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Diapositiva 1 - ClementinaGily.it
LA RISSA ( O una partita a briscola ) NAPOLI 2007 “Le nostre riflessioni” (Alessandra Falso & Vittoria D’Urso) “La Napoli Bellavista “ Luciano De Crescenzo (Napoli a metà del 900) “Usi e costumi di Napoli e dintorni” Francesco De Bourcard 1857 Michele Cammarano 1886 Vita Michele Cammarano ( Napoli 1885 - 1920 ) " Ho fatto un quadro […] che è di gran lunga superiore di quanti ne feci fin' ora, l' onore dell'arista l' ho perfettamente ristorato. Poiché l' opera piace ai miei amici e nemici " " Hanno ammazzato compare Turiddu " Letteratura verista Giovanni Verga Le passioni in pellicola ( dalla lirica alla nascita M.C. Da una lettera scritta alla figlia all' indomani della mostra di Venezia " Il concetto di ' 800 “ ( Neorealismo - Romanticismo - Verismo) Bello romantico e bello classico Pittura Napoletana nell' 800 : " Scuola di Posillipo " Il Melodramma in posa ( Fotografia ) del cinema italiano ) Intervista ad Aurora Spinosa (Docente di storia dell’arte) Accademina di Belle Arti Napoli LA RISSA ( o Una partita a briscola), 1886 Olio su tela, 294 x 464 cm. Napoli, Accademia di Belle Arti Presentato all’Esposizione Nazionale di Venezia nel 1887,il quadro non ebbe molti consensi di critica perché troppo conturbante nel suo esasperato verismo scenico, di cui non si vollero intendere i colti riferimenti linguistici alla pittura caravaggesca. Antonio Pavan sulla “Gazzetta di Treviso” citò a confronto di tanta potenza drammatica ed espressiva Giovanni Verga, paragonando il grido corale delle donne“Hanno ammazzato compare Turiddu”- all’enfasi narrativa della scena, dove la folla costretta dai carabinieri sulla soglia dell’osteria, cerca di entrare nella stanza ,o almeno di guardare, spinta dalla morbosa curiosità per il “sangue”. Con un linguaggio concreto, disperato, Cammarano concepisce la scenografia della vicenda in movimento, che ha il suo culmine drammatico nell’impeto della madre che a mani aperte si getta verso il corpo del figlio morto. Dalla porta, la luce irrompe nell’osteria con la medesima impetuosità della folla, a suggerire i moti dell’animo torbido e spaventato di quella turba,trascinata dal gesto umanissimo della madre, nella penombra conturbante della stanza. Si ha una costruzione angolare del quadro, che dall’alto della porta giunge all’angolo basso, verso cui ha rampato la mano dell’ucciso. Si scorge un retrobottega con dei fusti di vino, l’assassino è certo la dentro. Biancale ha ricondotto la capacità registica del pittore alla cinematografia, i riferimenti di Canmmarano fondavano sulla sua competenza teatrale acquisita sin dall’infanzia nel colto ambiente domestico.volendo azzardare un’analogia, relativa alla concezione drammaturgia, potremmo trovare delle affinità tra la metodologia di Verdi del tempo del Trovatore, e quella del pittore nel costruire il quadro: medesimo il “procedimento narrativo che annulla i preamboli”, medesima la volontà di elaborare una situazione fosca, emotivamente conturbante, esaltata dalla verosimiglianza dell’ambientazione. Michele Cammarano nei suoi quadri di ispirazione risorgimentale è il solo pittore italiano dell’800 che si sia avvicinato alla coralità del melodramma, al senso popolare e commosso delle grandi epopee nazionali. Il suo modo di calarsi nella realtà del suo tempo e della storia è più profondo e diretto di quanto non lo sia ogni esteriore e didascalico impegno illustrativo. Questo dipinto ha un significato estremamente polemico, ridando dignità e valenza drammatica ai gesti e alle passioni popolari. È un quadro sgraziato e plebeo, un manifesto anti-romantico. Si potrebbe definire quest’opera furibonda e frettolosa, nella quale non mancano elementi di alta bellezza plastica: la figura del giovane ucciso a sinistra della composizione o la giovane donna che urla nel vano della porta dipinta con una foga impressionistica essenziale nel suo gesto tragico e spettacolare,e certi particolari sul pavimento come, la sedia rovesciata le mele, i cocci dei piatti sparpagliati a destra e le carte da gioco sparse un poco dovunque. Il quadro non è mai piaciuto ai critici ufficiali per cui è stato abbandonato nei depositi dei vari musei e delle gallerie d’arte. La Salvator Rosa ha l’orgoglio di aver recuperato questo straordinario documento di cultura. M. Bianchale, Michele Cammarano, Milano – Roma 1936; K. Fiorentino, in Civiltà dell’ ottocento a Napoli, Catalogo della mostra a cura di N. Spinosa, Napoli 1997 MICHELE CAMMARANO Michele Cammarano nacque a Napoli il 20-02-1835 e vi morì il 15-09-1920. proveniente da una famiglia di artisti legati al mondo del teatro e delle arti figurative, studiò dapprima con il paesista Smargiassi nell’Accademia napoletana di Belle Arti; successivamente fu attirato dalla pittura dei fratelli Palazzi, dapprima da Nicola, con il quale esegue studi all’aperto, poi da Filippo. Attraverso alla loro pittura risale alla tradizione paesaggistica della Scuola di Posillipo, accostandosi alle nuove ricerche naturalistiche. Nessuno dei pittori napoletani, come Cammarano, fu così sicuro interprete della coscienza che Filippo Palazzi ebbe dell’arte, e nessuno fu più fedele ad essa, in un campo di pratica pittorica diversa. Vigoroso pittore di paesaggi fu il cammarano negli anni giovanili, e alla paesistica tornò varie volte più tardi, come a creare intermezzi naturalistici alla vasta serie dei suoi quadri di figure, spesso di grandi dimensioni, contro ogni consuetudine ottocentesca. Tra il 1860 e il 1870 compie esperienze pittoriche e umane determinanti per la sua formazione, come la partecipazione alle campagne garibaldine, arruolandosi come volontario nella Guardia Nazionale.L’argomento garibaldino invase i lavori di questo periodo. Assieme ai primi contatti a Firenze con i Macchiaioli, la sua pittura venne influenzata e connotata da motivi di interesse sociale, ispirati ad un generico ma autentico ed appassionato umanitarismo, ed ecco che compaiono le prime approfondite analisi pittoriche dell’attualità storica italiana. Al suo ritorno a Napoli partecipa alle mostre organizzate dalla Promotrice di Belle Arti dal 1862 al 1864. E’ con la sua permanenza romana che la sua resa sintetica ed espressiva del vero, piuttosto che analitica e puntuale, si farà ancora più netta. In questo stesso ambiente romano mise a punto, con maggiore sistematicità, il proprio realismo alla Coubert, stemperato da un pateismo romantico. Nel 1867 soggiornò a Venezia. Quest’ultima lasciò un forte segno nella memoria del Cammarano tanto che tra il 1868 e il 1869 realizza numerosi paesaggi e vedute della città lagunare. Ben presto la sua fama varcò i confini nazionali. Nel 1902, tornato a Napoli, fu successore di Filippo Palazzi nella cattedra di Pittura di paesaggio presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, incarico che ricoprì fino alla morte, fervido ed operoso sempre. Oggigiorno le sue opere sono conservate nella Galleria Nazionale a Roma, nel Museo di San Martino e nella Galleria di Capodimonte a Napoli e in numerose collezioni private. Istituto Enciclopedico Italiano, fondato da Giovanni Treccani, ed 1949 “ IL CONCETTO DI ‘800” Il concetto di ‘800 nella storia dell’arte, va oltre i confini cronologici del XIX secolo: si riferisce al periodo che va dall’ultimo ventennio del ‘700 ai primi del ‘900. Questi anni per la storia dell’ arte, segnano l’età del NEOCLASSICISMO e del ROMANTICISMO. L’affermazione di un atteggiamento razionale e critico in ogni campo dell’esperienza umana, l’industrializzazione, il declino dell’aristocrazie e l’ascesa della borghesia, sono i fenomeni da cui deriva una nuova visione critica del sapere. Anche le arti e l’ architettura subiscono un processo di rifondazione teorica, tecnica, ed estetica. Il modello della Grecia classica si impone sia nelle arti che nell’ architettura. A ciò contribuisco gli illuministi francesi, che nei capolavori classici vedono l’espressione di un’armonia estetica ed etica insieme, il prodotto insuperabile di una società come quella ateniese del V secolo, che indirizza razionalmente ogni attività, anche quella artistica,a grandi scopi civici. L’antico diventa modello non solo di bellezza ideale,ma anche di democrazia e libertà. Con questi presupposti teorici nasce il NEOCLASSICISMO, un movimento che, formatosi a Roma, si sviluppa soprattutto a livello internazionale. Esso consente l’abbandono di obsolete forme tardobarocche e rococò, affermando i principi formali dell’ essenzialità e del rigore razionale, della funzionalità morale e nell’architettura soprattutto pratica. In ottemperanza alla concezione illuministica di una funzione educativa dell’arte, nasce l’dea del museo, per conservare e far conoscere le opre d’arte. Il Neoclassicismo assume tuttavia forme e accenti diversi, in stretta relazione con gli eventi storici e con gli ambiti sociali. Il Congresso di Vienna del 1815 sancisce il crollo dell’unificante impero napoleonico, i confini e le autonomie nazionali degli stati europee,la restaurazione delle case regnanti. Le differenti identità politiche, insieme ad un diseguale sviluppo industriale ed economico, favoriscono un sviluppo differenziato anche delle attività artistiche e culturali, con la conseguente formazione di “ Scuole Nazionali”. E’ età del ROMANTICISMO, un complesso movimento che si manifesta a livello europeo nel campo letterario e filosofico prima che in quello artistico e musicale. Tra i temi romantici emergono l’affermazione di una soggettività e l’attenzione hai sentimenti individuali, la rivalutazione della fantasia creativa e originalità dell’artista-genio,una disposizione spirituale e filosofica verso la natura e la scoperta di una religiosità interiore. Sul piano artistico lo sviluppo del romanticismo è caratterizzato da una grande varietà e ricchezza di orientamenti. Le nuove tecniche relative alla soggettività e al diverso rapporto tra uomo e natura emergono soprattutto in pittura. Nella ricerca dei linguaggi espressivi della nuova sensibilità i romantici si rivolgono anche al passato, privilegiando forme e valori di periodi diversi da quelli che avevano ispirato i neoclassici. Guardano al periodo arcaico-greco, all’età medievale e prerinascimentale, all’Egitto e all’Oriente. Tra i motivi ispiratori comincia ad imporsi anche l’esperienza diretta del presente nei suoi aspetti naturali e sociali. L’ incremento delle tecniche di produzione dell’immagine consente la produzione di stampe, incisioni, periodici e testi illustrati in quantità così elevate da indurre a vedere in questo periodo l’origine della “moderna civiltà dell’immagine”. Il mondo dell’arte acquista un’inedita pubblicità attraverso le mostre come i Salons Parigini, che attirano un pubblico sempre più vasto. Nasce una nuova figura quella del critico dell’ arte, e il libero mercato mette in crisi il tradizionale rapporto tra committente e artista. Nel XIX secolo ad una revisione critica viene sottoposto anche il processo di formazione dell’artista. Al posto del tradizionale apprendistato presso il maestro di bottega si prevede durante tutto il secolo un regolare e pluriennale percorso didattico all’interno di un’Accademia: un iter di studi, di carattere teorico e pratico, sostanzialmente identico a quello che ancora oggi seguono gli allievi delle odierne scuole di Belle Arti. Solo dopo la formazione in accademia, l’artista neoclassico per antonomasia poteva aprire un atelier, un “laboratorio”di prodotti artistici sempre più richiesti dal mercato. Inoltre la nuova impronta data al”fare artistico”, non più inteso come un’attività puramente meccanica bensì esaltata dalla nuova società borghese,che vede nell’operosità produttiva la sua forza operante porterà gli scultori a rivendicare ancora di più un ruolo di prestigio all’interno dell’organizzazione sociale, che li possa trarre fuori definitivamente dalla vecchia posizione subalterna rispetto alle altre figure di artisti come poeti e musicisti.La rivoluzione borghese del 1848 che si diffuse a macchia d’olio in tutta l’Europa segna l’inizio di una nuova epoca. Anche se i moti del ’48 non mutarono repentinamente l’ordine sociale, contribuirono a cambiare i gusti e le mentalità. Gli artisti, che in molti casi avevano partecipato attivamente ai moti,furono colpiti da questi eventi e nelle varie nazioni si adoperarono a raffigurare gli effetti della rivoluzione con una rappresentazione scarna ed essenziale che costituiva l’inizio di una nuova tendenza, quella del REALISMO . Questo movimento si connota di caratteri più precisi attraverso la ricerca del “vero” sia nella scelta dei soggetti che nel modo di rappresentarli, fino alla raffigurazione del “brutto” senza abbellimenti o idealizzazioni. Mentre in Francia dilaga il realismo in Italia si diffonde il cosiddetto VERISMO,che soddisfa il desiderio tutto borghese di ritrarre la realtà così com’è, fino alla sua deformazione. Si assiste ad un notevole arricchimento dell’iconografia (temi del quotidiano, della realtà urbana, temi sociali, ed eventi di storia contemporanea), e all’aggiornamento di soggetti già collaudati come, ad esempio, la rappresentazione della morte o di generi tradizionali quali il ritratto, il paesaggio, l’animalistica. Si hanno contemporaneamente varie “poetiche del vero” che si colorano di accenti diversi e si schierano su fronti opposti. Nelle arti visive in particolare le nuove istanze veristiche si associano, anche in Italia come nel resto d’Europa, ad una diffusa insofferenza verso i condizionamenti dell’Accademia. R.Cioffi,L.Finocchi Ghersi, M.Picone,G.Zucconi, L’arte e la storia dell’arte nell’800, Minerva Italica “BELLO ROMANTICO & BELLO CLASSICO” Dire che una cosa bella è un giudizio, la cosa non è bella in se, ma nel giudizio che la definisce tale. Il bello non è più oggettivo, ma soggettivo: il bello romantico è appunto il bello soggettivo, caratteristico, mutevole, contrapposto al bello classico oggettivo, universale, immutabile. La natura che gli uomini percepiscono con i sensi, apprendono con l’intelletto, mutano con l’agire è una realtà interiorizzata che ha nella mente tutti i suoi possibili sviluppi anche nell’ordine morale. “LA SCUOLA DI POSILLIPO” Con il nome di Scuola di Posillipo si indica un folto gruppo di paesaggisti attivi a Napoli fra gli anni ’20 gli anni ’50 dell’800.la denominazione ricorre per la prima volta nello storico Pasquale Villari, che così scrive nel 1869:”Labellezza del clima, i paesaggi stupendi che circondano Napoli e i molti forestieri che ne chiedono sempre qualche ricordo disegnato o dipinto, avevano fatto sorgere un certo numero di artisti i quali, come per disprezzo, erano dagli accademici chiamati “SCUOLA DI POSILLIPO “ dal luogo dove abitavano. Questi artisti viaggiavano assai più degli altri, andavano in Francia e in Inghilterra e vedevano le nuove scuole, andavano in oriente e tornavano con molti lavoro studiati dal vero”. Da questo brano emergono alcune delle principali caratteristiche di questa scuola: lo stimolo del mercato di souvenirs , l’antiaccademismo, e l’ aggiornamento europeo della ricerca. Il giudizio della critica è diverso sulla valutazione che l’influenza della Scuola di Posillipo ha esercitato sulla cultura e sull’arte napoletana. Per alcuni rappresenta esclusivamente un movimento quasi artigianale, che forniva” vedute e paesaggi” ricordo ai turisti stranieri. Per altri un movimento anticipatore di tutta l’arte moderna europea che precorrerebbe addirittura l’impressionismo. Mulino di Gragnano, 1834ca (Pitloo, Anton Sminck van) Sorrento, Mus. Correale Anche sull’origine del movimento ci sono varie interpretazioni: c’è chi attribuisce il merito del paesaggio all’ olandese rinnovamento della pittura del Antonio Pitloo; altri sostengono che Giacinto Gigante avesse già realizzato la veduta tipica napoletana prima che il Pitloo giungesse a Napoli. In effetti sono stati entrambi fondamentali e in un certo senso complementari, arrivando ad una visione lirica e romantica con percorsi diversi: nella fase iniziale di Pitloo ha prevalso la sua formazione classicistica, che gli ha fatto prediligere in ogni caso, l’olio e le gamme profonde dei verdi; mentre Gigante ha alternato, nei primi anni di attività, gli insegnamenti di Pitloo con la pratica di topografo presso il Reale Officio Topografico di Napoli e la frequentazione del tedesco Huber, da cui ha appreso l’uso della “camera lucida” o “camera ottica”, ossia di quello strumento che possiamo considerare un antenato della macchina fotografica e che consebte di proiettare su un foglio le linee fondamentali del paesaggio che viene inquadrato, rispettando tutte le proporzioni prospettiche. Istituto Enciclopedico Italiano fondato da Giovanni Traccani, ed 1949 Napoli da Capodimonte, Giacinto Gicante, Napoli Museo Nazionale di Capodimonte IL MELODRAMMA IN POSA “Soltanto l’espressione può conferire alla bellezza il supremo e definitivo potere sull’occhio” Con queste parole contro il classicismo di Winchelmann, Heinrich Fussli, il grande pittore incisore anglo-svizzero subordinava la bellezza “apollinea” alla potenza dell’espressione “dionisiaca”. Fussli vede la fotografia come testimone di una sintesi miracolosa tra forma d’arte e capacità comunicativa di quel dramma rappresentato sul palcoscenico. L’uomo ha da sempre avvertito il bisogno di farsi ritrarre: certo, a seconda delle possibilità del committente, il ritratto poteva essere una grande tela o una piccola miniatura.. All’inizio quindi la fotografia si andò semplicemente ad aggiungere a questi antichi procedimenti. La “ bottega di fotografo ottocentesco non si presentava troppo dissimile da quella dei pittori rinascimentali: una o più sale di posa, lo scomparto dei prodotti chimici, il laboratorio per la preparazione delle materie di consumo.” Quando questa tecnica cominciò a prendere piede e ad avere grande successo di pubblico, i fotografi si andarono a sostituire ad una serie di artisti, pittori,incisori e miniaturisti il cui principale reddito era formato dal ritratto. Grazie alle continue innovazioni, che ridussero i tempi di posa e semplificarono i processi di sviluppo,la fotografia non tardò ad allargare la propria clientela, a diventare un’industria dopo che Disderi inventò la carte de visite. Attraverso questo nuovo procedimento, con un solo scatto si ottenevano da quattro ad otto immagini di piccole dimensioni , anche in pose diverse. In questo modo la fotografia si proponeva ad un più largo pubblico; la grande diffusione la trasformò in un fenomeno sociale. Divenendo non solo l’immagine di un individuo , ma anche della sua posizione sociale e della sua rispettabilità, la fotografia accompagnava l’affermarsi della borghesia, rappresentandone le aspirazioni, confermandola nel proprio status sociale e nella propria, spesso presunta,integrità morale. Il fenomeno investì nel tempo i personaggi più noti, tra i quali vi erano quelli legati al mondo dello spettacolo. Queste incisioni venivano vendute a un “largo” pubblico che poteva così conservare materialmente, il ricordo del loro compositore prediletto o della loro attrice preferita. Solitamente il personaggio veniva ritratto a mezzo busto, con una costruzione dell’immagine abbastanza semplice. Il grande commercio di queste fotografie, il generale interesse del pubblico, l’uso promozionale che ne facevano i personaggi ritratti iniziarono a fare concorrenza alle incisioni che continuarono ancora per poco tempo a girare sul mercato. L’ evolversi dei procedimenti tecnici portò i fotografi a sviluppare altri formati, di dimensioni maggiori che si moltiplicheranno a partire dagli anni Ottanta del XIX secolo, creando immagini sempre più varie e più aderenti al gusto del tempo. Questi nuovi formati permisero al fotografie all’artista una maggiore libertà compositiva tanto da fare larghe concessioni alla spettacolarità, usando fondali esotici o addirittura ambientazioni d’atmosfera, messe in scena teatrali. In questo modo l’attore o il cantante lirico oltre ad indossare gli abiti di scena si trovava nelle condizioni migliori per fornire al personaggio un’ interpretazione più autentica, più “realistica”. Da subito si comprese l’importanza mediatica di queste nuove creazioni, che cominciarono ad avere una stretta relazione con l’attività professionale dell’artista. Si diffuse quindi l’abitudine di farsi fare un certo numero di fotografie, possibilmente da un fotografo affermato e rinomato, riferito all’ultimo ruolo in repertorio o quello meglio riuscito, l’artista quindi provvedeva a distribuirle. La spettacolarità di queste immagini era inoltre fondamentale, visto che ad esse si attribuiva il compito di alimentare l’immaginario collettivo: dovevano colpire chi le guardava su diversi livelli e quindi ogni particolare doveva essere curato, ogni piega del costume doveva essere elegantemente composta, il fondale scenico doveva essere consono, la posa doveva richiamare alla mente sia l’artista rappresentato che il suo ruolo nell’opera e doveva essere la più significativa possibile. Con la nascita dei cantanti d’opera la materializzazione della fama del personaggio-cantante avveniva in un’ immagine dai profili rassicuranti, perché ripetitivi, il gesto melodrammatico ne rappresentava il segno, impresso a fuoco, nella mente e nel cuore del pubblico non meno che su questo supporto così semplice, eppure così carico di significati, che era la fotografia. Parte essenziale di queste fotografie, oltre la spettacolarità di abiti e fondali, era la particolare gestualità risolta in atti enfatici. Lo stesso Verdi poneva attenzione all’interpretazione, essendo così non solo l’autore delle proprie opere ma anche il loro primo e incontrastato regista. Ne curava la prima messinscena e pretendeva dai suoi cantanti-attori sia buone capacità sceniche sia il rispetto totale delle sue indicazioni in fatto di gestualità. Le sue indicazioni erano frutto di un lungo e meditato lavoro che in alcuni casi poteva persino precedere la composizione delle musiche. La capacità drammatica dell’artista lirico otto-novecentesco si concentrava quasi esclusivamente sul gesto, sulla sua forma e sulla sua “rappresentazione”; la distanza fisica tra attore e pubblico faceva necessariamente passare in secondo piano le espressioni del volto. Vi sono diverse sfumature nella creazione dell’ immagine che ci permette di avere fotografie in cui vi è la sintesi di due momenti e altre che sono solo un esercizio estetico, di un bel costume e di una posa plastica, senza nessuna ricerca introspettiva e rappresentativa( immortalato un momento dell’azione scenica, mentre in un secondo ci si concentra soprattutto sul personaggio e sulla sua ricerca introspettiva). Quest’ ultime sono le immagini più antiche, quelle che maggiormente sono legate al gusto dell’epoca. E’ più che probabile che nello studio fotografico si ripetesse semplicemente il gesto che si compiva in palcoscenico, quello che il pubblico potesse facilmente riconoscere. Il secondo gruppo d’immagini è composto prevalentemente da foto, dove il fotografo diviene un vero e proprio regista perché adatta al nuovo mezzo espressivo le capacità interpretative dell’artista e cerca di creare un’ immagine in cui si possa capire la tipologia del personaggio al di fuori di qualsiasi riferimento contingente alla trama e al libretto. Ma vi è anche il caso in cui il regista – fotografo crea un sintesi tra le due forme espressive scegliendo di immortalare un momento dell’ azione scenica o, nel caso in cui vi sia un’ evoluzione psicologica del personaggio, un particolare atto o gesto. Il fotografo in questo modo ha creato un altro codice espressivo che sostituisce quello del palcoscenico formato da azione e gesto, musica e parola, mantenendo solo il gesto, fissabile sulla carta, e trasformando gli altri codici secondo le possibilità del suo mezzo espressivo. Era un primo passo verso il cinematografo che nella pionieristica stagione del muto era sentito come fotografia in movimento. Solo in un secondo tempo il cinema diventerà “Una immagine acustica” con una perfetta fusione tra gli elementi espressivi, forniti dall’immagine, e quelli forniti dal suono, trovando l’unità di armonia e di atmosfera. Il cinema muto come la fotografia permetteva di decidere a priori su quale particolare o quale gesto o quale espressione lo spettatore dovesse focalizzare la propria attenzione. Nella fotografia, quindi, come ai primordi del cinema, la potenza espressiva delle immagini era creata dagli sguardi, dal gesto enfatico e significativo, dal taglio dell’immagine e dall’ uso selettivo delle luci. J.H. Fussli, Aforismi sull’arte,Roma-Napoli, 1989, aforisma 99. C.Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800, Aosta, Musemici, [1980], p.111 Interviste e incontri con Verdi, a cura di M.Conati, Milano, Il Formichiere, 1980. L’espressione è presa dal titolo di un testo edito nel 1992: L’immagine acustica. Dal muto al sonoro: gli anni della transizione in Europa, Ancona,Transeuropa,1992. LE PASSIONI IN PELLICOLA Il termine “melodramma” crea qualche problema di interpretazione, nell’ambito degli studi sul cinema.esiste infatti un preciso genere filmico, designato soprattutto nelle arie anglosassoni con tale nome, col genere teatrale e musicale così normalmente chiamato.sia il romanzo che il melodramma non musicale sono comunque figli della cultura romantica, la cui influenza continuerà ad essere primaria quando, nato il cinema alla fine del XIX secolo e organizzatisi i generi al suo interno entro il primo ventennio del secolo successivo, fiorirà appunto quel genere i cui i temi primari sono le grandi passioni spesso infelici, gli amori resi impossibili da guerre,calamità, pregiudizi, malattia e morte, le storie di figli perduti e spesso ritrovati; tutto quanto , insomma, costituisce il patrimonio narrativo delle opre liriche. Si tratta infatti, in entrambi i casi , di fenomeni d’arte popolare, il che, come bene ha dimostrato Erwin Panofsky non implica un giudizio di valore ma piuttosto una diversità di valore. Il melodramma ottocentesco teatrale era fatto per piacere al pubblico non per delle élite di intellettuali. L’incontro tra cinema e melodramma non poteva dunque che essere inevitabile già dalle origini del primo, perché molti soggetti di melodrammi famosi diventarono soggetti di film; ma ancor più da quando con l’affermarsi del sonoro le musiche poterono entrare direttamente nella pellicola. In quanto alle musiche, se hai tempi del muto i motivi piu famosi delle opere trasposte in film venivano affidati a orchestre o a semplici pianisti una volta nato il cinema sonoro restava il problema delle condensazioni e dei tagli, il che non corrispondeva certo hai tempi di esecuzione delle partiture dei melodrammi. Fu comunque del cinema italiano che la trasposizione delle opere liriche nel cinema diventò un genere di grande successo. E accadde in un momento particolare della nostra storia, negli anni cruciali del dopoguerra, proprio in corrispondenza con l’affermazione della cultura neorealista. Ed è come se all’indomani dell’immane tragedia che ha sconvolto l’ Italia, quando i teatri sono spesso bombardati e le stagioni liriche comunque penalizzate dalla situazione economica, il cinema senta l’esigenza di fornire alla gente le musiche e le storie nelle quali da tempo si è riconosciuta. L’ affinità tra il genere filmico “melodramma”e l’opera lirica è dimostrata dalla realizzazione di quelle che Comuzio chiama “opere in prosa”, cioè normali film coi dialoghi e con il canto, basati sulle trame dei libretti o col semplice supporto delle musiche. L’opera lirica, come patrimonio culturale, entra a livelli alti nei film di alcuni dei maestri del cinema italiano. Il primo e il più importante è senz’altro Luchino Visconti. Non solo perché egli fu regista eminente di melodrammi teatrali, ma proprio in quanto nella sua visione della vita la passionalità e la musica giocano un ruolo primario. “Cinema, teatro, lirica: io direi che è sempre lo stesso lavoro. Malgrado l’enorme diversità dei mezzi usati”, scrive Visconti. Ma aggiunge: “la forma più completa di spettacolo, secondo me, resta ancora il melodramma, dove convergono parole, canto, musica, danza, scenografia”. Il melodramma è per Visconti un punto obbligato di passaggio nella cultura italiana, e la grande tragedia del secolo di Verdi, quando il teatro in Italia segnava il passo, è l’atteggiamento epico verso la realtà rappresentata. Ma l’amore di Visconti per Verdi e per il melodramma non si esauriva soltanto sulle tavole dei palcoscenici della lirica: c’era la prosa, c’era, soprattutto, il cinema. La musica in tutto l’operato di Visconti è sempre presente. E’ uno dei pochi registi che sia ricorso con fedeltà e passione ed amore alla musica per completare, commentare, sottolineare le sue vicende, le sue invenzioni, le sue immagini. Che Visconti avesse respirato musica sin dall’infanzia fa parte della sua biografia, quella che tutti quelli interessati a cinema, lirica e teatro conoscono: il palco di famiglia alla Scala con il padre grande cultore dell’opera e la meravigliosa madre, provetta pianista; quelle fatatate, fatali matinèe che con la loro fascinazione ,magia e mistero l’avrebbero segnato per la vita. La musica era un tratto della sua scrittura. Ma il melodramma come retroterra culturale di alcuni autori del cinema italiano non è importante solo per Visconti. In Bernardo Bertolucci, parmense, le opere di Verdi sono una costante che accompagna molti dei suoi film. Nel cinema di Bertolucci il ricorso a Verdi è coerente e costante perché diventa espressione di un preciso patrimonio culturale locale. L’opera di Verdi viene a identificarsi con le origini del regista e ne diventa quasi l’identità culturale. E. Panofsky, Stile e mezzo del cinema, 1947, recentemente pubblicato in Id.Tre saggi sullo stile. Il barocco, il cinema e la Rolls-Royce,Milano, Electa, 1996 Cfr.E. Cremuzio, L’opera lirica e il cinema, in Un bel di vedremmo. Il melodramma dal palcoscenico allo schermo ,Pavia ,Amministrazione Provinciale,1984. E.Comuzio, L’opera lirica e il cinema, cit.,p.13. SENSO Cfr.L. Micchichè, Luchino Visconti, Venezia, Marsilio, 1996,pp 120-121 Cfr. E. Bruno, il melodramma nell’opera di Visconti, atti del convegno di studi, Fiesole, giugno1996, Firenze, 1969,p 254 (Italia, 1954, col.) Regia: Luchino Visconti Con Alida Valli, Massimo Girotti, Farley Granger “HANNO AMMAZZATO COMPARE TURIDDU” LETTERATURA VERISTA-GIOVANNI VERGA Di fronte ai problemi sociali i letterati si resero conto che nuove realtà venivano alla luce ed essi erano chiamati ad un impegno diverso da quello del periodo del romanticismo. Nacque negli scrittori l’esigenza di indagare nella realtà per portare all’attenzione dei lettori i problemi che affliggevano le classi sociali subalterne. Questo movimento ebbe le sue radici in Francia, dove assunse in nome di naturalismo. Questo tipo di letteratura si proponeva, dunque, di osservare ed indicare queste realtà nella fiduciosa speranza che ciò servisse a modificarle e a migliorarle.sulla scia del naturalismo francese, anche la letteratura italiana si avvicinò alle nuove problematiche; ma qui da noi l’industrializzazione era ancora lontana, mentre gravi erano i problemi che affliggevano i contadini e le umili classi del meridione. Portavoce di questa realtà fu Giovanni Verga , che rivolse la sua attenzione agli umili personaggi della sua terra: la Sicilia. Nella sua produzione letteraria compaiono braccianti, contadini, pescatori, visti nella loro quotidianità, in tutta la loro crudezza e drammaticità. Verga spostò la sua attenzione di uomo e di scrittore all’analisi e alla descrizione, lucide ed oggettive di un mondo che la storia aveva spesso dimenticato: quello degli “umili”; in questa categoria lo scrittore intese raggruppare le classi subalterne che le varie fasi dell’Unità d’Italia avevano duramente provato. Nacque così una raccolta di novelle ispirata al mondo popolare sicilianoil ciclo dei “vinti”, rappresentato da due romanzi: i Malavoglia e Mastro don Gesualdo. In entrambi i romanzi Verga ha adottato i canoni veristi del “impersonalità” e dell’” obiettività”: personaggi , situazioni e vicende sono narrati senza partecipazione emotiva o interventi diretti dello scrittore. Contribuisce al carattere rivoluzionario di questa poetica narrativa anche l’usa di un linguaggio parlato e popolare, reso vivo e credibile da un particolare tipo di discorso indiretto: il discorso indiretto libero. Nasce così il movimento che prenderà nome di VERISMO; gli autori veristi si proposero di raccontare, appunto il “vero”, così com’era, senza abbellirlo, senza distorcerlo senza lasciarsi coinvolgere. Per raccontare la realtà anche il linguaggio subì delle modifiche. Gli scrittori abbandonarono il lessico ricercato, colto e prezioso proprio delle classi sociali più elevate, e adottarono espressioni tipiche delle parlate regionali, più vicine e comprensibili alla gente semplice, per non tradire la genuina espressività dei loro protagonisti. E’ questa la letteratura verista. I suoi canoni si possono cosi sintetizzare: - Fotografia della realtà: non aggiungere ne’ togliere alcunché. - Impersonalità dell’autore: chi scrive non deve esprimere la propria partecipazione o commozione per la dura condizione dei personaggi; il suo compito è di fornire documenti oggettivi. - Linguaggio semplice: deve rispecchiare e rispettare il mondo della gente semplice. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura Italiana, Einaudi Scuola Milan NAPOLI DOPO LA MEZZANOTTE Tenterò di descrivere la città di Napoli delle ore in cui la maggior parte dei suoi abitanti paga il notturno tributo alla natura, rinfrancandone nel sonno le forze esauste dalle fatiche o dai divertimenti del giorno. Quando la solenne campana di San Martino distende su tutta la città i suoi lunghi rintocchi che annunziano essere giunta la notte, non crediate che tutti gli uomini e tutte le cose riposino in questa Napoli vispa e fosforescente, Napoli non dorme affatto. Le notti per questa infingarda regina del Tirreno sono ore di ebbrezza, di incanto e di poesia. Se voi leggete i vecchi romanzi, le cronache dei mezzi tempi, vi formate presso a poco un ‘idea di quel che era l a notte per i nostri buoni antenati: la si può compendiare in due parole, tenebre e delitti. I ladri, gli assassini, gli impudichi e le streghe uscivano al tocco di mezzanotte per le infernali loro opere. Mezzanotte era l’ora dei nefandi ritrovi, dei diabolici convegni delle maliarde, della posta scellerata dell’assassino, dell’agguato insidioso del ladro; era insomma l’ora maledetta, l’ora dei misteri. Ma mutano i tempi e con essi i costumi. Uscite in Napoli a mezzanotte nel mese di luglio o di agosto, ed anche in tempo di carnevale, mettetevi nella via di Toledo, e farete le più grandi meraviglie nel veder tanta gente andare e venire. Altro che streghe e assassini! Tutto al più, sono streghe e assassini di altro genere, streghe in crinolina e in reticella che vi lanciano certe occhiate da farvi impazzire almeno per quella notte, assassini in guanti color paglino che tutto al più si rubano tra loro il…. sonno. Dilettosissime sono le notti estive in questa deliziosa Partenope. E’ indubitabile che sotto questo cielo incantato, quando una bianchissima luna spande sui colli e sulla marina i suoi veli di odalisca, quando milioni di stelle sembrano affacciarsi nel firmamento a bella posta per guardar le bellezze di questa Napoli addormentata sui fiori, quando le aure del cielo hanno le carezze più lusinghiere,le colline i profumi pù eletti e le onde del mare i mormorii più armoniosi, quando tutto ciò si riunisce per formare il più bel vezzo della creazione, noi crediamo che il vedi Napoli e poi muori non sia solo una figura retorica. Andate a Posillipo e ditemi se c’è qualcosa al mondo che possa superare in bellezza una notte di estate a Napoli. Non c’è paese nel mondo che abbia i nostri vermicelli col sugo di pomidoro. Nelle ore dopo mezzanotte d’estate escono i suonatori di violino e le suonatrici di chitarra che traggono a Santa Lucia, Posillipo, per allietare con canti e con suoni le già allegre brigate ivi riunite a darsi bel tempo e a gavazzare in giocondissime cene. La chitarra è lo strumento notturno per eccellenza, lo strumento delle serenate, dei concerti all’aria aperta, delle dichiarazioni d’amore. Dopo mezzanotte, d’estate e d’inverno, voi non incontrate per le strade di Napoli che le specie seguenti: passeggeri di ambo di sessi che si ritirano dalle feste, dai teatri; gli ubriaconi per sistema; cocchieri e carrozzelle; qualche vagabondo di sinistro aspetto; le ballerine del San Carlo; “il caffettiere ambulante”, il quale per lo più esce ai rintocchi di mezzanotte, e recasi dapprima a visitare tutti i posti di guardia, offrendo la sua merce a quelli che han da passare in veglia la notte…. Quando il sole fa la spia attraverso le imposte delle finestre sorgon dal letto gli uomini di buona volontà, vi giacciono ancora per molte ore i neghittosi, i ricchi, i dissoluti e tutti quelli che non meriterebbero di mangiare, perché non sudano a lavorare. FARNCESCO MASTRIANI (tratto dal libro:” USI E COSTUMI DI NAPOLI E CONTORNI” di Francesco De Bourcard) IL CAMORRISTA E LA CAMORRA La bellissima Napoli, non sappiamo se per sua sciagura o per sua attraenza speciale chiama a sè la diligente attenzione di tutta Europa, eccita le svariate suscettibilità, aguzza gli spiriti indagatori e vaghi della moderna letteratura, e di ogni suo vizio o viziosa sua velleità e pieghevolezza forma obietto di esame , di commiserazione , di biasimo agli scrittori di voga. Della camorra di Napoli, non solo si è fatto un gran discorrere e ragionare dappertutto,ma quel che è più, s’ è fatto uno scriver continuo di libri, opuscoli, relazioni, opere,giornali. Ma per ben giudicare della camorra bisogna guardarla dal vero punto di vista. La plebe napoletana è dà pubblicisti di più nazioni tacciata di indolenza. Dacchè i francesi appresero a cinguettare la frase il dolce far niente, trovarono nel vivere napoletano l’applicazione di questo motto. L’uomo della plebe napoletana che, cessato il suo lavoro, prende riposo al sole, non merita per questo la taccia di indolenza. L’ozio nei paesi nordici non è palese come tra noi. Chiudersi e ripararsi dal freddo è un bisogno. In questa guisa l’ozio straniero sfugge all’osservazione. Il voluto ozio napoletano, si manifesta all’aperto. I facchini nelle amministrazioni passavano un tempo di padre in figlio; così quelli addetti ai lavori manuali: per essere accolti in qualsiasi opificio, laboratorio, istituto era d’uopo di una maniglia. La maniglia era la protezione di un signore o di un influente che doveva raccomandare. Gli uomini bramosi di lavoro e di attività si sdegnano dell’inerzia e questi uomini della plebe abbandonati a se stessi sentivano il bisogno di adoperarsi. Lasciati in abbandono, le classi permiziose, sorgeranno le società segrete. La bettola, il postribolo saranno il tempio nuziale dei vizi dell’ozio, destinati poscia a divenir vizi produttivi. La parola camorra vale da una parte associazione, dall’altra unione di lucri. La camorra divenuta ritrovo generò di conseguenza il camorrista. Che cosa è il camorrista e chi potè ispirare a questo degenere cittadino quella nuova specie di tornaconto che divenne poi alimento di una classe intera? Il camorrista è un uomo che vuole rendersi utile ad ogni costo, che vogliate o no vi offre l’opera sua, siete in facoltà di rifiutarla, ma dovete compensarla. Tutte le nostre più tristi assuetudini partono dal governo Viceregnale. Gli spagnoli, separando le classi e ponendo l’aristocrazia agli antipodi della plebe fecero di ciascuna di essi un corpo compatto. Dichiaro che il camorrista è un guappo che trae origine dal guapo spagnolo. Ma l’origine spagnolesca di questo elemento di prostituzione o dissoluzione nella civil società ebbe un incentivo maggiore ai tempi del governo Borbonico. Il napoletano è singolarmente svelto, pronto, perspicace, e se la legge stessa gli offre un angolo scuro, vuoto, egli lo invade e lo colma. La camorra fu originata nell’esercito dalla creazione di due reggimenti siciliani, in buona parte cavati dagli ergastoli e da altri luoghi di punizione. Come è chiaro dalle cose anzi dette, era sempre la guapperia o la gradasseria che presiedeva l’opera del camorrismo. Il capo camorrista era sempre un guappo. Formata l’associazione, era ben regolare che una specie di legge ne prescrivesse i limiti e le attribuzioni. La camorra ebbe bisogno delle sue leggi per potersi reggere e durare. Oltre le condizioni e qualità necessarie a chi volesse concorrere nell’associazione del camorrismo, i requisiti chiesti e voluti dai regolamenti della camorra furono: l’obbedienza l’abnegazione, la temerità. L’obbedienza è il requisito di chi comincia e si inizia, l’abnegazione di convalida i frutti dell’obbedienza, la temerità e di opera. Si cominciava ad esser ammessi nella consorteria di camorristi col titolo di picciotto di onore. il picciotto di onore nel camorrismo è il valletto del camorrista, gli fa la spia, gli reca le armi, gli spiana la via dell’esecuzione. Un anno circa è dato di tempo al picciotto d’onore per iniziarsi nel mestiere. Se egli è riuscito a ben servire senza avidità di compenso, da picciotto di onore passa a picciotto di sgarra, si chiedono maggiori prove da lui e superate queste diveniva camorrista. Il camorrista era rispettato dai suoi, aveva sott’occhio le paranze, stringeva relazioni con i camorristi delle prigioni, egli era al fatto dei movimenti della polizia, eseguiva e faceva eseguire qualche utile estorsione a proprio conto, era vestito dalla società a proprie spese, decorato di anelli alle dita, di orologio a catena, di berretto a gallone d’oro, tavolta egli era il bello e il bravo della contrada e la fanciulla più piacente ,la popolana più bizzarra non poteva appartenere che a lui se nubile e la meretrice più scialosa e fastuosa a lui, se fatalmente coniugato. La vita del camorrista non si compiva che tra queste vicende: si cominciava di coltello a farsi largo nel mondo e di coltello si finiva. La colpa si vestiva d’ onore, il furto d’industria, la sottrazione del colpevole o l’occultazione del reato era talento, ingegno, la difesa del vizio bravura. Il camorrista era un legale di pratica se non di scienza e quando prendeva parte alle magagne dei giuochi illeciti e delle tresche furtive egli si lasciava sempre la sua legale sfuggita per la quale deludeva l’applicazione della legge. Ma è puerile il supporre che la polizia del passato tempo ignorasse il gergo e la forma di segni di riconoscimento dei camorristi. I poliziotti sapevano bene dove s’agguantavano, conoscevano tutti i loro segni convenzionali e i motti d’ordine. Il piccolo colpo di tosse, lo starnuto, il fischio del camorrista era ben noto al poliziotto,l’Ave Maria, il Gloria Patri quando tenean di mira per loro fini chi passava, il loro frasario infine non era un segreto per quelli che, viziosi forse dei loro invigilati,venivano chiamati a denudare il vizio anzi a farne loro messi e propina. Confondersi nel fango e non imbrattarsene è cosa impossibile, e il poliziotto dedito a mettere in luce le turpitudini del camorrista e suoi consorti era già mezzo camorrista anch’egli e, seppur vuolsi, era camorrista d’altro genere. La polizia lasciava sorgere i camorristi, li occhieggiava destramente poi li ghermiva e finalmente ne traeva profitto. L’isolamento, la deportazione sono la pena del camorrista senza asilo, senza appoggio, senza relazioni, senza famiglia, fuor di legge e di consorzio, il camorrista deve rassegnarsi ad essere quello che sono gli uomini nati nella sua classe,o infingardi poveri, o laboriosi agiati. Lavorare per vivere e condire col sudore della propria fronte il pane benedetto da Dio, questa deve essere la mira di chi intende dimorare tra uomini civili. Il viver di scrocco o di estorsioni, nelle alte o nelle basse classi, deve essere punito come violazione dei diritti dell’uomo. Cav. CARLO TITO DALBONO (tratto dal libro:” USI E COSTUMI DI NAPOLI E CONTORNI” di Francesco De Bourcard) La Napoli di Bellavista (Napoli a metà del ‘900) Un secolo dopo lo scrittore Francesco de Bourcard, Luciano De Crescenzo, sente il bisogno di rifare il punto della situazione sulla società napoletana a lui contemporanea. Non avendo a disposizione un Palazzi con le sue immagini, si avvale della sua macchina fotografica, mentre nelle descrizioni dei “mille mestieri” continua il discorso già cominciato nel suo Così parlò Bellavista. Attraverso i suoi molteplici scatti e “fatterelli” De Crescenzo, accompagna il lettore in un viaggio attraverso questa stranissima città. La galleria di tipi umani che emerge dalle foto e dai racconti è molto particolare, ma soprattutto pone l’accento su alcuni particolari aspetti di questa meravigliosa e allo stesso tempo turbolenta città. De Crescenzo, è convinto che quello del “comico” è solo un vestito che il napoletano indossa per coprire in qualche modo i suoi mille problemi. L’umorismo napoletano, quello vero, quello di Eduardo, di Totò e di Raffaele Viviani ha sempre avuto come fondale di scena la tragedia del sopravvivere quotidiano; il popolo napoletano sostiene da sempre una lotta impari con la vita ,ma in compenso è di animo gentile. E’ particolare notare come chi ha vissuto per tutta la vita in una casa, dove la porta d’ingresso è sempre aperta per consentire il ricambio d’aria finisce per considerare la strada parte integrante della propria abitazione le persone di passaggio ospiti graditi. A Napoli a metà del ‘900 (come ancora oggi) si contano migliaia di “bassi”, con una media abitativa di quattro persone per locale. Il “basso” com’è noto oltre ad essere un’abitazione funge da bottega artigiana o da posto di vendita. L’inquilino del basso è infatti nella maggior parte dei casi un commerciante , vende tutto quello che gli capita ed espone la sua mercanzia su di una sedia o l’attacca alla pareti esterne del basso. La mattina nei vicoli di Napoli, è tutto un brulicare di voci di venditori e di panari, che salgono e scendono. I panari sono dei piccoli cesti di vimini nei quali la merce viene tirata su, osservata e dopo un’esatta verifica il panaro ridiscende con i soldi dovuti. Passando alle tradizioni culinarie, mentre all’epoca a Milano si diffondeva il cosiddetto “aperitivo” per il quale la gente a mezzogiorno si incontrava a prendere qualcosa per farsi venire fame, a Napoli c’era la “pizza” ovvero “il chiuditivo”. ”. L’uomo del popolo era abituato a mangiare un pasto caldo soltanto la sera , quando tornava a casa. Verso le dodici, dodici e trenta,( la cosiddetta “mezza” per indicare lo scoccare della dodicesima ora della giornata) sentiva l’esigenza di ingannare lo stomaco facendogli credere che su trattasse di un pranzo e si comprava la pizza. Ma Napoli pur troppo è anche la capitale europea dell’industria imitativa, vi erano fabbriche di falso whisky scozzese delle migliori marche, (500.000 bottiglie vennero sequestrate nel 1978), fabbriche di profumi, di borse, di dischi ecc. Napoli è una città che ha sempre dell’incredibile, quando la Camera di Commercio di Napoli, nel 1971, decise la meccanizzazione del servizio, trovò che tra le attività da codificare c’era anche quella di “pittore di occhi di pesce”. Si trattava di un antico mestiere ambulante grazie al quale “l’artista” rendeva più vivi gli occhi dei pesci rimasti invenduti.Tra le occupazioni più tipiche del “popolino”vi era il bagarinaggio sportivo, con il quale si vendevano biglietti per le partite del napoli calcio. Nella seconda metà del ‘900 Napoli era una città con tre milioni di abitanti, compresa la provincia, duecentocinquatamila disoccupati e una della attività primarie risultava essere “IL CONTRABBANDO” innumerevoli erano il numero di motoscafi blù,scafisti, e servizi di staff, impiegarti per far raggiungere la merce di contrabbando( principalmente commercio di sigarette) al resto d’Italia. Ogni motoscafo blù in un viaggio, riusciva a portare cento casse di sigarette, ovvero cinquemila stecche,per un valore all’epoca di dodici o tredici milioni di vecchie lire. Le paranze a terra erano formate da un capo, e da una quarantina di ragazzi tra i sedici e i diciotto anni, ciascuno dei quali guadagnava una media di quindicimila lire a sera.sotto l’occhio vigile degli ufficiali la caccia al contrabbandiere diventa spietata: inseguimenti, colpi di mitra sparati dalla Finanza ecc. A Napoli esiste “l’arte dell’ arrangiarsi” ognuno fa quel che può per tirare avanti, ed ecco che nascono i mestieri più strari come quello della capera, una donna che gira di casa in casa per aggiustare la pettinature femminili che si solevano usare all’epoca,oppure il raccoglitore di briciole, con il suo carretto sostava dinnanzi alle scuole, vendendo le briciole di dolci. Vi erano poi le impagliatrici di sedie, i calzolai, gli arrotini, l’ombrellaio ecc; tutti mestieri che prevedevano riparazioni di vecchi arnesi, che nonvenivano mai buttati in quanto le cose erano considerate dei patrimoniali e il quanto tali dovevano essere usati in eterno. Diffusa a Napoli era ed è l’usanza del “gioco del lotto”. In un paese dove i problemi esistenziali passano in secondo ordine rispetto a quelli economici, il popolo si rifugia nella speranza pratica di un tern. Di qui la diffusione del gioco della “speranza” a tutti i livelli e in tutte le svariate forme: il lotto di stato, il gioco piccolo, la riffa e la tombolella. Il lotto nacque a Genova nel 1576 sotto il nome del gioco del Seminario. La Repubblica a quell’epoca, aveva deciso di eleggere tre Governatori e due Procuratori estraendoli a sorte tra i 90 padri di famiglia più meritevoli di rispetto. A Napoli invece un gruppo di avventurieri genovesi si installò in un vicolo della pignaseccae dette origine al gioco del lotto. La formula N apoletana diversamente dal lotto generose però, prevedeva al posto dei 90 padri di famiglia 90 ragazze povere e nubili tra cui sorteggiare cinque piccole dotimatrimoniali. Il gioco si diffuse rapidamente in tutta Italia e con il passare degli anni ha subito diverse modificazioni sino ad arrivare alla canonizzazionedel gioco nella sua odierna forma. Ma Napoli nel ‘900 non ha solo questa faccia, oltre al popolino, Napoli era ed è ricca di scrittori, musicisti, poeti, grandi artisti che hanno contribuito a far conoscere questa città in tutto il mondo. Luciano De Crescenzo, La Napoli di Bellavista, Arnoldo Mondatori Editore “Le nostre riflessioni” LA “MIA” NAPOLI Spesso ascoltando il telegiornale,leggendo i quotidiani, guardando scorrere le immagini di reportage in tv, o soffermandosi a guardare dipinti dell’’800 come la “rissa” di Michele Cammarano (artista partenopeo), si è portati a pensare con troppa facilità che Napoli sia solo un “gran bordello” ( come qualcuno tende a definire questa città), dove brutture, camorra ,lassismo e spazzatura la fanno da padroni. Bisogna scardinare dall’immaginario dell’opinione pubblica, il concetto dell’”hic sunt leones”. Al giorno d’oggi Napoli non può più essere giudicata solo per associazioni di idee. Napoli non è una città che si regge solo sul binomio Napoli= camorra, Napoli =scippi, Napoli = pizzo ecc. ma come ogni medaglia anche questa città ha il suo rovescio. Troppo poco spesso (purtroppo) si tende a parlare dell’altra faccia di Napoli che, risulta essere, una piacevole ed interessante multirealtà. Napoli è arte, storia, cultura, questo non bisogna dimenticarlo. Nel corso dei secoli ha sempre rivestito sul piano storico un ruolo di preminenza a livello europeo, per questo è anche meta ambita per milioni di turisti che, annualmente si riversano per le strade principali ad ammirare grandi architetture del passato come il palazzo Reale, la biblioteca nazionale che vi è annessa, i castelli come il Maschio Angioino, Castel Nuovo, il carcere di S.Martino, le piazze napoletane ( p.zza del Gesù, p.zza S.Domenico,p.zza del Plebiscito ecc.) che oltre a richiamare turisti, sono luoghi di divertimento e aggregazione per noi giovani. Napoli è anche ricca di storiche chiese come quella del Gesù Nuovo, Cappella S.Severo ecc. non bisogna poi dimenticare le zone “residenziali” tra cui abbiamo la collina del Vomero, Posillipo, Mergellina e via Caraggiolo da dove si può godere di suggestivi panorami. Napoli è anche spettacolo e cultura; è ricca di teatri tra i quali abbiamo il Teatro S.Carlo, ed è sede di molteplici istituti universitari, tra i quali vi è uno degli Atenei più antichi d’Italia “ l’Università degli studi di Napoli Federico II “. Nonostante le difficoltà in cui la città verte, è popolata da gente onesta, professionisti, studenti ecc che hanno voglia di fare di studiare, di imparare per migliorare la propria città. Io sono una studentessa fuori sede, vivo a Napoli da tre anni e provengo da una piccola realtà come quella di Avellino. Nonostante abbia goduto per venti anni della tranquillità della vita Irpina, mi è bastato davvero molto poco per rendermi conto delle tante potenzialità di Napoli, per innamorarmi della solarità di questa città, del buon umore dei suoi abitanti, dei caratteristici vicoletti, dei mille divertimenti di cui si può godere vivendola, della pizza, dei suoi stupefacenti panorami, del clima mite. Dopo tutto o forse prima di tutto Napoli è anche questo. Alessandra Falso Napoli un ingiusto pregiudizio Spesso giornali e televisione danno notizia di episodi tremendi avvenuti a Napoli e nella provincia, e ne descrivono i particolari con immagini raccapriccianti. Tutto ciò ha fatto si che nelle persone si formasse soltanto un’idea negativa di Napoli, infatti la maggior parte crede che Napoli e dintorni sia solo: delinquenza, droga, camorra ecc. anche io ad ogni notizia di cronaca nera avvenuta a Napoli o nel mezzogiorno in generale, resto sempre molto scossa e nasce in me uno sdegno profondo verso gli autori del crimine, penso alle vittime innocenti di tanti delitti, e allora sento crescere l’insicurezza e la paura. E’ difficile accettare l’idea che a capolino si possa camminare tranquilli e sicuri per la strada perché in qualsiasi momento un malfattore potrebbe derubarci o farci violenza. Personalmente ritengo che questo avvenga un pò ovunque, in tutte le grandi città non solo a Napoli, solo che attorno a questa città si è creato una sorta di pregiudizio. Bisognerebbe iniziare a guardare un po’ oltre, sconfiggere il pregiudizio e parlare e descrivere anche delle tantissime cose belle che si possono trovare a Napoli, perché quest’ultima è a mio avviso una delle più belle città italiane, che racchiude in se una miriade di opportunità da sfruttare. Vittoria D’Urso RITORNO IN ACCADEMIA LA: GALLERIA RITROVATA CAPOLAVORI D’ARTE A NAPOLI TRA ‘800 E ‘900 L’Accademia di Belle Arti di Napoli è tra le più antiche accademie europee: nel 1752 il re Carlo di Borbone fonda la Reale Accademia del Disegno con sede a San. Carlo alle Mortelle, avvertendo l’esigenza di istituire nella capitale una scuola che avviasse i giovani all’arte. Trasferita nel Reggio Palazzo degli Studi, sede del museo Borbonico, ebbe l’attuale collocazione nel 1864, andando ad occupare il complesso conventuale di San Giovanni delle Monache riadattato a nuovo uso dall’architetto Errico Alvino. L’aria, segnata da presenze come l’attuale Museo Archeologico, il Conservatorio di San Pietro a Majella, il teatro bellini, la galleria Principe di Napoli, si andava così a configurare un” polo delle arti”. L’inintettotta attività dell’Accademia che ha visto il passaggio di grandi maestri, ne fa tuttora un vivace punto di riferimento perla formazione di giovani artisti e luogo di incontro e di propulsione culturale. La pinacoteca dell’Accademia di Belle Arti di Napoli consta di diverse sezioni tra cui: “dipinti antichi”, “l’800e il ‘900” , “i disegni”, “la donazione Palizzi “, “le sculture”, “sezione video”. riguardante i beni culturali e l’arte. Abbiamo ritenuto opportuno porre alcune domande alla professoressa Aurora Spinosa, docente di storia dell’arte , quasi due anni dopo la riapertura della galleria dell’accademia. Attratte dal titolo della brochure della galleria (ritorno in Accademia: la galleria ritrovata) le abbiamo chiesto il significato dei termini ritorno e ritrovata all’interno del titolo.La professoressa ha risposto, riportando dapprima alcuni dati storici:la galleria riaprì nel 1959 in seguito alla chiusura voluta da F.Bologna a causa di infiltrazioni; i dipinti, le statue e le altre opere furono conservate in depositi. Nel 1971, la galleria subì un furto, vennero rubati trentasette Palizzi, e i rimanenti quadri della collezione furono portati a Capodimonte. In seguito a questi avvenimenti iniziò una lunga battaglia di sensibilizzazione pubblica riguardante i beni culturali e l’arte. Nel 1995 a tale scopo venne allestita un’esposizione a Villa Pignatelli. In base a questi avvenimenti, la mostra allestita alla pinacoteca delle Accademia delle Belle Arti, viene definita ritrovata in quanto da cinquanta anni le opere adesso esposte nella galleria non venivano mostrate al pubblico, e ritrovata in quanto questi dipinti sono tornati in Accademia alla loro collocazione originale. Ci è sembrato poi interessante chiedere da cosa e perché nasce l’idea di un’area multimediale( sezione video) accanto alla tradizionale esposizione delle opere. La professoressa Spinosa, ha chiarito che: il concetto di base della Galleria dell’Accademia delle Belle Arti è una raccolta artistica di opere. La pinacoteca è nata per volere di Filippo Palizzi nell’ambito di un progetto politico nazionale, di dotare l’accedemia di galleria d’arte contemporanea. Quella dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli, è nata per raccogliere le opere di tutto il meridione, per assemblare la storia dell’arte meridionale. Questa è una galleria viva, come un laboratorio per ragazzi e per questo si è ritenuto opportuno integrare una sezione video, che offre un inquadramento storico-esistenziale delle opere e degli artisti. La sezione è stata realizzata in collaborazione con studenti ed ex studenti dell’accademia, propone una raccolta di documenti, spesso rari e preziosi e di grande valore testimoniale che va a formare un grande archivio dell’arte. Con la sezione vi8deo si vuole dare al fruitore strumenti diversi della lettura dell’arte. Occupandoci di un dipinto di Michele Cammarano , presente nelle pinacoteca dell’accademia, abbiamo voluto chiedere l’importanza rivestita dalle opere di Cammarano all’interno dell’esposizione. La scelta dei quadri di Cammarano, ha sottolineato la professoressa, è una scelta critica. Sono stati selezionati per l’esposizione i quadri più rappresentativi nella storia dell’arte. Cammarano è un artista napoletano di un certo peso, nelle sue opere, aveva la capacità di mettere in scena la quotidianità di Napoli. Inoltre i suoi dipinti si offrono molto alla didattica. Ad esempio con il dipinti”la rissa” si può spiegare ad un allievo ma anche ad un semplice spettatore la composizione del quadro stesso, il peso dei corpi all’intreno del dipinto ecc. in definitiva si riesce a cogliere l’essenza del quadro stesso. Alla fine della nostra intervista, da studenti, abbiamo voluto rivolgere alla professoressa un’ ultima domanda:” come vivono gli studenti l’accademia e quali opportunità questa offre loro?”. “l’Accademia oggi attraversa un periodo di crisi” ha detto la professoressa (velandosi di un certo dispiacere ); dovuta anche alla riforma dei corsi universitari che prevedono un piano di studi suddiviso prima in tre e poi in due anni che ha portato l’Accademia ad un’impostazione di taglio marcatamente teorico, lasciando poco spazio ai laboratori. Ma nonostante ciò ribadisce che l’accademia ha avuto un aumento degli iscritti, in quanto l’arte lascia spazio alla creatività alla libertà espressiva, alla propria individualità. Il problema dell’accademia è la carenza dei fondi che lascia poco spazio alla ricerca. L’accademia è un luogo d’arte è un luogo del saper storico, anche se i ragazzi che conseguono il diploma in questa scuola, hanno difficoltà soprattutto a Napoli, ad inserirsi nel mondo del lavoro, in quanto in questa città non vi è un sistema d’arte atto ad accoglierli. Alessandra Falso & Vittoria D’Urso