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Bologna 2006

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Bologna 2006
Bologna 2007
Life Learning Center
Il Life Learning Center, il primo Centro italiano di formazione permanente e ricerca
sulle scienze della vita, nasce a Bologna nel novembre 2000 da un’associazione tra
la Fondazione Marino Golinelli (onlus) e l’Alma Mater Studiorum Università di
Bologna, con la collaborazione del Ministero Istruzione università Ricerca/Centro
servizi amministrativi di Bologna. Ispirato alla tradizione del Dolan DNA Learning
Center di Cold Spring Harbour, creato dal premio nobel Watson, ha lo scopo di
diffondere la cultura scientifica sulle scienze della vita, contribuendo al
miglioramento dell’insegnamento delle bioscienze nella scuola.
Il Centro è un punto di riferimento ed un supporto insostituibile per la didattica sulle
scienze della vita, in cui la pratica sperimentale di laboratorio è tanto importante
quanto la teoria fornita dai testi e dall’insegnamento in aula.
Individuazione della
specie carnea
Obiettivo
Identificare la specie animale utilizzata nella produzione di
alimenti carnei, evidenziando la presenza di sequenze
nucleotidiche specie-specifiche.
Introduzione
Nella sua universalità, il DNA presenta differenze che consentono di associare
specifiche sequenze nucleotidiche ad una singola specie. Per rilevare questi
polimorfismi occorre analizzare geni rintracciabili in tutti gli eucarioti. Un
esempio tipico è il gene del citocromo b (cyt b) appartenente al genoma
mitocondriale. Questo gene, molto conservato a livello interspecifico, presenta
comunque delle differenze che permettono di risalire alla specie di
appartenenza.
L'esperimento prevede prima di tutto l'estrazione e la purificazione del DNA dei
campioni in esame; quindi, tramite PCR, l'amplificazione di un frammento del
gene cyt b ( è una sequenza nucleotidica di 359 bp particolarmente ricca di
mutazioni puntiformi); infine digestione del frammento con enzimi di restrizione
specifici ed elettroforesi del DNA digerito. Le bande di DNA, individuabili nel gel
elettroforetico, vengono messe a confronto con quadri di bande note, che
indicano per ciascuna specie i tipi di frammenti prodotti dagli enzimi di
restrizione utilizzati. A questo punto è possibile identificare la/le specie/i
animale/i presente/i nel campione alimentare.
Procedimento
• Estrazione e purificazione del DNA
• PCR
• Digestione enzimatica dei campioni di carne
• Elettroforesi post digestione enzimatica dei campioni di
carne
• Analisi dei risultati
• Applicazioni pratiche
• Protocollo
Estrazione e purificazione del DNA
Questa fase è essenziale per estrarre e purificare il DNA da analizzare da
tutte le sostanze che lo avvolgono e lo proteggono dalla materia
extracellulare. Viene utilizzata una soluzione tampone costituita da :
> TRIS, tampone che serve a mantenere il Ph della soluzione
costante intorno all’8;
> EDTA, conservante che protegge il DNA estretto dall’azione
delle nucleasi che tenderebbero e metabolizzarlo;
> NaCl, cloruro di sodio, che si lega a proteine portandole in
soluzione e inibendo la loro azione (soprattutto degli istoni);
> SDS, sodiododecilsolfato, che serve per rendere solubili i
fosfolipidi delle membrane nucleari dei campioni
precedentemente omogeneizzati.
Estrazione e purificazione del DNA
In questo modo abbiamo impedito alla proteine di attaccare il DNA appena
estratto. Per degradare definitivamente le proteine che si trovavano nel
citoplasma si aggiunge:
> Guanidinacloroidrato, che rompe i legami idrogeno e denatura
la struttura proteica;
> Proteinasi K, che agisce anch’essa sul legame peptidico.
Per purificare il DNA si utilizzano
particolari resine che interagiscono con
questo creando legami dipolo-dipolo che
variano per la loro efficacia e la successiva
facilità di dissociazione che avviene
solitamente tramite isopropanolo.
PCR
N° cicli 45
Denaturazione
Annealing
Estensione
94°C
50°C
72°C
per 5”
per 30”
per 40”
La PCR amplifica un frammento codificante
del cyt b di 359 bp, che contiene
polimorfismi specie-specifici.
Questa macchina esegue cicli termici volti
alla creazione di una quantità di frammenti
identici a quelli iniziali secondo una funzione
esponenziale in base 2 a partire dal terzo
ciclo. Prima di inserire la provetta nel
termociclaotre si aggiunge il Master Mix,
formato da:
> i primer oligonucleotidi, che
permettono di riconoscere l’inizio e
la fine della sequenza da
amplificare
> basi azotate che serviranno per
creare la nuove sequenze di DNA
> Taq – DNA polimarasi
> MaCl2 poiché lo ione Ma2+ è
indispensabile
per
attivazione
polimerasi
Digestione enzimatica dei
campioni di carne
La digestione enzimatica del frammento del cit b evidenzia un certo numero di
RFLP (cDNA) diversi per specie animale: è possibile, quindi, riconoscere la
specie di appartenenza di ciascun campione analizzato. L'utilizzo di 2 enzimi di
restrizione AluI e HaeIII offre maggiori garanzie per il riconoscimento, poiché
l’utilizzo di un solo enzima non permetterebbe di distinguere univocamente due
specie diverse poiché in entrambe è presente la stessa sezione di taglio nella
stessa sede: pertanto l’utilizzo di un secondo enzima di restrizione permette la
differenziazione specifica. Infatti, confrontando gli schemi di confronto notiamo
come sottoposti al solo enzima HAEIII le carni di pollo e suino risultino molto
simili per scomposizione, mentre caso inverso si ha tra pollo e tacchino,
entrambi non influenzati dal taglio dell’enzima ALUI.
Elettroforesi
post digestione
enzimatica dei
campioni di
carne
I campioni di carne vengono inseriti
nei pozzetti del gel e la cella
elettroforetica in cui i diversi
frammenti di DNA si muovono più o
meno in lunghezza a causa del
diverso peso atomico e quindi
diversa capacità di solubilita.
Applicazioni pratiche
Le principali applicazioni pratiche di questo
procedimento sono:
• Certificazione di accompagnamento ai
prodotti in commercio
• Introduzione di specie alternative
• Controllo dei semilavorati alimentari
Protocollo
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Omogeneizzazione dei campioni incogniti;
Aggiungere 860 µl di tampone di estrazione composto di:
> TRIS
> EDTA
> NaCl
> SDS
Aggiungere 100 µl di guanidina cloridrato e 40 µl di proteinasi K;
Lasciare riposare per 1h a 65°C;
Si centrifuga il campione e si prelevano 25 µl della fase liquida
contenente il DNA
Si aggiungono 250 µl di resina per fissare il DNA tramite i legami
dipolo-dipolo.
Protocollo
7. Utilizzando una siringa si dissocia la fase
solida che contiene il DNA e la resina dalla
restante fase liquida
8.
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µ
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Durante l’attesa preparare un gel al 2% di
agarosio e TBE (TRIS, acido borico e
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Protocollo
21. Caricare nei pozzetti, nell’ordine, 10
non digerito, 20
2
2
.
µ
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Avviare la corsa elettroforetica a 90 V per 30
schema di caricamento
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g
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Enzimi di restrizione
Nei batteri sono presenti degli enzimi che tagliano le molecole estranee di DNA
in piccoli segmenti che vengono duplicato o trascritti (in tal modo dei batteri
risultano immuni a particolari virus). Questi enzimi vengono chiamati enzimi di
restrizione
.
Differenti enzimi di restrizione tagliano il DNA in differenti sequenze
nucleotidiche specifiche. Invece di tagliare le molecole in maniera netta, alcuni
enzimi di restrizione lasciano delle estremità coesive. Un qualsiasi DNA tagliato
con questi enzimi pu
ò essere facilmente attaccato ad un’altra molecola di DNA
tagliata dallo stesso enzima. La scoperta degli enzimi di restrizione ha reso
possibile lo sviluppo della tecnologia del DNA ricombinante.
In sostanza gli enzimi di restrizione, che si trovano in molti procarioti dove
hanno il ruolo di spezzare molecole di DNA estraneo, sono delle endonucleasi
che catalizzano la scissione di entrambi i
DNA in
di
una specifica sequenza
. Molti enzimi di restrizione riconoscono
sequenze di lunghezza compresa tra le quattro e le otto basi . La reazione di
rottura del legame fosfodiesterico richiede la presenza di uno ione bivalente ma
non richiede l’impiego dell’ATP. A seconda del tipo di enzima, la scissione del
doppio filamento di DNA produce estremità piatte (blunt ends) o protrusive
(steaky ends).
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Nel caso dell’esperimento della identificazione della specie carnea, gli enzimi
di restrizione vengono utilizzati per tagliare il DNA in diversi frammenti che,
avendo lunghezza diversa e pertanto diverso peso molare, “correranno” in
maniera diversa nella cella elettroforetica dando origine alla varie bande.
Nel caso della trasformazione batterica, gli enzimi di restrizione e la tecnica
del DNA ricombinante sono stati usati dal laboratorio che ci ha fornito i pGLO
(plasmide Green Light Organism), nella creazione dei plasmidi stessi.
In questo caso il processo è stato realizzato tre volte per permettere la
seguenti modifiche:
> introduzione del gene per la resistenza all’ampicillina
> il gene regolatore che sintetizza il repressore nell’operone che
regola l’espressione della GFP
> l’immissione dei geni strutturali che sintetizzano la GFP al posto di
quelli che sarebbero attivati dall’operatore che viene attivato a
causa della presenza dell’inibitore, l’arabinosio
Trasformazione batterica
Obiettivo
Inserire in una cellula batterica di Escherichia coli una
piccola molecola di DNA (plasmide) recante geni che
verranno poi espressi nel fenotipo del batterio.
Introduzione
La trasformazione batterica è una tecnica di biologia molecolare
messa a punto per facilitare l'introduzione di plasmidi nei batteri,
processo che
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natura
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avviene
proprietà
Procedimento
• Lisi membrana cellulare
ed introduzione dei
plasmidi
• Shock termico
• Incubatura
• Piastrazione
• Analisi dei risultati
• Applicazioni pratiche
• Protocollo
Lisi membrana cellulare ed
introduzione plasmidi
Il campione di batteri viene trattato con CaCl2 che
rovina la parete cellulare e neutralizza le cariche
negative della membrana cellulare e del DNA. Il
posizionamento del campione in un bagno di ghiaccio
permette di diminuire la mobilità della molecole della
membrana e attiva le porine su di essa facilitando
l’ingresso dei plasmidi che termina grazie al passaggio
successivo. I plasmidi sono stati ottenuti grazie alla
tecnica del DNA ricombinante e degli enzimi di
restrizione.
Shock termico
Lo shock termico o “heat shock”
serve per
permettere il passaggio dei plasmidi all’interno
dello strato lipidico della membrana.
Avviene per 90’ in un bagno termostatico a 42°C,
durante i quali il DNA viene eccitato dalla
temperature
e
penetra
all’interno
della
membrana i cui lipidi sono bloccati dagli ioni
Ca2+ .
Incubatura
Dopo le varie operazioni compiute, volte a degradare
la membrana cellulare ed all’ingresso di sostanze
estranee tramite lo shock termico, si incubano i batteri
per permettergli di recuperare la loro funzionalità e per
favorirne la sviluppo e la riproduzione.
In questo modo dalle due provette contenenti una
modesta quantità di batteri è possibile farne nascere
una vera e propria colonia.
Piastrazione
Dopo l’incubatura si piastrano i batteri in una capsula divisa in
quattro settori o in quattro piastre differenti (foto di sfondo).
Nell’eseguire questo processo si tiene conto della diversa
composizione del terreno nei quattro settori/piastre:
• Settore 1: LB, agar.
• Settore 2: LB, agar e ampicillina.
• Settore 3: LB, agar e ampicillina.
• Settore 4: LB, agar, ampicillina e arabinosio.
I primi due devono essere riempiti con i batteri senza plasmidi,
mentre la altre con quelli geneticamente modiicati.
Per osservare il risultato dopo una notte
di ulteriore incubatura è necessaria una
sorgente di raggi UV.
Analisi dei risultati
I risultati ottenuti dovrebbero essere i seguenti:
• Settore 1: i batteri non trasformati sono proliferati creando
una colonia (nelle piastre di sfondo questo risultato è la seconda
piastra da destra): serve da controllo negativo per verificare che i
batteri di partenza fossero vivi.
• Settore 2: i batteri non trasformati sono morti per la
presenza dell’antibiotico (piastra più a destra): è un controllo
negativo per verificare che i batteri non avessero già la resistenza
all’antibiotico.
• Settore 3: in questo caso i batteri trasformati dovrebbero
resistere all’antibiotico (seconda piastra da sinistra): controllo
negativo poiché sono cresciuti solo i batteri OGM.
• Settore 4: la presenza di arabinosio attiva gli operoni che
sintetizzano i geni strutturali che trascrivono la GFP: controllo
negativo perché se non vi è luminescenza significa che la tecnica
del DNA ricombinante non è stata efficace.
Settore 4
Settore 3
Settore 1
Settore 2
Applicazioni pratiche
L’organismo così modificato e fatto riprodurre
costituisce una vera e propria fabbrica di:
• copie di geni introducibili nel genoma di altri
organismi (v. gene resistenza negli OGM e
creazione di batteri decompositori di sostanze
altrimenti non facilmente decomponibili)
• copie di proteine di vario utilizzo (insulina,
somatostatina, somatotropo, interferone )
Applicazioni pratiche
In campo medico possiamo distinguere quattro tipologie di
applicazione:
• ricerca: utilizzazione di animali geneticamente modificati
come cavie (oncotopi: topi modificati che sviluppano
determinati tumori, fungono da cavie per le
sperimentazione dei farmaci)
• industria farmaceutica: produzione di vaccini e farmaci
• prevenzione: analisi del cariotipo, analisi prenatali,
analisi dei frammenti di restrizione (RFLP)
• terapia genica: introduzione di alleli sani nel DNA di
individui portatori di alleli patologici
Applicazioni pratiche
In campo agricolo la biotecnologie si configurano
principalmente come creazione, per la coltivazione,
di OGM portatori di caratteristiche vantaggiose
quali resistenza ai parassiti e maggiore capacità di
assimilare azoto.
Questo uso delle scienze della Natura ha
recentemente sollevato polemiche da parte delle
associazioni dei consumatori che si battono per
maggiori accertamenti sulla sicurezza di questi
nuovi organismi come ad esempio il mais
transgenico resistente agli attacchi del lepidottero
piralide, dannoso alle colture.
Bioetica
La bioetica è una disciplina recente che si propone la
valutazione dei limiti morali al di là dei quali l'intervento in
campo genetico diviene illecito, e definisce norme
comportamentali al riguardo.
Il rapidissimo e continuo sviluppo in un settore tanto
delicato della ricerca e della sperimentazione ha imposto
una scrupolosa considerazione di questa problematica.
Attualmente l'attenzione comune è rivolta in modo
particolare al dibattito sulla liceità o meno della clonazione
di cellule umane, ma vi sono numerose altre questioni di cui
questa disciplina si occupa e tutte ci coinvolgono
direttamente: per esempio nel campo dell'alimentazione
ogni giorno sorgono problematiche sul piano etico per via
del continuo progredire della scienza.
Enzimi di restrizione
Nei batteri sono presenti degli enzimi che tagliano le molecole estranee di DNA
in piccoli segmenti che vengono duplicato o trascritti (in tal modo dei batteri
risultano immuni a particolari virus). Questi enzimi vengono chiamati enzimi di
restrizione
.
Differenti enzimi di restrizione tagliano il DNA in differenti sequenze
nucleotidiche specifiche. Invece di tagliare le molecole in maniera netta, alcuni
enzimi di restrizione lasciano delle estremità coesive. Un qualsiasi DNA tagliato
con questi enzimi pu
ò essere facilmente attaccato ad un’altra molecola di DNA
tagliata dallo stesso enzima. La scoperta degli enzimi di restrizione ha reso
possibile lo sviluppo della tecnologia del DNA ricombinante.
In sostanza gli enzimi di restrizione, che si trovano in molti procarioti dove
hanno il ruolo di spezzare molecole di DNA estraneo, sono delle endonucleasi
che catalizzano la scissione di entrambi i filamenti di DNA in corrispondenza di
una specifica sequenza nucleotidica. Molti enzimi di restrizione riconoscono
sequenze di lunghezza compresa tra le quattro e le otto basi . La reazione di
rottura del legame fosfodiesterico richiede la presenza di uno ione bivalente ma
non richiede l’impiego dell’ATP. A seconda del tipo di enzima, la scissione del
doppio filamento di DNA produce estremità piatte (blunt ends) o protrusive
(steaky ends).
Nel caso dell’esperimento della identificazione della specie carnea, gli enzimi
di restrizione vengono utilizzati per tagliare il DNA in diversi frammenti che,
avendo lunghezza diversa e pertanto diverso peso molare, “correranno” in
maniera diversa nella cella elettroforetica dando origine alla varie bande.
Nel caso della trasformazione batterica, gli enzimi di restrizione e la tecnica
del DNA ricombinante sono stati usati dal laboratorio che ci ha fornito i pGLO
(plasmide Green Light Organism), nella creazione dei plasmidi stessi.
In questo caso il processo è stato realizzato tre volte per permettere la
seguenti modifiche:
> introduzione del gene per la resistenza all’ampicillina
> il gene regolatore che sintetizza il repressore nell’operone che
regola l’espressione della GFP
> l’immissione dei geni strutturali che sintetizzano la GFP al posto di
quelli che sarebbero attivati dall’operatore che viene attivato a
causa della presenza dell’inibitore, l’arabinosio
Protocollo
Lisi membrana cellulare
> Marca su una Eppendorf + e su un'altra -.
> Apri le provette e trasferisci 100 µl della soluzione di CaCl2 in ciascuna
provetta.
> Poni le provette in ghiaccio.
> Usa un'ansa sterile per prendere una singola colonia batterica dalla
tua piastra di partenza e stemperane il contenuto nella provetta. Ripeti
l’operazione per entrambi le Eppendorf.
> Lasciare a riposo per 5’ in ghiaccio.
> Preleva con una pipetta un volume di 1 µl di pGLO nella Eppendorf +
e lasciare riposare nuovamente.
Shock termico
> Usando il porta provette, trasferisci entrambe le provette, la (+) e la (-)
nel bagno termostatico a 42 °C per esattamente 90 secondi. Incuba le
provette in ghiaccio per 5 minuti.
Incubatura
> Preleva 100 µl di LB e aggiungili alla provetta poi richiudila. Ripeti la
stessa cosa per l'altra provetta.
> Incuba le provette per 30’ a 37°C.
> Trascorso il tempo richiesto apri la provetta e, usando un nuovo
puntale per ogni provetta, poni 100 µl delle sospensioni batteriche di
trasformazione (+) e di controllo (-) per ciascun settore secondo la
disposizione che segue.
> Usa un'ansa sterile per ogni piastra. Distribuisci le sospensioni
uniformemente sulla superficie dell'agar con un'ansa sterile nuova.
> Incubare per la notte a 37°C.
Metodo di piastrazione
Le piastre utilizzate sono divise in quattro settori che contengono le
seguenti sostanze:
• Settore 1: LB, agar.
• Settore 2: LB, agar e ampicillina.
• Settore 3: LB, agar e ampicillina.
• Settore 4: LB, agar, ampicillina e arabinosio.
I primi due settori saranno riempiti con il contenuto della provetta -, il
terzo ed il quarto settore invece con il contenuto dell’Eppendorf +.
Regno:Animalia
Phylum:Cnidaria
Classe:Hydrozoa
Ordine:Hydroida
Famiglia:Aequoreidae
Genere:Aequorea
Specie:A. Victoria Aequorea Victoria, anche denominata la gelatina di cristallo, è
Aequorea
victoria
una medusa bioluminescente che è trovata fuori del litorale ad
ovest dell'America del Nord.
Questa medusa è oggi conosciuta per la sintesi proteina verde
fluorescente (GFP) è un attrezzo importante utilizzato nella
ricerca biologica. Aequorea Victoria è una medusa stagionale.
Spariscono completamente dall'acqua in autunno. Soltanto
piccole colonie rimangono in vita sul fondale marino. In
primavera, riappaiono nuovamente in grande numero ed
iniziano il ciclo. Nel 1955, Davenport e Nicol dimostravano che
le cellule di questa medusa producevano una brillante luce
fosforescente di colore verde quando essa veniva irradiata con
luce ultravioletta ad onda lunga. Nel 1962, Shimomura
descriveva un estratto proteico della medusa che poteva
produrre questa fluorescenza. Morin e Hastings, individuarono
la stessa proteina nove anni dopo.
Questa
a
lato
è
la
rappresentazione in 3D della
GFP
(Green
Fluorescent
Protein) che abbiamo utilizzato
nell’esperimento
della
trasformazione
batterica:
l’immagine è stata elaborata
grazie
ad
un
particolare
programma
che
permette
appunto
di
riprodurre
graficamente non solo proteine
ma anche altre strutture
organiche.
Evidenziato in verde
si denota il cromoforo
che è il responsabile
delle
luminescenza
verde. In giallo ( αeliche) e
magenta
(foglietti-β)
sono
visibili le parti che
creano la struttura
secondaria
della
proteina.
GFP
La GFP (green fluorescent protein) è un polipeptide di 238
amminoacidi, tipico di alghe marine e meduse, quali la Aequorea
victoria, che rende fluorescente l’organismo che la possiede.
L’operone che codifica per tale proteina deve essere necessariamente
presente nel plasmide.
La sequenza ORI è costituita da alcuni nucleotidi il cui compito è
quello di dare il segnale d’inizio per la sintesi della GFP. L’AraC è un
gene di regolazione; esso codifica, cioè, per particolari proteine di
regolazione dette repressori, che favoriscono oppure bloccano la
trascrizione di RNA messaggero. Quando nel terreno di coltura è
presente l’arabinosio (uno zucchero), che funge da induttore, questo si
lega al repressore che si trova attaccato ad un particolare sito della
molecola di DNA detto operatore, e lo stacca, permettendo all’RNA
polimerasi di iniziare il suo lavoro.
GFP
La luminescenza di GFP è un fenomeno intrinseco alla stessa proteina e
non richiede substrati, quindi questa è molto usata come marcatore nelle
indagini di identificazione e localizzazione subcellulare delle proteine. In
questi saggi la sequenza nucleotidica della proteina X da identificare viene
fusa con la sequenza nucleotidica di GFP in un vettore di espressione che
solitamente è un plasmide. Il plasmide ricombinante viene inserito nella
cellula eucariotica, solitamente tramite elettroporazione, in modo che, una
volta all'interno della cellula, il plasmide si integri nel genoma per
ricombinazione sito specifica all'interno del gene per la proteina X. Questo
processo porta all'inattivazione del gene selvatico per X e all'espressione
del gene ricombinante per X-GFP. L'identificazione e localizzazione
subcellulare di X-GFP pu
ò allora essere visualizzata tramite la microscopia
a fluorescenza che rivela i segnali prodotti da GFP e che quindi identificano
anche X. Questa tecnica è molto potente in quanto la localizzazione della
proteina studiata viene rivelata in vivo ed è possibile seguirla anche nel
tempo. Questo sistema pu
ò essere utilizzato anche per marcare i fiori o altri
organismi.
GFP
La proteina GFP è straordinariamente utile per studiare le cellule
viventi, e i ricercatori stanno rendendola ancora più utile. Stanno
inserendo con l'ingegneria genetica molecole di proteina GFP che
emettono per fluorescenza colori diversi. Si possono ora sintetizzare
proteine blu fluorescenti, gialle fluorescenti e molte altre ancora. Il
trucco è introdurre piccole mutazioni che alterano la stabilità del
cromoforo. Migliaia di varianti diverse sono già stata sperimentate. I
ricercatori stanno anche usando la proteina GFP per creare dei
biosensori: macchine molecolari che sentono i livelli di ioni o il pH, e
che poi trasmettono i risultati diventando fluorescenti in modi
caratteristici. La molecola mostrata qui, dall'archivio PDB 1kys, è una
proteina blu fluorescente che è stata modificata per sentire il livello di
ioni zinco. Quando lo zinco, mostrato qui in rosso, si lega al
cromoforo modificato, mostrato qui in blu, la proteina diventa due
volte più fluorescente, creando un segnale visibile che può essere
facilmente osservato.
Marcatura con GFP
Fiori di Osteospermum
non trasformati
illuminati con luce
normale.
Confronto tra ligule di
Osteospermum illuminate con luce
blu. E' evidente la fluorescenza
verde nelle ligule trasformate.
Fiore non trasformato
(sinistra) e trasformato
(destra) illuminati con
luce blu.
Cellule di callo trasformato di
lisianthus illuminato con luce
blu (ingrandimento 40x).
Fiori di Lisianthus non
geneticamente trasformati
(controllo) illuminati con
luce normale.
Fiori trasformati di Lisianthus
illuminati con luce blu (400 nm).
E' evidente la fluorescenza
verde.
Fiore di Lisianthus non
trasformato illuminato con
luce blu. I pigmenti del fiore
sotto luce blu originano un
colore rossastro poco
visibile.
Bioinformatica
Obiettivi
Fornire gli strumenti per trovare informazioni
scientifiche
attendibili
e
aggiornate,
consultare un archivio tassonomico vasto,
trovare la sequenza nucleotidica o proteica
corrispondente ad una determinata proteina,
eseguire la traduzione concettuale di una
sequenza nucleotidica in amminoacidica,
identificare sequenze di DNA evolutivamente
conservate in diverse specie, disegnare
primer per eseguire analisi del DNA
mediante PCR ed analisi di particolari
strutture proteiche con appositi programmi.
Questa
a
lato
è
la
rappresentazione in 3D della
GFP
(Green
Fluorescent
Protein) che abbiamo utilizzato
nell’esperimento
della
trasformazione
batterica:
l’immagine è stata elaborata
grazie
ad
un
particolare
programma
che
permette
appunto
di
riprodurre
graficamente non solo proteine
ma anche altre strutture
organiche.
Evidenziato in verde
si denota il cromoforo
che è il responsabile
delle
luminescenza
verde. In giallo ( αeliche) e
magenta
(foglietti-β)
sono
visibili le parti che
creano la struttura
secondaria
della
proteina.
I nuclei tematici da noi affrontati
sono stati:
• Individuazione della specie carnea
• Trasformazione batterica
• Bioinformatica
FINE
Fly UP