.
La malaria non ce l’ha contro di tutti. Alle volte uno vi campa cent’anni, come Cirino lo scimunito, il quale non aveva né re né regno, né arte né
parte, né padre né madre, né casa per dormire, né pane da mangiare, e tutti lo conoscevano a quaranta miglia intorno, siccome andava da una
fattoria all’altra, aiutando a governare i buoi, a trasportare il concime, a scorticare le bestie morte, a fare gli uffici vili; e pigliava delle pedate e un
tozzo di pane; dormiva nei fossati, sul ciglione dei campi, a ridosso delle siepi, sotto le tettoie degli stallazzi; e viveva di carità, errando come un
cane senza padrone, scamiciato e scalzo, con due lembi di mutande tenuti insieme da una funicella sulle gambe magre e nere; e andava cantando
a squarciagola sotto il sole che gli martellava sulla testa nuda, giallo come lo zafferano. Egli non prendeva più né solfato, né medicine, né pigliava
le febbri. Cento volte l’avevano raccolto disteso, quasi fosse morto, attraverso la strada; infine la malaria l’aveva lasciato, perché non sapeva più
che farsene di lui. Dopo che gli aveva mangiato il cervello e la polpa delle gambe, e gli era entrata tutta nella pancia gonfia come un otre, l’aveva
lasciato contento come una pasqua, a cantare al sole meglio di un grillo. Di preferenza lo scimunito soleva stare dinanzi lo stallatico di Valsavoia,
perché ci passava della gente, ed egli correva loro dietro per delle miglia, gridando, uuh! uuh! finché gli buttavano due centesimi.
continua
L’oste gli prendeva i centesimi e lo teneva a dormire sotto la tettoia, sullo strame dei cavalli, che quando si tiravano dei calci, Cirino correva a
svegliare il padrone gridando uuh! e la mattina li strigliava e li governava. Più tardi era stato attratto dalla ferrovia che costrussero lì vicino. I
vetturali e i viandanti erano diventati più rari sulla strada, e lo scimunito non sapeva che pensare, guardando in aria delle ore le rondini che
volavano, e batteva le palpebre al sole per capacitarsene. La prima volta, al vedere tutta quella gente insaccata nei carrozzoni che passavano
dalla stazione, parve che indovinasse.
E d’allora in poi ogni giorno aspettava il treno, senza sbagliare di un minuto, quasi avesse l’orologio in testa; e mentre gli fuggiva dinanzi,
gettandogli contro la faccia il fumo e lo strepito, egli si dava a corrergli dietro, colle braccia in aria, urlando in tuono di collera e di minaccia: uuh!
uuh!... L’oste, anche lui, ogni volta che da lontano vedeva passare il treno sbuffante nella malaria, non diceva nulla, ma gli sputava contro il
fatto suo scrollando il capo, davanti alla tettoia deserta e ai boccali vuoti. Prima gli affari andavano così bene che egli aveva preso quattro mogli,
l’una dopo l’altra, tanto che lo chiamavano “Ammazzamogli” e dicevano che ci aveva fatto il callo, e tirava a pigliarsi la quinta, se la figlia di
massaro Turi Oricchiazza non gli faceva rispondere: - Dio ne liberi! nemmeno se fosse d’oro, quel cristiano! Ei si mangia il prossimo suo come un
coccodrillo! Ma non era vero che ci avesse fatto il callo, perché quando gli era morta comare Santa, ed era la terza, egli sino all’ora di colazione non ci aveva
messo un boccone di pane in bocca, né un sorso d’acqua, e piangeva per davvero dietro il banco dell’osteria. - Stavolta voglio pigliarmi una che
è avvezza alla malaria - aveva detto dopo quel fatto. - Non voglio più soffrirne di questi dispiaceri -. Le mogli gliele ammazzava la malaria, ad
una ad una, ma lui lo lasciava tal quale, vecchio e grinzoso, che non avreste immaginato come quell’uomo lì ci avesse anche lui il suo bravo
omicidio sulle spalle, quantunque tirasse a prendere la quarta moglie. Pure la moglie ogni volta la cercava giovane e appetitosa, ché senza
moglie l’osteria non può andare, e per questo gli avventori s’erano diradati. Ora non restava altri che compare Mommu, il cantoniere della
ferrovia lì vicino, un uomo che non parlava mai, e veniva a bere il suo bicchiere fra un treno e l’altro, mettendosi a sedere sulla panchetta
accanto all’uscio, colle scarpe in mano, per lasciare riposare i piedi. - Questi qui non li coglie la malaria! - pensava “Ammazzamogli” senza aprir
bocca nemmeno lui, ch se la malaria li avesse fatti cadere come le mosche non ci sarebbe stato chi facesse andare quella ferrovia là. Il
poveraccio, dacché s’era levato dinanzi agli occhi il solo uomo che gli avvelenava l’esistenza, non ci aveva più che due nemici al mondo: la
ferrovia che gli rubava gli avventori, e la malaria che gli portava via le mogli. Tutti gli altri nella pianura, sin dove arrivavano gli occhi, provavano
un momento di contentezza, anche se nel lettuccio ci avevano qualcuno che se ne andava a poco a poco, o se la febbre li abbatteva sull’uscio,
col fazzoletto in testa e il tabarro addosso. Si ricreavano guardando il seminato che veniva su prosperoso e verde come il velluto, o le biade che
ondeggiavano al par di un mare, e ascoltavano la cantilena lunga dei mietitori, distesi come una fila di soldati, e in ogni viottolo si udiva la
cornamusa, dietro la quale arrivavano dalla Calabria degli sciami di contadini per la messe, polverosi, curvi sotto la bisaccia pesante, gli uomini
avanti e le donne in coda, zoppicanti e guardando la strada che si allungava con la faccia arsa e stanca.
E sull’orlo di ogni fossato, dietro ogni macchia d’aloe, nell’ora in cui cala la sera come un velo grigio, fischiava lo zufolo del guardiano, in mezzo
alle spighe mature che tacevano, immobili al cascare del vento, invase anch’esse dal silenzio della notte. - Ecco! - pensava “Ammazzamogli”. Tutta quella gente là se fa tanto di non lasciarci la pelle e di tornare a casa, ci torna con dei denari in tasca -. Ma lui no! lui non aspettava né la
raccolta né altro, e non aveva animo di cantare. La sera calava tanto triste, nello stallazzo vuoto e nell’osteria buia. A quell’ora il treno passava
da lontano fischiando, e compare Mommu stava accanto al suo casotto colla bandieruola in mano; ma fin lassù, dopo che il treno era svanito
nelle tenebre, si udiva Cirino lo scimunito che gli correva dietro urlando, uuh!... E “Ammazzamogli” sulla porta dell’osteria buia e deserta
pensava che per quelli lì la malaria non ci era.
Giovanni Verga dalla raccolta Novelle rusticane 1883
SI', SI', COSI', L'AURORA SUL MARE
giallo reboante
Meraviglia dei grigi
Tutte le perle dicono SI'
3 ombre corrosive contro
Ragionamenti persuasivi verdazzurri delle rade adescanti
l'ALBA
i venti via via lavorando impastando il mare così muscoli e
I lastroni lisci violacei del mare tremano di entusiasmo
Un raggio rimbalza di roccia in roccia
sangue per l'Aurora
La meraviglia si mette a ridere nelle vene del mare
EST luce gialla sghimbescia
Rischio di una nuvola blu a perpendicolo sul mio capo
Poi
Tutti i prismatismi aguzzi delle onde impazziscono
un verde diaccio
Calamitazioni di rossi
slittante
Una vela accesa
Poi
scollina all'orizzonte che trema
NORD un rosso strafottente
ROMBO D'ORO
rumore duro vitreo
risucchio di tre ombre in quella rada mangiata dal sole
Poi un grigio stupefatto
Le nuvole rosee sono delizie lontane
fanfare di carminio scoppi di scarlatto
fievole NO grigio tamtam di azzurro
- bocca denti sanguigni bave lunghe d'oro che beve il mare
e addenta rocce
SI' semplicemente
SI'
No Sì
elasticamente
NO
pacatamente
SI'
COSI'
sì
ancora
sì sì
ANCORA
SI'
ANCORA
SI'
MEGLIO COSI'
Filippo Tommaso Marinetti
Quando tecnologia vs civiltà
di Jànos Vargha
L’evoluzione della vita negli ultimi quattro miliardi di anni è avvenuta grazie alla “tecnologia” degli acidi nucleici e delle
proteine. Poi, di recente, una specie – l’Homo Sapiens – ha cominciato ad usare altre tecnologie di sua invenzione per
acquisire vantaggi ecologici sui limiti dell’ambiente fisico, sulle altre specie della biosfera e, infine, per conquistare un
potere militare nei confronti delle altre popolazioni umane.
Per diecimila anni si è assistito al crescente incremento della popolazione umana, delle specie domestiche da essa scelte
e di altre forme di vita – parassiti o specie che vivono in simbiosi con esse; a ciò si aggiunge una proliferazione di
prodotti della tecnologia umana. Tutti questi elementi – esseri viventi e prodotti tecnologici – costituiscono un sistema:
la cosiddetta tecnosfera. Oggi la tecnologia regola lo sviluppo e il comportamento della tecnosfera, perché fornisce il
potere di “governare” la biosfera. Gli elementi biologici della tecnosfera devono dunque adeguarsi alle tecnologie: le
forme di vita che non sono in grado di farlo sono in pericolo con la crescita della tecnosfera e anzi, si stanno
estinguendo in numero sempre maggiore.
Il fenomeno dell’estinzione è sempre stato un elemento naturale dell’evoluzione sin dalla comparsa della vita, ma oggi la
realtà sembra molto diversa. L’evoluzione della biosfera prima della comparsa dell’uomo era il prodotto della
competizione e della cooperazione tra gli esseri viventi e tutta la vita si basava sulla stessa “tecnologia” biologica. La
nostra specie non avrebbe mai potuto dominare senza cogliere il frutto della conoscenza: questa fase ha rappresentato
un taglio netto nel processo evolutivo e non la sua logica continuazione. Da quando abbiamo cominciato ad applicare
tecnologie “estranee” abbiamo iniziato a separarci dalla comunità della biosfera. Abbiamo tagliato i fili della dipensenza
con la stessa sconsiderata noncuranza con cui avremmo distrutto una ragnatela, ma questa particolare ragnatela è il
risultato di miliardi di anni di evoluzione.
La nostra esistenza è indissolubilmente legata a processi che durano ben più dell’esistenza di un essere umano, eppure
questa consapevolezza non ha molti effetti sulle nostre attività. Interveniamo solo quando i nostri sensi, all’improvviso,
si accorgono che qualcosa non funziona: di fronte ad un lago che muore siamo spinti ad agire solo quando ci dà fastidio
l’odore. Finchè una calamità non sta alle porte non ci sforziamo di usare il nostro intelletto per analizzare e costruire una
concezione del mondo che ci circonda, applicando la nostra creatività. Se vogliamo capire il rapporto che ci lega ai
processi ecologici e non vogliamo distruggere la delicata ragnatela che costituisce la biosfera, dobbiamo guardare il
mondo con occhi nuovi e andare oltre le percezioni limitate e miopi che i nostri sensi ci forniscono quotidianamente.
Continua alla pagina seguente
La Braun pubblicizza i suoi apparecchi con lo slogan “Per questa forma è stata progettata la mano dell’uomo”.
A mio parere, questa frase è rivelatrice non tanto della conoscenza e saggezza che la nostra civiltà ha tratto dagli
sviluppi tecnologici, quanto del nostro “distacco” dall’evoluzione. Essa rispecchia l’arroganza della tecnocrazia: la
tecnologia è arrivata a un punto tale che non è al nostro servizio, ma ci usa.
Jànos Vargha da “Il nuovo atlante di GAIA Bologna, Zanichelli, 1996, pag. 194
Lo scritto di J. Vargha, presidente dell’Istituto di ricerca ambientale dell’Europa orientale, ci fornisce, in
sintesi, un quadro efficace dei problemi connessi allo sviluppo, in particolare mettendo in evidenza il
rapporto fra tecnologie e livello di civiltà umana.
Frate Leone e il Duemila
di Giorgio Celli
Il terzo millennio ci sovrasta, e come già accadde per il “mille e non più mille”, le profezie di catastrofi si moltiplicano,
sempre più perentorie e minacciose. Mentre allora, però, queste apocalissi erano il risultato di una proiezione mistica, ora
sono i computer, e non le sibille, a parlare e l’escatologia elettronica assume tutta la credibilità di un immediato futuribile
che si presenti, e in gran parte si millanti, come scientifico. È sicuro che le circostanze fin de siècle militano tutte contro di
noi: i mari stanno agonizzando, le acque interne si mutano in cloache […], nel suolo si accumulano intere costellazioni di
molecole di sintesi, scarsamente biodegradabili, l’anidride carbonica è in crescita costante nell’atmosfera, sull’Antartide la
fascia dell’ozono si è squarciata e c’è un buco, che non si sa come rammendare, grande quanto gli Stati Uniti.
Di fronte al fantasma di un’estinzione prossima dell’umanità, che si sta, tra l’altro, riproducendo con una furia esponenziale
– cinque miliardi di uomini popolano attualmente il pianeta! – noi adottiamo, insieme, i due meccanismi opposti, ma in
fondo complementari, della consapevolezza disperata, che genera il cinismo e la tendenza a vivere alla giornata, o della
rimozione, che presuppone la dimenticanza ma che evoca – il prezzo dell’oblio! – una inquietudine senza perché, un
persistente malessere. Gli scienziati per fronteggiare l’emergenza e per formulare delle prognosi, se non delle terapie,
hanno per solito adottato due approcci differenti.
Un approccio, che potremmo definire, con una parola un po’ buffa, “biosferico” è costituito in un esame sistemico della
situazione […]. L’approccio opposto, che potremmo definire “ecosistemico”, non parte dal particolare per capire l’universale,
ma, al contrario, va dal particolare, gli ecosistemi, all’universale, la biosfera. […]
Gli scienziati tentano, insomma, di darsi e di darci una ragione, ma, ahimé, è la tragedia del nostro tempo, proprio quella
ragione a cui chiediamo la salvezza ha istituito una attiva intelligenza con il nemico.
La ragione, attraverso la tecnologia, si è messa dalla parte della morte e congiura contro di noi. Il nostro cervello, che ha
raddoppiato il suo volume in un milione di anni, sembra aver smarrito la sua funzione e lavora non più a favore della nostra
sopravvivenza. Si è creato, così, un singolare e paradossale effetto boomerang: il cervello fabbrica le macchine infernali, i
Frankestein inanimati che provocano la nostra (e la sua!) distruzione. […]
Il tradimento della ragione ha consigliato molti di noi a sperare nei poteri benefici della natura. La natura, si sogna, ci
salverà in extremis, mettendo in atto, sui confini dell’ultima spiaggia, i suoi antichissimi e sapienti meccanismi di
sopravvivenza. Ma no, non ci si può proprio contare. La storia, la cultura sono troppo veloci perché l’evoluzione possa dar
loro una mano. La storia e l’evoluzione marciano in due universi temporali enormemente sfasati dal punto di vista
cronologico, e i tempi storici […] sono costantemente al di là dell’orizzonte dei tempi biologici. […]
Se non possiamo sperare in una mutazione biologica, che ci aiuti a superare l’emergenza, non ci resta che sperare in una
mutazione culturale, in altre parole, in un cambio di mentalità, se con questa espressione intendiamo una modificazione
psicologica, che venga dal profondo, e che ponga i presupposti per un diverso stile di vita.
Continua
C’è qualche sintomo che una simile alchimia riparatrice sia in atto? O, per meglio dire, vediamo forse delinearsi il fantasma
di un uomo nuovo, di un nuovo Adamo, riconciliato con la natura?
Vediamo un po’ di partire dai mass media, gli interpreti migliori di quello che confusamente desidera l’uomo della strada.
Sui giornali, alla televisione, nelle tribune politiche e anche (perché no?) in ambiti più rigorosamente scientifici, si sente
menzionare, talora agitata come una bandiera, la qualità della vita, e la si presenta come un bene da conservare, da
migliorare, da tenere presente per il futuro. Il consenso unanime di cui gode questa espressione non contribuisce a
renderla di più facile comprensione. Taluni alludono a una passeggiata nel bosco, altri a un’aria più respirabile o a un’acqua
più bevibile, altri ancora a un nuovo modo di vivere e di entrare in sintonia con il mondo.
Alcuni sociologi americani, con il consueto empirismo, hanno deciso di intervistare un certo campione di persone,
pregandole di rispondere a un questionario. I risultati sono stati,ahimé, e non poteva essere che così, piuttosto deludenti.
L’unanimismo teorico si è risolto, nel concreto, in una galassia di punti di vista. Ma è chiaro: la qualità della vita è ancora
ben lungi dall’essere un concetto, è piuttosto l’espressione verbale di uno stato d’animo. […]
Sicuramente, chi ha detto la prima volta che il denaro non fa la felicità era ricco, ma nell’epoca dell’emergenza il proverbio
svela una sua parte di verità. Difatti, parafrasando il Vangelo, a che scopo possedere tutti i beni della terra se perdiamo il
pianeta? In vena di contaminare un po’ il misticismo e l’ecologismo ho riletto i Fioretti di San Francesco, un uomo che nel
suo amore per la natura ha sfiorato per tutta la vita l’eresia.
Il capitoletto in cui Francesco e frate Leone camminano, di notte, sotto la neve, verso un lontano monastero, mi ha
suggerito alcune considerazioni. Cito a memoria. Durante la marcia penosa Francesco interroga frate Leone su che cosa sia,
per lui, la perfetta letizia. Frate Leone non lo sa, ma il suo compagno di viaggio lo incalza. Immagina, gli dice, che siamo
giunti al monastero: il padre guardiano non ci riconosce e ci lascia fuori nella notte, sotto la neve, affamati e intirizziti.
Immagina ancora, continua, che alle nostre proteste egli esca e con un nodoso bastone ci fiacchi le ossa. Frate Leone è
perplesso. Ma Francesco non gli dà tregua. Bene, lo ammonisce, se malgrado queste prove tu resti saldo in te e, aggiungo
io, ti conservi dalla parte della neve e della notte, quella, frate Leone, è la perfetta letizia.
Questa parabola, secolarizzata e spogliata di ogni enfasi mistica, non illustra, secondo il mio punto di vista, un semplice
caso di masochismo reverenziale, è, invece, faccenda da samurai e suggerisce che le vie della felicità non solo sono infinite,
ma imprevedibili. Non è vero, forse, che anche Albert Camus sostiene che si può, anzi si deve, supporre Sisifo felice? Sì,
malgrado il masso che è condannato a portare, ogni giorno, in cima alla montagna, per vederlo sempre ricadere. Francesco
e Camus ci suggeriscono che è necessario inventare, e non cercare, la felicità. Ci insegnano, così, la perfetta letizia del
Duemila?
Da Giorgio Celli “Le farfalle di Giano” Fertrinelli, Milano, 1989
Altissimo, onnipotente, bon Signore,
tue so le laude, la gloria e l'onore e onne benedizione.
A te solo, Altissimo, se confano
e nullo omo è digno te mentovare.
Laudato sie, mi Signore, con tutte le tue creature,
spezialmente messer lo frate Sole,
lo qual è iorno, e allumini noi per lui.
Ed ello è bello e radiante cun grande splendore:
de te, Altissimo, porta significazione.
Laudato si, mi Signore, per sora Luna e le Stelle:
in cielo l'hai formate clarite e preziose e belle.
Laudato si, mi Signore, per frate Vento,
e per Aere e Nubilo e Sereno e onne tempo
per lo quale a le tue creature dai sustentmento.
Laudato si, mi Signore, per sor Aqua,
la quale è molto utile e umile e preziosa e casta.
Laudato si, mi Signore, per frate Foco,
per lo quale enn'allumini la nocte:
ed ello è bello e iocundo e robustoso e forte.
Laudato si, mi Signore, per nostra matre Terra,
la quale ne sostenta e governa,
e produce diversi fructi con colorati flori ed erba.
Laudato si, mi Signore, per quelli che perdonano per lo tuo amore
e sostengo infirmitate e tribulazione.
Beati quelli che 'l sosterrano in pace,
ca da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si, mi Signore, per sora nostra Morte corporale
da la quale nullo omo vivente pò scampare.
Guai a quelli che morrano ne le peccata mortali!
Beati quelli che trovarà ne le tue sanctissime voluntati
ca la morte seconda no li farà male.
Laudate e benedicite mi Signore,
e rengraziate e serviteli cun grande umilitate.
Cantico di Frate Sole
(San Francesco 1225)
Ecco mormorar l’onde
Ecco mormorar l’onde
e tremolar le fronde
a l’aura mattutina e gli arboscelli,
e sovra i verdi rami i vaghi augelli
cantar soavemente
e rider l’oriente:
ecco già l’alba appare
e si specchia nel mare,
e rasserena il cielo
e le campagne imperla il dolce gelo
e gli alti monti indora.
O bella e vaga Aurora,
l’aura è tua messaggera, e tu de l’aura
ch’ogni arso cor ristaura.
Torquato Tasso (1544 – 1595)
LE RICORDANZE
Né mi diceva il cor che l'età verde
Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Sarei dannato a consumare in questo
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Sul paterno giardino scintillanti,
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
E ragionar con voi dalle finestre
Argomento di riso e di trastullo,
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
E delle gioie mie vidi la fine.
Per invidia non già, che non mi tiene
Quante immagini un tempo, e quante fole
Maggior di sé, ma perché tale estima
Creommi nel pensier l'aspetto vostro
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
E delle luci a voi compagne! allora
A persona giammai non ne fo segno.
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Delle sere io solea passar gran parte
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Tra lo stuol de' malevoli divengo:
Della rana rimota alla campagna!
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E la lucciola errava appo le siepi
E sprezzator degli uomini mi rendo,
E in su l'aiuole, susurrando al vento
Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
I viali odorati, ed i cipressi
Il caro tempo giovanil; più caro
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Che la fama e l'allor, più che la pura
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Opre de' servi. E che pensieri immensi,
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Che dolci sogni mi spirò la vista
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
O dell'arida vita unico fiore.
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Viene il vento recando il suon dell'ora
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Dalla torre del borgo. Era conforto
Felicità fingendo al viver mio!
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Ignaro del mio fato, e quante volte
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Questa mia vita dolorosa e nuda
Per assidui terrori io vigilava,
Volentier con la morte avrei cangiato.
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. […]
Giacomo Leopardi
NATURA Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli
ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità
degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me
n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho
fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se
anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne accorgerei.
[…]
NATURA Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e
distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla
conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in
dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
ISLANDESE Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel
che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa
dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte
le cose che lo compongono?
[…]
Giacomo Leopardi dal Dialogo della Natura e di un Islandese
AVE
in morte di g. p.
Or che le nevi premono,
lenzuol funereo, le terre e gli animi,
e de la vita il fremito
fioco per l’aura vernal disperdesi,
tu passi, o dolce spirito:
forse la nuvola ti accoglie pallida
là per le solitudini
del vespro e tenue teco dileguasi.
Noi, quando a’ soli tepidi
un desio languido ricerca l’anime
e co’ i fiori che sbocciano
torna Persefone da gli occhi ceruli,
noi penseremo, o tenero,
a te non reduce. Sotto la candida
luna d’april trascorrere
vedrem la imagine cara accennandone.
Giosuè Carducci
Il testo è tratto dalla raccolta Odi barbare del 1877; la
poesia è scritta in ricordo della morte del figlio
adolescente di Lina Cristofori Piva che fu legata al poeta
da affettuosa amicizia
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