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Ipsoa - Diritto penale e processo di Spangher Giorgio, Pisa Paolo

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Ipsoa - Diritto penale e processo di Spangher Giorgio, Pisa Paolo
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
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Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
COMMENTARI IPSOA
CODICE
PENALE
COMMENTATO
fondato da
E. Dolcini e G. Marinucci
diretto da
E. Dolcini e G. L. Gatta
Giunto alla quarta edizione, il Codice
penale commentato, offre il commento
articolo per articolo del Codice
penale, di alcuni tra i più importanti
provvedimenti complementari
(L. 75/1958, Prostituzione; L. 194/1978,
Interruzione della gravidanza; d.p.r.
309/1990, T.U. sugli stupefacenti;
D.Lgs. 274/2000, Giudice penale di pace;
D.Lgs. n. 286/1998, T.U. immigrazione) e
dei reati societari (artt. 2621-2642 c.c.).
In questa edizione sono commentati
per la prima volta il D.Lgs. n. 285/1992,
Nuovo codice della strada e il
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[email protected]
290 euro
Prezzo copertina: 290 euro
Codice prodotto: 186546
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D.Lgs. n. 152/2006, T.U. ambientale.
Diritto penale e processo
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Sommario
EDITORIALE
Immigrazione
TRAFFICO DI MIGRANTI VIA MARE, POTERI DI POLIZIA NELLE AZIONI DI CONTRASTO E TUTELA
DELLA DIGNITÀ DELLA PERSONA
di Giuseppe Di Chiara
5
LEGISLAZIONE
Reati tributari
NOVITÀ NORMATIVE
10
D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158
11
LA RIFORMA DEI REATI TRIBUTARI
di Andrea Perini
14
GIURISPRUDENZA
Osservatori
OSSERVATORIO CORTE COSTITUZIONALE
a cura di Giuseppe Di Chiara
37
OSSERVATORIO CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE
a cura di Giulio Garuti
40
OSSERVATORIO CORTE DI CASSAZIONE - DIRITTO PENALE
a cura di Stefano Corbetta
47
OSSERVATORIO CORTE DI CASSAZIONE - PROCESSO PENALE
a cura di Antonella Marandola
53
OSSERVATORIO CONTRASTI GIURISPRUDENZIALI
a cura di Irene Scordamaglia
59
Giurisprudenza commentata
Bioetica
Competenza
territoriale
Mobbing
Corte costituzionale 21 ottobre 2015 (ud. 6 ottobre 2015), n. 229
62
GLI ULTIMI FANTASMI DELLA LEGGE ’40: INCOSTITUZIONALE IL (SUPPOSTO) REATO
DI SELEZIONE PREIMPIANTO
di Antonio Vallini
64
Cassazione penale, SS.UU., 24 aprile 2015 (ud. 26 marzo 2015), n. 17325
80
ACCESSO ABUSIVO AD UN SISTEMA INFORMATICO O TELEMATICO E COMPETENZA TERRITORIALE
di Elisa Anselmi
85
Cassazione penale, Sez. VI, 7 ottobre 2015 (ud. 23 giugno 2015), n. 40320
89
LA RILEVANZA PENALE DEL MOBBING DEL PRIMARIO NEI CONFRONTI DEL MEDICO
SOTTOPOSTO
di Antonella Madeo
92
OPINIONI
Messa alla prova PRIME CRITICITÀ APPLICATIVE IN TEMA DI SOSPENSIONE DEL PROCESSO PER LA MESSA ALLA
PROVA
di Luigi Annunziata
101
Misure cautelari I VIZI DEGLI AUTOMATISMI CAUTELARI PERSISTENTI NELL’ART. 275, COMMA 3, C.P.P.
di Marcello Daniele
114
Diritto penale e processo 1/2016
3
Numero Demo
Diritto penale e processo
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Sommario
GIUSTIZIA SOVRANAZIONALE
Confisca
CONSIDERAZIONI MINIME SULLA DIR. 2014/42/UE RELATIVA AL CONGELAMENTO E ALLA CONFISCA DEI BENI STRUMENTALI E DEI PROVENTI DA REATO FRA GLI STATI DELL’UE
di Antonella Marandola
121
OSSERVATORIO CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
a cura di Carlotta Conti
132
INDICI
INDICE AUTORI, CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI, ANALITICO
136
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
Diritto penale: R. Bartoli; A. Bernardi; M. Bertolino; S. Canestrari; A. Ceretti; G. De Francesco; M. V. Del Tufo; E. Dolcini; M. Donini;
G. Fiandaca; A. Fiorella; G. Flora; G. Fornasari; G. Forti; A. Gargani; G. Grasso; R. Guerrini; G. Insolera; S. Larizza; C. de Maglie; G.
Mannozzi; F. Mantovani; A. M. Maugeri; E. Mezzetti; V. Militello; A. Pagliaro; C. E. Paliero; M. Papa; L. Picotti; L. Risicato; M. Romano; A. Vallini; F. Viganò.
Processo penale: A. Bargi, G. Bellantoni, A. Bernasconi, P. Corso, A. De Caro, P. Dell’Anno, V. Fanchiotti, L. Filippi, C. Fiorio, A. Gaito, A. Giarda, P. Gualtieri, S. Lorusso, A. Marandola, M.R. Marchetti, E. Marzaduri, M. Menna, A. Molari, P. Moscarini, G. Pansini, V.
Patanè, A. Pennisi, G. Pierro, A. Presutti, S. Sau, A. Scaglione, M. Scaparone, A. Scella.
Giurisprudenza italiana n. 12 /2015:
Diritto Penale
V. Pompeo, Confisca di prevenzione, dinamiche concorrenziali e garantismo economico-sociale, Cass. pen., Sez. Un., 31 luglio 2015, (ud. 23 aprile 2015), n. 33864.
D. Notaro, Condizioni e limiti della valutazione prognostica in tema di libertà vigilata facoltativa? Cass. pen., Sez. III, 30 luglio 2015 (ud. 24 aprile 2015), n. 33591.
Diritto Processuale Penale
O. Murro, Preclusa, alla parte civile, l’impugnazione della sentenza di estinzione del reato, Cass. pen. Sez. Un., 31 luglio
2015, (ud. 23 aprile 2015), n. 33864.
N. Pascucci, Alcune considerazioni sul significato di ‘‘procedimenti diversi’’ ex art. 270 c.p.p., Cass. pen., Sez. IV, 10 luglio
2015 (ud. 17 giugno 2015), n. 29796.
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Diritto penale e processo 1/2016
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Editoriale
Processo penale
Immigrazione
Traffico di migranti via mare,
poteri di polizia nelle azioni di
contrasto e tutela della dignità
della persona
di Giuseppe Di Chiara
Il fenomeno frastagliato del traffico di esseri umani via mare ha evidenziato lo stratificarsi di
strategie criminali il cui hardware è costituito da una nave madre, armata dall’organizzazione dedita al traffico e deputata a incrociare in mare aperto, e da una flotta proteiforme di imbarcazioni
di appoggio, che assicurano i trasbordi dei migranti entrando in acque territoriali. Il rischio che
la navigazione della nave madre nelle sole acque internazionali possa virtualmente vanificare l’esercizio efficiente della giurisdizione dello Stato di sbarco può essere scongiurato valorizzando il
modulo strategico della presenza costruttiva, che fa leva su congegni regolati dalla Convenzione
di Montego Bay sul diritto del mare; le “linee guida alto mare” della Direzione nazionale antimafia (2014) offrono, in tal senso, un contributo di straordinario rilievo.
“Stanchezza della catastrofe”: per una
premessa
Nel più recente scorcio, nel gorgo dell’inseguirsi
parossistico di tragedie legate alle dinamiche dei
flussi migratori, un grande quotidiano nazionale ha
pubblicato un’intervista a Zygmund Bauman (1),
che restituisce un quadro di straordinaria lucidità,
in cui il grande filosofo polacco ripropone alcune
delle sue idee di fondo sui flussi migratorie e sul loro immane carico di violenza e di morte: “Un giorno Lampedusa, un altro Calais, l’altro ancora la
Macedonia. Ieri l’Austria, oggi la Libia. Che ‘notizie’ ci attendono domani? Ogni giorno incombe
una nuova tragedia di rara insensibilità e cecità
morale. Sono tutti segnali: stiamo precipitando, in
maniera graduale ma inarrestabile, in una sorta di
stanchezza della catastrofe”.
“Stanchezza della catastrofe”, dunque. Lentamente
e inesorabilmente, come per l’azione tossica di un
veleno, ci stiamo assuefacendo all’idea perversa del
Mar Mediterraneo che si trasfigura in campo di
sangue: novello campo del vasaio, destinato alla sepoltura degli stranieri, ventre arido, secondo i testi
antichi, del sepolcro extra pomerium di Giuda il suicida (2). Lo specchio del Mediterraneo, da luogo di
sapienza e di bellezza, diviene così, per sortilegio,
luogo di incursioni, di traffico di merce umana, di
naufragi e di morte.
A volte qualcosa inceppa il processo di assuefazione, ne scompagina l’ordine, sulle orme di impatti
sin troppo dirompenti: la foto di un piccolo essere
sulla battigia, che quasi appare appisolato, e l’altra
foto, che ritrae quel bimbo di tre anni in braccio a
un militare in divisa chiamato per destino a portarlo via, coagulando l’immagine di una nuova gridata
deposizione, sembrano mutare gli equilibri, propiziando cambi di passo anche delle istituzioni europee (3); poi tutto ritorna inesorabile com’era, nell’asettico ordine di una realtà fatta di porte taglia-
(1) A. Guerrera, “I migranti risvegliano le nostre paure. La
politica non può rimanere cieca”, intervista a Zygmund Bauman, in Repubblica, 29 agosto 2015, 9.
(2) Ci si sta riferendo al quadro, ricco di simbologie, tracciato, nelle fonti, da Mt 27, 7-8.
(3) Il punto meriterebbe ben altre meditazioni: converrà,
qui, rinviare, per qualche input, almeno a M. Calabresi, La
spiaggia su cui muore l’Europa, in La Stampa, 3 settembre
2015, 1, e M. Smargiassi, L’urlo di questa foto e i silenzi della
politica, in Repubblica, 3 settembre 2015, 4.
Diritto penale e processo 1/2016
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Editoriale
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Processo penale
fuoco a guardia dei caveau blindati delle tranquillità individuali o collettive.
Appare allora impossibile, qui più che altrove, per il
giurista, limitare lo sguardo al proprio abituale scriptorium: avanti ai suoi occhi si disegna un dittico,
inevitabile nel suo essere diseguale, sconcertante.
Appartengono al proprium della sua opera, che egli
sa manovrare con disinvoltura, i complessi, sfaccettati, raffinati itinerari lungo cui si è incanalata la riflessione - nelle fonti sovranazionali, nella giurisprudenza delle istanze sovranazionali e delle giurisdizioni nazionali - sulla configurazione della qualità di
vittima del reato nelle vicende dell’immigrazione irregolare: le problematiche del consenso, sussistente,
viziato, inesistente, o il discrimen fra tratta di esseri
umani e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ne costituiscono alcune tra le pagine più cospicue. Si pone, dall’altro versante del dittico, quasi
come nei rapporti tra recto e verso delle tabulae pictae di Piero della Francesca o di Antonello da Messina, l’omaggio di Ennio Morricone alle vittime del
naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013: La voce
dei sommersi è un brano le cui fonti sonore di base,
suoni “sporchi”, sono la risacca che tutto copre, il
canto del muezzin, le modulazioni in forma di lamento di una voce femminile, le scintille avvolgenti
di suono delle campane tubolari; è stato eseguito
per la prima volta nell’ambito della veglia interconfessionale del 2 novembre 2013, svoltasi nella Chiesa di S. Maria Incoronata in Milano, cui hanno partecipato musulmani e cristiani, insieme, e al termine del quale sono state distribuite 150 piccole mezzelune e 150 minuscole croci, intagliate da un artigiano di Lampedusa nel legno tratto dal cimitero
dei barconi dei migranti.
Sovviene il monito di Piero Calamandrei a proposito delle “quadrate caselle del diritto”, il cui studio egli diceva - è “sterile astrazione, se non è anche
studio dell’uomo vivo” (4). Eppure, è proprio nell’humus delle “quadrate caselle del diritto” che si innestano i congegni destinati a offrire riconoscimento alla dignità della vittima: oltre i proclami, oltre
le sensibilità individuali, è anzitutto nelle risorse di
efficienza di quei congegni che si gioca la partita decisiva della tutela della dignità della persona.
È di qualche tempo fa il racconto di Hamed, 16
anni, superstite di uno degli innumerevoli naufragi
al largo delle coste libiche, la cui esperienza è stata
da lui narrata subito dopo le dimissioni dall’ospedale siciliano ove era stato ricoverato dopo il salvataggio in mare: “Li hanno ammazzati, ci hanno affondato perché volevano trasferirci su un’altra barca più piccola. Eravamo oltre 500, uno sopra l’altro, e quando ci hanno detto che dovevamo andare
su quell’altra barca ci siamo rifiutati perché saremmo sicuramente finiti in fondo al mare. A quel
punto gli scafisti, quelli che ci avevano caricato
nel porto di Damietta in Egitto, ci hanno speronato fracassando la prua e siamo finiti tutti in mare.
Noi ci siamo salvati, ma gli altri, centinaia di persone, sono tutte annegate” (5).
Non è certo vicenda nuova: che questi siano i protocolli criminali lungo cui si instrada l’esperienza
dei flussi migratori, lungo le rotte che dal nord
Africa conducono alle coste meridionali della Sicilia, risulta da osservazioni stratificate (6) di cui occorre avere lucida consapevolezza e su cui l’UE ha,
da ultimo, avviato una riflessione critica - che pur
attende, per larghi aspetti, séguiti opportuni - sul
piano delle strategie da adottare.
I protocolli operativi del traffico di esseri umani via
mare tra le coste nordafricane e il sud Europa, nei
periodi dell’anno in cui le condizioni del mare non
consentono la pianificazione di viaggi a bordo di
un’unica imbarcazione, annoverano, dunque, l’impiego di vere e proprie piccole flotte: un insieme di
battelli o navigli satellite, destinati alle manovre di
imbarco sulla costa di partenza e di sbarco presso la
costa di arrivo, e un perno operativo centrale, costituito da una nave madre che incrocia in alto mare e, dunque, in acque internazionali, in mare “di nessuno” - e, grazie ai navigli di supporto, non entra in
acque territoriali. La nave madre è di solito unità di
medio cabotaggio, gestita da personale specializzato,
dotata di apparecchiature sofisticate a bordo, che
spesso non batte bandiera o, nei casi in cui la
esponga, batte una bandiera di comodo, comunque
diversa da quella dello Stato rivierasco.
(4) P. Calamandrei, Il processo come giuoco [1950], ora in
Id., Opere giuridiche, I, Napoli, 1965, 562.
(5) F. Viviano, “Gli scafisti hanno affondato il barcone poi sono rimasti a guardarci affogare”, in Repubblica, 16 settembre
2014, 18.
(6) Sulla stratificazione delle osservazioni operative, emerse
in sede investigativa, cfr., di recente, l’indagine conoscitiva del
Senato della Repubblica svolta nella primavera del 2014 e, in
specie, quanto emerso dall’audizione, avanti alle Commissioni
riunite III (Affari esteri, emigrazione) e IV (Difesa), del Dott. Giovanni Pinto, Direttore centrale dell’immigrazione e della polizia
delle frontiere presso il Ministero dell’Interno (Atti parlamentari,
XVII Leg., Senato della Repubblica, Commissioni III e IV riunite,
seduta del 29 aprile 2014, resoconto sommario n. 5, 1 ss.).
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Il ruolo della nave madre nella
modulistica criminale del traffico di
migranti via mare
Diritto penale e processo 1/2016
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Editoriale
Processo penale
Le organizzazioni criminali transnazionali che gestiscono i flussi migratori dal nord Africa, tesaurizzando la stratificazione dell’esperienza del traffico
di esseri umani via mare, si sono attrezzate al fine
di avvalersi, strumentalizzandola, dell’assistenza
umanitaria offerta dalle istituzioni pubbliche (e,
anzitutto, dapprima dalle strutture operative dell’operazione “Mare Nostrum”, di seguito, dopo il novembre 2014, degli apparati connessi a Triton) e
delle organizzazioni non governative operanti nelle
aree di sbarco. Le organizzazioni criminali hanno,
in tal senso, adeguato il loro know-how operativo
allo scopo di realizzare economie di scala, “risparmiando” sui costi organizzativi e finanziari del viaggio: se i migranti, giunti in prossimità dell’arrivo,
vengono abbandonati in mare, copriranno l’ultimo
tratto per raggiungere l’obiettivo territoriale attraverso strutture pubbliche e private (le imbarcazioni
della Guardia Costiera, della Guardia di Finanza o
delle Forze dell’ordine, ovvero i pescherecci d’altura o le unità da diporto), che li soccorreranno accompagnandoli a riva. La successione dei dati investigativi acquisiti lungo l’arco cronologico che
va dalla primavera del 2013 all’avvio dell’operazione “Mare Nostrum”, a seguito del disastro di Lampedusa dell’ottobre 2013, ha evidenziato come il
costo dei “biglietti” di imbarco abbia subìto una
flessione dopo l’avvio dell’operazione umanitaria:
le organizzazioni criminali che gestiscono i flussi
migratori irregolari hanno, per dir così, esternalizzato gli oneri connessi all’ultimo segmento della
tratta, il più rischioso; l’operazione “Mare Nostrum” ne ha offerto il più paradossale degli strumenti, coagulando una sorta di odiosa eterogenesi
dei fini.
La leva su cui hanno agito le organizzazioni criminali dedite alla tratta è stata offerta, come è noto,
dall’uso strumentale delle procedure di soccorso in
mare. La meccanica adoperata materializza un tipico caso di abuso del diritto, che investe il protocollo marittimo SAR (Search and Rescue): dalla nave
madre o da uno dei natanti satellite viene lanciata
una richiesta di soccorso raccolta dalle autorità nazionali; ciò conduce all’intervento degli apparati di
salvataggio nell’interesse dei naufraghi e, per questa via, alla paradossale “staffetta”, che copre l’ultimo segmento della tratta, dall’organizzazione criminale ai dispositivi umanitari di assistenza. Nello
stratificarsi operativo della vicenda, la nave madre
continuerà a incrociare in mare aperto, curando di
non entrare nelle acque territoriali dello Stato rivierasco.
Diritto penale e processo 1/2016
Protocolli operativi e pianificazione delle
azioni di contrasto all’human smuggling:
il modulo della presenza costruttiva
Il fulcro strategico dei protocolli operativi adottati
dal traffico di migranti via mare, in tutti i casi in
cui il traffico venga gestito in flotta, coinvolge,
dunque, i raccordi funzionali tra nave madre e unità di appoggio. Smarrire l’immagine unitaria del
blocco criminale organizzato che pone in network la
nave madre e i navigli satellite comporta l’incapacità di leggere il fenomeno sotto il profilo della sua
reale pericolosità criminale, coagulando il rischio
di rendere sterili gli apparati statuali di tipo repressivo. Al contrario, sotto il profilo della tecnica di
contrasto alle organizzazioni internazionali dedite
al traffico clandestino di migranti e all’human
smuggling, è imprescindibile valorizzare l’unità del
blocco dinamico-funzionale che pone in rete la nave madre e i navigli di supporto, trattandoli come
coagenti di un circuito non può non considerarsi
unitario; occorrerà, del resto, sul piano tanto dei
moduli operativi che delle sintassi giuridiche, saper
contrapporre a quel circuito unitario il blocco unitario delle forze di polizia dello Stato che interviene nelle proprie acque territoriali.
Si giunge, così, al nucleo del problema. Guardando
al fulcro operativo del network criminale, al suo
elemento più prezioso, la nave madre, il quesito,
nella sua formulazione di base, ha consistenza ben
nota: è possibile, occorre chiedersi, compiere operazioni coattive di polizia - che si articolano nell’esercizio del diritto di visita, del potere di sequestro
della nave, dell’accompagnamento coattivo della
stessa nelle acque territoriali contigue, del potere
di dar luogo ad arresti in flagranza a bordo - su nave che incroci in alto mare e che non batta bandiera dello Stato che tali operazioni intenda compiere?
La risposta tradizionale, ove si ragionasse segmentando artificialmente l’hardware di cui si avvale
l’organizzazione criminale, è notoriamente negativa: non è possibile, secondo il pensiero tradizionale, esercitare poteri coercitivi su un’unità navale
che incroci in acque internazionali, poiché si tratterebbe di poteri esercitati al di fuori del territorio
dello Stato, dunque in una porzione fisica di spazio
contraddistinta da carenza assoluta di giurisdizione
statuale. Ove così fosse, all’esercizio di poteri coercitivi in alto mare conseguirebbe l’inutilizzabilità
radicale dei risultati conseguiti, cui dovrebbero addizionarsi profili di responsabilità, quanto meno disciplinare, in capo agli organi che dovessero aver
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Editoriale
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Processo penale
esercitato poteri coattivi essendone giuridicamente
privi.
V’è, tuttavia, da chiedersi se un simile approccio
risulti effettivamente corretto, curando di far leva
su un dato: così argomentando, risulterebbe irrilevante che la nave madre, pur se incroci in alto mare, sia il fulcro operativo di un asset criminale che
opera, attraverso le unità navali di appoggio, nel
territorio dello Stato. Torna, insomma, il fulcro
poc’anzi rimarcato, che sarebbe artificioso ritenere
privo di rilievo: tale fulcro si radica nell’unitarietà
operativa del network costituito dalla nave madre e
dai navigli di appoggio, che dà vita a una flotta
avente articolazioni interne specializzate ma funzionalità criminale unitaria. Valorizzare tale unitarietà operativa appare, dunque, non solo decisivo
in chiave di strategie di contrasto all’human smuggling, ma, prima ancora, imprescindibile sotto il
profilo della sintassi giuridica applicabile a un sistema complesso che, in chiave metodologica, sarebbe
errato atomizzare.
La risposta, in chiave di approccio, giunge dal diritto internazionale, che ormai da tempo ben conosce lo strumento adoperabile: si allude qui al meccanismo della c.d. presenza costruttiva, che costituisce, come è noto, un’estensione del diritto di inseguimento.
La materia è notoriamente regolata dall’art. 111
della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto
del mare, nota come Convenzione di Montego
Bay, aperta alla firma il 10 dicembre 1982 ed entrata internazionalmente in vigore il 16 novembre
1994, un anno dopo la firma della Guyana come
60° Stato aderente; l’Italia ha ratificato la Convenzione con L. 2 dicembre 1994, n. 689.
La presenza costruttiva costituisce, come si è soliti
affermare, un logico ampliamento del diritto di inseguimento. Si ha, come è noto, inseguimento allorché, in acque territoriali, vi sia il sospetto fondato dello svolgimento di una frazione di condotta
criminale con l’impiego di un’imbarcazione: le forze di polizia hanno il potere di visitare l’imbarcazione, impartendole l’alt; ove l’imbarcazione non
esegua l’ordine, le forze di polizia hanno il potere
di inseguirla anche in alto mare, purché l’inseguimento sia iniziato in acque territoriali.
Si ha, invece, presenza costruttiva allorché il collegamento tra nave straniera e Stato costiero sia stabilito - ha affermato la giurisprudenza italiana - da
elementi diversi da quello spaziale (7), e segnatamente - come stabilisce l’art. 111 § 4 della Convenzione di Montego Bay - da “one of its boats or
other craft working as a team and using the ship
pursued as a mather ship”. Il collegamento tra nave
madre in acque internazionali e territorio dello
Stato rivierasco si sostanzia dunque - ha ancora affermato la giurisprudenza italiana - in “una delle
imbarcazioni che con [la nave madre] lavori in
equipe, cioè in unità di intenti e di finalità perseguite” (8).
Funzionalmente - si è ancora statuito in giurisprudenza - può darsi luogo all’inseguimento e alla cattura della nave madre, che stazioni in acque internazionali, dopo che “una delle imbarcazioni, che
con essa operi in equipe (c.d. motoscafo bleu), entri
nelle acque territoriali”: a tale scopo - si è proseguito - “è sufficiente che la nave da guerra inseguitrice avverta altra nave stazionante al largo dell’ingresso del natante-figlio nelle acque territoriali, così legittimando il fermo del battello maggiore” (9).
La presenza costruttiva si riferisce, dunque, all’appostamento di un’imbarcazione delle forze nazionali di polizia al limite delle acque territoriali, pronta
a intervenire. La sequenza è così ricostruibile: dalla
nave madre, che rimane strumentalmente in acque
internazionali, o da uno dei navigli della flotta viene lanciato il segnale del protocollo marittimo
SAR (Search and Rescue); negli intenti dell’organizzazione criminale, ciò dovrebbe ‘esternalizzare’
l’ultima parte dell’attività criminale, traslandola
sugli organi dello Stato. È, invece, proprio il segnale SAR a radicare la giurisdizione dello Stato rivierasco: giunto da una qualsiasi unità natante della
flotta criminale, il segnale raccolto ha l’effetto di
abilitare pienamente la giurisdizione dello Stato
delle acque territoriali, e ciò si estenderà all’intera
flotta criminale e all’intero apparato repressivo dei
mezzi schierati nelle acque e nei cieli; a tal punto,
l’unità navale di appoggio che svolge attività di
presenza costruttiva può attivarsi in pienezza di poteri, esercitando il diritto di inseguimento verso la
nave madre pur se questa incroci in acque internazionali e non sia mai entrata nelle acque territoria-
(7) Così Cass., Sez. III, 3 marzo 1999, Falzon, CED, m.
213171.
(8) Così Cass., Sez. III, 7 marzo 1983, Costanacis, CED, m.
158981.
(9) Cass. , Sez. III, 3 marzo 1992, Vamvakas, CED,
m. 190921. Circa il concetto di “nave da guerra”, converrà se-
gnalare che l’art. 111 § 5 della Convenzione di Montego Bay
precisa, estendendone l’ambito, debba più in generale trattarsi
di “warship or military aircraft, or other ships or aircraft cleary
marked and identifiable as being on government service and
authorized to that effect”.
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Processo penale
li, poiché vi sarà entrata quella sua propaggine costituita dall’unità navale di appoggio.
Sotto il profilo strategico, va da sé come l’imprescindibile precondizione necessaria a garantire piena funzionalità al modello operativo sia la predisposizione di un apparato sistemico idoneo a garantire una sorveglianza capillare e continuativa dell’intero bacino teatro del traffico: l’esistenza del
network di unità fluttuanti che operi “as a team” va
puntualmente provato in sede giudiziaria, ed è dalla prova dell’esistenza della rete che dipende, ad
ogni evidenza, l’adottabilità del modello della presenza costruttiva. La sorveglianza dell’intero bacino
va assicurata attraverso unità navali sia dispiegate
lungo la costa sia che incrocino sulla linea di confine delle acque territoriali, e va supportata attraverso l’attività di idonei mezzi aerei da pattugliamento, anche delle classi UAV (velivoli senza pilota o a pilotaggio remoto), che sorveglino, documentandone le sequenze, l’evolversi delle situazioni.
L’avvistamento della nave madre che incrocia in
acque internazionali è, dunque, spesso il primo
anello di una catena, il cui avvio non può che essere un’attività di osservazione a distanza e di coordinamento di tutto il network investigativo-repressivo delle forze aeronavali territoriali, anche sotto
l’egida dell’Unione europea; e si afferma, di solito,
che al momento dell’avvistamento non sia strategicamente opportuno intervenire, salvo che non si
registrino situazioni di pericolo a carico dei migranti. L’intervento operativo può essere avviato
nel momento in cui si dà luogo a operazioni di trasbordo di migranti dalla nave madre a navigli di
appoggio, e uno dei navigli entra nelle acque territoriali: a questo punto si rende operativo l’esercizio
di poteri coercitivi, reali e personali, sull’unità navale entrata in acque territoriali; l’ingresso anche
di una sola unità in acque territoriali ‘si comunica’
giuridicamente, del resto, a tutta la flotta, sicché le
navi in presenza costruttiva possono muovere per
esercitare analoghi poteri sulle altre imbarcazioni
anche in acque internazionali, siano essere altri navigli o la nave-madre.
Si ribalta, così, l’uso sconcertante che dell’intervento delle forze di polizia hanno inteso propiziare
le organizzazioni criminali: per una sorta di vincente “legge del contrappasso” è proprio l’anello attraverso cui si vorrebbero strumentalizzare le forze di
polizia che attiva, al contrario, l’apparato repressivo, e lo attiva “a rete”, coinvolgendo anche mezzi
che le organizzazioni criminali ritenevano di porre
“al sicuro”, sottraendole fraudolentemente agli apparati repressivi dello Stato.
Si tratta di un contributo importante sul piano
operativo: porlo in luce è costato, in sede investigativa, non poca energia e ha richiesto abilità raffinate; il documento della Direzione nazionale antimafia noto come “Linee guida alto mare” (10) coagula, in tal senso, un importante punto di non ritorno, all’insegna di un connubio che incrocia insieme mitezza ed efficienza del diritto, assecondando la lunghezza d’onda di un diritto mite, che protegga la vulnerabilità e sia, insieme, attrezzato a reprimere gli abusi.
Sovviene una campagna di sensibilizzazione di
Amnesty International del 2009, che faceva leva
su un’immagine di grande forza evocativa congelata nella luce piatta di un mattino senza sole (la
prua di una barca, la linea dell’orizzonte, un essere
velato - uomo o donna - ripreso di spalle, che guarda avanti, lasciando dietro di sé il proprio fardello
di nuda vita spezzata) e proponeva un claim di vibrante impatto (“La libertà a volte costa una vita”).
E sovviene una pagina di Retablo di Vincenzo Consolo, vergata nel 1992, che, riletta oggi, accende
scintille di disperata, irrefrenabile bellezza: “Ma antichi e ricorrenti sono i naufragi, sono d’ogni epoca, d’ogni avventura, sogno, d’ogni frontiera elusa,
noi naufraghi d’una storia infranta, simboli d’un
epilogo, involontarie comparse, attoniti spettatori
di questa metafisica. Di cui non conosciamo i confini, dimentichiamo l’inizio, ignoriamo la fine, ma
riferiamo incauti il vario apparire nelle luci e nei
tempi irriferibili” (11).
(10) Direzione Nazionale Antimafia, Associazioni per delinquere dedite al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Navigli usati per il trasporto di migranti con attraversamento di
acque internazionali. Proposte operative per la soluzione dei pro-
blemi di giurisdizione penale nazionale e possibilità di intervento (est. F. Spiezia), 9 gennaio 2014, in Dir. pen. contemp., 3
febbraio 2014.
(11) V. Consolo, Retablo [1992], Milano, 2000, 83.
Diritto penale e processo 1/2016
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Novità in sintesi
Novità normative
Vittime di reato
Decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212
«Attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce
norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro
2001/220/GAI» - G.U. 5 gennaio 2016, n. 3
Il D.Lgs. in esame introduce una serie di modifiche al c.p.p. - in vigore dal 20 gennaio 2016 - per adeguare l’ordinamento interno, come recita la rubrica, alla Dir. 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
In primo luogo viene novellato l’art. 90 c.p.p., che disciplina i diritti e le facoltà della persona offesa, sotto un duplice profilo: in caso di dubbio sull’età, il giudice può disporne anche d’ufficio l’apposito accertamento, e, ove il
dubbio permanga, la minore età della persona offesa viene presunta (comma 2 bis); la nozione di prossimi congiunti della persona offesa viene estesa a chi alla medesima è legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente.
Nuovo l’art. 90 bis c.p.p., che contempla il catalogo delle informazioni che, sin dal primo contatto con l’autorità
procedente, la persona offesa ha diritto di ricevere in una lingua a lei comprensibile, al fine di esercitare i diritti
e le facoltà che la legge espressamente le riconosce (presentazione di querela, facoltà di avvalersi del gratuito patrocinio, facoltà di rimettere la querela, ecc.). Un particolare obbligo di informazione è previsto dal nuovo art.
90-ter c.p.p., che, nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona, impone di avvisare la persona
offesa, che ne abbia fatto richiesta, dei provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza
detentiva, ovvero della notizia dell’evasione dell’imputato in stato di custodia cautelare o del condannato.
Il nuovo art. 90 quater c.p.p. fornisce i criteri per definire la “condizione di particolare vulnerabilità” agli effetti
delle disposizioni del c.p.p.: “la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa è desunta, oltre che
dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto
per cui si procede. Per la valutazione della condizione si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla
persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato”. Alla vittima in condizione
di particolare vulnerabilità sono riconosciute peculiari garanzie in tema di: riproduzione audiovisiva delle dichiarazioni, anche al di fuori delle ipotesi di assoluta indispensabilità (art. 134, comma 4, c.p.p.); nuovo esame di chi
abbia già reso dichiarazioni in contraddittorio (art. 190 bis c.p.p.); assunzione di informazioni da parte della p.g.
(art. 351 c.p.p.) o del p.m. (art. 362 c.p.p.); esame reso nelle forme dell’incidente probatorio (artt. 392 e 398
c.p.p.) ovvero in sede dibattimentale (art. 498 c.p.p.)
Nuovo è anche l’art. 143 bis c.p.p., che prevede il diritto della persona offesa, al pari dell’imputato, di essere assistita da un interprete nel corso dell’intero processo penale e di ottenere la traduzione degli atti essenziali all’esercizio dei propri diritti; l’assistenza dell’interprete può essere assicurata anche ‘a distanza’ attraverso strumenti
tecnologici di comunicazione, sempreché la presenza fisica dell’interprete non sia resa necessaria per consentire
alla persona offesa di esercitare correttamente i suoi diritti o di comprendere compiutamente lo svolgimento del
procedimento. Ai sensi dell’art. 107 ter disp. att. c.p.p., l’assistenza dell’interprete è ora garantita alla persona
offesa anche per la proposizione o presentazione di denuncia o querela.
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Reati tributari
Decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158
Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11
marzo 2014, n. 23 - G.U. n. 233, 7 ottobre 2015, Supplemento Ordinario
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;
Vista la legge 11 marzo 2014, n. 23, con la quale è stata
conferita delega al Governo recante disposizioni per un
sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita e, in particolare, l’articolo 8, comma 1, che delega
il Governo a procedere alla revisione del sistema sanzionatorio penale tributario secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei
comportamenti e alla revisione del sistema sanzionatorio amministrativo;
Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del 26 giugno 2015;
Visti i pareri delle Commissioni riunite II Giustizia e VI
Finanze della Camera dei deputati del 5 agosto 2015,
delle Commissioni riunite 2a Giustizia e 6a Finanze e tesoro del Senato della Repubblica del 5 agosto 2015 e
della V Commissione bilancio tesoro e programmazione
della Camera dei deputati del 5 agosto 2015;
Visto l’articolo 1, comma 7, della citata legge n. 23 del
2014, secondo cui qualora il Governo non intenda conformarsi ai pareri parlamentari trasmette nuovamente i
testi alle Camere;
Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del 4 settembre 2015;
Acquisiti i pareri definitivi delle competenti Commissioni parlamentari ai sensi dell’articolo 1, comma 7, della citata legge n. 23 del 2014;
Vista la deliberazione del Consiglio dei ministri adottata nella riunione del 22 settembre 2015;
Su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze;
Emana
il seguente decreto legislativo:
Titolo I - Revisione del sistema sanzionatorio penale
tributario
Art. 1.
Modifica dell’articolo 1 del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74
1. All’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 10
marzo 2000, n. 74, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) alla lettera b), dopo le parole: “valore aggiunto”, sono aggiunte le seguenti: “e le componenti che incidono
sulla determinazione dell’imposta dovuta”;
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b) alla lettera c), dopo le parole: “enti o persone fisiche” sono aggiunte le seguenti: “o di sostituto d’imposta, nei casi previsti dalla legge”;
c) alla lettera f), dopo le parole: “scadenza nel relativo
termine;” sono aggiunte le seguenti: “non si considera
imposta evasa quella teorica e non effettivamente dovuta collegata a una rettifica in diminuzione di perdite
dell’esercizio o di perdite pregresse spettanti e utilizzabili;”;
d) dopo la lettera g) sono aggiunte le seguenti: “g-bis)
per “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” si intendono le operazioni apparenti, diverse da
quelle disciplinate dall’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non
realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti; g-ter) per “mezzi
fraudolenti” si intendono condotte artificiose attive
nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno
specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa
rappresentazione della realtà.”.
Art. 2.
Modifica dell’articolo 2 del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, in materia di dichiarazione fraudolenta
mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti
1. All’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 10
marzo 2000, n. 74, la parola: “annuali” è soppressa.
Art. 3.
Modifica dell’articolo 3 del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, in materia di dichiarazione fraudolenta
mediante altri artifici
1. L’articolo 3 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n.
74, è sostituito dal seguente:
“Art. 3 (Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici). - 1. Fuori dai casi previsti dall’articolo 2, è punito
con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni
chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul
valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare
inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o
crediti e ritenute fittizi, quando, congiuntamente:
a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna
delle singole imposte, a euro trentamila;
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b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di
elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento
dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, è superiore a euro
un milione cinquecentomila, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in
diminuzione dell’imposta, è superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque
a euro trentamila.
2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di documenti falsi quando tali documenti sono registrati nelle
scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fini di
prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
3. Ai fini dell’applicazione della disposizione del comma
1, non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli
elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi
inferiori a quelli reali.”.
Art. 4.
Modifica dell’articolo 4 del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, in materia di dichiarazione infedele
1. All’articolo 4 del decreto legislativo 10 marzo 2000,
n. 74, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 1, lettera a), la parola: “cinquantamila” è
sostituita dalla seguente: “centocinquantamila”;
b) al comma 1, lettera b), le parole: “euro due milioni”,
sono sostituite dalle seguenti: “euro tre milioni”;
c) dopo il comma 1, sono aggiunti i seguenti: “1-bis. Ai
fini dell’applicazione della disposizione del comma 1,
non si tiene conto della non corretta classificazione,
della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente
applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali,
della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali. 1-ter. Fuori dei casi di
cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le
valutazioni che singolarmente considerate, differiscono
in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette.
Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene
conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b).”;
d) la parola: “fittizi”, ovunque presente, è sostituita dalla seguente: “inesistenti”.
Art. 5.
Modifica dell’articolo 5 del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, in materia di omessa dichiarazione
1. All’articolo 5 del decreto legislativo 10 marzo 2000,
n. 74, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) il comma 1 è sostituito dai seguenti: “1. È punito con
la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore
aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle
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dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta
evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole
imposte ad euro cinquantamila. 1-bis. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni chiunque
non presenta, essendovi obbligato, la dichiarazione di sostituto d’imposta, quando l’ammontare delle ritenute non
versate è superiore ad euro cinquantamila.”;
b) al comma 2, le parole: “dal comma 1” sono sostituite
dalle seguenti: “dai commi 1 e 1-bis”.
Art. 6.
Modifica dell’articolo 10 del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, in materia di occultamento o di distruzione di
documenti contabili
1. All’articolo 10 del decreto legislativo 10 marzo 2000,
n. 74, al comma 1, le parole: “da sei mesi a cinque anni” sono sostituite dalle seguenti: “da un anno e sei mesi
a sei anni.”.
Art. 7.
Modifica dell’articolo 10-bis del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, in materia di omesso versamento di ritenute
certificate
1. All’articolo 10-bis del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) nella rubrica, dopo la parola: “ritenute” sono inserite
le seguenti: “dovute o”;
b) nel comma 1, dopo la parola: “ritenute” sono inserite
le seguenti: “dovute sulla base della stessa dichiarazione
o” e la parola: “cinquantamila” è sostituita dalla seguente: “centocinquantamila”.
Art. 8.
Modifica dell’articolo 10-ter del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, in materia di omesso versamento dell’imposta
sul valore aggiunto
1. L’articolo 10-ter del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, è sostituito dal seguente:
“Art. 10-ter (Omesso versamento di IVA). - 1. È punito
con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non
versa, entro il termine per il versamento dell’acconto
relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul
valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta.”.
Art. 9.
Modifica dell’articolo 10-quater del decreto legislativo 10
marzo 2000, n. 74, in materia di indebita compensazione
1. L’articolo 10-quater del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, è sostituito dal seguente:
“Art. 10-quater (Indebita compensazione). - 1. È punito
con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non
versa le somme dovute, utilizzando in compensazione,
ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio
1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro.
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2. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei
anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in
compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un
importo annuo superiore ai cinquantamila euro.”.
Art. 10.
Confisca
1. Dopo l’articolo 12 del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, è inserito il seguente:
“Art. 12-bis (Confisca). - 1. Nel caso di condanna o di
applicazione della pena su richiesta delle parti a norma
dell’articolo 444 del codice di procedura penale per uno
dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto
o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea
al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca
di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore
corrispondente a tale prezzo o profitto.
2. La confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di
sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è
sempre disposta.”.
Art. 11.
Modifica dell’articolo 13 del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, in materia di cause di estinzione e circostanze
del reato. Pagamento del debito tributario
1. L’articolo 13 del decreto legislativo 10 marzo 2000,
n. 74, è sostituito dal seguente:
“Art. 13 (Causa di non punibilità. Pagamento del debito tributario). - 1. I reati di cui agli articoli 10-bis, 10ter e 10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima
della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale
pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle
speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso.
2. I reati di cui agli articoli 4 e 5 non sono punibili se i
debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati
estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di
presentazione della dichiarazione relativa al periodo
d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la
presentazione siano intervenuti prima che l’autore del
reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.
3. Qualora, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario sia in fase di estinzione mediante rateizzazione, anche ai fini
dell’applicabilità dell’articolo 13-bis, è dato un termine
di tre mesi per il pagamento del debito residuo. In tal
caso la prescrizione è sospesa. Il Giudice ha facoltà di
prorogare tale termine una sola volta per non oltre tre
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mesi, qualora lo ritenga necessario, ferma restando la
sospensione della prescrizione.”.
Art. 12.
Circostanze del reato
1. Dopo l’articolo 13 del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, è inserito il seguente:
“Art. 13-bis (Circostanze del reato). - 1. Fuori dai casi
di non punibilità, le pene per i delitti di cui al presente
decreto sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’articolo 12 se, prima
della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale
pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle
speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie.
2. Per i delitti di cui al presente decreto l’applicazione
della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale può essere chiesta dalle parti solo quando
ricorra la circostanza di cui al comma 1, nonché il ravvedimento operoso, fatte salve le ipotesi di cui all’articolo 13, commi 1 e 2.
3. Le pene stabilite per i delitti di cui al titolo II sono
aumentate della metà se il reato è commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale
svolta da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale.”.
Art. 13.
Custodia giudiziale dei beni sequestrati nell’ambito di
procedimenti penali relativi a delitti tributari
1. Dopo l’articolo 18 del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, è inserito il seguente:
“Art. 18-bis (Custodia giudiziale dei beni sequestrati). 1. I beni sequestrati nell’ambito dei procedimenti penali
relativi ai delitti previsti dal presente decreto e a ogni
altro delitto tributario, diversi dal denaro e dalle disponibilità finanziarie, possono essere affidati dall’autorità
giudiziaria in custodia giudiziale, agli organi dell’amministrazione finanziaria che ne facciano richiesta per le
proprie esigenze operative.
2. Restano ferme le disposizioni dell’articolo 61, comma
23, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133,
e dell’articolo 2 del decreto-legge 16 settembre 2008, n.
143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181.”.
Art. 14.
Abrogazioni
1. Sono abrogati:
a) gli articoli 7 e 16 del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74;
b) il comma 143 dell’articolo 1 della legge 24 dicembre
2007, n. 244.
(omissis).
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La riforma dei reati tributari
di Andrea Perini (*)
Il 22 ottobre 2015 è entrato in vigore il D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 che, esercitando la delega conferita con l’art. 8, comma 1, L. 11 marzo 2014, n. 23, provvede a modificare significativamente la materia penale tributaria contenuta nel D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Le novità apportate dalla riforma appaiono di notevole portata, ridisegnando diverse fattispecie incriminatrici
ed introducendo nuove cause sopravvenute di esclusione della punibilità. Vengono altresì innalzate sensibilmente talune delle soglie di punibilità previste dalle fattispecie penali di più frequente realizzazione, mentre la confisca viene introdotta nel corpus dello stesso decreto n. 74/2000.
Lineamenti generali della riforma
Il 22 ottobre 2015 è entrato in vigore il D.Lgs. 24
settembre 2015, n. 158, che, in attuazione dell’art.
8 della L. 11 marzo 2014, n. 23, ha modificato profondamente il D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, riformando il sistema penale tributario. Ed invero, nonostante la Relazione governativa parli di “revisione” e non di “riforma” del tessuto normativo, la
portata dell’intervento è così incisiva da indurre a
ritenere che il legislatore abbia inteso, in realtà, rimeditare alcune scelte di fondo compiute nel 2000
e poi ribadite (o rafforzate) nel 2011 (1): in questo
nuovo solco, ad esempio, si colloca l’efficacia estintiva della punibilità riconosciuta al pagamento del
debito tributario (cfr. art. 13). Ma anche il significativo innalzamento della soglia di punibilità prevista dall’art. 10 ter (oggi pari ad € 250.000), la forte compressione dell’area applicativa dell’art. 4, la
riscrittura della “frode fiscale” di cui all’art. 3 riavvicinandola, per diversi aspetti, alla fattispecie in
vigore prima del 2000, nonché il ritorno alla criminalizzazione dell’omessa presentazione della dichiarazione del sostituto d’imposta (cfr. il nuovo comma 1 bis dell’art. 5), sono altrettanti segnali inequivoci di una progressiva presa di distanze da quella
riforma voluta ad inizio secolo e della quale - a ben
vedere - rimane oggi in vita poco più di qualche
scampolo.
Nel complesso, la riforma dà luogo, senza dubbio,
ad un non marginale arretramento della tutela penale: l’innalzamento delle soglie di punibilità ed il
depotenziamento della fattispecie di dichiarazione
infedele, unitamente alle già citate cause di esclu(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Ci si riferisce al D.L. 13 agosto 2011, n. 138, conv. con
modif. dalla L. 14 settembre 2011, n. 148.
(2) Per avere un riferimento quantitativo dotato comunque
di una qualche rappresentatività, si consideri che alla Procura
della Repubblica presso il Tribunale di Milano risultano “perve-
14
sione della punibilità, paiono destinati ad avere
un’incidenza assai più marcata, nella prassi, rispetto
ai nuovi profili di criminalizzazione che pur presenta la riforma (2). E ciò senza dimenticare l’espressa
“depenalizzazione” dei fatti riconducibili a quell’abuso del diritto che è stato finalmente normato
con l’art. 1, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, e del
quale, tuttavia, non ci occuperemo - se non con
qualche cenno - in questa sede.
La sensazione che ne trae l’interprete è quella di
essere al cospetto di un legislatore che sembra procedere a tentoni, senza avere ben chiari gli obiettivi di politica criminale che intende perseguire.
Emblematico, di questo incedere ondivago, è proprio l’esempio offerto dall’efficacia riconosciuta all’estinzione del debito tributario, passato da circostanza attenuante ad effetto speciale (nel 2000) a
circostanza ad effetto comune (nel 2011), per ritornare oggi ad effetto speciale o, come si osservava,
addirittura assurgere a causa sopravvenuta di esclusione della punibilità per alcune fattispecie, sempre
che siano rispettati taluni requisiti di tempestività
e - talora - di spontaneità (cfr. art. 13, comma 1 e
comma 2).
Le norme definitorie
Per affrontare l’analisi di un tale novum è utile seguire, almeno in linea di massima, la sistematica
proposta dal legislatore e, pertanto, giova prendere
le mosse dalle norme definitorie sulle quali ha inciso l’art. 1 del D.Lgs. n. 158/2015. Ed infatti, la parziale riformulazione di talune delle fattispecie previste dal D.Lgs. n. 74/2000 è avvenuta anche attranuti” 3.173 procedimenti per reati fiscali nei primi dieci mesi
del 2015. Ebbene, a fronte di un tale numero di procedimenti,
ben 2.517 (ossia circa l’80%) risultano relativi a reati suscettibili di vedere la punibilità esclusa dalla nuova disciplina introdotta all’art. 13, D.Lgs. n. 74/2000. Cfr. Procura della Repubblica
presso il Tribunale di Milano, Bilancio di responsabilità sociale
2014/2015, 54.
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verso la modifica delle nozioni contenute nell’art.
1 di tale Decreto.
La prima definizione ad essere integrata dal legislatore della riforma è quella prevista dalla lett. b)
dell’art. 1, ove si precisa che “per ‘elementi attivi o
passivi’ si intendono le componenti, espresse in cifra, che concorrono, in senso positivo o negativo,
alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, e le componenti che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta”. Ebbene, l’ultima parte di tale previsione, a partire dalla virgola, è stata aggiunta dall’art.
1, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 158/2015 ed è figlia,
soprattutto (ma non esclusivamente, come si vedrà), della volontà di ricomprendere nella sfera applicativa della novella fattispecie di dichiarazione
fraudolenta mediante altri artifici (art. 3) anche
eventuali manipolazioni di grandezze, quali le ritenute subite ed i crediti d’imposta, che incidono sulla
determinazione delle imposte da versare, ma non
sulla quantificazione della base imponibile.
Invero, la (opinabile) scelta del legislatore del
2000 fu quella di tutelare (soprattutto con le fattispecie di cui agli artt. 2, 3 e 4) la veridicità della
dichiarazione della base imponibile per poi trascurare qualsiasi forma di repressione di eventuali manipolazioni intervenute nel calcolo dell’imposta da
versare. Ed infatti, una volta determinata la base
imponibile in seno alla dichiarazione fiscale, il
contribuente deve ancora provvedere a calcolare
su di essa l’imposta dovuta applicando le aliquote
previste dalla normativa tributaria. Al risultato così ottenuto vengono detratti gli eventuali crediti
d’imposta e le ritenute già subite per procedere, in
ultimo, al calcolo dell’imposta da versare.
Ebbene, tutto il conteggio in questione e, in particolare, l’imputazione dei crediti d’imposta e delle
ritenute subite, fuoriusciva dall’ambito di applicazione delle norme penali tributarie, cosicché il
contribuente avrebbe potuto indicare (e magari anche documentare) falsamente di aver subito determinate ritenute o di essere titolare di crediti d’imposta onde abbattere l’entità del quantum da versare. In un simile scenario, quindi, il contribuente
avrebbe indicato una base imponibile veritiera,
scongiurando così l’integrazione della fattispecie,
ma avrebbe evitato di versare (in tutto o in parte)
le imposte dovute semplicemente manipolando i
due sottraendi in questione.
Al riguardo, la migliore dottrina aveva avuto modo
di osservare come il delitto di dichiarazione infedele non consentisse di colpire manipolazioni aventi
ad oggetto “quelle componenti negative che gravano, deprimendolo, non già sull’imponibile, ma sull’imposta dovuta”, come - ad esempio - i crediti
d’imposta (3).
Per ovviare a tale vuoto di tutela, il legislatore ha
ritenuto, quindi, di intervenire sia sulla norma definitoria in esame che, in seno all’art. 3, attribuendo rilevanza - come si vedrà - anche all’indicazione
di “crediti e ritenute fittizi”.
La lett. c) dell’art. 1 è poi stata modificata includendo anche le dichiarazioni presentate in qualità
di sostituto d’imposta, mentre di particolare rilievo
è pure l’integrazione apportata alla lett. f) del medesimo articolo 1, laddove è fornita la nozione di
imposta evasa. A chiusura di tale previsione, la recente riforma ha aggiunto un inciso destinato a
specificare che “non si considera imposta evasa
quella teorica e non effettivamente dovuta collegata a una rettifica in diminuzione di perdite dell’esercizio o di perdite pregresse spettanti e utilizzabili”. Ciò dovrebbe porre termine alla risalente querelle concernente la discussa rilevanza penale delle
dichiarazioni (infedeli o fraudolente) la cui falsità
abbia come conseguenza non già quella di comportare una minore tassazione, ma si risolva nell’emersione di una perdita fiscale maggiore di quella che
vi sarebbe comunque stata (4). Si pensi al contribuente che, in luogo di dichiarare una perdita di
100, grazie ad una dichiarazione fraudolenta dichiari una perdita di 500.
Orbene, ai sensi della novella, l’imposta “teorica”
relativa alla maggiore perdita emergente (pari a
400 nell’esempio precedente) non rileva in sede
penale: dunque, il fatto risulta atipico qualora il
“vero” risultato del periodo d’imposta sia in ogni
caso negativo.
Piuttosto, in siffatte situazioni, la rilevanza penale
di simili fenomeni di artificiosa lievitazione della
perdita fiscale potrebbe affiorare allorquando il
contribuente dovesse utilizzare, ai sensi dell’art. 84
T.U.I.R., la summenzionata maggiore perdita in
periodi d’imposta successivi. In tale eventualità, infatti, il generico riferimento alle “componenti che
incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta”
(3) In questo senso, cfr. V. Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, Milano, 2000, 91.
(4) Nello stesso senso, cfr. G. Lunghini, sub Art. 1, in
AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S.
Putinati, Torino, 2015, 18.
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-che, come si è detto, è stato introdotto dalla riforma in seno all’art. 1, lett. b), per meglio definire
gli “elementi attivi o passivi”- consente di identificare la suddetta fallace maggior perdita, proveniente da esercizi precedenti, come un “elemento passivo fittizio” suscettibile di rilevare penalmente.
Tuttavia, in tal caso, a risultare integrata, a nostro
giudizio, sarà di regola la fattispecie di dichiarazione infedele di cui all’art. 4, sempre che ne ricorrano gli altri elementi costitutivi e, in particolare,
che siano superate le relative soglie di punibilità.
Ciò in quanto l’eventuale condotta fraudolenta di
supporto alla maggior perdita si manifesterebbe in
un periodo d’imposta antecedente rispetto a quello di
presentazione della dichiarazione “attiva”, in concreto
falcidiata dal riporto della perdita fittizia. Con il risultato che, in tale esercizio, il contribuente non si
avvarrebbe di un documento falso o di un mezzo
fraudolento che, in realtà, risalirebbe a precedenti periodi d’imposta: dunque, egli si limiterebbe a presentare una dichiarazione infedele (5).
È poi chiaro che una tale previsione, per la sua
stessa struttura, si attaglia esclusivamente all’imposizione diretta, l’unica rispetto alla quale ha
senso parlare di “perdite dell’esercizio” o di “perdite
pregresse”.
Ancora, la riforma ha aggiunto due norme definitorie alle lett. g bis) e g ter) dell’art. 1, volte a meglio delineare i contorni del nuovo delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici di
cui all’art. 3. Vista, quindi, la specificità di tali previsioni, conviene inserirne la trattazione nella più
ampia cornice di tale delitto, del quale ci occuperemo tra breve.
La modifica della fattispecie di
dichiarazione fraudolenta mediante uso di
fatture per operazioni inesistenti
Prima di affrontare l’esame del nuovo delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, tuttavia, occorre rammentare che anche il delitto di
cui all’art. 2 ha subito un lieve ritocco: la soppressione dell’aggettivo “annuali” che in precedenza
(5) Spunti in tale direzione, ancorché concernenti una questione di imputazione delle rimanenze, si rinvengono in Cass.
Pen., Sez. III, (20 maggio 2014) 19 dicembre 2014, n. 52752,
in D&G, 2014, part. § 6, ove la Corte afferma che assume rilevanza ex art. 4 e non ex artt. 2 e 3, D.Lgs. n. 74/2000, la dichiarazione di “elementi passivi fittizi senza contemporaneo
utilizzo della falsa rappresentazione nelle scritture contabili e
dei mezzi fraudolenti, avvenuto in anni precedenti”.
(6) In argomento, cfr. V. Napoleoni, I fondamenti del nuovo
diritto penale tributario, cit., 41; A. Martini, Reati in materia di fi-
16
qualificava le dichiarazioni fiscali suscettibili di rilevare penalmente. Ed invero, una tale specificazione sembrava escludere, in passato, la rilevanza
penale delle dichiarazioni relative a periodi d’imposta di durata infrannuale, pur conosciuti dal sistema tributario. Restavano così estranee alla sfera
applicativa della fattispecie non solo (comprensibilmente) quelle dichiarazioni destinate a portare a
conoscenza dell’Amministrazione finanziaria dati
meramente identificativi e non quantitativi (si pensi,
ad esempio, alle dichiarazioni di inizio e di cessazione di attività ex art. 35, d.P.R. n. 633/1972), ma
altresì le dichiarazioni ragguagliate a segmenti temporali diversi dall’anno, quali le cosiddette dichiarazioni straordinarie, da presentare a seguito di eventi peculiari quali la liquidazione, il fallimento, la
trasformazione, la fusione, ecc. (6).
Tale previgente delimitazione affondava le proprie radici in un esplicito riferimento alle “dichiarazioni annuali” contenuto nella precedente legge
delega [cfr. art. 9, comma 2, lett. a), n. 1, L. 25
giugno 1999, n. 205] e dal quale il legislatore attuale, in virtù della nuova delega, ha potuto finalmente discostarsi. La disciplina che ne deriva appare, quindi, emendata da quella che, in precedenza, sembrava essere un’aporia del sistema difficilmente giustificabile, atteso che è certamente
ipotizzabile la presentazione di una dichiarazione
non conforme a verità - e foriera di evasione avente ad oggetto la determinazione infrannuale
delle imposte dovute. Piuttosto, vi è da chiedersi
per quale ragione si sia posto rimedio ad una tale
sbavatura del tessuto normativo solo in seno agli
artt. 2, 3 e 5 e non anche, come si vedrà, nell’art.
4, il quale continua a conservare il riferimento alle dichiarazioni “annuali”.
Resta comunque ferma la rilevanza penale delle sole dichiarazioni concernenti le imposte dirette (IRPEF ed IRES) e l’imposta sul valore aggiunto, mentre l’IRAP, non essendo un’imposta sul reddito,
permane estranea alla sfera applicativa della disciplina racchiusa nel D.Lgs. n. 74/2000 (7), in ciò rimasta immutata rispetto al passato.
nanze e tributi, Milano, 2010,115 ss.; E. Musco - F. Ardito, Diritto penale tributario, II ed., Bologna, 2012, 93. Sulla nuova
normativa, nello stesso senso, F. Cagnola, sub Art. 2, in
AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S.
Putinati, cit., 35.
(7) Non condivisibile, quindi, appare il riferimento alle “dichiarazioni (…) IRAP infra-annuali” presente nella relazione
della Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, Rel. n.
III/05/2015, 11.
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Quanto alla decettività della dichiarazione, questa
deve manifestarsi, in primo luogo, attraverso l’indicazione di “elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo”. È chiaro come la norma
faccia riferimento alla dichiarazione solo parziale dei
componenti positivi che incidono sulla determinazione della base imponibile rilevante ai fini delle
imposte sui redditi o dell’imposta sul valore aggiunto. È il caso, solo per fare qualche esempio, dell’indicazione incompleta dei ricavi conseguiti, dei proventi o delle plusvalenze realizzate, per rimanere alle ipotesi verosimilmente più frequenti nella prassi.
Con l’avvertenza, sulla quale occorrerà ritornare in
seguito, che tali omissioni dovranno sempre essere
accompagnate dalle condotte frodatorie di supporto.
A scanso di equivoci, il comma 3 dello stesso art.
3, anch’esso di nuovo conio, si premura di precisare che “ai fini dell’applicazione della disposizione
del comma 1, non costituiscono mezzi fraudolenti
la mera violazione degli obblighi di fatturazione e
di annotazione degli elementi attivi nelle scritture
contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle
annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali”. Si tratta di una previsione che introduce un vero e proprio limite alla tipicità del fatto, costruito “ritagliando” una specifica classe di condotte altrimenti tipiche per escluderle espressamente dall’area applicativa della fattispecie.
In conseguenza di tale disposto, i proventi cosiddetti
“in nero”, ossia i ricavi in tutto o in parte non fatturati, per quanto possano essere frutto di una falsità
contabile (si pensi alla cosiddetta fattura “sottomanifestante”, ossia alla fatturazione solo parziale di
una prestazione), sono destinati a rimanere estranei
alla sfera del delitto in esame per rientrare, ricorrendo gli altri presupposti applicativi, nell’alveo della
dichiarazione infedele di cui all’art. 4.
Sul versante dei componenti negativi di reddito, la
fattispecie tipizza l’indicazione di “elementi passivi
fittizi”, locuzione che - come suggerisce l’art. 1,
lett. b) - va ad identificare quelle componenti che
incidono negativamente sulla determinazione della
base imponibile rilevante ai fini delle imposte sui
redditi o dell’imposta sul valore aggiunto. Si tratta,
in sintesi estrema, dei costi, degli oneri, delle minusvalenze e delle perdite, che concorrono alla diminuzione della base imponibile sulla quale viene
conteggiata l’imposta.
Vero punctum dolens, in passato, fu l’esatta individuazione della nozione di “fittizietà” che doveva
connotare tali elementi passivi e che si poteva rinvenire negli artt. 2, 3 e 4, D.Lgs. n. 74/2000, nella
primigenia versione introdotta nel marzo del 2000.
(8) Si vedano, sulla novella, I. Caraccioli, Linee generali della
revisione del sistema penale tributario, in Il fisco, 2015, 2936; S.
Cavallini, Osservazioni “di prima lettura” allo schema di decreto
legislativo in materia tributaria, in www.penalecontemporaneo.it, 2015.
(9) Sulla natura di reato proprio della previgente fattispecie
di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 3, cfr., per tutti, V.
Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, cit.,
87; A. Martini, Reati in materia di finanze e tributi, cit., 342; E.
Musco - F. Ardito, Diritto penale tributario, cit., 141. Si veda altresì la Relazione governativa al D.Lgs. n. 74/2000 (§ 3.1.2.):
“Non è sembrato possibile accogliere, per converso, il più puntuale invito della Commissione giustizia del Senato a costruire
la fattispecie come reato comune (anziché dei soli soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili), stante il ricordato richiamo alla “rappresentazione contabile” che compare a chiusura dell’art. 9, comma 1, lettera a), n. 1 della legge delega”.
(10) Sul punto, per tutti, A. Lanzi - P. Aldrovandi, Diritto pe-
nale tributario, Milano, 2014, 234-235; A. Martini, Reati in materia di finanze e tributi, cit., 343; V. Napoleoni, I fondamenti
del nuovo diritto penale tributario, cit., 89; P. Veneziani, sub Art.
3, in AA.VV., Diritto e procedura penale tributaria, a cura di I.
Caraccioli - A. Giarda - A. Lanzi, Padova, 2001, 139-140. Sia
consentito rinviare, altresì, a A. Perini, Sulla nozione di “mezzi
fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento” nell’ambito del
delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, in Rass.
trib., 1/2002, 172 ss.
(11) Cfr. I. Caraccioli, Linee generali della revisione del sistema penale tributario, cit., 2936; Corte di Cassazione, Ufficio del
Massimario, Rel. n. III/05/2015, 11 s. Ciò, beninteso, sempre
con l’avvertenza che la fattispecie richiede comunque la qualità di “contribuente” al soggetto attivo, atteso che questi deve
in ogni caso presentare una dichiarazione dei redditi o Iva.
(12) Nello stesso senso, S. Putinati, sub Art. 3, in AA.VV.,
La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S. Putinati,
cit., 46.
La nuova fattispecie di dichiarazione
fraudolenta mediante altri artifici
Come si è accennato, la fattispecie di “dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici” rappresenta
senza dubbio l’ipotesi di reato tributario maggiormente riformata dal recente intervento del legislatore (8). Ed infatti, un reato proprio (9) a condotta
trifasica (10), com’era l’ormai previgente delitto
racchiuso nell’art. 3 del D.Lgs. n. 74/2000, è stato
oggi soppiantato da un reato comune (11) che presenta una condotta bifasica (12), assai più duttile a
contrastare fenomeni di evasione fiscale.
In realtà, nondimeno, il modello di incriminazione
utilizzato dal legislatore non è connotato da rilevanti profili di novità, poggiando sui due pilastri
classici che da sempre sorreggono le fattispecie penali tributarie etichettate come “frode fiscale”: la
dichiarazione fiscale mendace e le condotte frodatorie di supporto.
(Segue). La dichiarazione mendace
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Il dibattito sviluppatosi attorno a tale questione (13) pare ora del tutto superato dall’abrogazione
dell’art. 7 del D.Lgs. n. 74/2000 (norma che contribuiva ad alimentare le incertezze interpretative in
ordine alla nozione di fittizietà utilizzata dal legislatore negli artt. 3 e 4) e dalla scomparsa del termine
“fittizi” in seno all’art. 4 per essere sostituito dalla
parola “inesistenti” (cfr. art. 4, comma 1, lett. d),
D.Lgs. n. 158/2015).
In sintesi, dunque, sembra doveroso constatare
che, anche in seno alla fattispecie in commento,
l’elemento passivo fittizio deve essere identificato
con il componente negativo di reddito inesistente,
in quanto disancorato da un concreto dato fattuale (14). Approdo, questo, che, peraltro, pare coerente anche con i marcati lineamenti frodatori che
connotano le condotte ingannatorie poste a sostegno della decettività della dichiarazione, così come
delineate anche dalle previsioni introdotte in seno
all’art. 1 del Decreto con le novelle lett. g bis) e g
ter) delle quali ci occuperemo tra breve.
Come si osservava, poi, oggetto di rimprovero penale, nell’ambito dell’art. 3, è altresì l’indicazione
nella dichiarazione fiscale di “crediti e ritenute fittizi”. Da notare che anche le soglie di punibilità
sono state adeguate a tale innovazione: la lettera
b) del comma 1, infatti, prevede ora che acquisti
rilevanza penale pure la dichiarazione nella quale
“l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, è superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta
medesima o comunque a euro trentamila” (15).
(Segue). Le attività fraudolente di supporto
alla dichiarazione mendace
Come si osservava, aspetto caratterizzante il delitto
in esame è la presenza di condotte destinate ad in(13) Si vedano, con diverse conclusioni, I. Caraccioli, Passivi
fittizi senza margini interpretativi, in Lex 24, del 1° aprile 2000,
17; S. Traversi, A. Gennai, I nuovi delitti tributari, Milano, 2000,
214. In senso analogo, parrebbe, E. Musco - F. Ardito, ocit.,
157 e 163 ss.; G. Bersani, I reati di dichiarazione infedele e di
omessa dichiarazione, Padova, 2003, 42 ss., diffusamente, al
quale si rinvia anche per i numerosi riferimenti; e cfr. altresì,
per tutti, A. Martini, Reati in materia di finanze e tributi, cit.,
386 s.; U. Nannucci, Il delitto di dichiarazione infedele, in
AA.VV., La riforma del diritto penale tributario (D.Lgs. 10 marzo
2000, n. 74), a cura di U. Nannucci - A. D’Avirro, Padova,
2000, 175 ss.; A. Di Amato, La dichiarazione infedele, in A. Di
Amato - R. Pisano, I reati tributari, in Trattato di diritto penale
dell’impresa, a cura di A. Di Amato, Padova, 2002, 554 ss.,
part. 557. Nella giurisprudenza, si veda Cass. Pen., Sez. III, (26
novembre 2008) 23 gennaio 2009, n. 3203, in Riv. dir. trib.,
1999, III, 121 ss., con nota di T. Rotella, Fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti e interposizione soggettiva:
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cidere sulla decettività della dichiarazione in modo
tale da renderne più difficilmente disvelabile la falsità e, quindi, aumentare le chances di successo dell’inganno perpetrato ai danni dell’Amministrazione
finanziaria.
A tale riguardo, il legislatore tipizza tre tipologie di
condotte:
-) il compimento di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente;
-) l’avvalersi di documenti falsi;
-) l’avvalersi di altri mezzi fraudolenti idonei ad
ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore
l’Amministrazione finanziaria.
Ovviamente, è sufficiente la coesistenza di una soltanto di tali forme di frode con la dichiarazione
mendace per integrare - fermi restando gli altri elementi di tipicità - il delitto in esame: di qui la già
più volte sottolineata natura bifasica della fattispecie.
Per quanto concerne la condotta di utilizzo di documenti falsi, occorre prendere le mosse da un’attenta actio finium regundorum rispetto alla limitrofa
fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante
uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di cui all’art. 2: si rammenta, in proposito,
che la descrizione del delitto in commento si apre
proprio con una clausola di riserva che fa salvi i casi previsti dall’art. 2. Dunque, ogniqualvolta si sia
in presenza di un elemento passivo fittizio (id est,
un costo inesistente) documentato da una fattura o
da un altro documento equipollente, la fattispecie
di cui all’art. 3 sarà destinata a cedere il passo al
più grave (siccome privo di soglie di punibilità)
reato contemplato dall’art. 2.
Vero ciò, rientreranno nell’ambito di applicazione
dell’art. 3 tutti i documenti mendaci diversi dalle
fatture e dagli altri documenti dotati di analoga rilevanza fiscale, quali, ad esempio, i “buoni di conspunti critici su una recente pronuncia della Cassazione.
Sia consentito fare rinvio anche a A. Perini, voce Reati tributari, in Dig. disc. pen., Aggiornamento *******, Torino, 2013,
496 s.
(14) Dubitativamente, sul punto, L. Lunghini, sub Art. 1, in
AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S.
Putinati, cit., 10.
(15) Si noti che la lettera della norma utilizza l’aggettivo “fittizie” al femminile, a differenza di quanto accade nella prima
parte del comma 1, allorquando il medesimo aggettivo è utilizzato al maschile. Verosimilmente, si tratta esclusivamente di
un errore nella stesura del testo normativo che tipizza la soglia
di punibilità, il quale -pur riferendosi in ambedue i casi tanto ai
crediti quanto alle ritenute- nel secondo caso accorda l’aggettivo esclusivamente alle ritenute; è tuttavia chiaro che la soglia
di punibilità deve essere riferita tanto ai crediti - appunto - “fittizi” quanto alle ritenute “fittizie”.
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segna” della merce; le “ricevute” rilasciate ai fini di
prova civilistica (16); le distinte emesse (o sottoscritte) dall’esercente per attestare l’avvenuto acquisto di valori bollati (17); ecc. In questa prospettiva, ci pare che assuma rilevanza ai sensi della
norma in esame anche l’utilizzo di una mendace certificazione di ritenute subite allorquando tale falsità
dovesse essere recepita nella dichiarazione fiscale
del sostituito, falsando così il conteggio dell’imposta da versare.
Del pari, rilevanti ex art. 3, in quanto estranei all’altra fattispecie di dichiarazione fraudolenta, sono
i contratti di compravendita recanti dati non conformi a verità, come accade in casi di alienazione
di immobili con indicazione nel rogito di un prezzo
diverso - solitamente inferiore - rispetto a quello
effettivo.
L’esempio, peraltro, offre il destro per rammentare
che, in ogni caso, rientrano nell’art. 2 solamente i
casi nei quali siano indicati componenti negativi
di reddito (quindi costi) superiori rispetto a quelli
effettivi: dunque, le falsità destinate a comprimere
i ricavi (e non a far lievitare i costi) usciranno comunque dall’art. 2 per ricadere, eventualmente,
nel delitto in commento. Ergo, il precedente esempio rientra nella fattispecie in esame in quanto atipico, rispetto all’art. 2, sia per quanto concerne il
documento utilizzato (contratto) che per la tipologia di mendacio (indicazione di un prezzo inferiore
a quello effettivo).
Quanto alla tipologia di falsità dei documenti in
questione, a rilevare saranno tanto le falsità ideologiche quanto le falsità materiali (18): anzi, appare
condivisibile quell’orientamento (19) - per quanto
smentito dalle più recenti pronunce (20) - incline
a ritenere che la falsità materiale sia propria del de-
litto in esame, con la conseguenza che rientrerebbe
nell’alveo dell’art. 3 (e non dell’art. 2) la condotta
del contribuente che confezioni una fattura mendace, apparentemente proveniente da un suo fornitore, per documentare dei costi in realtà inesistenti. In tale circostanza, infatti, l’operato del contribuente appare connotato da minore insidiosità in
quanto, in ipotesi, un controllo incrociato degli organi accertatori, avente ad oggetto l’ignaro emittente apparente, consentirebbe agevolmente di disvelare la falsità del documento. Al contrario, nei
casi rilevanti ex art. 2, una semplice verifica di tal
fatta sarebbe destinata a rimanere infruttuosa, attesa la corrispondenza tra le annotazioni contabili
dell’emittente e dell’utilizzatore. Né si trascuri che,
ai sensi dell’art. 1, lett. a), le “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, rilevanti ex art.
2, devono essere “emessi a fronte di operazioni non
realmente effettuate”, mentre la fattura materialmente falsa non viene affatto “emessa” da un soggetto terzo bensì è confezionata dallo stesso utilizzatore (21).
In ultimo, occorre sottolineare come la norma preveda che il contribuente debba “avvalersi” del documento mendace affinché venga integrata la condotta tipica. Il punto è rilevante in quanto il novello comma 2 dell’art. 3 precisa che “il fatto si
considera commesso avvalendosi di documenti falsi
quando tali documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fini di
prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria”. La previsione riecheggia il disposto del comma 2 dell’art. 2 relativo all’utilizzo di fatture per
operazioni inesistenti (22) e mira ad assicurare che
il comportamento decettivo del contribuente sia
dotato di reale efficacia ingannatoria: la contabiliz-
(16) In questo senso, cfr. Cass., (15 ottobre 2014) 3 dicembre 2014, in Il fisco, 1/2015, 88, con nota di C. Santoriello.
(17) Trib. Torino (G.I.P.), 9 aprile 2015, n. 523, inedita.
(18) A. D’Avirro, Il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti,
cit., 117; E. Musco, F. Ardito, Diritto penale tributario, cit., 140;
V. Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, cit., 106; L. Pistorelli, Quattro figure contro il contribuente
infedele, in Guida dir., 2000, n. 14, 58; P. Veneziani, sub Art. 3,
cit., 153, al quale rinviamo anche per ulteriori riferimenti. Nella
giurisprudenza, in questo senso, Cass.,, Sez. III, (25 giugno
2001) 8 agosto 2001, n. 30896, in Guida dir., n. 36/2001, 59
ss., nonché in Boll. trib., n. 22/2001, 1673 ss., con nota adesiva di F. Brighenti; nonché in Il fisco, n. 3/2002, 866 ss., in un
caso di fatture contraffatte; Cass., Sez. III, (15 ottobre 2014) 2
dicembre 2014, n. 50308, in Riv. pen., 2015, 149.
(19) Cass., Sez. III, (25 giugno 2001) 8 agosto 2001, n.
30896, cit. Nello stesso senso E. Musco, F. Ardito, Diritto penale tributario, cit., 109; A. Lanzi - P. Aldrovandi, Diritto penale
tributario, cit., 245.
(20) Cfr., per tutte, Cass., Sez. III, (23 febbraio 2012) 21
marzo 2012, n. 10987, in Riv. Guardia di Finanza, 2012, 615.
La giurisprudenza ha anche avuto modo di ritenere rilevante
ex art. 2 l’utilizzo di documentazione contabile materialmente
falsa destinata, ad esempio, a comprovare spese sanitarie da
portare in detrazione nella dichiarazione dei redditi: ad esempio, cfr. Cass., Sez. III, (24 novembre 2011) 28 dicembre 2011,
n. 48486, in CED, Cass. pen., 2011.
In dottrina, cfr. P. Aldrovandi, La nozione di “fatture o altri
documenti per operazioni inesistenti” nel “diritto vivente” ed il
“nuovo volto” del diritto penale tributario, in Ind. pen., 2012,
217 ss., ove ulteriori riferimenti part. alle 218 e 219.
(21) Per analoghe conclusioni, cfr. S. Putinati, sub Art. 3, in
AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S.
Putinati, cit., 58-59.
(22) Sulla previsione contenuta nel comma 2 dell’art. 2, cfr.,
per tutti, L.D. Cerqua - C.M. Pricolo, La riforma della disciplina
dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto.
Commento, in questa Rivista, 2000, 575; A. Diddi, Nuova normativa penal-tributaria. Prime riflessioni, in Giust. pen., 2000, II,
129; A. Manna, Prime osservazioni sulla nuova riforma del diritto penale tributario, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2000, 123; E. Ma-
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zazione del documento mendace o la sua conservazione a fini di prova sono condotte evidentemente
finalizzate a fuorviare l’attività di accertamento
dell’Amministrazione finanziaria, colorando così di
concreta offensività il confezionamento o, comunque, l’acquisizione del documento falso.
Peraltro, una tale previsione assicura l’impossibilità
di ritenere che il bilancio falso possa rientrare tra i
“documenti falsi” previsti dalla norma in esame, atteso che esso viene sì trascritto nel libro inventari
(cfr. art. 2217 c.c.) ma non è certo “registrato” nelle scritture contabili (cfr. art. 3, comma 2, D.Lgs.
n. 74/2000). Al contrario, sono le operazioni registrate nelle scritture contabili che trovano compendio nel bilancio di esercizio. Né può dirsi che il
bilancio sia “detenuto a fini di prova nei confronti
dell’Amministrazione finanziaria”, visti gli obblighi
di pubblicità che ne accompagnano l’approvazione.
Una seconda tipologia di condotte volte a supportare la falsità della dichiarazione fiscale è descritta
dal legislatore facendo riferimento al compimento
di “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” (23). Tale previsione deve essere letta alla luce del disposto della lett. g bis) dell’art. 1, anch’essa introdotta dal legislatore della riforma onde
precisare che “per “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” si intendono le operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall’art. 10 bis della L. 27 luglio 2000, n. 212, poste in
essere con la volontà di non realizzarle in tutto o
in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti”.
L’art. 10 bis della L. 27 luglio 2000, n. 212, concerne la “disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale” e, per la verità, non sembra affatto poter riguardare operazioni in qualche misura affette da simulazione (24). E vi è da auspicare che una simile
puntualizzazione non vada ad alimentare ulteriormente quella confusione che non di rado è affiorata in passato tra elusione e frode fiscale e che, fi-
nalmente, proprio l’art. 10 bis dovrebbe contribuire
a dissipare. Tanto più alla luce dell’esplicita irrilevanza penale che il comma 13 del suddetto articolo
prevede per le operazioni “abusive”.
Anche con riferimento a tali condotte fraudolente
di “supporto” alla decettività della dichiarazione fiscale, occorre osservare come sia ampia l’area di interferenza tra il delitto in esame e quello contemplato dall’art. 2, con conseguente significativa
compressione del perimetro applicativo dell’art. 3.
Ed invero, oggetto di simulazione è una dichiarazione di volontà, mentre la falsità deve ricadere su di
un enunciato descrittivo: evidentemente diversi,
quindi, sono i contesti che connotano tali comportamenti, in linea di principio del tutto distinti e
tra loro autonomi (25). Nondimeno, in ambito tributario, di regola le manifestazioni di volontà assumono rilevanza in quanto incidono sulla formazione della base imponibile disciplinata dalle norme
fiscali e necessitano di essere comprovate attraverso la formazione di adeguata documentazione.
Vero ciò, ben si comprende come, assai di frequente, la manifestazione di una volontà simulata sia
destinata a ridondare nel confezionamento di un
documento falso. Si pensi alla fatturazione di operazioni soggettivamente inesistenti: in esse trova riscontro documentale, pacificamente, una simulazione relativa soggettiva (26), che attribuisce l’operazione ad un soggetto diverso dal reale contraente. Si
tratta, quindi, di un caso che ricadrebbe certamente nella sfera applicativa della fattispecie in esame,
sennonché la fattura mendace che documenta tale
operazione assume rilevanza ai sensi dell’art. 2, con
la conseguenza che questa disposizione risulta prevalente sull’art. 3, in ossequio alla ben nota clausola di riserva con la quale si apre quest’ultima norma.
Forse, tali sovrapposizioni sono ancora più evidenti
in molti casi di simulazione oggettiva: ad esempio,
se si simula l’acquisto di un bene inerente l’impresa
strogiacomo, La responsabilità dell’utilizzatore di fatture fittizie
nella nuova normativa penale tributaria, in Il fisco, 1999, 11260;
G. Izzo, Dichiarazione fraudolenta mediante fatture o documenti
per operazioni inesistenti, in Il fisco, 2000, 5205; V. Napoleoni, I
fondamenti del nuovo diritto penale tributario, cit., 58 ss.; A.
Traversi, S. Gennai, I nuovi delitti tributari, cit., 165 ss.
(23) S. Cavallini, Osservazioni “di prima lettura”, cit., 6.
(24) Si vedano, sul punto, le riflessioni svolte da Corte di
Cassazione, Ufficio del Massimario, Rel. n. III/05/2015, 7 s. Cfr.
altresì, L. Lunghini, sub Art. 1, in AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S. Putinati, cit., 19 ss.; S. Putinati, sub Art. 3, ivi, 52 ss.
(25) Sul tema dei rapporti tra falso e simulazione, cfr. A.
Alessandri, Osservazioni sulle notizie false, esagerate o tendenziose, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, 720 ss.; F. Carnelutti, Teo-
ria del falso, Padova, 1935, 49 e 157; G. Zuccalà, Il delitto di false comunicazioni sociali, 1954, 21 e 43; F. M. Iacoviello, Il falso
ideologico per omissione, in Cass. pen., 1996, 1426.
Si vedano altresì G. Fuochi Tinarelli, Atti dispositivi: ammissibilità del falso ideologico, in Foro it., 1990, II, 389; A. Nappi - A
proposito di una falsità impossibile, in Giur. it., 1983, II, 309; Id.,
Atti “dispositivi” e falsità ideologica, in Giur. it., 1983, II, 245; M.
Secci, Non configurabilità del falso ideologico nelle decisioni
amministrative di un organo collegiale, in Giur. it., 1980, II, 73
ss.
(26) Per la trattazione dei rapporti tra simulazione e fatturazione di operazioni inesistenti ex art. 2, sia consentito fare rinvio a A. Perini, Operazioni soggettivamente inesistenti, interposizione fittizia e nuovo sistema penale tributario, in questa Rivista,
2001, 1411 ss.
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per dissimulare l’acquisto di un bene personale, si
avrà certamente una fattura per operazioni (oggettivamente) inesistenti volta a documentare tale
transazione.
Breve: pur senza voler negare del tutto l’esistenza
di un qualche spazio applicativo all’art. 3, sembra
corretto ritenere che un’ampia gamma di condotte
simulatorie finirà con l’essere documentata da
mendaci fatture o da altri documenti, parimenti inveritieri e dotati di analoga rilevanza probatoria,
costringendo così la fattispecie di dichiarazione
fraudolenta mediante altri artifici a cedere il passo
al delitto di cui all’art. 2 (27).
La terza ed ultima tipologia di condotta tipica è costituita dall’avvalersi di “altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’Amministrazione finanziaria”.
È questa la formula di chiusura, ormai divenuta immancabile, con la quale il legislatore tenta di colorare di tipicità tutti i comportamenti in qualche
modo artificiosi attuati dal contribuente onde
scongiurare che l’Amministrazione finanziaria si
avveda della mendacità della dichiarazione fiscale.
E se la previsione in esame si innesta perfettamente nel tradizionale paradigma della frode fiscale, di
una certa originalità appare la spinta del legislatore
affinché l’interprete valuti con particolare cautela
la concreta carica ingannatoria della condotta fraudolenta. Sembra, in altri termini, che con la riforma si sia inteso non tanto innalzare l’asticella della
capacità decettiva del mezzo fraudolento, quanto
spingere l’interprete a valorizzare la vocazione selettiva della fattispecie riconoscendo come tipiche
esclusivamente quelle condotte davvero in grado di
sviare l’attività di accertamento (28).
Verso una tale conclusione inclina la previsione
che vuole il mezzo fraudolento non solo idoneo ad
“ostacolare l’accertamento” (come già previsto dalla previgente fattispecie) ma altresì capace di “indurre in errore l’Amministrazione finanziaria”.
La novella, quindi, lascia di certo prive di rilevanza
penale le piccole furberie, le irregolarità, le violazioni, le imprecisioni destinate a rendere sì meno
agevole l’attività di verifica condotta dall’Ammini-
strazione finanziaria, ma scevre di una reale idoneità ingannatoria.
Tale approdo trova conferma anche nella definizione che la riforma affida all’art. 1 con l’aggiunta
della lett. g ter): “per “mezzi fraudolenti” si intendono condotte artificiose attive nonché quelle
omissive realizzate in violazione di uno specifico
obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà”.
Dunque, il falso e l’artificio appaiono, anche sotto
questo profilo, i protagonisti della condotta fraudolenta descritta dalla norma, a ribadire l’elevato tasso di insidiosità che la novella richiede al comportamento del contribuente per attrarlo nell’area della dichiarazione fraudolenta. E, peraltro, esce confermata la lettura che era prevalsa della nozione di
“mezzi”, da identificare con condotte finalisticamente
orientate al raggiungimento di uno scopo e non con
l’oggetto materiale dell’illecito (29).
(27) In questo senso, cfr. altresì Corte di Cassazione, Ufficio
del Massimario, Rel. n. III/05/2015, 5 s., nonché 17. In senso
parzialmente difforme, distinguendo i casi di “inesistenza materiale” da quelli di “inesistenza giuridica”, nonché di sovrafatturazione e di interposizione fittizia, ritenuti (gli ultimi tre) rientranti nella sfera dell’art. 3, anziché dell’art. 2, cfr. L. Imperato,
Commento all’art. 3, in AA.VV., I nuovi reati tributari, a cura di I.
Caraccioli, in corso di pubblicazione, 6 ss. del dattiloscritto.
Verso questa seconda direzione, cfr. altresì le riflessioni di S.
Putinati, sub Art. 3, in AA.VV., La riforma dei reati tributari, a
cura di C. Nocerino - S. Putinati, cit., 53 ss.
(28) E si vedano, al riguardo, le considerazioni di I. Caraccioli, Linee generali della revisione del sistema penale tributario,
cit., 2936.
(29) V. Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, cit., 105; A. Lanzi - P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 240. Nella giurisprudenza, di recente, Cass. Pen., Sez.
III, (15 ottobre 2014) 2 dicembre 2014, n. 50308, cit.
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L’elemento soggettivo, il momento
consumativo e la successione di norme nel
tempo
L’elemento soggettivo del delitto di dichiarazione
fraudolenta mediante altri artifici è rimasto immutato rispetto alla previgente fattispecie e consiste
nel fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore
aggiunto: non vi sono, quindi, profili di innovazione da segnalare rispetto alla disciplina antecedente
alla riforma.
Per quanto concerne l’individuazione del momento
consumativo e, in particolare, il susseguirsi delle
due “fasi” nelle quali si articola la condotta, si deve
osservare che l’indicazione dei dati mendaci nella
dichiarazione fiscale deve avvenire “compiendo
operazioni simulate” ovvero “avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti”: l’utilizzo
dei verbi al gerundio lascia intendere che, al momento della presentazione della dichiarazione, le
condotte artificiose di supporto devono già essere
state realizzate, cosicché -appunto- il contribuente
possa “avvalersene”.
Dunque, dovranno essere ritenuti atipici eventuali
comportamenti realizzati successivamente a quello
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che deve essere individuato necessariamente come
il momento consumativo della fattispecie (30).
Al riguardo, occorre comunque rammentare che
l’art. 11, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito
con modificazioni dalla L. 22 dicembre 2011, n.
214, punisce chiunque, in fase di accertamento,
esibisca o trasmetta “atti o documenti falsi in tutto
o in parte” (31): ciò comporta l’attribuzione di rilevanza penale all’utilizzo, in sede di accertamento,
di documentazione mendace eventualmente confezionata in epoca successiva alla presentazione della
dichiarazione, colmando così buona parte di quelli
che, altrimenti, rischierebbero di apparire come degli arretramenti della tutela penale non agevoli da
giustificare.
Ultima questione cui fare cenno attiene ai profili
di diritto intertemporale che, per la verità, non
sembrano presentare particolare problematicità.
Ed invero, come si è avuto modo più volte di osservare, la novella finisce con l’ampliare sotto quasi
tutti i profili la sfera applicativa della vecchia figura di dichiarazione fraudolenta. Vero ciò, è indubitabile che sussista una piena continuità normativa
tra la vecchia e la nuova figura di dichiarazione
fraudolenta, essendo l’ipotesi previgente sostanzialmente speciale (al netto dell’innalzamento di una
soglia di punibilità) rispetto all’attuale. Di qui il
permanere della punibilità dei fatti già tipici ai
sensi della fattispecie sostituita dalla riforma (32).
Solo il già citato innalzamento del tetto previsto
dalla seconda soglia di punibilità, da un milione ad
un milione cinquecentomila euro, potrà innescare
qualche fenomeno di abolitio criminis concernente
condotte frodatorie le cui dimensioni non superino
il 5% degli elementi attivi sottratti all’imposizione
e si collochino, in valore assoluto, tra il milione ed
il milione e mezzo di euro.
Forse, potrebbe stimolare qualche ulteriore riflessione la previsione, di nuovo conio, che vuole i
mezzi fraudolenti idonei non solo ad ostacolare l’accertamento, come nella formulazione antecedente,
ma anche “ad indurre in errore l’Amministrazione
finanziaria”. Si tratta davvero di un elemento innovativo, capace di incrementare significativamente il livello di insidiosità richiesto per aversi un fatto tipico? A nostro giudizio, la previsione potrebbe
innescare qualche fenomeno di abolitio criminis solo
in presenza di applicazioni lasche della previgente
fattispecie, nelle quali la carica decettiva del mezzo
fraudolento fosse stata valutata con scarso rigore e
che ora, a seguito del richiamo voluto dal legislatore, vedrebbero messa a nudo la loro modesta insidiosità.
In realtà, come si osservava in precedenza, più che
ad un vero mutamento del dato normativo, sembra
di essere al cospetto di una semplice sollecitazione
del legislatore ad un più rigoroso vaglio del grado
di fraudolenza della condotta artificiosa attuata dal
contribuente.
Per il resto, i diversi profili di ampliamento della
sfera di prensione punitiva della fattispecie, introdotti dalla riforma, saranno applicabili ai soli fatti
commessi successivamente all’entrata in vigore del
nuovo Decreto legislativo.
(30) Nello stesso senso, con riferimento alla nuova fattispecie, S. Putinati, sub Art. 3, in AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S. Putinati, cit., 72.
(31) Su tale fattispecie, per tutti, G. Flora, Le recenti modifiche in materia penale tributaria: nuove sperimentazioni del “diritto penale del nemico”?, in questa Rivista, 2012, 15 ss.; S.
Gianoncelli, Il nuovo reato di false esibizioni documentali e false
comunicazioni al Fisco, in Rass. trib., 2013, 177 ss.
(32) Nello stesso senso, L. Imperato, Commento all’art. 3,
cit., 26; Corte di cassazione, Ufficio del Massimario, Rel. n.
III/05/2015, 18.
(33) Cfr. I. Caraccioli, Linee generali della revisione del sistema penale tributario, in Il fisco, 2015, 2936.
22
Le modifiche apportate alla fattispecie di
dichiarazione infedele
Altra fattispecie oggetto di profondo ripensamento
è quella di dichiarazione infedele di cui all’art. 4
del D.Lgs. n. 74/2000, modificata dall’art. 4 del
D.Lgs. n. 158/2015. Qui l’intervento del legislatore
consegue alle indicazioni contenute nella legge di
delegazione (art. 8, L. 11 marzo 2014, n. 23), a
mente della quale si rendeva necessaria “la revisione del regime della dichiarazione infedele e del sistema sanzionatorio amministrativo al fine di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità, le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti”.
Un tale principio direttivo del legislatore delegante
è stato interpretato come un richiamo ad “alleggerire” la disciplina in precedenza vigente, onde contenere il “rischio penale” potenzialmente derivante
da fatti privi di una reale finalità di evasione fiscale, ma indotti, più semplicemente, dalla complessità del sistema tributario e dagli ampi margini di
opinabilità che talora presenta l’applicazione - soprattutto - delle norme destinate ad intervenire su
questioni valutative (33).
In questa prospettiva, quindi, la riforma dell’art. 4
si colloca in continuità con la nuova disciplina
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volti - sostanzialmente - a ridurre la rilevanza penale delle valutazioni e, soprattutto, dei componenti negativi di reddito imputati dal contribuente
che, seppur “reali”, non rilevano fiscalmente.
La riforma, quindi, ci restituisce una fattispecie di
dichiarazione infedele significativamente svuotata
di contenuto (36), figlia di una scelta di politica
criminale che si assesta a mezza via tra la più volte
invocata abrogazione della norma e, all’opposto, la
richiesta di non intaccarne le potenzialità repressive (37). Una fattispecie che appare sostanzialmente destinata a colpire i “ricavi in nero”, ossia i
componenti positivi di reddito non contabilizzati e
non dichiarati, a condizione - vista l’entità della
soglia e le aliquote fiscali vigenti - che tali ricavi
occultati ammontino, quantomeno, a circa €
350.000 (38).
dell’abuso del diritto per l’esplicita scelta di escludere la rilevanza penale delle future riprese a tassazione effettuate in applicazione di tale fattispecie
(cfr. art. 10 bis della L. 27 luglio 2000, n. 212, concernente la “disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”).
Al riguardo, è noto come, prima della recente riforma, la giurisprudenza fosse propensa a considerare penalmente rilevanti, ai sensi del delitto di dichiarazione infedele, anche i recuperi d’imposta
(ovviamente tali da superare le previste soglie di
punibilità) compiuti ai sensi dell’art. 37 bis, d.P.R.
n. 600/1973, ritenendo così - in sostanza - penalmente rilevante l’elusione fiscale. Ciò a seguito del
noto orientamento giurisprudenziale inaugurato
dall’ormai celeberrima sentenza “Dolce & Gabbana” (34) ed a dispetto dei rilievi formulati dalla
pressoché unanime dottrina, tesa a denunciare il
deficit di tipicità che affliggeva la citata norma antielusiva e, quindi, gli slabbrati contorni che, in tal
guisa, veniva ad assumere anche la fattispecie penale (35).
Con l’attuale riforma, quindi, per un verso viene
ridisegnata la norma antielusiva, escludendone
qualsiasi ricaduta penale, mentre, sotto altra prospettiva, viene maggiormente circoscritta anche la
sfera applicativa del delitto di dichiarazione infedele.
Invero, la compressione dell’area di rilevanza penale avviene, sostanzialmente, lungo due direttrici.
La prima, più evidente, vede un innalzamento della soglia di punibilità parametrata all’imposta evasa
[cfr. art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 74/2000],
che da € 50.000 è stata incrementata ad €
150.000; la seconda, invece, consiste nell’introduzione in seno all’art. 4 di due commi, 1 bis ed 1 ter,
La dichiarazione presentata dal contribuente, per
rilevare penalmente, deve essere non conforme a
verità, ossia deve indicare - giusta la lettera dell’art. 4 - “elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti”. Come si è già osservato trattando dell’art.
3, la riforma ha modificato anche la lettera del
comma 1 dell’art. 4, sostituendo il controverso aggettivo “fittizi”, riferito agli elementi passivi, con il
termine - finalmente inequivoco - “inesistenti”.
Tuttavia, sciolto un nodo interpretativo, la novella
finisce per introdurre subitamente un nuovo fattore
di complicazione, atteso che - come si è detto l’attuale riforma ha aggiunto alla definizione di
“elementi attivi o passivi”, contenuta nell’art. 1,
lett. b), altresì “le componenti che incidono sulla
(34) Cfr. Cass., Sez. II, 28 febbraio 2012, n. 7739, in Dir.
prat. trib., 2012, II, 766, ma altresì in Riv. dir. trib., 2012, III, 61,
con nota di I. Caraccioli, “Imposta elusa” e reati tributari ‘di
evasione’ nell’impostazione della Cassazione, ivi, 86 ss. Ma
un’apertura verso l’attribuzione di rilevanza penale all’elusione
fiscale era già rinvenibile in Cass. 18 marzo 2011, CED, rv.
250958. Sempre sulla sentenza “Dolce & Gabbana”, cfr. G.
Flora, Perché l’“elusione fiscale” non può costituire reato (a proposito del “caso Dolce & Gabbana”), in Riv. trim. dir. pen. ec.,
2011, 865 ss.; P. Veneziani, Commento, in questa Rivista,
2012, 863.
(35) In questo senso, cfr. particolarmente G.M. Flick, Abuso
del diritto ed elusione fiscale: quale rilevanza penale?, in Giur.
comm., 2011, I, 485-486; G. Flora, Perché l’“elusione fiscale”
non può costituire reato (a proposito del “caso Dolce & Gabbana”), cit., 873; A. Lanzi, P. Aldrovandi, Diritto penale tributario,
cit., 183; G. Lunghini, Elusione e principio di legalità: l’impossibile quadratura del cerchio?, in Riv. dir. trib., 2006, 659 ss.; F.
Mucciarelli, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, in AA.VV., Elusione ed abuso del diritto tributario, a
cura di G. Maisto, Milano, 2009, 421 ss.; E. Musco, F. Ardito,
Diritto penale tributario, cit., 178 ss. Ma si vedano altresì le
acute riflessioni di A. Lovisolo, Il principio di matrice comunitaria dell’abuso del diritto entra nell’ordinamento giuridico italiano:
norma antielusiva di chiusura o clausola generale antielusiva?
L’evoluzione della giurisprudenza, in Dir. prat. trib., 2007, II,
part. 765 ss. Efficacemente P. Veneziani, Commento, cit., 867,
parla di “illecito aquiliano a fronte di un danno all’Erario che
superi un certo limite”.
Sia altresì consentito fare rinvio a A. Perini, La tipicità inafferrabile, ovvero elusione fiscale, “abuso del diritto” e norme penali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2012, 731.
(36) Per un’analoga valutazione, C. Nocerino, sub Art. 4, in
AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S.
Putinati, cit., 79.
(37) Per tutti, sul punto, I. Caraccioli, Linee generali della revisione del sistema penale tributario, cit., 2936.
(38) Applicando, per semplicità, a tale importo l’aliquota
marginale IRPEF del 43%, infatti, l’imposta evasa assume un
valore prossimo alla soglia di punibilità di € 150.000. È poi evidente che le minori aliquote di tassazione previste per i soggetti IRES innalzano ulteriormente tale dato quantitativo.
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La dichiarazione mendace
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determinazione dell’imposta dovuta” (39). Innovazione, questa, coerente con l’ampliamento della
fattispecie di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 3, fino a ricomprendere, come si è visto, altresì condotte manipolative aventi ad oggetto, appunto, le ritenute o i crediti d’imposta dichiarati dal
contribuente.
Nondimeno, l’esplicita tipizzazione dell’indicazione
mendace di “crediti e ritenute fittizi” è avvenuta
solamente in seno all’art. 3, mentre una corrispondente integrazione non è stata apportata all’art. 4,
il quale continua a punire unicamente la condotta
di colui che indica “elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi negativi inesistenti”, senza cenno alcuno ai crediti d’imposta ed alle ritenute subite.
Non solo. A complicare ulteriormente la questione
vi è anche la formulazione della soglia di punibilità
prevista dall’art. 4, comma 1, lett. b), la quale continua a prendere in considerazione i soli “elementi
attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti”, senza alcun riferimento ai crediti ed alle ritenute fittizi. Evidente, qui, è la dissonanza rispetto all’omologa soglia presente nell’art. 3.
Vero ciò, proprio il confronto tra la fattispecie di
dichiarazione infedele, immutata in parte qua, e la
condotta prevista dall’art. 3, rimodulata ad hoc (anche) per tipizzare le manipolazioni aventi ad oggetto crediti d’imposta e ritenute, suggerisce che, se il
legislatore davvero avesse voluto percorrere una diversa opzione di politica criminale, allora avrebbe
dovuto modificare in modo speculare anche la fattispecie di dichiarazione infedele.
Al contrario, il silenzio del legislatore non può che
indurre l’interprete a prendere atto dell’impossibilità
di applicare almeno una delle soglie di punibilità all’indicazione mendace dei crediti d’imposta o delle ritenute,
con la conseguenza di dover constatare l’atipicità,
ai sensi della norma in commento (art. 4), di tali
ipotesi di falsità (40). Esattamente, d’altro canto,
com’è accaduto prima di questa riforma.
Di grande valenza innovativa è poi la già ricordata
previsione contenuta nel novello comma 1 bis dell’art. 4, il quale dispone che “ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene
conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente
esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente
applicati sono stati comunque indicati nel bilancio
ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione
dell’esercizio di competenza, della non inerenza,
della non deducibilità di elementi passivi reali”.
Si tratta, com’è chiaro, di una norma di rilevanza
cruciale siccome dichiara esplicitamente l’atipicità,
ai sensi dell’art. 4, di tutti i casi nei quali il contribuente violi un criterio di classificazione oppure le
regole che presiedono all’individuazione del periodo d’imposta nel quale collocare un componente
reddituale. Di più: la novella espunge dal perimetro
applicativo del delitto in esame altresì tutti i casi
nei quali il contribuente attribuisca arbitrariamente il requisito dell’inerenza o, più in generale, della
deducibilità ad un costo del tutto avulso dalla produzione del reddito o comunque considerato indeducibile dalle norme tributarie. Inequivoca, al riguardo, è proprio la formula con la quale si chiude
il comma 1 bis dell’art. 4, laddove esclude la rilevanza di qualsiasi elemento (evidentemente di costo) privo del connotato della deducibilità.
Ciò, beninteso, a condizione che si tratti di elementi passivi “reali”, ossia di componenti di costo
da ricondurre ad una effettiva realtà fenomenica sottostante.
In ultimo, per sgombrare il campo da qualsiasi
equivoco, si è visto come la lett. d) dell’art. 4,
D.Lgs. n. 158/2015, abbia previsto in modo esplicito che il termine “fittizi” venga soppiantato proprio
dall’aggettivo “inesistenti”, precludendo così qualsiasi potenziale rilevanza penale ai costi che risultino indeducibili per ragioni differenti dalla loro inesistenza.
Ed allora, all’esito della riforma continuerà a risultare tipico, ai sensi della norma in esame, il costo
confluito nella dichiarazione fiscale ma del tutto
inesistente in quanto mai sostenuto dal contribuente.
Al contrario, risulterà atipico il costo derivante dalla ristrutturazione dell’immobile personale ma imputato al reddito dell’impresa, così come atipiche
saranno le quote di ammortamento della barca intestata alla società, ma utilizzata per fini estranei al
perseguimento dell’attività imprenditoriale, o il costo del gioiello regalato all’amante ed annoverato
tra le spese dell’esercizio.
Tutto ciò a condizione, ovviamente, che tali costi
non siano falsamente documentati da fatture che attribuiscano loro una differente natura (ad esempio,
(39) Si veda, in tal senso, l’art. 1, comma 1, lett. a), D.Lgs.
n. 158/2015.
(40) Nello stesso senso, C. Nocerino, sub Art. 4, in AA.VV.,
La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S. Putinati,
cit., 90.
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il gioiello descritto in fattura come una materia
prima, la cucina acquistata per l’abitazione privata
fatturata come libreria per lo studio professionale,
ecc.), circostanza che attrarrebbe prontamente tali
condotte nella sfera di prensione punitiva dell’art.
2 (41). Ma la veritiera fattura che documenta l’acquisto di un meraviglioso gioiello e che confluisce
tra i costi portati dal contribuente in diminuzione
della propria base imponibile, siccome emblematico esempio di elemento passivo smaccatamente indeducibile ma assolutamente “reale”, rappresenta
un fatto che il legislatore ha ritenuto di privare di
tipicità.
A fortiori saranno sempre penalmente irrilevanti,
ad esempio, gli interessi passivi dedotti in misura superiore rispetto al tetto fissato dall’art. 96
T.U.I.R. (42): la conclusione non è priva di rilevanza pratica laddove si pensi che tali limiti alla
deducibilità degli interessi passivi - nella formulazione previgente della norma tributaria in materia
- sono stati introdotti dal legislatore per scongiurare i benefici fiscali derivanti da forme di esasperato
(e talora strumentale) indebitamento del contribuente.
Di qui, in precedenza, le questioni sorte attorno alla liceità, anche sotto il profilo tributario, di operazioni quali il leveraged buy-out o il sale and leaseback: tutti temi destinati a fuoriuscire dall’orizzonte
dell’intervento penale, salvo che tali operazioni
non siano affette da patologie che vadano al di là
della mera deducibilità, nel primo caso, degli interessi passivi che generano (43).
Non solo.
Sotto il profilo classificatorio, potrebbe porsi, ad
esempio, il tema concernente la classificazione ad
hoc di una partecipazione tra le immobilizzazioni al
fine di fruire del regime di participation exemption, ex
art. 87 T.U.I.R., quando, in realtà, si tratti di una
partecipazione ab origine destinata ad essere oggetto
di rapida alienazione [cfr. art. 87, comma 1, lett. b),
T.U.I.R.]. In un caso di tal fatta, in passato, il delitto di dichiarazione infedele sarebbe stato integrato
se l’applicazione della P.EX, derivante dalla fuorviante classificazione della partecipazione, avesse
consentito di ottenere una minore tassazione, in misura tale da superare le previste soglie di punibilità.
Dopo la riforma, essendo una siffatta forma di evasione fiscale riconducibile alla “non corretta classificazione” della partecipazione, grazie al novello comma 1 bis si fuoriesce dalla sfera di rilevanza penale.
Non riterremmo, viceversa, che si tratti di mera
questione classificatoria - ad esempio - l’indicazione
di un ricavo tra le componenti di costo: in siffatti
casi, invero, a mutare è, tout court, il “segno” della
componente reddituale che, invece di incidere in
un senso sulla base imponibile, viene conteggiata in
modo diametralmente opposto. Qui a porsi non è
un problema di classificazione ma si tratta, piuttosto, dell’indicazione di un elemento passivo inesistente accompagnata dall’omissione di un elemento
attivo (44). Sarebbe infatti paradossale che la rilevazione di un elemento passivo inesistente fosse di regola illecita, salvo però divenire atipica nel momento in cui fosse assistita (pure!) da una pari omissione
di ricavi, peraltro raddoppiandone l’impatto sulla
quantificazione dell’evasione.
Ed ancora.
Come si è già avuto modo di rilevare, l’abrogato
comma 1 dell’art. 7, nella sua prima parte disponeva
che “non danno luogo a fatti punibili a norma degli
artt. 3 e 4 le rilevazioni nelle scritture contabili e
nel bilancio eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza ma sulla
base di metodi costanti di impostazione contabile”.
In buona sostanza, quindi, una violazione del principio di competenza e la conseguente imputazione
di un ricavo (o di un costo) ad un esercizio differente rispetto a quello corretto, non si risolveva in
un rimprovero penale solo laddove ciò fosse avvenuto in presenza di “metodi costanti di impostazione contabile”. Questo in quanto l’adozione di metodi contabili costanti garantiva che non venisse a
crearsi alcun “salto” temporale indotto da mutamenti della metodologia di rilevazione del ricavo,
(41) Analogamente, C. Nocerino, sub Art. 4, in AA.VV., La
riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S. Putinati,
cit., 89.
(42) Ma anche - in passato - dagli abrogati artt. 97 e 98,
T.U.I.R.
(43) In argomento, cfr. G.M. Committeri, Il travagliato rapporto tra leveraged buy out e interessi passivi, in Il fisco, n.
27/2014, 2648; Comm. Trib. Prov. Milano 27 febbraio 2013, n.
57, con nota di M. Costigliolo - D. Putinati, Deducibili gli interessi passivi generati da operazioni di MLBO, in Il fisco, n.
33/2013, 5184; T. Gasparri, Interessi passivi e leveraged buy
out, in Il fisco, n. 23/2014, 2238 e 2239; E. Zanetti - G. Marra,
Le operazioni di merger leveraged buy out: profili civilistici e tributari alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali, in
Riv. Guardia di Finanza, n. 2/2014, 496; G. Zizzo, Inerenza degli
interessi passivi e MLBO, nota a Cass., Sez. trib., 30 ottobre
2013, n. 24434, in Rass. trib., n. 3/2014, 627. Nella giurisprudenza tributaria, cfr. Cass., Sez. trib., 30 ottobre 2013, n.
24434, in Rass. trib, n. 3/2014, 613 ss.
(44) Su tale caso, problematicamente, cfr. Corte di cassazione, Ufficio del Massimario, Rel. n. III/05/2015, 21. Cfr. altresì
C. Nocerino, sub Art. 4, in AA.VV., La riforma dei reati tributari,
a cura di C. Nocerino - S. Putinati, cit., 101.
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assicurando che - presto o tardi - quel determinato
componente positivo di reddito sarebbe stato comunque portato a tassazione.
Venuta meno tale norma, al suo posto è stata introdotta la generale previsione secondo la quale
“non si tiene conto […] della violazione dei criteri
di determinazione dell’esercizio di competenza”.
Quindi, la traslazione da un esercizio all’altro di
costi o di ricavi, anche se effettuata strumentalmente, non assumerà rilevanza ai sensi della fattispecie di dichiarazione infedele.
Ovviamente, occorre sottolineare, ancora una volta, come il costo non inerente, non di competenza
o, comunque, non deducibile, debba in ogni caso
essere effettivo, ossia risultare da un’obbligazione
realmente contratta dal contribuente. E, lo ribadiamo, se il costo risulta in qualche modo documentato, tale allegazione deve essere del tutto conforme a
verità: solo a tali condizioni, infatti, si rientra nella
previsione di cui al comma 1 bis dell’art. 4.
Il componente negativo di reddito non esistente
tout court, ossia il costo che confluisce nella determinazione della base imponibile senza mai essere
venuto ad esistenza, continua, invece, ad assumere
rilevanza ai sensi della norma in esame.
Dichiarazione infedele e valutazioni:
l’indicazione dei “criteri concretamente
applicati”
Con la riforma del 2000, il legislatore aveva inteso
attribuire rilevanza penale anche alle valutazioni
mendaci compiute dal contribuente in sede di
quantificazione della base imponibile (45).
L’art. 7 del D.Lgs. n. 74/2000, infatti, non lasciava
adito a dubbi, ponendo piuttosto talune limitazioni
alla tipicità di codesti procedimenti valutativi: da
un lato veniva prevista una “soglia di punibilità”
che considerava irrilevante uno scostamento della
valutazione non superiore al 10% dal presunto “valore vero” (evidentemente determinato dal giudice) che sarebbe scaturito dalla valutazione. Per altro verso, veniva altresì stabilito che non davano
luogo a fatti punibili a norma degli articoli 3 e 4 le
(45) Cfr. I. Caraccioli, Dalle “manette agli evasori” alle “manette agli estimatori”, in Il fisco, 2000, 3362; I. Caraccioli - G.
Falsitta, Le “valutazioni estimative” della riforma penal-tributaria
tra violazioni costituzionali ed ambiguità lessicali, in Il fisco,
2000, 10012; I. Caraccioli, Sanzioni penal-tributarie. La necessità di un “decreto correttivo” come per le sanzioni tributarie non
penali, in Il fisco, 2000, 7021; G.P. Chieppa, Il rilievo penale del
parere del Comitato antielusivo. Questioni aperte in materia di
elusione e di elemento soggettivo del reato, in Il fisco, 2000,
9661; U. Nannucci, Il delitto di dichiarazione infedele, in
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rilevazioni e valutazioni estimative rispetto alle
quali “i criteri concretamente applicati” fossero stati “indicati nel bilancio”.
Come si è accennato, la recente riforma, con l’art.
14, D.Lgs. n. 158/2015, ha abrogato l’art. 7, ancorché si debba rilevare come non si sia trattato di
una vera e propria soppressione della norma in
quanto i suoi contenuti sono stati trasfusi (ed anzi,
per molti aspetti ampliati) nei commi 1 bis ed 1 ter
dell’art. 4.
Ed infatti, il comma 1 bis dispone - come visto che “ai fini dell’applicazione della disposizione del
comma 1, non si tiene conto […] della valutazione
di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti,
rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in
altra documentazione rilevante ai fini fiscali […]”.
Inoltre, il comma 1 ter prevede che “fuori dei casi
di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate,
differiscono in misura inferiore al 10 per cento da
quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b)”.
La norma, quindi, ricalca fedelmente quanto previsto dall’abrogato art. 7, continuando a contemplare
una soglia di punibilità del 10% applicabile a tutte
le valutazioni (cade l’anodino aggettivo “estimative”); in ogni caso, permane la generalizzata esclusione della punibilità per le valutazioni compiute
adottando criteri valutativi resi conoscibili all’Amministrazione finanziaria. Anzi, mentre il veicolo
di una tale disclosure doveva essere, in passato, necessariamente il bilancio, ora la fattispecie riconosce
questa valenza pure a qualsiasi “altra documentazione rilevante ai fini fiscali”.
Ma, al di là della soglia di punibilità del 10%, vale
la pena sottolineare la scelta di rinnovare l’esclusione della rilevanza penale dei procedimenti valutativi svolti in adozione di criteri, quali essi siano,
che comunque siano resi conoscibili all’Amministrazione finanziaria (46). È questa una previsione che
appare davvero di notevole rilievo sistematico, atAA.VV., La riforma del diritto penale tributario (D.Lgs. 10 marzo
2000, n. 74), a cura di U. Nannucci - A. D’Avirro, cit., 177 ss.;
L. Ferlazzo Natoli, A. Buccisano, Luci e ombre sulla riforma tributaria penale, in Boll. Trib., 2000, 1052; A. Mangione, La dichiarazione infedele, in AA.VV., Diritto penale tributario, a cura
di E. Musco, Milano, 2002, 132; A. Lanzi, P. Aldrovandi, Diritto
penale tributario, cit., 267 s.
(46) C. Nocerino, sub Art. 4, in AA.VV., La riforma dei reati
tributari, a cura di C. Nocerino - S. Putinati, cit., 84.
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teso che il legislatore - in linea di principio - sembra subordinare la rilevanza penale della condotta
del contribuente alla concreta difficoltà, da parte
dell’Amministrazione finanziaria, di accertare la
“reale” entità della posta valutata, al di là del mero
risultato finale al quale si perviene all’esito della
valutazione.
Dunque, se lo scostamento dai criteri estimativi
imposti dal legislatore tributario, e quindi - in ultima analisi - l’evasione fiscale, è facilmente individuabile, si rimane al di fuori del rimprovero penale (47), anche se ciò dovesse comportare uno
“sconfinamento” superiore alla soglia del 10%.
Naturalmente, l’applicazione di una tale norma è
subordinata all’effettiva illustrazione, da parte del
contribuente, del procedimento valutativo adottato nel caso concreto. Risulta, quindi, del tutto irrilevante il ricorso a formule di stile o stereotipate,
il cui contenuto finisce con l’essere criptico o nella migliore delle ipotesi - del tutto ambiguo.
Tuttavia, laddove davvero il contribuente decida
di operare in modo trasparente, allora la sua condotta non potrà che essere ritenuta scevra di rimprovero penale, anche qualora il criterio valutativo
prescelto sia del tutto irragionevole: cruciale - ci sembra - la sua immediata individuabilità da parte dell’accertatore (48).
Quanto, poi, alla natura delle previsioni contenute
nei commi 1 bis e 1 ter dell’art. 4, ci pare si tratti
di limiti espressamente tracciati dal legislatore alla
tipicità della fattispecie penale, i quali vanno a ritagliare specifiche condotte da escludere dalla sfera
di applicazione (49).
In tal guisa, il fatto di reato risulta descritto attraverso una duplice tecnica normativa: in positivo,
vi è una generale perimetrizzazione della condotta
illecita, la cui precisa definizione, tuttavia, deve tener conto, in negativo, di talune classi di compor-
tamenti (definiti, appunto, dai commi 1 bis e 1 ter)
che devono essere sottratti all’area di prensione punitiva della fattispecie.
(47) “L’aperta ostensione in un documento destinato alla
pubblicità dei metodi estimativi utilizzati, anche se scorretti, è
stata ritenuta, difatti, incompatibile con la configurabilità di un
dolo di evasione o, comunque, tale da escludere quel minimo
di attitudine all’inganno nei confronti del fisco richiesta ai fini
della configurabilità anche del delitto di dichiarazione infedele”: così già la Relazione governativa di accompagnamento al
primigenio decreto del marzo del 2000.
(48) Il punto, tuttavia, è stato oggetto di opinioni contrastanti che, seppur espresse prima della recente riforma, paiono del tutto attuali. Nel senso del testo, seppur dubitativamente, I. Caraccioli - G. Falsitta, Le “valutazioni estimative” della riforma penal-tributaria, cit., 10014. Per l’opposta opinione cfr.,
A. Traversi - S. Gennai, I nuovi delitti tributari, cit., 246-247.
(49) Cfr., seppur con riferimento al previgente art. 7, D.Lgs.
n. 74/2000, A. Lanzi, P. Aldrovandi, Diritto penale tributario,
cit., 271 s.
(50) Per l’approfondimento del tema, rimasto immutato ri-
spetto alla fattispecie previgente, ritenendo la fattispecie contraddistinta da un dolo di natura intenzionale, vds. A. Di Amato, La dichiarazione infedele, in A. Di Amato - R. Pisano, I reati
tributari, in A. Di Amato (a cura di), Trattato di diritto penale dell’impresa, cit., 561 s.; A. Mangione, La dichiarazione infedele,
in AA.VV., Diritto penale tributario, a cura di E. Musco, cit.,
141; si vedano altresì le considerazioni di A. Lanzi, sub Art. 4, ,
in AA.VV., Diritto e procedura penale tributaria, cit., 212 s.
Per la ritenuta sussistenza di un dolo specifico, cfr. L. Ferlazzo Natoli - A. Buccisano, Luci e ombre sulla riforma tributaria
penale, cit., 1049; A. Martini, Reati in materia di finanze e tributi, cit., 406; L. Pistorelli, Quattro figure contro il contribuente infedele, cit., 60; A. Sciello, Prime osservazioni sui nuovi reati tributari, in Dir. prat. trib., 2000, I, 332-333; E. Musco - F. Ardito,
Diritto penale tributario, cit., 191; A. Traversi - S. Gennai, I nuovi
delitti tributari, cit., 134 e 216. Inequivoca - in tal senso - è la
presa di posizione del Ministero delle Finanze: cfr. la Circ. n.
154 del 4 agosto 2000, illustrativa del D.Lgs. n. 74/2000.
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Le questioni di diritto intertemporale: la
parziale abolitio criminis introdotta dalla
nuova fattispecie
Anche la fattispecie di dichiarazione infedele vede
invariato il proprio elemento soggettivo, ancora
caratterizzato dalla finalità di evadere le imposte sui
redditi o sul valore aggiunto e sul quale, quindi, non
ci soffermeremo in questa sede (50).
Qualche rilievo, invece, meritano le questioni di
diritto intertemporale, atteso che la nuova fattispecie di dichiarazione infedele appare speciale rispetto
all’ipotesi previgente: i profili di innovazione introdotti, infatti, vanno nella direzione di restringere
ulteriormente il fatto tipico, lasciando al di fuori
dell’area applicativa alcune categorie di condotte
che, al contrario, erano precedentemente oggetto
di incriminazione.
Nessun dubbio, quindi, in ordine alla continuità
normativa che sussiste tra la “vecchia” fattispecie
di dichiarazione infedele e quella consegnataci dalla riforma: i fatti rientranti nell’alveo dell’attuale
delitto, dunque, continueranno ad assumere rilevanza penale anche se commessi prima dell’entrata
in vigore della norma oggi vigente.
Di certo, la nuova ipotesi di dichiarazione infedele
dà luogo ad un non trascurabile fenomeno di abolitio criminis che interessa tutti quei fatti puniti dalla
precedente fattispecie ma destinati a rimanere atipici ai sensi della novella. Ciò avviene, con particolare evidenza, in tutti quei casi in cui si assiste
ad un’evasione fiscale superiore a € 50 mila ma
non a € 150 mila: l’innalzamento della soglia rende
applicabile, in siffatte situazioni, la disciplina di
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Il delitto di omessa dichiarazione di cui all’art. 5
D.Lgs. n. 74/2000 ha visto aumentare il trattamento sanzionatorio, che passa dalla reclusione da uno
a tre anni alla reclusione da un anno e sei mesi a
quattro anni. Anche la soglia di punibilità, parametrata all’imposta evasa, sale da euro trentamila a
cinquantamila.
Il vero quid novi della fattispecie, tuttavia, è racchiuso nel comma 1-bis, laddove è stata reintrodotta la sanzione penale (pari a quella prevista dal
comma precedente) per l’omessa presentazione della dichiarazione del sostituto d’imposta. Qui la
scelta di politica criminale appare diametralmente
opposta a quell’orientamento che, nel 2000, aveva
indotto ad abbandonare il rimprovero penale per
fatti concernenti le ritenute operate dal sostituto
d’imposta. Un indirizzo, per vero, già in parte sconfessato con l’introduzione, a decorrere dal
2005 (51), del delitto previsto dall’art. 10 bis, ma
oggi del tutto abiurato sia, come si è visto, in seno
all’art. 3, sia - in modo forse ancor più radicale con la fattispecie omissiva in esame. Provvidenziale è qui la previsione di una soglia di punibilità
commisurata alle ritenute non versate e pari - anch’essa - ad euro cinquantamila: ciò a scongiurare
che condotte del tutto scevre di offensività possano
tornare, come ai tempi dell’art. 2, comma 1, D.L.
n. 429/1982, convertito dalla L. n. 516/1982, ad
assumere rilevanza penale, per giunta - attualmente
- a titolo di delitto. Non deve sfuggire, infatti, come - di per sé - possa risultare sganciata da qualsiasi fenomeno di concreta evasione la semplice omissione di un obbligo dichiarativo concernente ritenute che, in astratto, ben potrebbero essere state
comunque effettuate e versate o la cui omissione
non necessariamente si risolve in fatti di evasione
fiscale. Dunque, solo la presenza della soglia di punibilità pone riparo a quello che, diversamente, sarebbe un ritorno alla criminalizzazione di un’omissione meramente sintomatica dell’evasione fiscale.
Ad essere tutelata è la dichiarazione annuale prevista dall’art. 4, comma 1, d.P.R. n. 322/1998 (52) il c.d. “modello 770” - nella quale il sostituto d’imposta riepiloga le ritenute ed i versamenti effettuati
ed indica i soggetti che tali ritenute hanno subito.
Si noti come la norma introdotta al novello comma 1 bis non preveda, sotto il profilo soggettivo, il
fine di evadere le imposte. Probabilmente, tale silenzio è frutto di una dimenticanza del legislatore
che, tuttavia, potrebbe schiudere le porte a qualche
poco auspicabile semplificazione nell’accertamento
del dolo (53).
Infine, come è stato esattamente osservato (54), il
termine di presentazione telematica del modello
770 relativo al 2014 è scaduto il 21 settembre
2015, ma, grazie alla “clausola di tolleranza” di novanta giorni prevista dal comma 2 dell’art. 5, il
reato in esame trova perfezionamento, con riferimento a tale periodo d’imposta, il 20 dicembre
2015. Ergo, l’omessa presentazione della dichiarazione del sostituto d’imposta sembrerebbe assumere
rilevanza penale già a partire dal periodo d’imposta
2014 (55).
(51) L’art. 10 bis è stato inserito nel D.Lgs. n. 74/2000 dall’art. 1, comma 414, L. 30 dicembre 2004, n. 311, a decorrere
dal 1° gennaio 2005.
(52) L’art. 4 del d.P.R. n. 322/1998 è stato modificato dall’art. 21 del D.Lgs. n. 158/2015.
(53) Nello stesso senso, cfr. Corte di cassazione, Ufficio del
Massimario, Rel. n. III/05/2015, 24; S. Putinati, sub Art. 5, in
AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S.
Putinati, cit., 119.
(54) Vds. Corte di cassazione, Ufficio del Massimario, Rel. n.
III/05/2015, 24; S. Putinati, sub Art. 5, in AA.VV., La riforma dei
reati tributari, a cura di C. Nocerino - S. Putinati, cit., 122. Il
suddetto termine è stato previsto dal D.P.C.M. del 28 luglio
2015.
(55) Per l’analoga questione sorta, nell’ambito dell’art. 10
bis, con riferimento alle ritenute effettuate nel 2004 (si consi-
cui all’art. 2, comma 2, c.p. E analoghe conclusioni
comporta l’incremento da due a tre milioni di euro
del tetto presente nella soglia di cui alla lett. b)
del comma 1.
Ma la disciplina dell’abolitio criminis troverà applicazione anche per tutti quei fatti nei quali la condotta di evasione è stata attuata attraverso il ricorso, ad esempio, all’indicazione di costi indeducibili
in quanto non inerenti o di entità tale da superare
determinati livelli previsti dalla normativa tributaria (si pensi alla deducibilità degli interessi passivi,
dei crediti ritenuti inesigibili, ecc.). Oppure, ancora, in situazioni di rinvio ad un successivo periodo
d’imposta della tassazione di ricavi di competenza
dell’esercizio.
Si tratta, in dettaglio, di quelle forme di evasione
fiscale che possono oggi essere ricondotte al comma 1-bis: tutte ipotesi, queste, in precedenza potenzialmente rientranti nell’alveo dell’art. 4 ma destinate, oggi, a rimanere penalmente irrilevanti e rispetto alle quali, quindi, troverà applicazione il
comma 2 dell’art. 2 c.p., laddove commesse prima
dell’entrata in vigore dell’attuale riforma.
Le novità in materia di omessa
dichiarazione
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Mentre il delitto di occultamento o distruzione di
scritture contabili (art. 10) ha subito solamente un
incremento di pena (oggi pari alla reclusione da un
anno e sei mesi a sei anni), di maggiore portata sono le innovazioni apportate agli artt. 10 bis, 10 ter e
10 quater.
In primo luogo, sotto il profilo della tecnica normativa, queste due ultime fattispecie sono state riscritte in modo da assumere una formulazione
autonoma e non più costruita per relationem rispetto a quella disciplinata dall’art. 10 bis.
Nella sostanza, le nuove ipotesi appaiono sovrapponibili alle precedenti, anche se non mancano alcuni profili di novità che meritano una sottolineatura, a cominciare dall’innalzamento delle soglie di
punibilità contemplate dagli artt. 10 bis e 10 ter.
Ed invero, se il delitto di omesso versamento di ritenute vede innalzarsi la soglia di punibilità (annua) da euro cinquantamila ad euro centocinquantamila di ritenute non versate, già si è detto di come
la soglia prevista dall’art. 10-ter raggiunga la vetta
di euro duecentocinquantamila di imposta sul valore
aggiunto non versata (56). Evidente è l’impatto di
tali novelle non solo sui fatti di futura commissione ma anche sotto il profilo dell’abolitio criminis
delle passate omissioni.
Da rilevare, poi, con riferimento alla fattispecie di
cui all’art. 10 bis, l’espressa rilevanza attribuita all’omesso versamento anche delle ritenute semplicemente indicate nella dichiarazione annuale del
sostituto d’imposta, senza che sia necessario quindi - accertare che questi abbia rilasciato al sostituito un mendace certificato attestante l’avvenuto versamento di tali ritenute. L’innovazione,
innescata da recenti contrasti giurisprudenziali (57), non è di poco momento: infatti, la nuova
norma equipara situazioni di mero inadempimento
all’obbligo di versare le ritenute effettuate e correttamente riflesse tanto nella dichiarazione
(mod. 770) quanto nelle certificazioni, a casi nei
quali vengano rilasciate false certificazioni (58)
concernenti ritenute in realtà non applicate, ma
falsamente recepite nella dichiarazione del sostituto d’imposta.
Si noti che il diverso grado di insidiosità delle condotte in questione era stato ben colto dal legislatore del 1982 che, infatti, sanzionava a livello contravvenzionale l’omesso versamento delle ritenute
dovute, mentre puniva con una fattispecie delittuosa la mendace certificazione (cfr. art. 2, comma 2 e
comma 3, D.L. n. 429/1982, convertito dalla L. n.
516/1982, seppur con una disciplina non del tutto
sovrapponibile a quella attuale). Ora le due condotte sono equiparate in seno all’art. 10 bis che, infatti, sanziona anche la dichiarazione “fedele” semplicemente seguita dall’omesso versamento delle ritenute effettuate. Il tutto, ovviamente, si risolve in
un evidente alleggerimento dell’onere probatorio
per l’accusa (59), ma dà altresì luogo ad un altrettanto innegabile assimilazione di condotte che,
tuttavia, risultano connotate da un ben differente
livello di offensività.
Ciò tanto più alla luce del fatto che le ritenute
da versare sono quelle “dovute sulla base della
stessa dichiarazione”: quid iuris in presenza dell’indicazione di un dato errato per eccesso in dichiarazione, ma accompagnato dal versamento
corretto delle ritenute? Applicabilità dell’art. 131
bis c.p. o, addirittura, necessità di scomodare la
scivolosa categoria dei fatti inoffensivi (apparentemente) conformi al tipo? Si consideri, in ogni
caso, che l’utilizzo nella dichiarazione fiscale del sostituito di una falsa certificazione delle ritenute
subite assume rilevanza, ricorrendone gli altri presupposti, ai sensi dell’art. 3, così come oggi modificato.
La previsione, nonostante quanto già affermato in
precedenza da una parte della giurisprudenza, appare dotata di una forte carica innovativa e, quindi,
deri che la fattispecie incriminatrice entrò in vigore il 1° gennaio 2005), cfr. le contrastanti soluzioni offerte da Cass., Sez.
III, 26 maggio 2010, n. 25875, in Riv. giur. trib., 2010, 32/33,
43, e da Cass., Sez. III, 8 febbraio 2012, n. 18757, in www.penalecontemporaneo.it. In argomento, si veda, per tutti, G. Soana, I reati tributari, III ed., Milano, 2013, 309 s.
(56) Per la ritenuta incompatibilità di una tale soglia con la
normativa europea che governa l’imposta sul valore aggiunto,
cfr. l’ordinanza di rimessione della questione alla CGCE di Trib.
Varese 30 ottobre 2015, inedita ma sulla quale si veda R. Amadeo, sub Art. 13, in AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura
di C. Nocerino - S. Putinati, cit., 334 ss.
(57) Per l’orientamento che ritiene non sufficiente il solo
contenuto del Modello 770 per la prova della sussistenza del
delitto di cui all’art. 10 bis, nella sua formulazione previgente,
cfr. Cass., Sez. III, 9 ottobre 2014, n. 10475; Cass., Sez. III, 15
ottobre 2014, n. 11335. Per l’opposto orientamento, che invece ritiene sufficiente quanto indicato nel modello 770, cfr., ad
esempio, Cass., Sez. III, 27 marzo 2014, n. 19454; Cass., Sez.
III, 15 novembre 2012, n. 1443. Per ulteriori riferimenti si veda
Corte di cassazione, Ufficio del Massimario, Rel. n. III/05/2015,
25 s. Sul punto, diffusamente, si veda L. Monticelli, sub Art.
10-bis, in AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S. Putinati, cit., 178 ss.
(58) Cfr. art. 4, comma 6 ter e 6 quater, d.P.R. n. 322/1998.
(59) Per la medesima valutazione, cfr. L. Monticelli, sub Art.
10-bis, in AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S. Putinati, cit., 185.
I reati di omesso versamento e di indebita
compensazione
Diritto penale e processo 1/2016
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Diritto penale
Con un intervento prevalentemente (ma non
esclusivamente) di forma, l’art. 10 del D.Lgs. n.
158/2015 introduce nel corpus del Decreto n. 74,
all’art. 12 bis, la disciplina della confisca prevista
per i reati tributari, “recuperandola” da quella collocazione extra-vagante che la vedeva relegata al
comma 143 dell’art. 1, L. 24 dicembre 2007, n.
244.
L’occasione è stata altresì propizia per descrivere in
modo compiuto l’istituto, affrancandolo da quella
tipizzazione mediante rinvio all’art. 322 ter del codice penale che fino ad oggi ne aveva mortificato
la formulazione.
Il restyling, tuttavia, non è solo formale. In primo
luogo, infatti, la confisca viene estesa anche alla
fattispecie di cui all’art. 10, D.Lgs. n. 74/2000, che,
com’è noto, sanziona la distruzione o l’occultamento delle scritture contabili (61). Sorge così qualche
perplessità in ordine all’individuazione del profitto
del reato in questione suscettibile di essere confiscato, assodato che si è al cospetto - all’evidenza di una fattispecie di mero pericolo. In effetti, il
dubbio è che l’eventuale confisca possa essere commisurata all’entità dell’imposta evasa scaturente da
quelle forme di accertamento particolarmente semplificate che il legislatore prevede in mancanza di
scritture contabili attendibili (cfr. art. 39, d.P.R. n.
600/1973). E ciò, eventualmente, anche in presenza di fenomeni di evasione destinati a non superare
le soglie di punibilità previste dai reati dichiarativi,
ma elevati a rango di illeciti penali proprio attraverso l’art. 10.
In realtà, un tale percorso ermeneutico sarebbe indubbiamente frutto di una forzatura del tessuto
normativo, attraverso la quale accertamenti di natura presuntiva rischierebbero, tout court, di innescare conseguenze di carattere penale (62), per
giunta potenzialmente anche al di là dei limiti
quantitativi altrimenti imposti dal legislatore. Tuttavia, non è forse azzardato prevedere che tentativi
di tal fatta non resteranno estranei alla prassi applicativa.
La novella lascia irrisolto il vero punctum dolens
che presenta l’applicazione della misura ablativa alla materia penale tributaria, ossia l’operatività della
sua forma “per equivalente” nei confronti del contribuente-persona giuridica. Tema, questo, che si
intreccia con le limitrofe questioni attinenti sia alla misurazione che - ancor più - all’individuazione
del profitto derivante da fattispecie che, come i
reati tributari, danno sostanzialmente luogo ad un
risparmio di spesa e non ad un accrescimento patrimoniale. A scaturirne è un autentico nodo gordiano, sul quale si è cimentata più volte - anche negli
ultimi anni - la Cassazione a Sezioni Unite, peraltro con risultati non del tutto soddisfacenti (63).
La sensazione, quindi, è che le acque siano ancora
troppo mosse e manchi un assestamento della materia tale da consentire al legislatore di cristallizzarne i contenuti.
Peraltro, sul punto convergono anche le note problematiche derivanti dall’impatto della c.d. senten-
(60) Nello stesso senso, Corte di cassazione, Ufficio del
Massimario, Rel. n. III/05/2015, 26-27.
(61) Come è stato acutamente osservato, peraltro, una tale
estensione appare travalicare i confini della delega: cfr., S. Delsignore, sub Art. 12-bis, in AA.VV., La riforma dei reati tributari,
a cura di C. Nocerino - S. Putinati, cit., 289-290, il quale richiama anche le osservazioni svolte in proposito dalle Commissioni parlamentari.
(62) Nello stesso senso, cfr. S. Delsignore, sub Art. 12-bis,
in AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino S. Putinati, cit., 291 s.
(63) Basterà ricordare Cass., SS.UU., 30 gennaio 2014, n.
10651; Cass., SS.UU., 24 aprile 2014, n. 38343; Cass., SS.UU.,
26 giugno 2015, n. 31617. Per un’ampia panoramica su tali temi, e per i necessari riferimenti bibliografici, si rinvia a Corte di
cassazione, Ufficio del Massimario, Rel. n. III/05/2015, 29 ss. In
argomento, cfr. altresì, per tutti, S. Delsignore, sub Art. 12-bis,
in AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino S. Putinati, cit., 285 ss.; C. Sanvito, La nuova confisca obbligatoria in caso di reati tributari trova collocazione sistematica, in Il
fisco, 2015, 3143; T. Tassani, La “nuova” confisca tributaria, in Il
fisco, 2015, 4130; G. Giangrande, Tìmeo dànaos et dona ferentes: le Sezioni Unite della Cassazione in materia di confisca per
equivalente, in Dir. prat. trib., 2014, II, 637; G. Varraso, Punti
fermi, disorientamenti interpretativi e motivazioni “inespresse”
delle Sezioni Unite in tema di sequestro a fini di confisca e reati
tributari, in Cass. pen., 2014, 2806; F. Mucciarelli - C.E. Paliero,
Le Sezioni Unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e
distorsioni ermeneutiche, in www.penalecontemporaneo.it; R.
Borsari, Reati tributari e confisca di beni societari. Ovvero, di
un’occasione perduta dalle Sezioni Unite, in Società, 2014, 862
ss., 867.
risulterà applicabile, in parte qua, solamente ai fatti
commessi dal 22 ottobre 2015 (60).
Ancora da segnalare, concludendo il tema, è lo
sdoppiamento subito dalla fattispecie di cui all’art.
10-quater, oggi suddivisa in due autonome ipotesi
di reato: una meno grave, racchiusa nel comma 1,
avente ad oggetto la compensazione compiuta contrapponendo a debiti tributari dei crediti semplicemente “non spettanti” (ma esistenti); una seconda
e più grave ipotesi (con pena pari a quella comminata per le ipotesi fraudolente) è, invece, prevista
dal comma 2 e riguarda le compensazioni attuate
ricorrendo a crediti “inesistenti”.
In ambedue i casi è prevista una soglia di punibilità
di euro cinquantamila annui.
La confisca
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Diritto penale
za “Grande Stevens” (64) sui rapporti tra sanzioni
tributarie di natura amministrativa e penale, in
uno con la scelta - talora caldeggiata, ma perlopiù
osteggiata (65) - di introdurre anche le fattispecie
penali tributarie nell’alveo della responsabilità degli enti ex D.Lgs. n. 231/2001 (66).
Vi è quanto basta per pronosticare un nuovo intervento del legislatore, auspicabilmente non troppo
lontano nel tempo.
Non privo di asperità si presenta altresì il comma 2
del novello art. 12 bis, disponendo (nel suo primo
periodo) che “la confisca non opera per la parte
che il contribuente si impegna a versare all’erario
anche in presenza di sequestro”.
Almeno due, infatti, sono le questioni che la norma pone all’interprete: in primo luogo, ci si chiede
in cosa debba estrinsecarsi “l’impegno” del contribuente, ragionevolmente da identificare con un
obbligo dotato di sostanza normativa. Si può così
ipotizzare, a titolo esemplificativo, il perfezionamento di un accertamento con adesione o di una conciliazione giudiziale, probabilmente anche se non
(ancora) accompagnato da un primo versamento (67). Ciò ha condotto a lamentare la scarsa incisività di una previsione che permette “al condannato di evitare la confisca semplicemente impegnandosi a versare all’Erario ciò che, fino a quel
momento, non ha mai versato” (68). E di qui, non
a torto, la preferenza per una previsione che fosse
stata volta ad escludere dalla confisca solo la quota
di evasione già “restituita” (69): sennonché, come
si è detto, diversa è stata la scelta del legislatore.
In ogni caso, resta, sullo sfondo, il condivisibile
principio che vuole sottrarre alla confisca le sostanze del contribuente, talora già sottoposte a se(64) Cedu 4 marzo 2014, n. 18640/2010, Grande Stevens c.
Italia. Su tale pronuncia, per tutti, A. Alessandri, Prime riflessioni sulla decisione della Corte Europea dei Diritto dell’Uomo riguardo alla disciplina italiana degli abusi di mercato, in Giur.
comm., 2014, I, 855; C. Zaccone - F. Romano, Il concorso tra
sanzioni penali e sanzioni amministrative: le fattispecie di cui agli
artt. 185 e 187 ter, TUF alla luce di una recente sentenza della
Corte di Strasburgo, in Riv. dir. trib., 2014, III, 147; G.M. Flick V. Napoleoni, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto?, in Riv. Società, 2014, 953; C. Santoriello, La sentenza Ifil-Grande Stevens, la giurisprudenza comunitaria sul divieto di punire più volte la medesima condotta e
le conseguenze sulla responsabilità da reato degli enti collettivi,
in Rivista 231, n. 4-2014, 43 ss. Cfr. altresì Cedu 20 maggio
2014, Nykanen c. Finlandia, in www.penale contemporaneo.it;
Cedu 27 novembre 2014, n. 11828/11, Lucky Dev c. Svezia,
ivi. Nella giurisprudenza domestica, per la cumulabilità delle
sanzioni, cfr. Cass., Sez. III, 8 aprile- 15 maggio 2014, n.
20266, in Riv. dir. trib., IV, 2014, 55 ss., con nota di G. Cesari,
Illecito penale tributario. Il principio del ne bis in idem alla luce
della più recente giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo e della Cassazione, ivi, 74 ss.
Diritto penale e processo 1/2016
questro, destinate a ristorare l’Erario. E ciò, si badi,
anche nella prospettiva di consentire l’accesso al
c.d. “patteggiamento” (70).
Ex adverso, l’ultima parte del comma 2 dispone
che, “nel caso di mancato versamento la confisca è
sempre disposta”.
La seconda questione interpretativa a cui si faceva
cenno attiene al significato da attribuire all’indicazione di limitare la confisca alla “parte che il contribuente si impegna a versare all’erario”. Sembra così
affacciarsi la delicata questione che si pone allorquando il quantum oggetto di (asserita) evasione in
sede penale risulta di ammontare differente e - in
ipotesi - superiore a quello accertato (o comunque
ritenuto) in sede amministrativa. E ciò in ossequio
all’indipendenza che, almeno in linea teorica, connota i due procedimenti (il c.d. “principio del doppio binario” di cui all’art. 20, D.Lgs. n. 74/2000).
In siffatti casi, invero, parrebbe che la definizione
con l’Amministrazione finanziaria possa essere ritenuta insufficiente - siccome solo parziale - nella
prospettiva penale, così da legittimare una riduzione parimenti parziale del quantum oggetto della misura. Si avrebbe così una definizione amministrativa dell’evasione accompagnata da una confisca di
entità pari al surplus di evasione accertato in sede
penale: un guazzabuglio arduo da districare, tanto
più in casi nei quali il contribuente-reo fosse altresì
intenzionato a ricorrere al “patteggiamento”.
L’estinzione del debito tributario quale
causa sopravvenuta di esclusione della
punibilità
L’art. 11 del D.Lgs. n. 158/2015 sostituisce integralmente il previgente art. 13, D.Lgs. n. 74/2000,
Cfr. altresì G.M. Flick, Reati fiscali, principio di legalità e ne
bis in idem: variazioni italiane su un tema europeo, in Rass. trib.,
2014, 939.
(65) Come nella sentenza Gubert (Cass., SS.UU., 30 gennaio 2014, n. 10651) o nella proposta di L. C 330, presentata il
18 marzo 2013, primo firmatario on. Ferranti, sub art. 9.
(66) Si vedano, peraltro con opinioni differenti, per tutti, P.
Ielo, Reati tributari e responsabilità degli enti, in Rivista 231, n.
3-2007, 7; C. Santoriello, La sentenza Ifil-Grande Stevens, cit.,
50; A. Perini, Brevi considerazioni in merito alla responsabilità
degli enti conseguente alla commissione di illeciti fiscali, in Rivista 231, n. 2-2006, 79; R. Alagna, I reati tributari ed il regime
della responsabilità da reato degli enti, in Riv. trim. dir. pen. ec.,
2012, 397.
(67) Nello stesso senso, T. Tassani, La “nuova” confisca tributaria, cit., 4134.
(68) Così Corte di cassazione, Ufficio del Massimario, Rel. n.
III/05/2015, 39-40.
(69) S. Finocchiaro, La riforma dei reati tributari: un primo
sguardo al D.Lgs. 158/2015, in www.penalecontemporaneo.it.
(70) Cfr. art. 13 bis, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000, sul quale
ci si soffermerà tra breve.
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dando corpo ad una scelta di politica criminale fortemente caratterizzante l’attuale riforma: l’attribuzione di efficacia estintiva dell’illecito penale al pagamento del debito tributario.
La previsione, per vero, non è del tutto inedita:
già la L. n. 408/1990 (art. 14, comma 5) aveva
previsto che il c.d. “ravvedimento operoso” del
contribuente comportasse la non punibilità della
gran parte delle fattispecie penali in allora previste dalla L. n. 516/1982 (71), mentre il D.Lgs. n.
218/1997 (art. 2, comma 3) aveva dotato di analoga efficacia l’adesione all’accertamento. Un tale
approccio fu tuttavia abbandonato con la riforma
del 2000, volta a riconoscere semplicemente efficacia attenuante al risarcimento del danno arrecato all’Erario (72) attraverso una circostanza originariamente ad effetto speciale, ma il cui impatto,
nel 2011, fu smorzato fino a ricondurlo all’ordinario effetto diminuente di non più di un terzo di
pena.
Tale orientamento del legislatore viene ora radicalmente ripudiato, posto che le condotte riparatorie
del contribuente assurgono oggi - quantomeno - a
circostanza attenuante (nuovamente) ad effetto speciale per le fattispecie più gravi (cfr. il nuovo art.
13 bis, D.Lgs. n. 74/2000, sul quale si tornerà tra
breve) mentre, per le figure di reato prive di venature fraudolente, queste comportano il venir meno
della punibilità.
Infatti, l’art. 13, comma 1 dispone che “i reati di
cui agli artt. 10 bis, 10 ter e 10 quater, comma 1,
non sono punibili se, prima della dichiarazione di
apertura del dibattimento di primo grado, i debiti
tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle
speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché
del ravvedimento operoso”. Dunque, il contribuente che abbia omesso di effettuare tempestivamente
i versamenti delle ritenute o dell’Iva, oppure che
abbia compiuto delle compensazioni indebite, potrà sottrarsi al rimprovero penale semplicemente
provvedendo a versare il dovuto prima dell’avvio
del dibattimento.
La previsione, letta anche alla luce degli innalzamenti che hanno subito le soglie di punibilità previste dagli artt. 10 bis e 10 ter, denuncia l’evidente
disagio del legislatore di fronte alla criminalizzazione di fatti che, in sostanza, si risolvono nell’omesso
adempimento ad obbligazioni tributarie fedelmente
dichiarate dal contribuente (73). Tanto più che,
come la recente applicazione giurisprudenziale ha
insegnato, assai di frequente tali omissioni sono
necessitate da gravi situazioni di crisi che affliggono il contribuente.
Ed allora, se il legislatore non ha trovato la forza
di abrogare del tutto tali fattispecie (in ciò forse
costretto, almeno in parte, anche dalla normativa
comunitaria (74)), ha tuttavia provveduto a mitigarne notevolmente l’impatto applicativo, dimenticando però che “né il risarcimento del danno né
la riparazione poss(o)no dirsi pena” (75). Probabilmente, se davvero si volevano conservare tali
fattispecie, sarebbe stato preferibile modulare l’intervento penale non tanto in funzione dell’entità
dell’inadempimento ma, piuttosto, della concreta
rimproverabilità dello stesso, ponendo un freno a
taluni orientamenti giurisprudenziali particolarmente severi. In effetti, gli istituti di parte generale che, facendo leva sulla forza maggiore o, comunque, sull’elemento soggettivo del reato,
avrebbero comunque dovuto assicurare l’irrilevanza penale delle omissioni “imposte” da situazioni
di crisi, sembrano essere stati non di rado trascurati in sede applicativa (76). Di qui l’opportunità
di un intervento legislativo che, tuttavia, sarebbe
forse potuto essere meno grossolano di quello oggi
attuato, per esempio evitando che il beneficio della non punibilità non spetti a colui che si sia operosamente ma inutilmente attivato, per essere invece riconosciuto al contribuente indolente ma
(71) Sia consentito fare rinvio, per una sintetica analisi di tale disciplina, a A. Perini, Elementi di diritto penale tributario, Torino, 1999, 244 ss.
(72) Cfr. l’art. 13, D.Lgs. n. 74/2000, nella sua primigenia
versione.
(73) Come si è rilevato in precedenza, fa solo eccezione,
evidentemente, l’omesso versamento di ritenute accompagnato dal rilascio di certificazioni mendaci.
(74) E si veda la già citata ordinanza di rinvio alla Corte di
Giustizia del Trib. Varese 30 ottobre 2015, ancora inedita,
avente ad oggetto l’art. 10 ter ed il suo presunto contrasto,
nella parte in cui è prevista una soglia di punibilità di €
250.000, con la normativa comunitaria e, segnatamente, con
l’art. 4, par. 3, TUE, con l’art. 325 TFUE, con la Convenzione
PIF e con il Reg. n. 2988/95 del Consiglio.
(75) Così, autorevolmente, M. Romano, Risarcimento del
danno da reato, diritto civile, diritto penale, in Riv. it., 1993, 875.
Cfr. altresì, per tutti, D. Fondaroli, Illecito penale e riparazione
del danno, Milano, 1999, passim, part. 47 ss.; K. Roxin, Risarcimento del danno e fini della pena, in Riv. it. dir. proc. pen.,
1987, 3 ss.
(76) Vds. Cass., SS.UU., (28 marzo 2013) 12 settembre
2013, n. 37424, sull’art. 10 ter del D.Lgs. n. 74/2000; e Cass.,
SS.UU., (28 marzo 2013) 12 settembre 2013, n. 37425, sull’art.
10 bis del Decreto, entrambe commentate da I. Caraccioli, Riflessioni sui reati di omissione propria e sulle cause di non punibilità suscitate dalle Sezioni Unite della Cassazione, in Riv. dir.
trib., 2013, 11, 253 ss.
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beneficiato dall’intervento di un provvidenziale
finanziatore (77).
Ma tant’è: la disciplina appare appiattita sulle esigenze di cassa e, quindi, dispiegherà tutta la sua efficacia ablativa della punibilità nei confronti di coloro che, scoperti e fatti oggetto di azione penale,
riusciranno in extremis a saldare il proprio conto
con il fisco.
Da notare che il pagamento dovrà comprendere
anche gli interessi e le sanzioni, mentre il riferimento alle “speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie,
nonché del ravvedimento operoso” è, se non del
tutto, almeno in buona parte ridondante, vista la
peculiarità delle violazioni in esame. Infatti, trattandosi di mere irregolarità nel versamento dei tributi, di regola queste saranno oggetto di accertamento semplicemente mediante i cosiddetti “avvisi
bonari” di cui agli artt. 36 bis, comma 3, d.P.R. n.
600/1973 (in materia di imposte dirette) e 54 bis,
comma 3, d.P.R. n. 633/1972 (in materia di IVA):
dunque, salvo casi assai peculiari, non vi saranno
accertamenti ai quali fare adesione o dichiarazioni
da “ravvedere”.
Si noti che la fattispecie prevista dal comma 2 dell’art. 10 quater rimane al di fuori del perimetro applicativo della causa di esclusione della punibilità
in conseguenza del maggiore tasso di fraudolenza
che la distingue dall’ipotesi prevista dal comma 1:
anziché portare in compensazione crediti “non
spettanti”, infatti, nel delitto di cui al comma 2 la
compensazione avviene facendo ricorso a crediti
“inesistenti”.
Analoga causa di esclusione della punibilità è prevista, altresì, per le fattispecie di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione (art. 13, comma 2,
D.Lgs. n. 74/2000), anche se il legislatore ha qui
voluto limitare temporalmente la fruibilità di un
tale beneficio: invece di attendere l’apertura del dibattimento, il contribuente desideroso di veder caducata la rilevanza penale della propria condotta
dovrà provvedere ad estinguere il debito tributario
mediante ricorso al ravvedimento operoso oppure
alla presentazione della dichiarazione omessa entro
il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo.
In sostanza, quindi, in caso di omessa presentazione
della dichiarazione, il contribuente avrà un anno
di tempo per porre rimedio alla propria inadempienza.
Più complicata, invece, appare la soluzione in caso
di ricorso al “ravvedimento operoso” in presenza di
una dichiarazione infedele, atteso che la L. 23 dicembre 2014, n. 190, ha notevolmente ampliato i
limiti temporali di tale istituto, sostanzialmente attuabile fintanto che non scadano i termini per effettuare l’accertamento (cfr. l’art. 13, D.Lgs. n.
472/1997 (78)).
Sembra, pertanto, che la possibilità di veder venire
meno la punibilità per un fatto di dichiarazione infedele possa rimanere aperta fino alla decadenza
dell’azione di accertamento (79). Da segnalare,
quindi, è la profonda differenza che sussiste tra le
tempistiche concesse alla resipiscenza del contribuente a seconda che questi abbia commesso il delitto di cui all’art. 4 o quello di cui all’art. 5 del
D.Lgs. n. 74/2000.
Unico limite è rappresentato dalla “formale conoscenza”, da parte del reo e anteriormente all’effettuazione del ravvedimento, “di accessi, ispezioni,
verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali”. In sostanza, solo ravvedimenti “spontanei”
potranno far guadagnare la non punibilità al reo, e
ciò anche se, in sede amministrativa, un tale requisito non è più richiesto per il perfezionamento del
ravvedimento stesso (80).
Infine, il comma 3 dell’art. 13 affronta un tema
particolarmente sentito nella prassi: la sospensione
del procedimento penale nelle more del pagamento
del debito tributario, spesso estinto mediante procedure che ne consentono la rateizzazione. E qui il
legislatore è tornato a dare prova di particolare severità, per non dire di scarso senso pratico, consentendo al contribuente di beneficiare di un termine
di tre mesi, prorogabile “una sola volta per non oltre tre mesi” (e così per un totale di non più di sei
mesi), per estinguere il debito tributario. Ora, se si
tiene conto del fatto che, al ricorrere di determina-
(77) Una tale situazione assume connotati meno teorici laddove ci si sposti sul versante della dichiarazione infedele e si
pensi al ravvedimento dell’amministratore di società cessato
dalla carica: non sarà forse frequentissimo il caso in cui la società - beneficiaria dell’evasione - compia una onerosa “fuga
in avanti” per “salvare”, sul fronte penale, colui che ne è ormai
fuoriuscito. Certo, in tali casi, perlomeno, il ravvedimento dovrebbe comunque essere spontaneo, giusta quanto si vedrà
con riferimento al comma 2 dell’art. 13.
(78) In tal senso vds. la Circ. del 15 aprile 2015, predisposta
dalla Fondazione Nazionale dei Commercialisti (FNC) ed avente ad oggetto “Il nuovo ravvedimento operoso”, nt. 8.
(79) Nello stesso senso, R. Amadeo, sub Art. 13, in AA.VV.,
La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S. Putinati,
cit., 328.
(80) Per i tributi amministrati dall’Agenzia delle Entrate, come dispone l’art. 13, comma 1 ter, D.Lgs. n. 472/1997.
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te condizioni, le procedure di adesione consentono
una rateizzazione ora quadriennale del debito tributario (81), ma che, non di rado, i termini di dilazione possono raggiungere anche i dieci anni nei
confronti dei concessionari della riscossione (82), è
chiaro come il termine semestrale non rappresenti
una grande agevolazione per il contribuente, sostanzialmente obbligato a rinunciare a quei termini
dilatati di pagamento che la disciplina tributaria
gli avrebbe altrimenti assicurato.
Ovviamente, in tale lasso di tempo resterà comunque sospeso il corso della prescrizione.
In coerenza con quanto è generalmente avvenuto
in ambito penale tributario allorquando sono state
introdotte delle analoghe cause sopravvenute di
esclusione della punibilità (83), riteniamo che anche la norma in questione esplichi efficacia nei
confronti di tutti gli eventuali concorrenti nel reato
tributario e, quindi, debba essere considerata una
circostanza oggettiva di esclusione della pena ai sensi dell’art. 119 c.p. (84). D’altro canto, ad opinare
diversamente, resterebbe da comprendere quale
soggetto potrebbe beneficiare della causa di esclusione della punibilità laddove fosse un terzo (tipicamente, il contribuente-persona giuridica) ad
estinguere il debito tributario ed il reato fosse stato
commesso da più soggetti tra loro in concorso.
La causa di non punibilità in esame risulta applicabile anche a coloro che hanno commesso una delle
fattispecie richiamate dall’art. 13 prima del 22 ottobre 2015, ferma la necessità di perfezionare l’estinzione del debito tributario nei tempi e con i limiti previsti dalla norma stessa. Il legislatore non
ha invece ritenuto di prevedere una disciplina
(81) Cfr. art. 8, comma 2, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218,
come da ultimo modificato dall’art. 2, comma 2, D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 159, che ha ampliato il previgente periodo
triennale.
(82) Vds. art. 19, comma 1 quinquies, d.P.R. n. 602/1973.
(83) Vds. le disposizioni del d.P.R. 20 gennaio 1992, n. 23;
nonché la L. 27 dicembre 2002, n. 289, successivamente modificata dalla L. 21 febbraio 2003, n. 27, di conversione del
D.L. 24 dicembre 2002, n. 282. In seguito, l’art. 1 del D.L. 24
giugno 2003, n. 143, convertito con modificazioni dalla L. 1°
agosto 2003, n. 212, ha stabilito al comma 2 septies (aggiunto
in sede di conversione) che “le disposizioni di cui agli articoli
8, comma 6, lettera c), 9, comma 10, lettera c), e 15, comma
7, L. 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modificazioni, si
intendono nel senso che la esclusione della punibilità opera
nei confronti di tutti coloro che hanno commesso o concorso
a commettere i reati ivi indicati anche quando le procedure di
sanatoria, alle quali è riferibile l’effetto di esclusione della punibilità, riguardano contribuenti diversi dalle persone fisiche e da
questi sono perfezionate”. Recentemente, inoltre, si vedano le
previsioni della L. 15 dicembre 2014, n. 186, recante la disciplina della c.d. voluntary disclosure.
Per approfondimenti sulle diverse amnistie tributarie cfr. L.
D. Cerqua, La funzione retributiva e l’efficacia oggettiva dell’am-
34
transitoria che riaprisse eventualmente i termini di
pagamento in presenza di processi nei quali sia già
stata dichiarata l’apertura del dibattimento di primo grado (85).
Le circostanze speciali dei reati tributari
A norma dell’art. 13 bis del Decreto n. 74/2000,
per i delitti diversi da quelli indicati nell’art. 13,
oppure laddove non vengano rispettate le condizioni previste in tale norma (ad esempio, in caso di
dichiarazione infedele seguita da un ravvedimento
“non spontaneo”), l’assolvimento integrale del debito tributario prima della dichiarazione di apertura
del dibattimento di primo grado comporta la non
applicazione delle pene accessorie previste dall’art.
12 ed un abbattimento della pena fino alla metà.
Torna, quindi, quella circostanza ad effetto speciale
che la mini-riforma del 2011 aveva reso ad effetto
comune; e torna per trovare applicazione residuale
rispetto alle cause di esclusione della punibilità di
cui si è dianzi detto.
Il comma 2 del medesimo articolo, invece, ripropone la regola secondo la quale anche il c.d. “patteggiamento” (art. 444 c.p.p.) è ammesso solo allorquando il reo abbia provveduto ad estinguere il debito con il fisco. Regola, questa, già portata al vaglio della Corte costituzionale (86) che, tuttavia,
l’ha ritenuta compatibile con gli artt. 3 e 24 Cost.
in quanto frutto di una scelta del legislatore che
non “decampa nella manifesta irragionevolezza e
nell’arbitrio”.
Da notare che il già citato istituto del “ravvedimento operoso” è contemplato dal comma 2 tra le
nistia connessa al condono in materia tributaria (D.P.R. 20 gennaio 1992, n. 23), in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, 1309 ss., part.
1318 ss.
Sul punto sia consentito rinviare, altresì, ad A. Perini, Considerazioni sulla natura oggettiva o soggettiva delle cause di esclusione della punibilità previste dai condoni fiscali, in Rass. trib.,
2003, 3, 937 ss.
(84) Così anche R. Amadeo, sub Art. 13, in AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S. Putinati, cit.,
331.
(85) Sulla costituzionalità di una tale previsione, che evidentemente preclude l’accesso a codeste norme di favore a tutti
coloro che si trovino in una fase processuale successiva rispetto a quella posta come limite dal legislatore, cfr., di recente,
Corte cost. 26 novembre 2015, n. 240, in materia di messa alla
prova, laddove la disciplina che ne governa l’applicabilità è
analoga a quella in esame.
(86) Cfr. Corte cost. 28 maggio 2015, n. 95. Attualmente,
peraltro, sono pendenti due ulteriori ordinanze di rimessione
della questione alla Corte costituzionale: Trib. Torino (G.U.P.),
15 dicembre 2014, n. 44, in G.U., 1° aprile 2015, n. 13; Trib.
Treviso 20 gennaio 2015, n. 160, in G.U. 2 settembre 2015, n.
35.
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condizioni che legittimano il patteggiamento,
mentre non è citato al comma 1 della norma in
esame tra le procedure che consentono l’applicazione della circostanza attenuante ivi disciplinata.
Evidentemente, una tale aporia del tessuto normativo appare alquanto singolare, anche alla luce del
fatto che, prima dell’attuale riforma, il ravvedimento operoso veniva ricompreso nella sfera applicativa della circostanza attenuante prevista dal previgente art. 13, comma 1, D.Lgs. n. 74/2000 nonostante questa non vi facesse espresso riferimento.
Sul punto, convergevano sia le riflessioni della dottrina (87) sia la Circ. n. 154 del Ministero delle Finanze del 4 agosto 2000 (88), ove - proprio in merito all’art. 13 del D.Lgs. n. 74/2000 - si era precisato che “in virtù della formula normativa aperta
[il riferimento è alla locuzione “procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle
norme tributarie”, n.d.s.] devono ritenersi applicabili tutte le tipologie di definizione dei rapporti tributari, quali l’accertamento con adesione, la conciliazione giudiziale, l’acquiescenza da parte del contribuente e il ravvedimento, nonché tutte quelle,
eventuali, di futura introduzione”.
Vero ciò, sembra corretto ritenere che l’omessa indicazione del ravvedimento operoso in seno al
comma 1 dell’art. 13 bis possa essere superata attraverso una lettura sistematica della disciplina (89).
Tanto più che, altrimenti, non avrebbe senso alcuno una norma, quale il comma 2 dell’art. 13 bis,
che subordina l’ammissione al patteggiamento all’intervento del ravvedimento laddove, però, un tale ravvedimento non avesse rilevanza ai fini dell’attenuazione di pena prevista dal comma 1 del
medesimo articolo.
Resta immutata la questione, già affacciatasi all’indomani dell’entrata in vigore della L. n. 148/2011,
di come valutare la sussistenza della circostanza in
esame, anche ai fini dell’accessibilità al “patteggiamento”, al cospetto di quelle fattispecie che non
danno necessariamente luogo ad evasione fiscale,
quale, soprattutto, il delitto di cui all’art. 10 (90).
Previsione del tutto inedita, invece, è quella contenuta nell’ultimo comma dell’art. 13 bis, laddove è
disciplinata una circostanza aggravante ad effetto
speciale (aumento della pena della metà) qualora
uno qualsiasi dei reati previsti dal D.Lgs. n.
74/2000 sia “commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da un
professionista o da un intermediario finanziario o
bancario attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale”.
La previsione è certamente figlia di una mutata
sensibilità verso il ruolo del “consulente fiscale”,
inteso in senso ampio, nella consapevolezza che di regola - i delitti tributari, specie quelli connotati
da modalità particolarmente fraudolente, presentano un grado di complessità tale da richiedere l’intervento di specifiche competenze professionali. In
tali contesti, quindi, l’apporto tecnico del consulente arricchisce il tasso di insidiosità della condotta offrendo al contribuente la possibilità di usufruire di complesse strutture societarie o di realizzare
articolate operazioni che, diversamente, egli non
sarebbe neppure stato in grado di immaginare.
In ragione di ciò, il legislatore ha quindi ritenuto
di colpire con particolare severità il “professionista” che partecipi alla commissione di un reato fiscale attraverso “l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale”.
Se è chiara la scelta di politica criminale sottesa ad
una tale previsione, meno limpido ne appare, invece, il contenuto. Senza poter indugiare, in questa
sede, su di una norma che, al contrario, meriterebbe da sola un ampio approfondimento, ci si limita
ad osservare come il riferimento all’attività di un
“professionista” sia probabilmente da intendere
non tanto sul piano formale, quindi come condotta
ascrivibile ad un soggetto iscritto in albi professionali, quanto piuttosto sul piano sostanziale, richiamando quindi l’attività abitualmente svolta dal
(87) In tal senso, si vedano G. Bellagamba - G. Cariti, I nuovi reati tributari, Milano, 2000, 130-131; E. Busson, in La riforma del diritto penale tributario, a cura di U. Nannucci - A. D’Avirro, Padova, 2000, 310; M. Di Siena, La nuova disciplina dei
reati tributari, Milano, 2000, 191, in nt. n. 169, e 192; M. Giontella, Il ravvedimento operoso e le carenze del decreto delegato,
in AA.VV., Fiscalità d’impresa e reati tributari, Milano, 2000,
177 e 184; R. Lupi, Rilevanza della rettificabilità amministrativa
della dichiarazione ai fini dei reati tributari, ivi, 185 e 187; G. Izzo, in Commento a Cass. 28 febbraio 2003, in Il fisco, n.
28/2003, 4446; V. Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, cit., 223; R. Pisano, I reati tributari, in Trattato di
diritto penale dell’impresa, vol. VII, Padova, 2002, 276-277; G.
Soana, I reati tributari, Milano, 2005, 322.
(88) Recante alcune osservazioni sulle disposizioni dell’allora novello “Decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 - Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”.
(89) Analoga conclusione in R. Amadeo, sub Art. 13-bis, in
AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino - S.
Putinati, cit., 341.
(90) Per vero, qualche perplessità sorge anche con riferimento al delitto di cui all’art. 8, atteso che questo consente l’evasione ad altri. Del pari, lo stesso art. 11, configurato come
fattispecie a consumazione anticipata, non comporta necessariamente il conseguimento di un’evasione fiscale. Cfr., in questo senso, Corte di cassazione, Ufficio del Massimario, Rel. n.
III/05/2015, 45.
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consulente ed il particolare tasso di specificità che
la deve connotare. E lo stesso dicasi con riferimento alle figure dell’intermediario finanziario o bancario.
D’altro canto, sarebbe davvero assurdo escludere
l’applicabilità di una tale aggravante a chi dovesse
-per giunta- esercitare anche in forma abusiva una
delle attività richiamate dalla norma.
Non agevole appare l’individuazione della nozione
di “modelli di evasione fiscale”. In primo luogo, infatti, il “modello” di evasione deve essere inteso
come una forma di evasione particolarmente complessa ed articolata, oltre che - in qualche misura replicabile in più casi analoghi: diversamente, infatti, non avrebbe senso il riferimento al “modello”.
Inoltre, l’estemporanea attuazione di una complessa costruzione frodatoria ancora non assumerebbe
rilevanza laddove questa non fosse realizzata in una
certa numerosità di casi: l’utilizzo del termine al
plurale lascia infatti intendere una qualche “abitualità” della condotta.
Il tenore letterale della norma [“le pene stabilite
per i delitti (…) sono aumentate”] induce a ritenere che la circostanza vada applicata a tutti i compartecipi e, quindi, non soltanto al “professionista”
ed ai soggetti ad esso equiparati. Nondimeno, come
condivisibilmente si è osservato (91), l’applicabilità
dell’aggravante ai concorrenti del soggetto qualificato dovrà essere valutata nella generale prospettiva dell’art. 59, comma 2, c.p., e, in particolare, vagliando attentamente la conoscenza o conoscibilità
della natura ripetitiva della peculiare attività consulenziale attuata dal professionista. È vero, al riguar-
(91) Vds. Corte di cassazione, Ufficio del Massimario, Rel. n.
III/05/2015, 48, peraltro richiamando Cass., Sez. II, 19 febbraio
2013, n. 22136.
36
do, che il legislatore ha ritenuto di superare il riferimento ai “modelli seriali di evasione fiscale” che,
in un primo momento, era comparso nei progetti
di decreto, alleggerendo così notevolmente l’onere
probatorio dell’accusa. Nondimeno, il ricorso alla
forma plurale nel richiamare questa particolare modellistica frodatoria impone comunque di verificare
che anche tale elemento di tipicità obbedisca alla
regola di parte generale.
La custodia giudiziale dei beni sequestrati e
le norme abrogate - Cenni
In conclusione di questa rassegna, occorre ancora
rammentare che l’art. 13, D.Lgs. n. 158/2015 ha altresì introdotto l’art. 18 bis in seno al D.Lgs. n.
74/2000, andando a disciplinare la custodia giudiziale dei beni sequestrati. In tale contesto, i beni
sottoposti a sequestro, diversi dal denaro, potranno
essere affidati in custodia dall’Autorità giudiziaria
agli organi dell’Amministrazione finanziaria che ne
faranno richiesta per le proprie esigenze operative.
Quanto alle norme abrogate (cfr. art. 14, D.Lgs. n.
158/2015), oltre a venir meno il già ricordato art.
7 del D.Lgs. n. 74/2000, la novella ne abroga altresì l’art. 16, dedicato all’interpello in materia antielusiva: venuta meno qualsiasi rilevanza penale dell’elusione fiscale (92), la norma in esame non
avrebbe avuto più ragion d’essere.
In ultimo, l’introduzione della confisca nel corpus del Decreto n. 74/2000, attraverso il conio dell’art. 12 bis, giustifica l’abrogazione del comma 143
dell’art. 1, L. 24 dicembre 2007, n. 244.
(92) Si rammenti il già menzionato art. 1, D.Lgs. n.
128/2015.
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Osservatorio
Corte costituzionale
Osservatorio
Corte costituzionale
a cura di Giuseppe Di Chiara
PROCEDIMENTI SPECIALI
MESSA ALLA PROVA PER ADULTI E ASSENZA DI
DISCIPLINA TRANSITORIA
Corte costituzionale, sent., 26 novembre 2015 (7 ottobre 2015), n. 240 - Pres. Criscuolo - Est. Lattanzi
È infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 464 bis, comma 2, c.p.p., nella parte in cui, in
assenza di una disciplina transitoria, analoga a quella di
cui all’art. 15 bis, comma 1, L. 11 agosto 2014, n. 118,
preclude l’ammissione all’istituto della sospensione del
procedimento con messa alla prova degli imputati di
processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata
prima dell’entrata in vigore della L. n. 67 del 2014, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, comma 1,
Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 Cedu.
La questione
Il giudice a quo, evocando quali parametri di scrutinio gli
artt. 3, 24, 111 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 Cedu, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 464 bis, comma 2, c.p.p., nella
parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, analoga a quella di cui all’art. 15 bis, comma 1, L. 11 agosto
2014, n. 118, preclude l’ammissione all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata
prima dell’entrata in vigore della L. n. 67 del 2014.
Ad avviso del rimettente, violato si paleserebbe anzitutto
l’art. 3 Cost., in quanto la norma impugnata, individuando
un “discrimine unico”, valido tanto per i processi nuovi
quanto per quelli già in corso, disciplina in modo identico
situazioni nettamente difformi, consentendo solo agli imputati dei primi di aver accesso al nuovo, più favorevole,
istituto.
Sarebbe altresì violato l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 7 Cedu, in quanto, rispetto ai processi pendenti in primo grado per i quali la preclusione fosse già maturata al momento dell’entrata in vigore della nuova legge, la
deroga al principio della retroattività della lex mitior non sarebbe sorretta da una sufficiente ragione giustificativa.
La norma sottoposta a scrutinio contrasterebbe, inoltre,
con l’art. 24 Cost., risolvendosi “in una lesione del pieno
esercizio del diritto di difesa (nel quale va inclusa anche la
facoltà di richiedere l’accesso a riti alternativi)”.
Si paleserebbe, infine, ancora ad avviso del giudice a quo,
un contrasto con l’art. 111 Cost., risultando pregiudicato “il
diritto ad essere sottoposto ad un giusto processo (inteso
come diritto ad una scelta del rito pienamente consapevole, assunta in base alla previsione ed alla ponderazione di
rischi connessi alla possibilità di previamente valutare le
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opzioni offerte e ad una ordinata, corretta e fisiologica successione di atti processuali)”.
La decisione
Nel dichiarare l’infondatezza della quaestio, la Corte rimarca come l’istituto della sospensione del processo con messa alla prova per imputati adulti abbia indubbi effetti sostanziali, poiché dà luogo all’estinzione del reato, ma “è
connotato da un’intrinseca dimensione processuale”, in
quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con
ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento
con messa alla prova.
La norma impugnata stabilisce i termini entro i quali, a pena di decadenza, l’imputato può formulare la richiesta: si
tratta di termini diversi, articolati secondo le sequenze procedimentali dei vari riti. Nel procedimento con citazione diretta, oggetto del giudizio a quo, la richiesta può essere
proposta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.
Il giudice a quo aveva anzitutto denunciato la violazione
dell’art. 3 Cost., a causa del differente trattamento di soggetti che - versando nelle medesime condizioni sostanziali
- si trovino al momento dell’entrata in vigore della nuova
legge in diverse fasi del processo di primo grado. Ad avviso del rimettente il legislatore, individuando un discrimine
unico valido tanto per i processi nuovi quanto per i processi già in corso, avrebbe disciplinato in modo identico situazioni nettamente difformi, consentendo unicamente agli
imputati dei primi di aver accesso al nuovo, più favorevole,
istituto.
Con il riferimento alle “medesime condizioni sostanziali” il
giudice a quo intenderebbe inferire, da queste e dagli effetti sostanziali del nuovo istituto, l’illegittimità della sua disciplina processuale, per la mancanza di una norma transitoria che ne consenta l’applicazione in base a una richiesta
formulata, nei processi in corso, anche dopo l’apertura del
dibattimento.
In una prospettiva processuale, tuttavia, ben si giustifica sottolinea la Corte - la scelta legislativa di parificare la disciplina del termine per la richiesta, senza distinguere tra
processi in corso e processi nuovi. È allo stato del processo
che il legislatore ha inteso riferirsi, e in tal senso ben può
dirsi - prosegue la Corte - che ha trattato in modo uguale
situazioni processuali uguali.
Il termine entro il quale l’imputato può richiedere la sospensione del processo con messa alla prova è collegato
alle caratteristiche e alla funzione dell’istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo. Consentire, sia pure in via transitoria, la richiesta nel corso del dibattimento, anche dopo che il giudizio
si è protratto nel tempo, eventualmente con la partecipazione della parte civile, che avrebbe maturato una legittima
aspettativa alla decisione, significherebbe - rimarca la Corte - alterare in modo rilevante il procedimento, e il non
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averlo fatto non giustifica alcuna censura riferibile all’art. 3
Cost.
La preclusione lamentata dal giudice a quo - prosegue la
pronuncia in esame - dipende solo dal diverso stato dei
processi che la subiscono: ed è ben noto come la giurisprudenza costituzionale abbia in più occasioni precisato
che il legislatore gode di ampia discrezionalità nello stabilire la disciplina temporale di nuovi istituti processuali o delle modificazioni introdotte in istituti già esistenti, sicché le
relative scelte, ove non siano manifestamente irragionevoli,
si sottraggono a censure di illegittimità costituzionale (cfr.
Corte cost. n. 455 del 2006 e n. 91 del 2005).
Analoga problematica - rammenta la Corte - si era in passato posta in ordine al regime transitorio del giudizio abbreviato, regolato dall’art. 247 disp. att. c.p.p.: in quell’occasione il giudice delle leggi ha ritenuto che, “poiché lo
scopo dell’istituto del procedimento abbreviato è quello di
consentire la sollecita definizione del giudizio, escludendo
la fase dibattimentale, è del tutto razionale che, per i reati
pregressi e per i procedimenti in corso, tale istituto sia stato reso applicabile soltanto quando il suo scopo possa essere ugualmente perseguito, e cioè quando non si sia ancora giunti al dibattimento”; sicché “non è (…) producente
il confronto fra imputati per i quali il dibattimento sia stato
o non sia stato ancora aperto proprio perché si tratta di situazioni oggettivamente diverse”, poiché “l’apertura del dibattimento rende irrazionale l’applicabilità del giudizio abbreviato” (Corte cost. n. 277 del 1990).
Uguali considerazioni - sottolinea la Corte - possono farsi
rispetto alla norma impugnata, sicché risulta esclusa qualsiasi violazione dell’art. 3 Cost.
Ad avviso del giudice rimettente, la mancanza della norma
transitoria di cui si invocherebbe l’introduzione, impedendo
l’applicazione retroattiva di una norma penale di favore, sarebbe altresì in contrasto con il principio di rango costituzionale della retroattività della lex mitior sancito dall’art. 7
Cedu, attraverso il parametro interposto di cui all’art. 117
Cost. (cfr. Cedu 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, in
questa Rivista, 2009, 1427). Il giudice a quo, tuttavia, non
considera - sottolinea la Corte - che la preclusione di cui lamenta gli effetti è conseguenza non della mancanza di retroattività della norma penale ma del normale regime temporale della norma processuale, rispetto alla quale il riferimento all’art. 7 Cedu risulta fuori luogo.
Il principio di retroattività si riferisce al rapporto tra un fatto
e una norma sopravvenuta, di cui viene in questione l’applicabilità, e nel caso in oggetto, a ben vedere, l’applicabilità e dunque la retroattività della sospensione del procedimento con messa alla prova non è esclusa, dato che la
nuova normativa si applica anche ai reati commessi prima
della sua entrata in vigore.
L’art. 464 bis c.p.p., nella parte impugnata, riguarda esclusivamente il processo ed è espressione del principio tempus regit actum. Il principio potrebbe essere derogato da
una diversa disciplina transitoria, ma la mancanza di questa non è certo censurabile - rimarca ancora la Corte - in
forza dell’art. 7 Cedu.
Occorre peraltro rilevare che la Corte di Strasburgo, ritenendo che il principio di retroattività della legge penale più
favorevole sia un corollario di quello di legalità, consacrato
dall’art. 7 Cedu, ha fissato dei limiti al suo ambito di applicazione, desumendoli dalla stessa norma convenzionale. Il
principio di retroattività della lex mitior, come in generale le
norme in materia di retroattività contenute nell’art. 7 Cedu,
concerne, ad avviso del giudice europeo, le sole disposizio-
38
ni che definiscono i reati e le pene che li reprimono (Cedu
27 aprile 2010, Morabito c. Italia, nonché Cedu 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia); sicché, come già il giudice
delle leggi aveva sottolineato, è da ritenere che il principio
di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di
Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all’ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si
verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione
sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o
comunque di minore gravità (così Corte cost. n. 236 del
2011, in questa Rivista, 2011, 1195).
In una fattispecie in cui era contestato il termine per richiedere il giudizio abbreviato previsto dall’art. 4 ter D.L. 7 aprile 2000, n. 82 (“Modificazioni alla disciplina dei termini di
custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato”), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 5 giugno
2000, n. 144, la Corte di Strasburgo ha distinto le norme
sostanziali da quelle processuali che disciplinano tale giudizio e ha escluso che queste ultime potessero comportare
la violazione degli artt. 6 e 7 Cedu: secondo la Corte, poiché la modificazione legislativa denunciata dal ricorrente
aveva riguardato una norma di procedura, salvo il caso di
arbitrarietà, niente nella Convenzione impediva al legislatore italiano di regolamentare la sua applicazione ai processi
in corso al momento della sua entrata in vigore; più in particolare, “poiché il giudizio abbreviato ha come scopo di
evitare il dibattimento e di decidere sulla fondatezza delle
accuse in esito a una udienza in camera di consiglio, non
si [poteva] rimproverare alle autorità di avere limitato l’applicazione delle nuove modalità di accesso a questa procedura semplificata ai soli casi in cui il dibattimento pubblico
non avesse avuto ancora luogo” (Cedu 27 aprile 2010, Morabito c. Italia). La fattispecie oggetto di tale ultima decisione è analoga a quella cui si riferisce la quaestio scrutinata
dalla pronuncia qui in esame, sicché è la stessa giurisprudenza europea - sottolinea la Corte - che milita nel senso
dell’insostenibilità dell’asserita violazione dell’art. 7 Cedu.
Le ragioni adesso indicate a conferma della legittimità costituzionale della norma rendono privi di fondamento anche i dubbi concernenti la pretesa violazione degli artt. 24
e 111 Cost., sollevati nell’erroneo presupposto che nei processi in corso al momento dell’entrata in vigore della norma impugnata dovrebbe riconoscersi all’imputato, come
espressione del diritto di difesa e del diritto a un giusto processo, la facoltà di scegliere il nuovo procedimento speciale, diritto del quale deve, invece, escludersi la riconducibilità al piano di una pretesa doverosità costituzionale.
I precedenti
Nel senso che la messa alla prova introduce un percorso
del tutto alternativo rispetto all’accertamento giudiziale penale, sicché si è al di fuori dell’ambito di operatività del
principio della lex mitior ed è pertanto da escludere che la
mancata previsione di un’applicazione retroattiva dell’istituto si ponga in contrasto con l’art. 7, § 1, Cedu come interpretato dalla Corte di Strasburgo e violi l’art. 117, comma
1, Cost., cfr. Cass., Sez. IV, 26 ottobre 2015, Z., in questa
Rivista, 2015, 1364.
Nel senso che è tardiva, in assenza di una specifica disciplina transitoria, l’istanza di sospensione proposta successivamente alla dichiarazione di apertura del dibattimento,
pur se tale dichiarazione sia anteriore all’entrata in vigore
della L. n. 67 del 2014, cfr. Cass., Sez. III, 26 giugno 2015,
F., CED, n. 263815; in tema cfr. altresì Cass., Sez. III, 27
maggio 2015, Z., ivi, n. 263666; Cass., Sez. II, 4 maggio
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Corte costituzionale
2015, C., ivi, n. 263792; Cass., Sez. fer., 10 ottobre 2014,
V., ivi, n. 261096; Cass., Sez. fer., 13 agosto 2014, C. ivi, n.
259935.
Per una più problematica impostazione, che aveva condotto alla rimessione della questione alle Sezioni Unite - pur
se, di seguito, il Primo Presidente ha proceduto alla cancellazione della quaestio dal ruolo delle Sezioni Unite medesime - cfr. Cass., Sez. IV, 11 luglio 2014, D., in questa Rivista,
2014, 949.
Per una declaratoria di manifesta infondatezza, formulata
in sede di cognizione, di una quaestio de legitimitate concernente l’assenza di normativa transitoria circa l’applicabilità della sospensione del processo con messa alla prova
nei procedimenti pendenti, alla data di entrata in vigore
della L. n. 67 del 2014, nei quali sia già stato dichiarato
aperto il dibattimento cfr. Cass., Sez. VI, 18 novembre
2011, C., CED, n. 261255.
La dottrina
Sulla sospensione del processo con messa alla prova per
imputati adulti cfr., tra gli altri, R. Bartoli, La sospensione
Diritto penale e processo 1/2016
del processo con messa alla prova: una goccia deflattiva nel
mare del sovraffollamento?, in questa Rivista, 2014, 661 ss.;
A. Marandola, La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica
criminale, ibid., 674 ss.; M. Montagna, Sospensione del procedimento con messa alla prova e attivazione del rito, in
AA.VV., Le nuove norme penali, a cura di C. Conti - A. Marandola - G. Varraso, Padova, 2014, 385 ss.; L. Pulito, Messa alla prova per adulti: anatomia di un nuovo modello processuale, in Proc. e giust., 2015, n. 1, 97 ss.; Id., Presupposti applicativi e contenuti della misura, in AA.VV., La deflazione giudiziaria, a cura di N. Triggiani, Torino, 2014, 81 ss.; A.
Scalfati, La debole convergenza di scopi nella deflazione
promossa alla legge n. 67/2014, ivi, 4 ss.; G. Tabasco, La sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati adulti, in Arch. pen., 2015, 1 ss. Con particolare riguardo alle questioni di diritto intertemporale cfr., tra gli altri, F. Martella, Messa alla prova “per adulti”. La questione
della (assenza) di disciplina intertemporale, in Dir. pen. contemp., 15 aprile 2015.
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Sezioni Unite
Osservatorio Corte di
cassazione - Sezioni Unite
a cura di Giulio Garuti
REATI IN MATERIA DI STUPEFACENTI
RICORSO INAMMISSIBILE E APPLICAZIONE D’UFFICIO
DELLA LEGGE PIÙ FAVOREVOLE
Cassazione Penale, SS.UU., 25 novembre 2015 (26 giugno 2015), n. 46653 - Pres. Santacroce - Rel. Brusco P.M. Stabile (diff.) - Ric. D.F.D.
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, decidendo
su una questione in materia di stupefacenti, hanno stabilito che, in caso di ricorso inammissibile per qualunque ragione e privo di motivi relativi al trattamento
sanzionatorio, è applicabile d’ufficio, in sede di legittimità, la legge sopravvenuta modificativa del trattamento sanzionatorio in senso più favorevole all’imputato,
emanata successivamente alla pronuncia impugnata, e
ciò anche nell’ipotesi in cui la pena inflitta rientri nella
nuova cornice edittale, alla cui luce il giudice del rinvio
deve comunque riesaminare la questione.
Il caso
Il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Bari condannava l’imputato per vari episodi di traffico di sostanze stupefacenti, commessi fino all’aprile del 2002, alla
pena di anni quattro, mesi otto di reclusione oltre a €
20.000 di multa. La Corte d’Appello di Bari, nel confermare
la condanna, diminuiva la pena detentiva ad anni due mesi
otto, previa la concessione dell’attenuante di cui all’art. 73,
comma 5, d.P.R. 309 del 1990, revocando altresì la pena
accessoria della interdizione dai pubblici uffici.
A seguito di ricorso dell’imputato, la IV Sezione penale della Corte di cassazione annullava con rinvio la pronuncia impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, poiché
il giudice d’appello, una volta riconosciuta l’attenuante della lieve entità per tutti gli episodi, non ne aveva tenuto conto nel calcolare l’aumento per la continuazione, il quale era
quindi rimasto uguale a quello deciso dal giudice di primo
grado. All’esito del giudizio di rinvio, la pena detentiva veniva pertanto rideterminata in anni due di reclusione.
Contro quest’ultimo provvedimento ricorreva per cassazione l’imputato, deducendo il vizio di motivazione.
La III Sezione penale, dopo aver rilevato in via preliminare
l’inammissibilità del ricorso poiché la pronuncia impugnata
era stata annullata con rinvio soltanto per la parte relativa
al trattamento sanzionatorio, ripercorreva le modifiche alla
disciplina del traffico illecito di sostanze stupefacenti, avvenute per effetto della sentenza Corte cost. 32 del 2014 e
dell’entrata in vigore del D.L. 23 dicembre 2013, n. 146,
convertito in L. 21 febbraio 2014, n. 10, e del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito in legge 16 maggio 2014, n. 79,
a seguito delle quali la fattispecie di cui all’art. 73, comma
5, d.P.R. n. 309/1990 non costituisce più un’attenuante
bensì una autonoma ipotesi di reato con una duplice e sensibile riduzione della pena edittale. Una volta richimati gli
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arresti della giurisprudenza di legittimità successivi alla ricordata pronuncia della Corte costituzionale, la III Sezione
rilevava come non fosse stata ancora assunta alcuna posizione in ordine “a una pena legale - in quanto ricompresa
nella forbice edittale applicabile - inflitta in riferimento ad
una fattispecie attenuata ex comma 5 dell’art. 73 d.P.R.
309/1990 in riferimento alle modifiche normative più favorevoli intervenute medio tempore anche laddove il ricorso
sia inammissibile per manifesta infondatezza o genericità
dei motivi”.
La stessa rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite, formulando
la seguente questione di diritto: “Se siano rilevabili di ufficio in sede di legittimità, anche in presenza di ricorso manifestamente infondato e privo di censure in ordine al trattamento sanzionatorio, gli effetti delle modifiche normative
sopravvenute in termini di attenuazione della pena, anche
nel caso in cui la pena inflitta rientri nella cornice edittale
recata dalla nuova disciplina”.
La decisione
La S.C. ha preso le mosse ripercorrendo l’evoluzione storica del principio di legalità della pena, arrivando a concludere che lo stesso trova copertura costituzionale nell’art. 25
Cost., mentre a livello sovranazionale rientra, seppure in
modo implicito, nell’art. 7 Conv. eur. dir. umani. Accertato
il valore costituzionale del principio in parola, il Collegio si
è occupato di valutarne il contenuto concreto: poiché il
principio di legalità della pena concerne non solo l’an della
irrogazione della stessa ma anche il quomodo e il quantum,
è necessario che la legge indichi in modo preciso i criteri
che il giudice deve utilizzare per determinare la pena, ricompresa tra un minimo e un massimo edittali stabiliti dal
legislatore e contenuti in una distanza ragionevole tra di loro, e che lo stesso sia obbligato a motivare l’uso di tali criteri. Qualora sia irrogata una pena per un reato in relazione
al quale è mutata la cornice edittale in modo più favorevole
al reo e la stessa rientri comunque in detta cornice, secondo le Sezioni Unite, è necessario aver riguardo alle specificità del caso per poter determinare se la stessa debba considerarsi legale. In particolare, va esclusa l’illegalità quando
la pena, oltre a rimanere compresa nella cornice edittale: a)
sia stata comminata in riferimento alla gravità di un reato il
cui disvalore non sia mutato in modo significativo; b) sia
contenuta entro limiti ragionevolmente commisurabili in
astratto anche alla diversa gravità del fatto come previsto
dalla nuova normativa; c) sia stata determinata in concreto
con riferimento a una gravità del reato non mutata sensibilmente per effetto della nuova normativa più favorevole e
commisurata in base ai criteri dell’art. 133 c.p.
Di contro, andrebbe considerata illegale la pena che, pur rimanendo nei margini edittali della disciplina successiva più
favorevole, ne stravolga i parametri di riferimento (in particolare, il principio di proporzionalità) e sia applicata in modo incompatibile con la nuova normativa.
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Sezioni Unite
Quanto allo strumento tramite il quale il giudice della cognizione - e anche quello di legittimità - può riportare a giustizia una pena divenuta illegale, in caso di mutamento normativo non possono essere utilizzati gli stessi mezzi usati
in seguito a una dichiarazione di incostituzionalità, poiché,
mentre l’abrogazione ha carattere fisiologico, riguardando
le scelte politiche del legislatore, con la conseguenza che
la norma conserva la sua efficacia fino alla abrogazione, la
dichiarazione di incostituzionalità produce effetti ex tunc,
salvo i rapporti esauriti.
Nel caso in esame, il legislatore ha modificato, in senso più
favorevole all’imputato, il trattamento sanzionatorio. Secondo il Collegio, lo strumento da utilizzare è quindi l’art. 2,
comma 4, c.p., ove è prevista la retroattività della legge penale favorevole. Detto principio, al contrario del divieto di
retroattività sfavorevole, non gode di copertura costituzionale, potendo il legislatore escluderne l’applicazione in presenza di interessi meritevoli di tutela.
Fatte tali precisazioni, si trattava di verificare se il sindacato
del giudice di legittimità fosse ancora possibile in caso di
inammissibilità del ricorso. A tal fine, le Sezioni Unite hanno richiamato l’evoluzione dell’istituto del giudicato, il quale, nel corso del tempo, ha visto il superamento del dogma
di intangibilità, specie laddove vengano in rilievo diritti fondamentali della persona. Sul punto sono state richiamate
la sentenza della Corte cost. n. 113 del 2011, pronunce della giurisprudenza di legittimità seguite alla necessità di dare attuazione a sentenze della Corte eur. dir. umani, nonché
le modifiche del codice di rito che hanno ulteriormente eroso i vincoli derivanti dall’intangibilità del giudicato (artt.
671, 625 bis, 175, 625 ter c.p.p.). La Suprema Corte ha però precisato anche i limiti dell’erosione in parola: in particolare, la Corte cost., con sent. n. 230 del 2012, ha escluso
che il mutamento giurisprudenziale in favore del condannato possa condurre alla rimozione di una precedente sentenza di condanna. All’esito della ricostruzione normativa e
giurisprudenziale, le Sezioni Unite hanno ritenuto che, in
presenza di diritti o garanzie fondamentali della persona,
l’ordinamento debba eliminare le violazioni o attenuarne gli
effetti tramite lo strumento più idoneo. Prima di valutare il
mezzo da utilizzare, occorre quindi verificare se davvero si
è in presenza di una violazione di un diritto fondamentale.
Con riferimento al caso di specie, si è stabilito che l’essere
giudicati in riferimento a un quadro normativo nel frattempo modificato, a seguito di un’evidente variazione del giudizio di disvalore da parte del legislatore, costituisce una lesione da rimuovere - perché altrimenti non verrebbero rispettati la finalità rieducativa della pena, né il principio di
proporzionalità - cui deve porre rimedio il giudice della cognizione.
In presenza di una violazione dei diritti fondamentali della
persona, anche il giudice di legittimità può estendere il suo
sindacato, nonostante il passaggio in giudicato della decisione, su questioni che gli sono di norma precluse. A tale
proposito, è stato ricordato l’art. 609, comma 2, c.p.p., il
quale prevede che la S.C. decida, oltre alle questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, anche quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello (ipotesi verificata nel caso in esame, poiché la sentenza di rinvio è stata pronunciata prima delle citate modifiche
normative). Secondo le Sezioni Unite non osta a una decisione al riguardo del giudice di legittimità il fatto che la parte non abbia proposto alcun motivo in merito al trattamento sanzionatorio, neppure con motivi aggiunti o memorie,
pur non vertendosi in una ipotesi di pena illegale, in virtù
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del disposto dell’art. 2, comma 4, c.p., che richiede per la
propria applicazione soltanto che la sentenza impugnata
non sia divenuta irrevocabile, e, soprattutto, del fatto che
la situazione in esame rientra tra le violazioni dei diritti fondamentali della persona in presenza delle quali il giudice è
obbligato - senza che esistano limiti - a eliminarne le conseguenze, per cui neppure l’inammissibiltà del ricorso deve
considerarsi un ostacolo insuperabile.
Sotto altro profilo la Corte cost. (sent. n. 393 del 2006) ha
affermato che la possibilità di escludere per legge la retroattività della norma penale più favorevole incontra limiti
assai rigorosi, essendo possibile solo in presenza di interessi quali quelli “dell’efficienza del processo, della salvaguardia dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della
funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi
o esigenze dell’intera collettività nazionale connessi a valori
costituzionali di primario rilievo”.
In conclusione è stato affermato che non vi era alcuna ragione per escludere che la violazione in parola potesse influire anche su una determinazione di pena inflitta in base
a parametri che il legislatore ha in seguito modificato in
senso favorevole all’imputato, a prescindere dall’indicazione di uno specifico motivo di ricorso.
È stato, quindi, formulato il seguente principio di diritto:
“La Corte di cassazione, nel caso di ricorso inammissibile
per qualunque ragione e con il quale non vengano proposti
motivi riguardanti il trattamento sanzionatorio, può rilevare
d’ufficio, con conseguente annullamento sul punto, che la
sentenza impugnata era stata pronunziata prima dei mutamenti normativi che hanno modificato il trattamento sanzionatorio in senso favorevole all’imputato; ciò anche nel
caso in cui la pena inflitta rientri nella cornice edittale sopravvenuta alla cui luce il giudice di rinvio dovrà riesaminare tale questione”.
Sempre con riguardo al caso di specie, le Sezioni Unite
hanno escluso la possibilità di dichiarare l’estinzione del
reato per decorrenza del termine di prescrizione, in quanto
il processo era proseguito soltanto con riferimento alla determinazione del trattamento sanzionatorio.
La sentenza impugnata è stata annullata con rinvio, per
una nuova determinazione della pena, ad altra sezione della Corte d’Appello di Bari.
I precedenti
In argomento, vedasi Cass., SS.UU., 28 luglio 2015, Jazouli, in CED, n. 264207; Cass., Sez. IV, 12 dicembre 2014,
Campagnaro, ivi, n. 261576; Cass., Sez. III, 6 novembre
2014, Rahman, ibidem, n. 261709; Cass., Sez. IV, 25 giugno 2014, Buonocore, ibidem, n. 259368; Cass., SS.UU.,
29 maggio 2014, Gatto, ibidem, nn. 260696-260697260699; Cass., SS.UU., 24 ottobre 2013, Ercolano, ivi, nn.
259649-258650-258651; Cass., SS.UU., 6 febbraio 2006,
Catanzaro, ivi, n. 232610.
La dottrina
G. Amato, Giudicato non più invulnerabile se la pena è illegittima, in Guida dir., 2014, 45, 79; F. Caprioli, Giudicato e
illegalità della pena: riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte costituzionale, in AA.VV., Studi in ricordo di
Maria Gabriella Aimonetto, a cura di M. Bargis, Milano,
2013, 264 ss.; A. Di Tullio D’Elisiis, Nuova disciplina degli
stupefacenti e rideterminazione della pena, Ravenna, 2014;
M. Gambardella, La nuova disciplina in materia di stupefacenti, in Cass. pen., 2014, 2747; G. Insolera - V. Manes (a
cura di), La disciplina penale degli stupefacenti, Milano,
2012; F. Licata - S. Recchione - N. Russo, Gli stupefacenti:
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Sezioni Unite
disciplina ed interpretazione: legislazioni e orientamenti delle
Corti Superiori, Torino, 2015, 25 ss.; E.M. Mancuso, Il giudicato nel processo penale, in Trattato di procedura penale,
XLI.1, diretto da G. Ubertis - G.P. Voena, Milano, 2012; G.
Piffer, Le novità di diritto penale in materia di sostanze stupefacenti, in Conti - Marandola - Varraso (a cura di), Le nuove
norme sulla giustizia penale, Padova, 2014, 9 ss.; R. Zizanovich, Rassegna della giurisprudenza di legittimità in materia
di stupefacenti dopo gli interventi della corte costituzionale e
le recenti modifiche legislative, in Cass. pen., 2014, 2781.
IMPUGNAZIONI
ILLEGALITÀ DELLA PENA, GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ E
POTERI DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE
Cassazione Penale, SS.UU., 3 dicembre 2015 (26 giugno 2015), n. 47766 - Pres. Santacroce - Rel. Rotundo P.M. Stabile (parz. conf.) - Ric. U.B. e A.M.
In presenza di ricorso inammissibile perché presentato
fuori termine non è rilevabile d’ufficio, in sede di legittimità, l’illegalità della pena.
Il caso
Il Tribunale di Agrigento, con sentenza del 19 febbraio
2013, riconosceva U.B. e A.M. colpevoli del reato di concorso in lesioni personali a danno di D.B., nonché del reato
di minacce, per il solo U.B., condannando il primo alla pena di tre mesi di reclusione, la seconda a quella di due mesi di reclusione, entrambe sospese, oltre al risarcimento del
danno. La Corte d’Appello di Palermo, in data 5 marzo
2014, confermava tale sentenza. Contro l’anzidetta pronuncia ricorrevano per cassazione gli imputati con un unico atto e per mezzo del comune difensore.
La V Sezione penale ha ritenuto inammissibili i ricorsi, da
un lato, perché venivano dedotti motivi di merito e, dall’altro lato, per genericità di alcuni altri; per di più l’atto di ricorso era stata presentato oltre il termine di legge (la sentenza d’appello era stata deliberata il 5 marzo 2014 con indicazione nel dispositivo di trenta giorni per il deposito della motivazione, avvenuto il 4 aprile; la notifica dell’avviso di
deposito e dell’estratto contumaciale era stata effettuata il
7 maggio e il termine per la presentazione del ricorso scadeva sabato 21 giugno, mentre lo stesso era stato presentato il 23 giugno). Tuttavia, la Sezione rimettente ha puntualizzato che la pena irrogata nei confronti di A.M. era illegale, perché l’imputata era stata riconosciuta colpevole del
reato di lesioni con malattia di durata inferiore a venti giorni, ossia per un reato di competenza del giudice di pace.
Parimenti, ad avviso della Sezione rimettente, andava considerata illegale la pena inflitta a U.B., condannato anche
per il reato di minaccia: infatti, per un verso, i giudici di merito, ritenuta la continuazione tra le due fattispecie, avevano considerato più grave il delitto di lesioni; per altro verso,
gli stessi avevano applicato la diminuzione per effetto del
riconoscimento delle attenuanti generiche sul reato di lesioni, sulla base della disciplina codicistica e non di quella
prevista per la giurisdizione penale di pace, e in seguito
l’aumento per la continuazione con il reato di minacce.
Fatte dette premesse, la V Sezione ha dato atto del contrasto esistente in seno alla giurisprudenza di legittimità in ordine alla rilevabilità d’ufficio dell’illegalità della pena in caso
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di inammissibilità del ricorso, rimettendo il ricorso alle Sezioni Unite.
La decisione
Il quesito di diritto posto al vaglio delle Sezioni Unite è il seguente: “se sia rilevabile d’ufficio, in sede di legittimità, in
presenza di ricorso inammissibile, in quanto presentato
fuori termine, l’illegalità della pena determinata dall’applicazione di sanzione ab origine contraria all’assetto normativo vigente al momento di consumazione del reato”.
Le Sezioni Unite hanno, innanzitutto, ricordato quanto affermato con la sentenza “Jazouli”, nella quale è stato sancito che nel giudizio di cassazione l’illegalità della pena
conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme
riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d’ufficio
anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel
caso di ricorso tardivo. In quest’ultima evenienza, infatti,
l’impugnazione è inidonea ab origine a instaurare un valido
rapporto processuale, poiché il decorso del termine per impugnare ha già trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale.
Tanto precisato, è stato richiamato l’art. 648, comma 2,
c.p.p., il quale viene interpretato dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che la sentenza è irrevocabile quando è
inutilmente decorso il termine per proporre impugnazione,
a prescindere dall’esito del relativo giudizio. A corroborare
l’assunto, l’interpretazione letterale della disposizione, ove
viene utilizzata la disgiuntiva “o” per separare le due ipotesi
dell’inutile decorso del termine per proporre impugnazione
e dell’inutile decorso del termine per impugnare l’ordinanza
di inammissibilità dell’impugnazione.
Alla luce di quanto precede, il principio di diritto è stato formulato nei seguenti termini: “In presenza di ricorso inammissibile perché presentato fuori termine non è rilevabile
d’ufficio, in sede di legittimità, l’illegalità della pena”.
Sotto altro profilo, le Sezioni Unite si sono occupate della
possibilità di dedurre l’illegalità della pena in sede esecutiva.
Partendo dall’assunto che la giurisprudenza della S.C. ammette pacificamente che il giudice dell’esecuzione possa
intervenire per rimuovere la pena principale ove la stessa
sia stata inflitta in violazione dei parametri normativamente
fissati, quando la sanzione irrogata non sia prevista dall’ordinamento ovvero quando - per specie e quantità - risulti
eccedente il limite legale, ma non quando sia errato (salvo
errori macroscopici) il calcolo attraverso il quale è stata determinata, essendo un vizio censurabile solo attraverso gli
ordinari mezzi di impugnazione. Invece, in caso di applicazione di pena illegale, per palese errore giuridico o materiale nella determinazione o nel calcolo da parte del giudice di
cognizione, non si configura un’ipotesi di abnormità o di
inesistenza, e si impone la rettifica o la correzione da parte
del giudice dell’esecuzione, adito ex art. 666 c.p.p.
Quanto alla latitudine decisoria del giudice dell’esecuzione,
partendo dalle sentenze “Ercolano” e “Gatto”, si è ribadito
che la legalità della pena è tematica costantemente sub iudice, anche dopo l’irrevocabilità della sentenza, nonché, richiamando la sent. n. 210 del 2013 della Corte costituzionale, che il predetto giudice è abilitato a incidere sul titolo
esecutivo.
In conclusione, si è affermato che l’illegalità della pena,
non rilevabile d’ufficio in sede di legittimità in presenza di
ricorso inammissibile perché presentato fuori termine, è
deducibile dinanzi al giudice dell’esecuzione.
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Sezioni Unite
Con riguardo al caso in esame, i ricorsi sono stati dichiarati
inammissibili con condanna dei ricorrenti al pagamento
delle spese processuali.
Cassazione Penale, SS.UU., 29 ottobre 2015 (24 novembre 2015), n. 46624 - Pres. Agrò - Rel. Piccialli P.M. Zeno (conf.) - Ric. L.B.
I precedenti
Il rinvio alle stesse modalità e procedure previste dal
comma 2, lett. c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione, contenuto nel secondo
periodo dell’art. 186, comma 7, c. str. dopo le previsioni
relative alla sospensione della patente di guida ed alla
confisca del veicolo, deve intendersi limitato alle sole
modalità e procedure, contenute nell’art. 186, comma 2,
lett. c), c. str., che regolano il sistema della confisca del
veicolo, con esclusione del rinvio alla disciplina del raddoppio della durata della sospensione della patente di
guida, qualora il veicolo appartenga a persona estranea
al reato; conseguentemente, la durata della sospensione della patente di guida, quale sanzione amministrativa che accede al reato di rifiuto, compresa, ai sensi dell’art. 186, comma 7, secondo periodo, tra il minimo di
sei mesi ed il massimo di due anni, non deve essere
raddoppiata nel caso in cui il veicolo appartenga a persona estranea al reato.
Per l’orientamento che esclude la rilevabilità d’ufficio dell’illegalità della pena in caso di inammissibilità del ricorso,
Cass., SS.UU., 22 marzo 2005, Bracale, in CED, n. 231164;
Cass., SS.UU., 22 novembre 2000, De Luca, ivi, n. 217266;
Cass., SS.UU., 30 giugno 1999, Piepoli, ivi, n. 213981;
Cass., SS.UU., 24 giugno 1998, Verga, ivi, n. 211469.
Sui poteri decisori del giudice dell’esecuzione, si veda anche Cass., SS.UU., 24 ottobre 2013, Ercolano, ivi, nn.
259649-258650-258651; nonché, in seguito, Cass.,
SS.UU., 29 maggio 2014, Gatto, in CED, nn. 260696260697-260699, e Cass., SS.UU., 15 settembre 2015,
M.S., n.m.
Nel senso della deducibilità in sede esecutiva dell’erronea
applicazione di una pena accessoria, Cass., SS.UU., 27 novembre 2014, Basile, in CED, n. 262327; Cass., Sez. I, 30
novembre 2012, Zito, ivi, n. 254288; Cass., Sez. I, 17 ottobre 2012, P.M. in c. Alberghina, ibidem, n. 253701; Cass.,
Sez. VI, 20 gennaio 2011, p.g. in c. Fiorito, ivi, n. 249908;
Cass., Sez. I, 13 ottobre 2010, Di Marco, ivi, n. 248300;
Cass., Sez. I, 15 aprile 2010, Drago, ibidem, n. 247242;
Cass., Sez. I, 25 febbraio 2005, Pozzi, ivi, n. 230928; Cass.,
Sez. I, 10 novembre 2004, p.g. in c. Tinnirello, ivi, n.
230129; Cass., Sez. I, 28 aprile 2004, Bagedda, ibidem, n.
228250; Cass., Sez. I, 26 novembre 1998, Ruggiu, ivi, n.
212100; Cass., Sez. II, 13 novembre 1996, P.M. in c. Kenzi,
ivi, n. 206850; Cass., Sez. I, 12 marzo 1991, P.M. in c. Bonetti, ivi, n. 187648.
La dottrina
In argomento, E. Aprile, Le impugnazioni penali, Milano,
2004, 215 ss.; A. Bargi, Il ricorso per cassazione, in AA.VV.,
Le impugnazioni penali, diretto da A. Gaito, Torino, 1998,
561 ss.; F. Caprioli - D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, Torino, 2011, 261 ss.; G. Catelani, Manuale dell’esecuzione penale, Milano, 2002, 43 ss.; F. Corbi, L’esecuzione
nel processo penale, Torino, 1992; G. Dean, Esecuzione penale, in Enc. dir., Annali, II, I, Milano, 2007, 259; A. Fusi,
Manuale dell’esecuzione penale, Milano, 2013; A. Gaito - G.
Ranaldi, Esecuzione penale, Milano, 2005, 159 ss.; V. Luciano, sub Art. 666 c.p.p., in Comm. Giarda-Spangher, Milano, 2010, 7825; P. Di Ronza, Manuale di diritto dell’esecuzione penale, Padova, 2003, 63 ss.; E.M. Mancuso, Il giudicato nel processo penale, in Trattato di procedura penale,
XLI.1, diretto da G. Ubertis - G.P. Voena, Milano, 2012;
A.A. Marandola, Le disposizioni generali, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, 5, Impugnazioni, a
cura di G. Spangher, Torino, 2009, 238 ss.; A.A. Sammarco, Le altre competenze funzionali del giudice dell’esecuzione, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher,
6, Esecuzione e rapporti con autorità giurisdizionali straniere,
a cura di L. Kalb, Torino, 2009, 210 ss.
GUIDA IN STATO D’EBBREZZA
RIFIUTO DI SOTTOPORSI ALL’ACCERTAMENTO DELLO
STATO DI EBBREZZA E SANZIONE AMMINISTRATIVA DELLA
SOSPENSIONE DELLA PATENTE DI GUIDA
Diritto penale e processo 1/2016
Il caso
Il Tribunale di Treviso applicava a L.B. la pena concordata
dalle parti di mesi sei di arresto e di € 3.000 di ammenda,
congiuntamente alla sospensione della patente di guida
per anni quattro, per il reato di rifiuto di sottoposizione ad
esame alcolemico di cui all’art. 186, comma 7, D.Lgs. 30
aprile 1992, n. 285. Con riferimento alla sanzione amministrativa, il Tribunale riteneva che, in considerazione dell’esistenza di cinque precedenti condanne per guida in stato di
ebbrezza, la sospensione doveva essere determinata nel
massimo (due anni), da raddoppiare, appartenendo l’autovettura a persona estranea al reato.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione
l’imputato che deduceva, con unico motivo, l’erronea applicazione della legge penale con riferimento alla disposizione di cui all’art. 186, comma 7, c. str. Ad avviso del ricorrente, il richiamo operato dall’art. 186, comma 7, c. str.
al comma 2, lett. c), andrebbe riferito alle sole sanzioni penali, essendo la sanzione amministrativa della sospensione
della patente di guida sottoposta ad un regime autonomo
rispetto a quello del comma 2.
La IV Sezione penale, assegnataria del ricorso, ne ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di
un contrasto giurisprudenziale sul punto.
Secondo un primo orientamento, il rinvio operato dall’art.
186, comma 7, c. str. all’art. 186, comma 2, lett. c) è limitato al trattamento sanzionatorio, mentre per le sanzioni accessorie il legislatore ha autonomamente disciplinato sia la
sospensione della patente di guida, con una propria cornice edittale, sia la confisca, rinviando, limitatamente a quest’ultima, alle modalità e alle procedure previste dal comma 2, lett. c). Conseguentemente, il rinvio non si estenderebbe alla disciplina del raddoppio della durata della sospensione della patente di guida qualora il veicolo appartenga a persona estranea al reato, fattispecie che rimarrebbe autonomamente disciplinata dal comma 7, che prevede
una sospensione della patente da un minimo di sei mesi ad
un massimo di due anni.
Secondo un diverso orientamento, in forza del rinvio al trattamento sanzionatorio dell’art. 186, comma 2, lett. c), deve
ritenersi operante il raddoppio della durata della sospensione della patente di guida nel caso in cui il veicolo appartenga a persona estranea al reato e non possa procedersi alla
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Sezioni Unite
confisca. Il rinvio operato dal comma 7 avrebbe infatti natura di rinvio formale, con la conseguente applicabilità per
relationem alla fattispecie del rifiuto della disciplina sanzionatoria prevista dalla più grave ipotesi di guida in stato di
ebbrezza, sia con riferimento alla “pena principale”, sia
con riguardo alle “modalità e procedure” afferenti alla sospensione della patente di guida ed alla confisca del veicolo.
Le Sezioni Unite venivano pertanto investite della seguente
questione: “Se, nel caso di rifiuto a sottoporsi all’esame alcolemico previsto dall’art. 186, comma 7, cod. strada il rinvio operato dalla norma all’art. 186, comma 2, lett. c), è limitato al trattamento sanzionatorio ivi previsto per la più
grave delle fattispecie di guida in stato di ebbrezza o sia
esteso anche alla previsione del raddoppio della durata della sospensione della patente di guida qualora il veicolo appartenga a persona estranea al reato”.
La decisione
Le Sezioni Unite, dopo aver ricordato il quadro normativo
di riferimento, hanno proceduto all’analisi delle decisioni
più significative sul punto.
A sostegno del primo orientamento deporrebbero, secondo
quanto già rilevato da una precedente pronuncia di legittimità, valutazioni interpretative di natura letterale, diacronica e sistematica. Sotto il profilo letterale, il legislatore
avrebbe provveduto a selezionare direttamente la condotta
penalmente rilevante, individuata nel rifiuto di sottoporsi all’accertamento strumentale del tasso alcolemico. Inoltre,
avrebbe disciplinato espressamente le sanzioni amministrative accessorie, con il solo rinvio, limitatamente alla
confisca, alle “stesse modalità e procedure previste dal
comma 2, lettera c)”, non essendo presenti, nella norma alla quale viene fatto il rinvio, “modalità e procedure” attinenti alla sospensione della patente di guida ed essendovi,
al contrario, un espresso riferimento a modalità e procedure che regolano la confisca del veicolo. Sotto il profilo diacronico, la norma sarebbe stata oggetto di una tortuosa
evoluzione legislativa, ma comunque, la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida
sarebbe rimasta immutata.
A sostegno del secondo orientamento, la Corte ricorda in
particolare la sentenza Bianchi, in cui si è ritenuto che i rinvii inseriti nel primo e nel secondo periodo dell’art. 186,
comma 7, c. str. rientrino nell’ambito della nozione di rinvio
dinamico, atteso che il legislatore, nel reintrodurre la rilevanza penale della condotta di rifiuto, ha richiamato la disciplina sanzionatoria prevista dalla più grave ipotesi di guida in stato di ebbrezza, sia con riferimento alla “pena” principale, sia con riguardo alle “modalità e procedure” afferenti la sospensione della patente di guida e la confisca del
veicolo.
Le Sezioni Unite hanno ritenuto non condivisibili le conclusioni cui è giunta la sentenza Bianchi. La Corte ha dapprima proceduto ad enucleare la distinzione tra rinvio statico
e dinamico: “il rinvio recettizio (o statico) recepisce per intero, senza che ne sia riprodotto il testo, il contenuto di un
altro articolo, vale a dire la disposizione normativa; quello
formale (o dinamico), al contrario, fa riferimento alla norma
in sé, cioè al principio contenuto nella formula verbale dell’articolo del codice e ne segue, dunque, inevitabilmente la
eventuale evoluzione, di talché, mutato il contenuto della
norma di riferimento, muta inevitabilmente il significato
della norma di rinvio”. Una volta chiarita tale distinzione, le
Sezioni Unite hanno osservato come, per il reato di cui all’art. 186, comma 7, c. str., con riferimento alla sanzione
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amministrativa accessoria della sospensione della patente
di guida, non può parlarsi né di rinvio formale, né ricettizio,
poiché il legislatore ha espressamente disciplinato tale sanzione con autonoma cornice edittale. Deve pertanto essere
escluso, così come voleva la sentenza Bianchi, che vi sia
stato un adeguamento all’evoluzione della norma richiamata. Ne consegue che non è applicabile all’ipotesi del reato
di cui all’art. 186, comma 7, c. str. la sanzione del raddoppio della sospensione della patente di guida, introdotta con
la L. 15 luglio 2009, n. 94. All’opposto, il rinvio che l’art.
186, comma 7, c. str. effettua al comma 2, lett. c), dello
stesso articolo, sia con riferimento alla pena principale, sia
con riguardo alle “modalità e procedure” afferenti alla confisca del veicolo deve, invece, qualificarsi, come rinvio formale (o dinamico).
Ulteriori elementi a conforto di questa conclusione possono essere tratti da due dati. In primis, la diversa disciplina
della sanzione amministrativa della sospensione della patente afferente al reato in esame trova la sua giustificazione nell’intento del legislatore di mantenere entro limiti edittali più contenuti, in ragione della distinta oggettività giuridica dei reati contemplati dall’art. 186, comma 2, e dall’art.
186, comma 7, c. str. la durata della stessa nell’ipotesi in
cui la condotta criminosa non sia strettamente correlata all’utilizzo del veicolo, ma si sostanzi nella frapposizione di
un ostacolo all’accertamento di altro reato. In secundis, il
raffronto con l’art. 186 bis c. str., introdotto successivamente rispetto all’ultima modifica che ha riguardato l’art.
186, comma 7, c. str., che ha previsto espressamente il
raddoppio della sospensione della patente nel caso in cui
appartenga a persona estranea al reato, consente di rilevare che “quando il legislatore ha inteso determinare la sanzione amministrativa della sospensione della patente di
guida con limiti edittali superiori rispetto a quelli indicati
nell’art. 186, comma 7, cod. strada, lo ha esplicitamente
previsto”.
A seguito di tali considerazioni, le Sezioni Unite hanno
enunciato il seguente principio di diritto: “Il rinvio alle stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lett. c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione, contenuto nel secondo periodo del comma 7 dell’art.
186 cod. strada, dopo le previsioni relative alla sospensione
della patente di guida ed alla confisca del veicolo, deve intendersi limitato alle sole modalità e procedure, contenute
nell’art. 186, comma 2, lett. c), cod. strada, che regolano il
sistema della confisca del veicolo, con esclusione del rinvio
alla disciplina del raddoppio della durata della sospensione
della patente di guida, qualora il veicolo appartenga a persona estranea al reato; conseguentemente, la durata della
sospensione della patente di guida, quale sanzione amministrativa che accede al reato di rifiuto, compresa, ai sensi
dell’art. 186, comma 7, secondo periodo, tra il minimo di
sei mesi ed il massimo di due anni, non deve essere raddoppiata nel caso in cui il veicolo appartenga a persona
estranea al reato”.
La Corte ha conseguentemente accolto il ricorso, disponendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla sanzione amministrativa accessoria
della sospensione della patente di guida, contestualmente
determinandone la durata in anni due.
I precedenti
Quanto all’orientamento che prevede il raddoppio della sospensione della patente anche in caso di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti, vedasi, Cass., Sez. IV, 16 ottobre
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Sezioni Unite
La circostanza aggravante di aver provocato un incidente
stradale non è configurabile rispetto al reato di rifiuto di
sottoporsi all’accertamento per la verifica dello stato di ebbrezza, stante la diversità ontologica di tale fattispecie incriminatrice rispetto a quella di guida in stato di ebbrezza.
to di sottoporsi agli accertamenti, anche in virtù del medesimo trattamento sanzionatorio previsto dalla legge.
La IV Sezione penale, avendo ravvisato la sussistenza di un
contrasto giurisprudenziale, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.
Secondo un primo orientamento, la circostanza aggravante
di aver provocato un incidente stradale non è configurabile
rispetto al reato di rifiuto di sottoporsi all’accertamento per
la verifica dello stato di ebbrezza, stante la diversità ontologica di tale fattispecie incriminatrice rispetto a quella di guida
in stato di ebbrezza. A sostegno di tale assunto deporrebbero ragioni di ordine sia sistematico, sia testuale. Sotto il primo profilo, occorre rilevare che l’art. 186, comma 7, c. str. richiama espressamente il solo comma 2, e non anche il
comma 2 bis, che disciplina l’aggravante dell’incidente stradale. Sotto il profilo testuale, dal confronto tra le norme richiamate emerge, invece, in maniera evidente, la diversità
ontologica tra il concetto di “conducente in stato di ebbrezza”, che è elemento costitutivo dell’aggravante, e quello di
“conducente che si rifiuti di sottoporsi all’accertamento di
tale stato”. In quest’ultimo caso, infatti, è implicita la mancanza di un accertamento dello stato di ebbrezza e, dunque,
del presupposto necessario perché possa definirsi il soggetto attivo del reato come “conducente in stato di ebbrezza”,
essendo sanzionata solamente la condotta di colui che si rifiuta di sottoporsi ad un tale accertamento.
Secondo un diverso orientamento, la circostanza aggravante di aver provocato un incidente stradale è configurabile anche rispetto al reato di rifiuto di sottoporsi all’accertamento per la verifica dello stato di ebbrezza, in quanto il
richiamo dell’art. 186, comma 7, c. str. alle pene di cui al
comma 2, lett. c), dello stesso articolo, deve necessariamente comprendere anche l’aggravante de qua, poiché il
comma 2 bis richiama a sua volta le sanzioni del comma 2,
prevedendo il raddoppio delle stesse.
Veniva pertanto rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione: “Se la circostanza aggravante prevista dall’art. 186,
comma 2 bis, cod. strada, in riferimento al reato di guida in
stato di ebbrezza, sia applicabile anche al rifiuto di sottoporsi all’accertamento per la verifica dello stato di ebbrezza
di cui all’art. 186, comma 7, cod. strada”.
Il caso
La decisione
Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di
Macerata applicava la pena concordata dalle parti nei confronti di A.Z. per il reato di cui all’art. 186, comma 7,
D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, con le aggravanti di cui al
comma 2 sexies e 2 bis dello stesso articolo, sostituendo la
pena irrogata con i lavori di pubblica utilità (art. 186, comma 9 bis, c. str.). Il giudice rilevava, nel corpo della sentenza, che non era applicabile nel caso di specie il divieto di
sostituzione di cui all’art. 186, comma 9 bis, c. str., sul duplice rilievo che non era compiutamente dimostrato lo stato di ebbrezza del conducente che aveva procurato il sinistro stradale e che il rinvio effettuato dal comma 7 al comma 2, lett. c), doveva ritenersi solo quoad poenam.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione il
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Macerata, denunciando violazione di legge e vizio motivazionale. Ad
avviso del ricorrente, il giudice ha erroneamente disposto la
sostituzione della pena con i lavori di pubblica utilità, sebbene sussistesse la condizione ostativa dell’aggravante di aver
procurato un incidente stradale. Il responsabile del reato di
cui all’art. 186, comma 7, c. str. doveva infatti essere considerato “conducente in stato d’ebbrezza”, nonostante il rifiu-
Le Sezioni Unite hanno preso le mosse dal quadro normativo di riferimento, sottolineando come sia il comma 2 bis
che il comma 7 sono stati oggetto di contestuali e reiterati
interventi riformatori. In particolare, nell’attribuire rilevanza
penale al rifiuto di sottoporsi ad accertamenti, il legislatore
non ha più previsto alcun riferimento all’incidente stradale,
come invece avveniva nel previgente testo normativo in cui
il rifiuto costituiva solo un’ipotesi di illecito amministrativo.
In tal senso depone inoltre il dato testuale, che può trarsi
dal raffronto tra la definizione normativa dell’aggravante di
cui al comma 2 bis (“Se il conducente in stato di ebbrezza
provoca un incidente stradale ...”) e quella del reato di cui
al comma 7 (“Salvo che il fatto costituisca più grave reato,
in caso di rifiuto all’accertamento di cui ai commi 3, 4, 5, il
conducente è punito ...”). Dalla lettera delle norme emerge
con evidenza la diversità ontologica tra il concetto di “conducente in stato di ebbrezza” e quello di “conducente che
si rifiuti di sottoporsi all’accertamento”: quest’ultimo presuppone la mancanza di accertamento dello stato di ebbrezza, perfezionandosi il reato, di natura istantanea, con il
mero rifiuto di sottoporsi all’accertamento di tale stato, essendo estraneo ogni accertamento dello stato di ebbrezza.
2014, Bianchi, in CED, n. 263725; Cass., Sez. IV, 16 ottobre
2014, De Bernardinis, n.m.
Quanto all’orientamento opposto, sposato dalle Sezioni Unite,
vedasi, Cass., Sez. IV, 24 marzo 2015, Vaglia, in CED, n.
263277; Cass., Sez. IV, 16 dicembre 2014, P.F., ivi, n. 263475;
Cass., Sez. VI, 10 luglio 2014, Farinelli, ibidem, n. 263254.
La dottrina
In tema di rifiuto di sottoporsi all’accertamento dello stato di
ebbrezza, vedasi, G. Berri, Guida in stato di alterazione, Milano, 2011; M. Rinaldi, La guida sotto l’effetto di alcol e stupefacenti. L’accertamento e il processo, Ravenna, 2012, 308; B.
Cirrillo, Guida in stato di alterazione da alcool o sostanze stupefacenti, 2012; P. Cipolla, Le principali questioni in materia
di reati stradali, in Giur. mer., 2012, 1230; D. D’Auria, Le modifiche apportate alla materia della circolazione stradale (Commento a l. 29 luglio 2010, n. 120), in questa Rivista, 2010, 11,
1274; E. Forlani - A. Planitario, L’assoluzione dai reati di circolazione stradale nella giurisprudenza, Ravenna, 2013, 115 ss.;
A. Ippoliti, Guida in stato di ebbrezza, Milano, 2013; A.D.
Molfese - F. Molfese, Incidenti stradali: alcol, droghe e psicofarmaci, Ravenna, 2011, 145; G.L. Perdonò, Le novità in materia di guida, in AA.VV., Le nuove norme sulla sicurezza pubblica, a cura di S. Lorusso, Padova, 2008, 405; D. Potetti,
Questioni in tema di nuovo art. 186 c. strada, in Cass. pen.,
2008, 3816; E. Reccia, La criminalità stradale. Alterazione da
sostanze alcoliche e principio di colpevolezza, Torino, 2014, 9
ss.; G. Riccardi, Reati alla guida, Milano, 2010, 80.
RIFIUTO DI SOTTOPORSI ALL’ACCERTAMENTO DELLO
STATO DI EBBREZZA E CIRCOSTANZA AGGRAVANTE DI AVER
PROCURATO UN INCIDENTE STRADALE
Cassazione Penale, SS.UU., 24 novembre 2015 (29 ottobre 2015), n. 46625 - Pres. Agrò - Rel. Piccialli - P.M.
Izzo (diff.) - Ric. A. Z.
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Sezioni Unite
La diversità ontologica delle due fattispecie trova peraltro
ulteriore conforto nella costante giurisprudenza di legittimità che ha sempre affermato l’autonomia delle fattispecie
incriminatrici di cui al comma 2 e quella di cui al comma 7,
con la conseguente possibilità di configurare l’eventuale
concorso materiale tra le stesse.
Alla luce di tali considerazioni, le Sezioni Unite hanno ritenuto non meritevole di condivisione il secondo orientamento citato e hanno affermato il seguente principio di diritto:
“La circostanza aggravante di aver provocato un incidente
stradale non è configurabile rispetto al reato di rifiuto di
sottoporsi all’accertamento per la verifica dello stato di ebbrezza, stante la diversità ontologica di tale fattispecie incriminatrice rispetto a quella di guida in stato di ebbrezza”.
Il ricorso proposto dal Pubblico ministero è stato pertanto
rigettato.
I precedenti
In senso conforme alla interpretazione sposata dalle Sezioni Unite, vedasi, Cass., Sez. IV, 10 luglio 2014, Crisopulli, in
CED, n. 261568; Cass., Sez. IV, 9 maggio 2014, Caldarelli,
ibidem, n. 259242.
In senso contrario, Cass., Sez. IV, 6 febbraio 2015, G.A., in
CED, n. 262447; Cass., Sez. IV, 17 dicembre 2014, F.G., ivi
n. 262032; Cass., Sez. IV, 26 settembre 2014, Lambiase,
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ibidem, n. 260602; Cass., Sez. IV, 14 novembre 2013, Stagnaro, ivi, n. 258215.
La dottrina
In tema di rifiuto di sottoporsi all’accertamento dello stato di
ebbrezza, vedasi, G. Berri, Guida in stato di alterazione, Milano, 2011; M. Rinaldi, La guida sotto l’effetto di alcol e stupefacenti. L’accertamento e il processo, Ravenna, 2012, 308; B.
Cirrillo, Guida in stato di alterazione da alcool o sostanze stupefacenti, 2012; P. Cipolla, Le principali questioni in materia
di reati stradali, in Giur. mer., 2012, 1230; D. D’Auria, Le modifiche apportate alla materia della circolazione stradale (Commento a l. 29 luglio 2010, n. 120), in questa Rivista, 2010, 11,
1274; E. Forlani - A. Planitario, L’assoluzione dai reati di circolazione stradale nella giurisprudenza, Ravenna, 2013, 115 ss.;
A. Ippoliti, Guida in stato di ebbrezza, Milano, 2013; A.D.
Molfese - F. Molfese, Incidenti stradali: alcol, droghe e psicofarmaci, Ravenna, 2011, 145; G.L. Perdonò, Le novità in materia di guida, in AA.VV., Le nuove norme sulla sicurezza pubblica, a cura di S. Lorusso, Padova, 2008, 405; D. Potetti,
Questioni in tema di nuovo art. 186 c. strada, in Cass. pen.,
2008, 3816; E. Reccia, La criminalità stradale. Alterazione da
sostanze alcoliche e principio di colpevolezza, Torino, 2014, 9
ss.; G. Riccardi, Reati alla guida, Milano, 2010, 80.
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cassazione - Diritto penale
a cura di Stefano Corbetta
DELITTI CONTRO LA PERSONA
CONTESA VIOLENTA SCATURITA DA UN’AGGRESSIONE: È
RISSA?
Cassazione Penale, Sez. V, 3 dicembre 2015 (u.p. 16
aprile 2015), n. 48007 - Pres. Fumo - Rel. Pezzullo P.M. Cedrangolo (diff.) - Ric. M.D.
Concretandosi in forme di violenta contesa tra più persone o gruppi di persone, con il proposito di ledersi reciprocamente e con modalità che pongano in pericolo
l’incolumità dei contendenti, il reato di rissa non è configurabile nel caso in cui uno dei gruppi in conflitto si limiti a resistere all’aggressione o ad assumere una mera
difesa di tipo passivo.
Il caso
Pur riducendo la pena, la Corte d’Appello di Bologna confermava la sentenza resa dal G.U.P. del tribunale felsineo
che aveva condannato l’imputato per il delitto di cui all’art.
588, comma 2, c.p. Secondo quanto ricostruito dai giudici
di merito, due fratelli, armati di pistola, erano entrati in un
ristorante e si erano diretti verso l’imputato per reclamare il
pagamento di quanto da loro asseritamente vantato in forza di un contratto di appalto, con intenzioni non certo pacifiche; l’imputato, alzatosi dal tavolo, si era diretto verso
una sala attigua per discutere con loro. Ben presto la situazione era degenerata: i tre avevano iniziato a spintonarsi e,
in un primo momento, l’imputato aveva avuto la peggio,
tanto da finire contro la vetrata; a questo punto i commensali dell’imputato decidevano di intervenire, partecipando
attivamente alla rissa che coinvolgeva una decina di persone: tutti si erano picchiati reciprocamente, erano volate sedie e bottiglie ed erano persino state estratte le armi. Tra i
motivi di ricorso per cassazione, la difesa deduceva l’erronea applicazione della legge penale quanto alla ritenuta
sussistenza del reato di rissa e dell’elemento soggettivo,
dato che l’imputato si era limitato a reagire al comportamento dei due fratelli che l’avevano aggredito.
La decisione
La Corte ha accolto il ricorso nei limiti di seguito indicati.
La Cassazione ha difatti censurato la contraddittorietà della
sentenza impugnata, che aveva ravvisato il delitto di rissa a
carico dell’imputato pur dando atto che gli intenti “aggressivi” erano solo dei due fratelli, i quali erano entrati nel locale armati, con evidenti intenzioni bellicose. In tale contesto, i giudici d’appello non avevano perciò correttamente
valutato la condotta dell’imputato, alla luce dei principi più
volte espressi dalla giurisprudenza di legittimità, secondo
cui “per la configurazione del reato di rissa è necessario
che, nella violenta contesa, vi siano gruppi contrapposti,
con volontà vicendevole di attentare all’altrui incolumità
personale”. Posto che “si concretizza in forme di violenta
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contesa tra più persone o gruppi di persone, con il proposito di ledersi reciprocamente e con modalità che pongano
in pericolo l’incolumità dei contendenti”, il reato di rissa
non è perciò configurabile “nel caso in cui uno dei gruppi
in conflitto si limiti a resistere all’aggressione o ad assumere una mera difesa di tipo passivo”. In particolare, non sussiste il reato in esame quando “un gruppo di persone assale deliberatamente altre, e queste ultime si difendono”; in
tal caso, gli aggressori rispondono soltanto delle eventuali
conseguenze della loro azione violenta in danno di coloro
che si sono limitati a difendersi. Nel caso di specie, la Corte
territoriale, mentre, da un lato, aveva dato conto dell’atteggiamento non aggressivo dell’imputato - e, quindi, di non
contrapposizione - a fronte della carica violenta dei due fratelli, che erano armati e l’avevano scaraventato contro la
vetrata, dall’altro, era giunta a conclusioni opposte, ritenendo l’imputato medesimo coautore della rissa, valorizzando le lesioni riportate da uno dei due fratelli, circostanza
che, in sé, non costituisce prova sufficiente della partecipazione attiva senza tener conto del contesto in cui era occorsa la lesione medesima. La sentenza è stata perciò annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte
d’Appello di Bologna.
I precedenti
Analogamente, nel senso che non è ravvisabile il delitto di
rissa quando un gruppo di persone assale altre persone e
queste ultime si difendono, cfr. Cass., Sez. I, 10 aprile
2013, Kaloti, in CED, n. 255949; Cass., Sez. I, 11 dicembre
2007, Arapaj, ivi, n. 238766; Cass., Sez. V, 13 maggio
2004, Galletta, ivi, n. 230323.
La dottrina
F. Basile, Il delitto di rissa (art. 588 c.p.). Teoria e prassi, Roma, 2014, passim; M. Garavelli, voce Rissa, in Dig. disc.
pen., 1997, XII, 374 ss.; F. Giannelli - M.G. Maglio, Il delitto
di rissa, in Riv. pen., 2008, 211 ss.; L. Pavoncello Sabatini,
voce Rissa, in Enc. giur., 1991, XX, 1 ss.; P.M. Quarta, voce
Rissa, in Enc. dir., 1989, XL, 1136 ss.
OMICIDIO DOLOSO CON DOLO EVENTUALE E OMICIDIO
PRETERINTENZIONALE: QUALE DIFFERENZA?
Cassazione Penale, Sez. I, 17 dicembre 2015 (u.p. 18
settembre 2015), n. 49850 - Pres. Chieffi - Rel. Bonito P.M. Corasaniti (parz. diff.) - Ric. P.G. e A.L.
Ricorre il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia
chiaramente rappresentata la significativa possibilità di
verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale
prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo
ad esso, per il caso in cui si verifichi; laddove non possa
affermarsi, oltre ogni ragionevole dubbio, che l’agente
abbia agito con dolo eventuale, occorre attenersi al
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Diritto penale
principio del favor rei e rinunziare all’imputazione soggettiva più grave a favore di quella colposa, se prevista
dalla legge. (Fattispecie in cui è stato ritenuto il delitto
di omicidio preterintenzionale, in luogo dell’omicidio
volontario con dolo eventuale).
Il caso
In parziale riforma della pronuncia emessa dal G.U.P. del
Tribunale di Forlì, la Corte d’Assise d’Appello di Bologna
affermava la penale responsabilità dell’imputato, riqualificando il fatto alla stregua dell’omicidio preterintenzionale,
come in origine contestato, in luogo di omicidio volontario
sorretto da dolo eventuale, come ritenuto in prime cure.
Questa la vicenda: la notte dei fatti una donna aveva avuto
un litigio col marito per motivi di gelosia e per questo aveva telefonato al fratello, il quale aveva raggiunto l’abitazione della sorella in preda all’ira, e qui aveva immediatamente litigato col cognato, che aveva picchiato fino a fratturargli una gamba. In difesa del figlio era intervenuto il padre
settantacinquenne, contro il quale l’imputato aveva sfogato
la sua ira colpendolo con pugni al volto; costui era deceduto in seguito ad emorragia cerebrale conseguenza del contraccolpo subito per i pugni ricevuti al volto, come appurato dalla perizia medica. La sentenza veniva impugnata anche dal P.G. che, tra l’altro, denunciava violazione degli
artt. 43, 584 e 575 c.p. e vizio della motivazione in riferimento all’errata qualificazione della condotta dell’imputato
come omicidio preterintenzionale in luogo di quella di omicidio volontario sorretto da dolo eventuale, come desumibile dalle concrete modalità del fatto (quali: la notevole differenza di età e di corporatura dei soggetti coinvolti, l’elevata
violenza dei colpi, la notoria la fragilità del capo di una persona, sede di organi vitali) e come ritenuto del perito, secondo cui l’azione dell’imputato era espressiva della “concreta possibilità di previsione da parte del soggetto attivo
di cagionare lesioni mortali alla vittima”.
La decisione
La Corte ha respinto tutti i ricorsi. Quanto al ricorso promosso dal P.G., volto a dimostrare la ricorrenza, nella fattispecie, del delitto di omicidio doloso in luogo di quello preterintenzionale ritenuto dalla corte di merito, la Cassazione
ha ritenuto la sentenza immune da censure. La Corte ha
preso le mosse dalla definizione di dolo eventuale, situazione soggettiva in cui versa “chi agisce con la consapevolezza della possibilità di verificazione di un evento delittuoso,
accettandone il rischio”. In ordine alla differenza tra dolo
eventuale e colpa cosciente, la Corte si è appellata alla recente sentenza delle Sezioni Unite (Cass., SS.UU., 24 aprile
2014, Espenhahn, in questa Rivista, 2014, 1281), secondo
cui “il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver
considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di
causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui
si verifichi; ricorre invece la colpa cosciente quando la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento ed egli, pur
avendo concretamente presente la connessione causale
tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si
astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo”.
Quanto ai profili probatori, la Corte, nel solco dell’insegnamento tracciato dalla Sezioni Unite, ha ribadito che “per la
configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa di-
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mostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica
categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l’iter e l’esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali:
a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa;
b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la
durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità
con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di
verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche
per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito
o illecito in cui si è svolta l’azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie,
che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (cosiddetta prima formula di Frank)”. Nella situazione dubbio, laddove non possa affermarsi, oltre
ogni ragionevole dubbio, che l’agente abbia agito con dolo
eventuale, occorre attenersi al principio del favor rei e rinunziare all’imputazione soggettiva più grave a favore di
quella colposa, se prevista dalla legge. Venendo al caso di
specie, la Cassazione ha ritenuto che la sentenza impugnata avesse fatto buon governo dei principi poc’anzi enunciati: nel contesto di un litigio a mani nude, attese le ragioni
dello scontro, era del tutto forzato considerare la ricorrenza
di una rappresentazione, in capo all’agente, dell’evento
morte, incongruo rispetto a quelle ragioni, spropositato rispetto alla volontà di punire l’anziano contendente intervenuto per aiutare il figlio in una lite di natura esclusivamente
familiare. Ancora, in quel contesto era alquanto improbabile che i pugni inferti potessero essere addirittura mortali e
l’imputato assunse un atteggiamento di comprensione verso la vittima, all’arrivo dell’ambulanza, per un suo sollecito
aiuto sanitario. Di nessun peso, infine, erano le conclusioni
del perito di ufficio il quale, nell’affermare la prevedibilità
della morte in seguito ai pugni inferiti, aveva palesemente
invaso il campo della valutazione giurisdizionale, esprimendo un giudizio non scientifico bensì di merito. Il fatto, pertanto, è sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 584 c.p.,
in quanto “l’evento morte si verificò, certo, in seguito alla
violenza fisica portata in danno della vittima, ma ciò avvenne oltre la sua reale intenzione, che era quella di picchiare
e non già di uccidere”.
I precedenti
Nel senso che è ravvisabile l’omicidio preterintenzionale, in
luogo dell’omicidio doloso, solo se l’agente esclude qualsivoglia previsione, anche indiretta, dell’evento morte, cfr.
Cass., Sez. I, 24 luglio 2013, n. 32149, in questa Rivista,
2013, 1040; Cass., Sez. V, 26 maggio 2011, S. e altri, in
CED, n. 250935; Cass., Sez. I, 30 giugno 2009, Montagnoli,
ivi, n. 244743; Cass., Sez. I, 4 luglio 2007, Zheng, ivi, n.
237685.
La dottrina
R. Bartoli, Luci ed ombre della sentenza delle Sezioni unite
sul caso Thyssenkrupp, in Giur. it., 2014, 2565 ss.; S. Cagli,
Preterintenzione e principio di colpevolezza, in Indice pen.,
1994, 532 ss.; S. Canestrari, L’illecito penale preterintenzionale, Padova, 1989, passim; G. Fiandaca, Le Sezioni unite
tentano di diradare il “mistero” del dolo eventuale, in Riv. it.
dir. proc. pen., 2014, 1947 ss.; S. Grossi, L’elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale tra accertamento ed
“ascrizione”, in Cass. pen., 2010, 4189; C. F. Grosso, voce
Preterintenzione, in Enc. giur., 1991, XXIV, 1 ss.; E. Mazzan-
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Diritto penale
tini, Dolo eventuale e colpa con previsione: dai concetti “generali” agli indicatori “di settore”, in questa Rivista, 2013,
1143 ss.; S. Raffaele, Dolo eventuale e colpa cosciente: la
(residua?) validità dell’accettazione del rischio quale criterio
identificativo del dolo eventuale, in Giur. it., 2015, 1990.
DIRITTO D’AUTORE
ABUSIVA FOTOCOPIATURA DI TESTI UNIVERSITARI
Cassazione Penale, Sez. III, 2 dicembre 2015 (u.p. 30
aprile 2015), n. 47590 - Pres. Teresi - Rel. Gentili - P.M.
Delehaye (conf.) - Ric. B.L.M.
In tema di detenzione per la vendita di supporti privi
del contrassegno Siae, i principi enunciati dalla Corte di
giustizia europea con la sentenza “Schwibbert” non si
applicano nel caso in cui l’obbligo di apposizione del
contrassegno sia stato introdotto dal legislatore nazionale anteriormente alla data del 31 marzo 1983, coincidente con la data di entrata in vigore della Dir.
83/189/CE, come nel caso delle opere soggette a contratto di edizione.
Il “fine di lucro”, richiesto dall’art. 171 ter, comma 1, L.
n. 633 del 1941, è ravvisabile nella messa in vendita di
opere di ingegno abusivamente riprodotte, anche se il
prezzo è coincidente con il mero costo del servizio di fotocopiatura.
Il caso
La Corte d’Appello di Bologna confermava la condanna alla pena di giustizia che il Tribunale di Piacenza aveva inflitto all’imputato in relazione al reato di cui all’art. 171 ter,
comma 1, lett. b), L. n. 633 del 1941 per avere riprodotto a
fine di lucro in copie fotostatiche 30 opere letterarie complete destinate alla didattica, nonché sei pagine di altra
opera a contenuto tecnico. Tra i motivi di ricorso per cassazione, la difesa lamentava il fatto che i giudici del merito
avessero dedotto la natura abusiva della duplicazione delle
opere rinvenute presso la sua copisteria dalla sola mancanza su di esse del cd. “bollino Siae”, senza tenere conto che
la Corte di Giustizia UE, con la nota sentenza “Schwibbert”, ha rilevato che, in assenza di una preventiva procedura di notificazione da parte del singolo Stato alla competente Commissione dell’Unione europea, non è opponibile
neppure ai singoli cittadini la norma o regola tecnica che
impone l’apposizione del predetto bollino sui supporti ove
sono riprodotte opere di arti figurative; poiché lo Stato italiano ha provveduto al perfezionamento di detta procedura
solo il 21 aprile 2009, per i fatti precedenti a tale data, fra i
quali vi sono quelli di causa, la prova della abusività della
duplicazione non può essere desunta solamente dalla mancanza della stampiglia del predetto bollino. La difesa, inoltre, censurava la sussistenza del fine di lucro, posto che le
opere in questione erano poste in vendita ad un prezzo che
non superava il costo ordinario del numero delle fotocopie
eseguite per la riproduzione dell’opera.
La decisione
La Corte ha rigettato il ricorso perché inammissibile. La
Cassazione, in primo luogo, ha ritenuto inconferente il richiamo alla sentenza “Schwibbert”. E difatti il principio secondo il quale, in tema di diritto d’autore, relativamente ai
reati di detenzione per la vendita di supporti privi del contrassegno Siae, comporta l’assoluzione del soggetto agen-
Diritto penale e processo 1/2016
te l’inopponibilità nei confronti dei privati dell’obbligo di apposizione del predetto contrassegno quale effetto dalla
mancata comunicazione alla Commissione dell’Unione Europea di tale “regola tecnica” in adempimento della direttiva europea 83/179/CE, “presuppone che l’obbligo della apposizione del contrassegno non sia stato introdotto dal legislatore nazionale anteriormente alla data del 31 marzo
1983, coincidente con la data di entrata in vigore della direttiva 83/189/CE, ovvero che, solo se introdotto successivamente, sia stato, in adempimento di detta direttiva, previamente comunicato dallo Stato italiano alla Commissione
dell’Unione Europea”. Nel caso delle opere soggette a contratto di edizione, quali sono le opere che si sostanziano in
un libro stampato, già il testo originario dell’art. 123, L. n.
633 del 1941, stabiliva che gli esemplari dell’opera dovessero essere contrassegnati in conformità con quanto stabilito dal regolamento di attuazione della legge, emanato
con R.D. n. 1369 del 1942, il cui art. 12 prevedeva che il
contrassegno fosse apposto a mezzo della SIAE, salvo che
l’autore non vi avesse provveduto direttamente, contrassegnando ciascun esemplare con la propria firma autografa.
Pertanto, la preesistenza dell’obbligo di apposizione della
cd. “bollinatura SIAE” sulle edizioni cartacee, rispetto alla
entrata in vigore della sopracitata direttiva comunitaria,
rende irrilevante la mancata notificazione alla competente
Commissione dell’Unione europea della prescrizione tecnica vigente nello Stato italiano avente ad oggetto i soli supporti digitali ed esclusivamente in relazione alla quale è applicabile la disciplina ricavabile dalla decisione assunta dalla Corte europea di giustizia riguardo al caso “Schwibbert”.
La Cassazione ha poi ravvisato la sussistenza del fine di lucro, che, diversamente da quanto opinato dal ricorrente,
sussiste “ogniqualvolta il movente che abbia spinto il soggetto a delinquere sia stato legato alla possibilità di trarre
dalla propria condotta illecita un qualche guadagno patrimoniale che sia finanziariamente apprezzabile”. Nel caso di
specie, pur ammettendo che il prezzo di vendita degli illecitamente duplicati fosse coincidente con quello praticato
per il mero servizio di fotocopiatura dei medesimi (contenuto entro limiti quantitativi che ne determinavano la liceità), “la finalità commerciale comunque sottesa all’intera
operazione vale di per sé ad integrare, stante il programmato scambio di cosa contro prezzo, il necessario fine di
lucro, non dovendosi quest’ultimo identificare come una
sorta di plusvalenza, rispetto al prezzo di mercato di altro
analogo servizio svolto lecitamente, derivante all’agente
quale impropria contropartita connessa alla modalità illecita di realizzazione dell’altra operazione”.
I precedenti
Nel senso che, ai fini dell’integrazione dei reati di cui alla L.
n. 633 del 1941, che prevedono, tra gli elementi costitutivi
della condotta, quello della mancanza del contrassegno
Siae, è richiesta la prova, incombente sul P.M., che l’obbligo di apposizione del predetto contrassegno, da qualificare
come “regola tecnica” ai sensi della normativa comunitaria
come interpretata dalla Corte di Giustizia CE, sia stato introdotto dal legislatore nazionale anteriormente alla data
del 31 marzo 1983, quale data di entrata in vigore della Dir.
83/189/CE, ovvero che, se introdotto successivamente, sia
stato, in adempimento di detta direttiva, previamente comunicato dallo Stato italiano alla Commissione dell’UE, cfr.
Cass., Sez. III, 6 marzo 2008, Boujlaib, in CED, n. 239957.
Nel senso che, nel caso in cui l’abusiva riproduzione mediante fotocopiatura di testi didattici avvenga in un esercizio aperto al pubblico, il fine di lucro, richiesto dall’art. 171
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Diritto penale
ter, comma 1, L. n. 633 del 1941, è insito nell’operazione
commerciale, cfr. Cass., Sez. III, 8 marzo 2012, n. 13956, in
questa Rivista, 2012, 679.
La dottrina
G. Andreazza, Orientamenti giurisprudenziali sulla liceità penale della mancanza del “bollino” Siae, in Giur. mer., 2009,
538 ss.; M. Fabiani, Pirateria libraria e tutela dell’industria
editoriale, in Dir. aut., 1995, 288 ss.; A. R. Mantini, Brevi note in tema di abusiva riproduzione di opere altrui e ricettazione del rivenditore “consapevole”, in Giur. mer., 1997, 1031
ss.; I. Musco, Sulla legittimità del contrassegno Siae, in Dir.
industr., 2013, 543 ss.; P. Palladino, La tutela penale del diritto d’autore dopo la riforma, in questa Rivista, 2002, 235
ss.; E. Svariati, Illecita riproduzione di opere a stampa mediante fotocopiatura, in Cass. pen., 1996, 283 ss.
REATI INFORMATICI
RICARICA TELEFONICA TRAMITE ACCESSO ABUSIVO AL
CONTO CORRENTE ON LINE: QUALE REATO?
Cassazione Penale, Sez. II, 21 dicembre 2015 (u.p. 13
ottobre 2015), n. 50140 - Pres. Esposito - Rel. Verga P.M. D’Ambrosio (diff.) - Ric. R.G.
Integra il delitto di frode informatica, e non quello di indebita utilizzazione di carte di credito, la condotta di colui che, essendogli stata revocata la delega ad operare
sul conto corrente on line, attraverso l’utilizzazione dei
codici di accesso telematici penetri abusivamente nel
sistema informatico bancario ed effettui la ricarica del
telefono cellulare.
Il caso
La Corte d’Appello di Salerno confermava la sentenza
emessa dal Tribunale di Vallo della Lucania che aveva condannato in ordine al reato di cui agli artt. 12, L. n. 197 del
1991 e 55, comma 9, D.Lgs. n. 231 del 2007 perché, al fine
di trarne profitto per sé o per altri, non essendo più titolare
di un conto corrente on-line, cointestato a lui e ad altro
soggetto, ma solo fino al dicembre del 2007, utilizzava detto conto effettuando una ricarica telefonica per la somma
di € 250. Nel ricorrere per cassazione, la difesa deduceva
la violazione di legge, essendo il fatto astrattamente riconducibile nella fattispecie di cui all’art. 640 ter c.p., dalla
quale, peraltro l’imputato doveva essere assolto per carenza di dolo, avendo agito in buona fede.
La decisione
La Corte ha accolto il ricorso perché fondato. La Cassazione, in primo luogo, ha riqualificato il fatto come contestato
ed accertato (utilizzazione sine titulo - o comunque oltre i limiti o dopo la revoca della delega- dei codici di accesso al
conto corrente) ai sensi dell’art. 640 ter c.p. La norma, infatti, prevede due condotte distinte: la prima consiste nell’alterazione, in qualsiasi modo, del funzionamento di un sistema informatico o telematico; la seconda - ed è quella
che rileva nel caso in esame - è costituita dalla condotta di
chi interviene “senza diritto” con qualsiasi modalità, su
“dati, informazioni o programmi”. In tal caso, dunque, “attraverso una condotta a forma libera, si ‘penetra’ abusivamente all’interno del sistema, e si opera su dati, informazioni o programmi, senza che il sistema stesso, od una sua
parte, risulti in sé alterato”. Ebbene, nella specie, attraverso
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l’utilizzazione dei codici di accesso telematici della contitolare che gli aveva revocato la delega ad operare sul suo
conto on-line, l’imputato era penetrato senza diritto all’interno del sistema bancario, mediante un ordine abusivo di
ricarica di un’utenza telefonica. Orbene, ha osservato la
Cassazione, “l’elemento specializzante, rappresentato dall’utilizzazione ‘fraudolenta’ del sistema informatico, costituisce presupposto ‘assorbente’ rispetto alla ‘generica’ indebita utilizzazione dei codici d’accesso disciplinato dall’art. 55, comma 9, d.lgs. n. 231 del 2007”. Per l’integrazione del reato, è necessario che, per il tramite della condotta
fraudolenta, l’agente procuri a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Nella specie, tuttavia, non vi era prova dell’ingiustizia del profitto perseguito, stante, quantomeno, la verosimiglianza della versione dell’imputato, il quale
aveva ammesso di avere effettuato la ricarica on line, ma
su richiesta della contitolare del conto, che si trovava nella
momentanea indisponibilità di un computer portatile per
effettuare l’operazione, precisando di aver commesso un
errore nella digitazione del numero telefonico a vantaggio
del quale era stata effettuata le ricarica, risultato intestato
a un terzo estraneo e che differiva solo nel numero finale
da quello dell’utenza intestata alla titolare del conto corrente. La sentenza impugnata è stata perciò annullata senza
rinvio perché il fatto non sussiste.
I precedenti
Analogamente, nel senso che integra il delitto di frode informatica, e non quello di indebita utilizzazione di carte di
credito, la condotta di chi, servendosi di una carta di credito falsificata e di un codice di accesso fraudolentemente
captato in precedenza, penetri abusivamente nel sistema
informatico bancario ed effettui illecite operazioni di trasferimento fondi, tra cui quella di prelievo di contanti attraverso i servizi di cassa continua, cfr, Cass., Sez. II, 15 aprile
2011, Fica, CED, n. 250113; in senso conforme Cass., Sez.
II, 30 settembre 2015, P.M. in c. Fucinato, ivi, n. 264774.
La dottrina
C. Parodi, La frode informatica: presente e futuro delle applicazioni criminale nell’uso del software, in questa Rivista,
1997, 153838 ss.; C. Pecorella, Il diritto penale dell’informatica, Padova, 2006, 77 ss.; G. Pica, voce Reati informatici e
telematici, in Dig. disc. pen., Agg. 2000, 521 ss.; L. Picotti,
voce Reati informatici, in Enc. giur., XXVI, 1999, 1 ss.; L.
Scopinaro, Internet e delitti contro il patrimonio, passim.
REATI FISCALI
PRESENTAZIONE DI DICHIARAZIONE INFEDELE: QUALI LE
RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI DI UNA S.N.C.
Cassazione Penale, Sez. III, 22 dicembre 2015 (u.p. 28
aprile 2015), n. 50201 - Pres. Teresi - Rel. Grillo - P.M.
Gaeta (conf.) - Ric. B.A.
In tema di dichiarazione fraudolenta, la sottoscrizione
da parte di un socio amministratore di una società in
nome collettivo non esonera automaticamente gli altri
soci amministratori dalle responsabilità fiscali, occorrendo invece accertare in concreto se gli altri soci svolgano attività gestionali in quella specifica materia e
quale sia l’apporto concorsuale penalmente rilevante
nella gestione della materia fiscale da parte dell’altro (o
altri) socio.
Diritto penale e processo 1/2016
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Diritto penale
Il caso
La Corte d’Appello di Milano confermava la sentenza del
Tribunale di Monza che aveva affermato la penale responsabilità dell’imputato per il delitto di cui all’art. 10 ter,
D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per aver indicato, al fine di
evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, nella
dichiarazione annuale di una S.n.c. - di cui era socio amministratore - elementi attivi per un ammontare inferiore a
quello effettivo in relazione agli anni di imposta 2005 e
2006. Ad avviso dei giudici di appello, l’argomentazione
della difesa - afferente alla circostanza che a firmare la dichiarazione fosse stato l’altro socio - non aveva alcuna valenza giuridica in quanto anche l’imputato era - come il socio avente pari poteri all’interno della società, senza che gli
fosse stata rilasciata apposita delega specifica per la compilazione e sottoscrizione delle dichiarazioni fiscali - persona munita di analoghi poteri e tenuto altresì alla vigilanza
della contabilità aziendale. Nel ricorrere per cassazione, la
difesa, tra l’altro, deduceva la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui la Corte di
merito aveva ritenuto ascrivibile ugualmente all’imputato il
reato contestato, nonostante la dichiarazione dei redditi
fosse stata sottoscritta dal socio.
La decisione
La Cassazione ha accolto il ricorso, ritenendo insufficiente
la motivazione della sentenza impugnata, in quanto, in relazione alla struttura societaria ed ai ruoli ricoperti sia due
soci, sarebbe stato necessario verificare se chi aveva presentato la dichiarazione avesse ricevuto una esplicita delega per la gestione in via esclusiva della intera materia fiscale riguardante la società e, soprattutto, quale contributo attivo, al di là del mero ruolo di amministratore, avesse svolto
l’imputato nella commissione del fatto. Invero, ha chiarito
la Corte, pur non trattandosi di reato proprio “è però evidente che il soggetto attivo del reato è colui che inserisce
all’interno della dichiarazione fiscale per l’anno di riferimento elementi passivi fittizi o comunque dati che rendono
quella dichiarazione infedele”; peraltro, è ben possibile che
con il materiale sottoscrittore della dichiarazione altri soggetti possano concorrere nel reato, come per esempio accade nella ipotesi in cui la dichiarazione infedele venga materialmente compilata dal consulente fiscale su incarico del
contribuente. La Cassazione ha perciò censurato la sentenza impugnata, laddove si afferma lapidariamente che non
risulta (né la difesa allega) che le incombenze fiscali fossero state delegate in via esclusiva ad altro socio, né emergeva che l’interessato avesse fornito indicazioni in tal senso
ai militari della Guardia di Finanza che avevano effettuato
la verifica fiscale. I giudici di appello, invece, avrebbero dovuto verificare da un lato, se nell’organigramma della società fosse previsto un conferimento di delega in materia fiscale ad uno dei soci in via esclusiva, dall’altro, quale contributo concreto alla attività fiscale della società avesse apportato l’imputato. Puntualizzando i principi elaborati dalla
giurisprudenza in materia di delega in ambito fiscale, la
Cassazione ha enunciato il seguente principio: “la sottoscrizione da parte di un socio amministratore di una società in nome collettivo non esonera automaticamente gli altri
soci amministratori dalle responsabilità fiscali, occorrendo
invece accertare in concreto se gli altri soci svolgano attività gestionali in quella specifica materia e quale sia l’apporto concorsuale penalmente rilevante nella gestione della
materia fiscale da parte dell’altro (o altri) soci”. La sentenza
Diritto penale e processo 1/2016
è stata perciò annullata con rinvio ad altra sezione della
Corte d’Appello di Milano.
I precedenti
Si veda Cass., Sez. III, 9 gennaio 1991, Bacchi, in Il fisco,
1991, 3898, con nota di G. Izzo, Dichiarazione dei redditi ed
errori del consulente, secondo cui colui che abbia affidato
al consulente fiscale l’incarico di compilare la dichiarazione
dei redditi non è esonerato da responsabilità, in caso di infedele denunzia, sia perché di questa il contribuente si avvale, sia perché la legge tributaria considera come personale il relativo dovere. In ogni caso, anche quando l’inosservanza degli adempimenti fiscali possa ricondursi a provata negligenza del professionista, la responsabilità di quest’ultimo a titolo di concorso colposo - non fa venire meno
quella del contribuente. In senso analogo Cass, Sez. III, 7
giugno 1991, Pisano, in CED, n. 188177, la quale ha affermato che, in tema di reati tributari, il mero incarico ad un
dipendente della società di occuparsi della contabilità non
equivale a quella delega ufficiale e preventiva che sola può
scagionare l’amministratore della società stessa.
La dottrina
M. Di Siena, La nuova disciplina dei reati tributari, Milano,
2000, passim; A. Lanzi, Le novità normative nella riforma del
sistema penale tributario, in questa Rivista, 2000, 401 ss.;
U. Nannucci - A. D’Avirro, La riforma del diritto penale tributario, Padova, 2000, passim; A. Traversi - S. Gennai, I
nuovi delitti tributari, Milano, 2000, passim.
REATI FALLIMENTARI
OMESSA TENUTA DI SCRITTURE CONTABILI: BANCAROTTA
SEMPLICE O FRAUDOLENTA?
Cassazione Penale, Sez. V, 21 dicembre 2015 (u.p. 7 luglio 2015), n. 50098 - Pres. Lapalorcia - Rel. De Marzo P.M. Aniello (diff.) - Ric. E.D.
L’omessa tenuta delle scritture contabili integra il delitto di bancarotta fraudolenta solo se risulti assistita non
dal dolo generico, ma dal dolo specifico di realizzare un
ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, al
pari delle condotte di sottrazione, distruzione o falsificazione di libri e scritture contabili.
Il caso
La Corte d’Appello di Catania confermava la decisione di
primo grado, che aveva condannato alla pena di giustizia
l’imputato, in relazione al reato di bancarotta fraudolenta
documentale commessa nella qualità di amministratore
unico di una S.r.l. Secondo i giudici di seconde cure, la
mancata tenuta dei libri e delle scritture contabili aveva reso impossibile la ricostruzione del patrimonio e delle attività sociali, precludendo la dimostrazione sia dell’effettiva
sussistenza dei crediti vantati dalla società, sia del loro
adempimento. Quanto all’elemento soggettivo, il dolo generico richiesto dalla fattispecie incriminatrice, anche nella
forma del dolo eventuale, era integrato dalla consapevolezza che la condotta omissiva avrebbe reso impossibile o
estremamente difficile la ricostruzione del patrimonio e del
movimento degli affari; nel caso di specie, poi, non risultava che l’imputato, sin dalla costituzione della società, avvenuta nel 1995, avesse tenuto i libri e le scritture contabili.
Nel ricorrere per cassazione, la difesa, tra l’altro, lamentava
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vizi motivazionali e violazione di legge, in quanto la Corte
territoriale aveva valorizzato il mero fatto dell’omessa tenuta delle scritture contabili e ritenuto sufficiente il dolo generico, mentre l’omessa tenuta delle scritture contabili può
essere qualificata come bancarotta fraudolenta, anziché
come bancarotta semplice, quando sussista il dolo specifico richiesto dall’art. 216, comma 1, n. 2, prima ipotesi,
l.fall.
La decisione
La Corte ha accolto il ricorso. Invero, ha affermato la Cassazione, “in tema di bancarotta documentale, qualora sia
assente o insufficiente l’accertamento in ordine allo scopo
eventualmente propostosi dall’agente ed in ordine alla oggettiva finalizzazione di tale carenza, la mera mancanza dei
libri e delle scritture contabili deve essere ricondotta alla
ipotesi criminosa di bancarotta semplice”. Difatti, mentre
la bancarotta fraudolenta documentale, prevista dall’art.
216, comma 1, n. 2), l.fall., è un delitto doloso, la bancarotta semplice è punibile indifferentemente a titolo di dolo o
di colpa, “per cui è superflua la indagine sulla efficacia
causale dell’omessa o irregolare tenuta dei predetti documenti, che è punita per se stessa, indipendentemente dalle
conseguenze”. In altri termini, ha precisato la Cassazione,
“poiché l’omessa tenuta delle scritture contabili è, a livello
oggettivo, espressamente sanzionata dall’art. 217, comma
2, I.fall., essa può essere sussunta, nonostante l’assenza di
una esplicita previsione, nella più grave fattispecie di cui all’art. 216, comma 1, n. 2, I.fall. solo se risulti assistita, non
dal dolo generico (…) ma dal dolo specifico di realizzare un
ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, al pari
52
delle condotte di sottrazione, distruzione o falsificazione di
libri e scritture contabili”. La sentenza impugnata è stata di
conseguenza annullata con rinvio ad altra sezione della
Corte d’Appello di Catania per nuovo esame.
I precedenti
Da ultimo, nel senso che, in tema di bancarotta fraudolenta
documentale, per la configurazione delle ipotesi di reato di
sottrazione, distruzione o falsificazione di libri e scritture
contabili previste dall’art. 216, comma 1, n. 2 prima parte,
l.fall. è necessario il dolo specifico, consistente nello scopo
di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare
pregiudizio ai creditori, cfr. Cass., Sez. V, 9 dicembre, Caprara, in CED, n. 263242.
La dottrina
R. Bricchetti - A. Pistorelli, La bancarotta e gli altri reati fallimentari. Dottrina e giurisprudenza confronto, Milano, 2011,
115 ss.; P. Capello, Dolo e colpa nei reati societari, tributari
e fallimentari, Padova, 2002, passim; S. Cavallini, Bancarotta
documentale e omesso deposito delle scritture contabili: nel
più sta (sempre) il meno?, in Società, 2014, 595 ss.; G. Conti, voce Fallimento (reati in materia di), in Dig. disc. pen., V,
1991, ss.; F.M. Fraschetti, Omessa tenuta della contabilità e
mancato deposito dei bilanci e delle scritture contabili: un
caso di concorso di reati o di concorso apparente di norme?,
in Cass. pen., 2015, 258 ss.; C. Pedrazzi, Art. 216, in F. Galgano (a cura di), Commentario Scialoja - Branca. Legge fallimentare. Reati commessi dal fallito, reati commessi da persone diverse dal fallito, Bologna, 1995, 225 ss.
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Processo penale
Osservatorio Corte
di cassazione - Processo penale
a cura di Antonella Marandola
INDIVIDUAZIONE FOTOGRAFICA
APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA
PATTEGGIAMENTO E ESPULSIONE DELLO STRANIERO
VALUTAZIONE AI FINI DELLA CONDANNA
Cassazione Penale, Sez. II, 22 dicembre 2015 (ud. 28
ottobre 2015), n. 50317 - Pres. Fiandese - Rel. Di Marzio
- Ric. Pg. in proc. B.A.
Cassazione Penale, Sez. II, 3 dicembre 2015 (ud. 9 novembre 2015), n. 47795 - Pres. Gentile - Rel. Gallo- P.G.
Filippi (diff.) - Ric. R.A.
La definizione del procedimento mediante l’applicazione di pena concordata non consente di ordinare l’espulsione dello straniero dello Stato; questa invero rientra
tra le misure di sicurezza, le quali, in caso di patteggiamento, non possono essere disposte, fatta eccezione
della confisca ex art. 240 c.p.
Quando un teste dichiara di riconoscere al 30%, la logica impedisce di qualificare tale dichiarazione come riconoscimento del soggetto; più che un riconoscimento è
un disconoscimento. Quando un altro teste dichiara di
riconoscere l’imputato al 60%, tale dichiarazione esprime un forte margine d’incertezza che può essere superato soltanto in presenza di robusti elementi di riscontro.
Il caso
Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di
Appello ricorre avverso la sentenza con la quale è stata applicata all’imputato la pena concordata tra le parti, ex art.
444 c.p.p., chiedendone l’annullamento, in quanto il giudice, nel recepire la proposta, ha omesso di applicare la misura di sicurezza personale dell’allontanamento dal territorio dello Stato all’ imputato. Il sostituto Procuratore Generale presso la Cassazione ha chiesto accogliersi il ricorso e
integrarsi la sentenza ex art. 619 c.p.p., con il provvedimento di espulsione omesso dal tribunale.
La decisione
La Corte ha dichiarato manifestamente infondato il ricorso,
in quanto la definizione del procedimento mediante l’applicazione di pena concordata non consente di ordinare l’espulsione dello straniero dello Stato che rientra tra le misure di sicurezza, le quali, in caso di patteggiamento, non
possono essere disposte, fatta eccezione della confisca ex
art. 240 c.p.
I precedenti
V., in senso conforme, Cass., Sez. I, 23 febbraio 2006, n.
7454, Bazahra, Rv. 234077; Cass., Sez. II, 11 luglio 2003, n.
37342, Fakid El Mustafa ed altro, Rv. 227257; Cass., Sez. I,
9 ottobre 2002, n. 35626, Wajib, Rv. 222332; Cass., Sez.
III, 16 dicembre 1997, n. 4393, Rv. 209860; Cass., Sez. VI,
20 dicembre 1996, n. 1351, Fassis, Rv. 207515.
In senso parzialmente difforme, richiedendosi l’accertamento della pericolosità sociale: Cass., Sez. II, 2 luglio
2009, n. 28614, Rv. 244882.
La dottrina
V. Bevilacqua - E. Gai, L’applicazione della pena su richiesta,
in AA.VV., I procedimenti speciali, a cura di A. Bassi - C. Parodi, Milano, 2013, 434; E. M. Mancuso, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in Procedimenti speciali, III, a
cura di G. Garuti, in AA.VV., Procedura penale. Teoria e pratica del processo, diretto da G. Spangher - A. Marandola G. Garuti - L. Kalb, Torino, 2015, 161; D. Vigoni, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, Milano, 2000, 451.
Diritto penale e processo 1/2016
Il caso
Con sentenza, la Corte di appello confermava la condanna
emessa dal Gup a carico di R.A. per il reato di rapina aggravata e ricettazione di ciclomotori in concorso.
La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto
d’appello e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la penale responsabilità dell’imputato in
ordine ai reati a lui ascritti ed equa la pena inflitta. Avverso
tale sentenza propone ricorso l’imputato per mezzo del suo
difensore di fiducia deducendo la violazione dell’art. 192,
comma 3, c.p.p., per manifesta illogicità del ragionamento
probatorio e travisamento della prova. Il ricorrente si duole
che l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato
sia fondata esclusivamente sulla base di due soli riconoscimenti fotografici effettuati dai testi ad un anno di distanza
dai fatti, con percentuali d’incertezza rilevanti (il primo teste avendo dichiarato di riconoscere il R. al 60% ed il secondo al 30%). Per il ricorrente i riconoscimenti per la percentuale d’incertezza che li caratterizza e per l’assenza di
elementi di riscontro, non sono idonei a comporre un quadro indiziario grave, tant’è vero che nessuna misura cautelare è stata mai emessa sulla base del compendio probatorio valutato dal Gup.
La decisione
La Cassazione ha accolto il ricorso in quanto dagli atti
emerge che il quadro indiziario a carico dell’imputato è
piuttosto debole, basandosi sull’individuazione fotografica
effettuata dei due testi caratterizzata da una forte dose
d’incertezza. Secondo la Sez. II, quando un teste dichiara
di riconoscere al 30%, la logica impedisce di qualificare tale dichiarazione come riconoscimento del soggetto; più
che un riconoscimento è un disconoscimento. Quando un
altro teste dichiara di riconoscere l’imputato al 60%, tale
dichiarazione esprime un forte margine d’incertezza che
può essere superato soltanto in presenza di robusti elementi di riscontro. Nel caso di specie gli ulteriori elementi
indiziari utilizzati dai giudici del merito (il fatto che R. sia
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stato arrestato per aver compiuto un’altra rapina con il M.,
reo confesso della rapina oggetto del presente procedimento), non hanno valore di riscontro per mancanza di
gravità indiziaria e sono elementi idonei ad alimentare sospetti, ma non possono concorrere ad integrare una prova.
In definitiva il percorso argomentativo della sentenza impugnata è viziato da gravi carenze logiche e le conclusioni
non compatibili con il principio di cui all’art. 533 c.p.p. in
base al quale l’imputato, per essere condannato, deve risultare colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ne
discende che la sentenza impugnata deve essere annullata
con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Milano
per un nuovo giudizio nel quale la Corte territoriale procederà a rivalutare gli elementi a carico dell’imputato alla luce
delle regole che governano la formazione della prova di cui
all’art. 192 c.p.p.
V., sul punto, Cass. Sez. Un.,10 luglio 2002, Franzese, in
questa Rivista, 2002, 1223. Nel senso che la condanna è
possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale della responsabilità dell’imputato Cass., Sez. II, 9 novembre
2012, De Bartolomei ed altri, Rv. 254023; Cass., Sez. II, 2
aprile 2008, Crisiglione, Rv. 23979; Cass., Sez. I, 11 maggio
2006, Ganci e altri, in Riv. pen , 2007, 337. Nel senso che
in tema di prova indiziaria la regola dell’oltre ragionevole
dubbio richiede un alto grado di credibilità razionale, Cass.,
Sez. I, 18 aprile 2013, p.m. in proc. Stasi, Rv. 258321. In
termini generali, Cass., Sez. I, 24 ottobre 2011, p.m. in c.
Javard, in Riv. pen., 2013, 228.
sta di indennizzo per complessivi euro 105.000. Il Magistrato di Sorveglianza evidenzia che la richiesta non contiene
la domanda di rimozione del limite all’esercizio del diritto ritenuto sussistente, ma solo quella di accertamento del pregiudizio e di risarcimento del danno. Il reclamo è stato,
dunque, dichiarato inammissibile in rapporto a tre considerazioni rappresentate dalla sua genericità, dall’esame delle
condizioni di vita del detenuto e dal difetto di competenza
circa la richiesta risarcitoria. Vengono, sul punto, richiamati
i risultati di una precedente verifica istruttoria realizzata
presso la casa di reclusione (…) che ha consentito - secondo la valutazione del giudicante - di escludere la fondatezza
delle doglianze in fatto, posto che la presenza di un terzo
detenuto nella camera (che avrebbe, in tesi, determinato la
riduzione dello spazio vitale a circa tre metri quadrati) è stata meramente occasionale e il reclamante non ha specificato quando ciò si sarebbe verificato; nelle condizioni ordinarie il detenuto usufruisce di circa 5 metri quadrati, in un
contesto caratterizzato da complessiva adeguatezza dei
servizi e da buona offerta di attività trattamentali. Contro il
decreto ha proposto ricorso per cassazione - con personale
sottoscrizione - il ricorrente, deducendo il vizio di motivazione e la violazione della disciplina regolatrice. Nel ricorso
si ribadiscono i contenuti dell’istanza originaria, affermando che non si è verificato in modo concreto - da parte del
Magistrato di Sorveglianza - il frequente superamento del
numero di due detenuti allocati nella medesima cella, fenomeno ricorrente e tale da determinare la violazione dei parametri legali della detenzione, come ricostruiti nelle decisioni emesse dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
La dottrina
La decisione
I precedenti
P. Ferrua, Valutazione della prova, in La prova nel processo
penale, I, Struttura e procedimento, Torino, 2015, 57 ss.;
Id., La prova nel processo penale: profili generali, in AA.VV.,
La prova penale, a cura di P. Ferrua - E. Marzaduri - G.
Spangher, Torino, 2013, 10 ss. e 25 ss. C. Piergallini La regola dell’“oltre ragionevole dubbio” al banco di prova di un
ordinamento di civil law, in AA.VV., Impugnazioni e regole di
giudizio nella legge di riforma del 2006, a cura di M. Bargis
- F. Caprioli, Torino, 2007, 367; P. Tonini, L’influenza della
sentenza Franzese sul volto attuale del processo penale, in
questa Rivista, 2002, 1225; C. Conti, Ragionevole dubbio e
motivazione, in Il diritto delle prove penali, a cura di P. Tonini
- C. Conti, Milano, 2012, 79.
Sull’impossibilità di misurare o quantificare la probabilità
logica, F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Milano, 2012,
995; G. Ubertis, Fatto, prova e verità, in Criminalia, 2009,
329.
ESECUZIONE PENALE
RIMEDI RISARCITORI E ATTUALITÀ DEL PREGIUDIZIO
Cassazione Penale, Sez. I, 29 ottobre 2015 (ud. 11 giugno 2015), n. 43722 - Pres. Giordano - Rel. Magi - P.G.
Delehaye (diff.) - Ric. Salierno
Il caso
Con decreto emesso de plano, il Magistrato di Sorveglianza
ha dichiarato inammissibile il reclamo proposto da un ristretto che aveva prospettato la lesione in rapporto alle
modalità della detenzione, evidenziando la ristrettezza dello
spazio della camera di reclusione, l’esistenza di una sola finestra, la compresenza di altri soggetti reclusi, con richie-
54
La Cassazione ha qualificato il ricorso come reclamo al Tribunale di Sorveglianza ai sensi dell’art. 35 bis, comma 4, L.
n. 354 del 1975 e succ. mod. in quanto il diniego del reclamo è stato pronunciato dal Magistrato di Sorveglianza in
applicazione dell’art. 666, comma 2, c.p.p. norma espressamente richiamata dall’art. 35 bis comma 1 della l. ord.
pen. (come novellata dal D.L. 23 dicembre 2013, n. 146,
conv. con L. 21 febbraio 2014, n. 10). Detta procedura
“semplificata”, afferma la Corte, consente di evitare la fissazione di udienza camerale - innanzi al giudice investito
dell’originario reclamo - esclusivamente nelle ipotesi di “difetto delle condizioni di legge” o “mera riproposizione di richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi”.
Dato che l’esercizio di tale potere determina l’assenza di
contraddittorio innanzi al giudice di prima istanza, è da ritenersi - afferma la Corte - che la norma sia di stretta interpretazione, dovendo trattarsi delle sole ipotesi in cui la presa d’atto della assenza delle condizioni di legge non richieda né accertamenti di tipo conoscitivo (l’attivazione di un
qualsivoglia potere istruttorio deriva dallo svolgimento di
procedura partecipata ai sensi dell’art. 666, comma 5,
c.p.p.) né valutazioni discrezionali, in fatto o in diritto. Si è
affermato, osserva la Corte, con orientamento costante
nella presente sede di legittimità, che tale dichiarazione di
inammissibilità risulta possibile solo quando facciano difetto - nella istanza - requisiti posti direttamente dalla legge,
che non implichino alcuna valutazione discrezionale. Tale
orientamento, che il Collegio condivide è posto a tutela del
fondamentale principio del contraddittorio, in quanto che
l’anticipazione di una decisione in realtà “di merito” alla fase del vaglio preliminare di ammissibilità sull’istanza, con
pronunzia non rituale di inammissibilità, finisce con espropriare l’istante di tale garanzia di rilievo costituzionale, anche in quei procedimenti - come quelli di esecuzione o sor-
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veglianza - ove il contraddittorio si pone non già come metodo inderogabile di ricostruzione del fatto, quanto di attuazione dei diritti di partecipazione e di prospettazione dialettica della propria opzione interpretativa dei fatti o delle norme regolatrici.
Va affermato che la decisione di inammissibilità si è basata, in tutta evidenza, anche sul recupero di “materiali istruttori”, che hanno consentito al magistrato di sorveglianza di
ritenere infondata la prospettazione in fatto (vi è ampio richiamo alle risultanze di precedenti verifiche operate presso la casa di reclusione): tale modus procedendi comporta
l’attribuzione al provvedimento di “inammissibilità” emesso
dal Magistrato di Sorveglianza della qualifica sostanziale di
un provvedimento di “rigetto” con immediate ricadute sulla
individuazione della tipologia di impugnazione consentita
dalla legge, da individuarsi nel reclamo al Tribunale di Sorveglianza.
La stessa norma regolatrice - art. 35 bis, comma 3 - descrive infatti l’attività del giudicante in termini di “accertamento” il che implica, indica il Supremo Collegio, che la domanda introduttiva ponga le coordinate essenziali, ma non
esaurisca il tema della decisione, affidato anche alla iniziativa del giudice chiamato a pronunziarsi, titolare di ampi
poteri istruttori ai sensi dell’art. 666, comma 5, c.p.p. Nè
d’altra parte la pronunzia di inammissibilità poteva basarsi
esclusivamente sul tipo di provvedimento richiesto (il risarcimento del danno) posto che prima della decisione era sopravvenuta la disciplina specifica introdotta dal legislatore
all’art. 35 ter ord. pen. (D.L. 26 giugno 2014, n. 92, conv. in
L. 11 agosto 2014, n. 117). Ciò consente di “conformare” il
contenuto della domanda alle previsioni che prevedono - lì
dove sia stato accertato il particolare pregiudizio nei modi
di legge - il risarcimento “in forma specifica” (con riduzione
della pena residua) o in forma pecuniaria (con predeterminazione legale del quantum).
Da ciò deriva che anche la ritenuta incompetenza - da parte del Magistrato di Sorveglianza - non può essere oggetto
di condivisione, per le ragioni che seguono: il difetto delle
condizioni di legge - percepibile ictu ocufi - sarebbe derivato anche nella assenza di “attualità” del lamentato pregiudizio, in contrasto con la previsione regolatrice generale di
cui all’art. 69, comma 1, lett. b), ord. pen. Ove tale opzione
interpretativa risultasse fondata, la pronunzia di inammissibilità, al di là delle valutazioni in fatto (che andrebbero considerate irrilevanti), risulterebbe radicata su un dato evincibile in via diretta dalla domanda (lì dove il detenuto si riferisca ad un pregiudizio subìto durante la restrizione, ma non
derivante da condotta antigiuridica in atto).
Ma anche sotto tale aspetto, l’opzione interpretativa, secondo la Corte, non può essere condivisa. La Sez. I ricorda
che la riforma del sistema di tutela dei diritti dei soggetti
sottoposti a restrizione in forma coercitiva è stata realizzata
dal legislatore negli anni 2013 e 2014 con linee di intervento penetranti, tese ad un recupero di tempestività ed effettività dell’intervento giurisdizionale realizzato - in costanza
di trattamento detentivo - dalla Magistratura di Sorveglianza: a fronte di un sistema essenzialmente basato sulle ricadute sistematiche della nota decisione della Corte cost. n.
26/1999 (riconoscimento della esistenza di situazioni giuridiche soggettive che, per loro natura, non possono essere
attenuate o compresse in virtù della intervenuta restrizione
di libertà) che consentiva il reclamo giurisdizionale generico per la violazione di diritti soggettivi, si è provveduto a disciplinare normativamente l’intera materia attraverso le
modifiche apportate agli artt. 69 e 35 ord. pen. (D.L. 23 di-
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cembre 2013, n. 146, conv. con L. 21 febbraio 2014, n. 10
e, successivamente D.L. 26 giugno 2014, n. 92, conv. in L.
11 agosto 2014, n. 117).
Con tali interventi il legislatore ha dichiaratamente preso
atto della necessità di realizzare un più adeguato ed effettivo sistema di tutela dei diritti dei soggetti sottoposti a restrizione carceraria, anche in rapporto alle note decisioni
degli organi giurisdizionali sovranazionali in tema di lesione
dei diritti dei detenuti e correlata violazione del divieto di
pene o trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 CEDU e dello stesso art. 27, comma 3, Cost. (v. la nota decisione CEDU 8 gennaio 2013 nella causa Torregiani ed altri
contro Italia).
Vi è, pertanto, un potere di denunzia, tramite reclamo giurisdizionale, di condotte della amministrazione inosservanti il
contenuto delle disposizioni di legge o regolamento da cui
derivi al detenuto un’“attuale e grave” pregiudizio all’esercizio di diritti [art. 69, comma 1, lett. b), ord. pen.]; un modello legale di verifica della fondatezza di tale reclamo e
delle forme di intervento spettanti al Magistrato di Sorveglianza nel caso di accertamento della lesione e del correlato pregiudizio, consistenti nell’ordine di un facere (sì da
eliminare la fonte della situazione lesiva) con possibile esecuzione coatta del comportamento imposto in caso di inottemperanza (nomina di un commissario ad acta) come previsto dall’art. 35 bis ord. pen.
È in tale quadro sistematico di rafforzamento della “legalità
della detenzione”, con estensione dei poteri di verifica e di
intervento dell’autorità giurisdizionale cui è attribuita in via
ordinaria la potestà dell’intervento, che, indica la Corte, va
inserita la previsione di legge di cui all’art. 35 ter ord. pen.,
la cui caratteristica è data dall’introduzione di rimedi “particolari” di tipo compensativo/risarcitorio, che dunque rappresentano un quid pluris rispetto all’ordinaria inibizione
della prosecuzione della attività contra legem in funzione di
realizzazione del diritto negato o compresso (art. 35 bis,
comma 3), esperibili avverso, non una qualsiasi violazione
dei diritti del soggetto detenuto, ma esclusivamente avverso quelle violazioni di tale entità da comportare la compromissione del diritto a condizioni detentive non inumane né
degradanti (art. 3 CEDU).
Se dunque la condotta violatrice, per come prospettata,
rientra astrattamente in tale ambito (è il caso del sovraffollamento, ma non può dirsi che si tratti di un numero chiuso, dovendosi l’interprete rapportare necessariamente alla
evoluzione della giurisprudenza sovranazionale) risulta preciso dovere dell’organo giurisdizionale procedere in contraddittorio alla verifica della fondatezza della domanda, il
cui accoglimento può comportare il ristoro rappresentato
dalla riduzione di pena (nel caso di cui all’art. 35 ter, comma 1) o quello di carattere monetario (nei casi di cui al
comma 2).
Ora, è del tutto evidente, afferma la Corte, che la specialità
del rimedio di cui all’art. 35 ter (comma 1 e comma 2) non
si pone in contrasto con la ordinaria tutela di inibizione alla
protrazione della condotta illecita, con rimozione del comportamento lesivo (allocazione in cella non adeguata, ad
es.) ove la stessa sia ancora in atto al momento della decisione, nel senso che il collegamento funzionale tra la norma generale [art. 69, comma 6, lett. b)] e norma speciale
(art. 35 ter) va di certo ritenuto sussistente, con possibile
esercizio da parte del soggetto detenuto di una azione che
miri ad ottenere, lì dove la compressione del diritto sia in atto al momento della domanda, la duplice forma di tutela
offerta dall’ordinamento (tutela risarcitoria per quanto è av-
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venuto e contestuale rimozione del limite posto all’ esercizio del diritto).
Ma nell’ipotesi di lesione già subita (o comunque prospettata come tale) ma non attuale, il soggetto detenuto resta
titolare della tutela speciale (di tipo risarcitorio/ compensativo) accordatagli dal legislatore all’art. 35 ter da realizzarsi,
in costanza di esecuzione della pena, innanzi al Magistrato
di Sorveglianza. La ritenuta limitazione della competenza
funzionale del Magistrato di Sorveglianza, con esclusione
della attribuzione a tale giudice di istanze che lamentino, in
costanza di detenzione, un pregiudizio modellato sull’art.
35 ter ma non attuale, non risulta conforme ad una interpretazione logica e sistematica delle disposizioni in rilievo,
fermo restando l’infelice utilizzo di una tecnica di redazione
normativa che parrebbe legittimare una estensione totalizzante del rinvio contenuto nell’art. 35 ter, comma 1 alle caratteristiche del pregiudizio descritte nella disposizione richiamata.
Il legislatore, infatti, riconduce all’art. 69, comma 6, lett. b),
ord. pen. il particolare “pregiudizio” derivante dal trattamento inumano e degradante perché trattasi, in ogni caso,
di una forma ‘aggravata’ di violazione dei diritti del detenuto, ma ciò non autorizza a ritenere che la sua “attualità” sia
condizione di accesso al rimedio, essenzialmente di tipo risarcitorio, a differenza delle lesioni comuni (quelle di cui all’art. 69), che danno luogo a rimedi di tipo inibitorio/preventivo, come si è detto, tesi a rimuovere la condizione di ostacolo alla fruizione del diritto.
Ciò perché, puntualizza la Sez. I, la necessaria “attualità”
del pregiudizio è condizione necessaria nel reclamo ordinario (art. 69) proprio in ragione della correlazione con la tipologia di tutela che il sistema offre, rispetto alle conseguenze dell’illecito (art. 35, comma 3) lì dove non diventa requisito essenziale dell’azione quando la domanda, data la particolare gravità della condotta violatrice, è tesa ad ottenere
(in senso ampio) la tutela risarcitoria.
Una tutela risarcitoria sui generis che da un lato evoca la risarcibilità del danno derivante da lesione di diritti costituzionali inviolabili con predeterminazione legale del quantum, e dall’altro - in via prioritaria - si pone come rimedio compensativo operante su un piano alquanto diverso,
rappresentato dalla riduzione della durata della pena ancora da espiare (al di là della rimozione del fatto da cui la lesione è derivata) nella misura di un giorno per ogni dieci di
pregiudizio sofferto, rimedio che presuppone una detenzione in atto e che dunque conduce sul piano logico e sistematico alla attribuzione della sua cognizione al Magistrato
di Sorveglianza.
La riduzione della pena detentiva ancora da espiare - sarebbe del tutto irragionevole attribuire alla competenza della giurisdizione civile, trattandosi di una misura riparatoria
tesa ad incidere sul rapporto esecutivo, quest’ultimo di natura strettamente penalistica; la voluntas legis appare chiara nell’attribuire (art. 35 ter, comma 4) al Tribunale ordinario in sede civile la giurisdizione sulle domande di tipo risarcitorio poste in essere dai soggetti che hanno subito un
pregiudizio in fase cautelare, non seguito da esecuzione, o
che hanno “terminato di espiare la pena detentiva in carcere”, in evidente correlazione funzionale tra la protrazione
della detenzione (nel cui ambito si sia verificato il denunziato pregiudizio) e la giurisdizione del Magistrato di Sorveglianza.
Per il Supremo Collegio va affermato che il rinvio, contenuto nell’art. 35 ter comma 1, ord. pen. al pregiudizio di cui
all’art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen., identifica la catego-
56
ria giuridica di riferimento e dunque il reclamo avente oggetto una pretesa condotta di violazione dei diritti inviolabili
del soggetto detenuto, ma non del pregiudizio in termini di
sua necessaria attualità - rectius della condotta che lo determina - al momento della domanda stessa. La cognizione
da parte del Magistrato di Sorveglianza (e in secondo grado del Tribunale di Sorveglianza) si estende pertanto alla
verifica di ‘fatti generatori’ di una lamentata violazione antecedente al momento della domanda, sempre che - in termini generali - sia in corso l’esecuzione del medesimo decreto di cumulo e possa pertanto parlarsi di unicità del periodo detentivo, tuttora in atto (con riferimento alla data
della domanda).
Da ciò deriva la considerazione di un perdurante interesse
del ricorrente ad ottenere una pronunzia di merito che esamini - in contraddittorio - l’esistenza o meno del fatto generatore del pregiudizio e ne tragga - in caso positivo - le conseguenze. La natura di “rigetto” attribuibile, nel particolare
caso in esame, al provvedimento impugnato, unita alla verifica della persistenza dell’interesse ad impugnare, conducono pertanto alla qualificazione del presente ricorso in reclamo, ai sensi degli artt. 35 ter, comma 4, ord. pen. e 568,
comma 5, c.p.p.
I precedenti
V., in senso conforme, anche Cass., Sez. I, 16 luglio 2015,
n. 46966, K. A.; Cass., Sez. I, 11 giugno 2015, n. 43722,
Salierno, in D&G, 30 ottobre 2015. Per una diversa soluzione, Sez. Sorv. Alessandria, 26 settembre 2014, in Riv. pen.,
2014, 1055. Cfr. per una peculiare impostazione, Cass.,
Sez. I, 14 maggio 2015, n. 35840, Marique Snachez Josue
Isamel.
La dottrina
V., fra i molti, AA.VV., Sovraffollamento carcerario e diritti
del detenuto: le recenti riforme in materia di esecuzione della
pena, F. Caprioli - L. Scomparin (a cura di), Torino, 2015,
passim; A. Albani - P. Francesco, Gli incerti confini del sovraffollamento carcerario, in Cass. pen., 2014, 2398; C. Conti, Sovraffollamento carcerario in Italia, all’indomani della
Sentenza Torreggiani e del d.l. 92/2014, in questa Rivista,
2014, 1256; M. F. Cortesi, I giudici europei dettano le linee
guida contro il sovraffollamento carcerario, ivi, Speciale
2014, 72 ss.; F. Fiorentin, I nuovi rimedi risarcitori della detenzione contraria all’art. 3 CEDU: le lacune della disciplina e
le interpretazioni controverse, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 7 maggio 2015; Id., Detenzione inumana: la Cedu boccia i ricorsi italiani se non sono stati prima eseguiti tutti i rimedi interni, in Guida dir., 2014, 42, 97; G. Giostra, Un
pregiudizio ‘grave e attuale’? A proposito delle prime applicazioni del nuovo art. 35-ter ord. pen., ivi, 24 gennaio 2015.
RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA ENTI
INCOMPATIBILITÀ DEL LEGALE RAPPRESENTANTE
INDAGATO
Cassazione Penale, Sez. V, 21 dicembre 2015 (ud. 22
settembre 2015), n. 50102 - Pres. Fumu - Rel. Pistorelli
- P.G. Fodaroni (conf.) - Ric. D. A. C.
Ai sensi dell’art. 39, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001 sussiste l’incompatibilità del legale rappresentante dell’ente
a rappresentarlo nel procedimento a suo carico qualora
egli sia contestualmente anche imputato per il reato
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presupposto della responsabilità addebitata alla persona giuridica. L’incompatibilità discende dalla presunzione iuris et de iure della sussistenza di un conflitto di interessi tra ente e suo rappresentante, è destinata a rivelarsi già nel primo atto di competenza di quest’ultimo e
cioè la scelta del difensore di fiducia e procuratore speciale senza la cui nomina il soggetto collettivo non può
validamente costituirsi. Tale incompatibilità ha carattere assoluto, con la conseguenza che il rappresentante
incompatibile non può compiere alcun atto difensivo
nell’interesse dell’ente e quest’ultimo, se materialmente posto in essere, dovrebbe considerarsi inefficace. In
particolare sarebbe privo di efficacia non solo l’atto di
costituzione, ma altresì anche l’eventuale nomina di un
difensore di fiducia effettuata indipendentemente dalla
formale costituzione, con l’ulteriore conseguenza che
tale nomina sarebbe tamquam non esset e gli atti compiuti dal difensore in esecuzione di un mandato privo di
efficacia inammissibili.
Il caso
Con sentenza la Corte d’Appello, in parziale riforma della
pronunzia di primo grado, ha confermando la condanna a
danno degli imputati ed ex D.Lgs. n. 231/2001 della Gargano Hotels s.r.l. per truffa aggravata per il conseguimento di
erogazioni pubbliche. Avverso la sentenza ricorrono gli imputati e la Gargano Hotels deducendo la nullità delle sentenze di primo e secondo grado nella parte relativa alla
condanna dell’ente in difetto di una valida costituzione del
medesimo in quanto rappresentato, in entrambi i gradi di
merito, dal difensore di fiducia invalidamente nominato da
D. amministratore della Gargano Hotels imputato del reato
da cui dipendeva la responsabilità dell’ente. Nel caso di
specie risulta che all’ente, inizialmente non costituitosi, era
stato nominato nella fase delle indagini preliminari un difensore d’ufficio in occasione dell’adozione nei suoi confronti di una misura cautelare reale. Successivamente, l’ente si è costituito per la prima volta in persona del legale
rappresentante D.A.C. che ha proceduto alla nomina di un
difensore di fiducia, il quale ha assistito l’ente nell’udienza
preliminare e nel corso del dibattimento di primo grado ed
ha altresì proposto l’appello ritenuto sostanzialmente inammissibile dalla Corte territoriale in ragione per l’appunto
della sua incompatibilità. Il ricorso è stato proposto dal difensore nominato da D.F., amministratore subentrato a
quello ritenuto incompatibile e mai imputato del reato presupposto. I ricorrenti lamentano, inoltre, la violazione di
legge in merito al ritenuto difetto di legittimazione degli imputati ad impugnare le statuizioni della sentenza di primo
grado concernenti la responsabilità dell’ente ed in particolare quelle relative alla confisca del profitto del reato, legittimazione ritenuta sussistente in capo all’imputato che sia
altresì socio e amministratore dell’ente, atteso che la condanna di quest’ultimo si riverbera sul suo patrimonio - e
dunque indirettamente sul socio chiamato a ripianare le
conseguenti perdite mediante la ricostituzione del capitale
sociale - e comporta l’eventuale responsabilità di chi l’ha
gestito per il danno causato allo stesso.
La decisione
La Corte ha dichiarato inammissibili i ricorsi dovendosi
escludere che l’imputato, autore del reato presupposto, sia
legittimato e abbia interesse ad impugnare, anche nel caso
di simultaneus processus, il capo della sentenza relativo all’affermazione della responsabilità ex D.Lgs. n. 231/2001
dell’ente nel cui interesse o vantaggio lo stesso sia stato
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commesso. Secondo il Supremo Collegio l’art. 71, del citato decreto legislativo, nel disciplinare le impugnazioni delle
sentenze relative alla responsabilità amministrativa dell’ente, individua inequivocabilmente ed esclusivamente in quest’ultimo il soggetto legittimato a proporle, com’è logico
atteso che è anche l’unico soggetto nei cui confronti è destinata a produrre direttamente i propri effetti la decisione
oggetto di impugnazione e ad essere applicate le sanzioni
amministrative previste dal decreto. Né, indica la Corte, rileva in senso contrario quanto stabilito dall’art. 72, il quale
riproduce sostanzialmente la regola posta dall’art. 587,
comma 1, c.p.p., in tema di estensione dei motivi d’impugnazione nel procedimento soggettivamente cumulativo. Il
fatto che l’ente possa giovarsi dell’impugnazione proposta
dall’imputato, purché non fondata su motivi esclusivamente personali (e viceversa), non è certo sintomo della legittimazione dello stesso imputato ad impugnare i capi della
sentenza che riguardano l’affermazione della responsabilità
della persona giuridica, così come egli non sarebbe legittimato ad impugnare quelli relativi alla posizione di altro imputato. Per quanto riguarda, invece, la sussistenza dell’interesse all’impugnazione - prospettato dai ricorrenti in relazione al fatto che essi sono anche soci della Hotels Gargano s.r.l. - deve ritenersi che sono irrilevanti le conseguenze
economiche indirette o riflesse che potrebbero riverberarsi
nella sfera soggettiva del socio o dell’amministratore a seguito dell’irrogazione delle sanzioni previste dal D.Lgs. n.
231/2001, a maggior ragione, com’è nel caso di specie,
quando quest’ultimo vanta personalità giuridica ed è dotato di piena autonomia patrimoniale. In altri termini, ciò che
rileva a monte, alla luce del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, è il loro difetto di legittimazione soggettiva ad impugnare, legittimazione la cui perimetrazione
è rimessa alle scelte discrezionali del legislatore con l’unico
limite della ragionevolezza, che certo non può ritenersi violato solo che si pensi come l’ente, nel sistema configurato
dal D.Lgs. n. 231/2001 - non risponde direttamente del reato - non ha cioè diretta soggettività penale - ma di un autonomo illecito che nella sua sostanza si risolve nel non aver
saputo creare le condizioni per prevenirne la consumazione
qualora lo stesso risulti essere stato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio dai soggetti tassativamente indicati nell’art. 5 dello stesso decreto. La Corte ha accolto, in
quanto fondato, il primo motivo del ricorso. La Sez. V indica che il D.Lgs. n. 231/2001 ha dedicato una disciplina
speciale alle modalità di partecipazione dell’ente al procedimento nell’esigenza di coniugare l’esercizio del diritto di
difesa con la necessità che tale partecipazione avvenga per
il tramite di una persona fisica in grado di rappresentare
l’ente medesimo: in tal senso dispongono i primi due commi dell’art. 39 del decreto e il successivo art. 40, il quale
assicura all’ente privo di un difensore di fiducia l’assistenza
di quello d’ufficio, e soprattutto dall’art. 41, che riserva nella fase processuale la condizione del contumace esclusivamente all’ente non formalmente costituitosi e non anche a
quello il cui rappresentante legale non sia comparso in
udienza nonostante l’avvenuta costituzione ai sensi del citato art. 39. Orbene, l’ art. 39, comma 1, prevede dunque
l’incompatibilità del legale rappresentante dell’ente a rappresentarlo nel procedimento a suo carico qualora egli sia
contestualmente anche imputato per il reato presupposto
della responsabilità addebitata alla persona giuridica: incompatibilità che discende dalla presunzione iuris et de iure
della sussistenza di un conflitto di interessi tra l’ente e il
suo rappresentante, destinata a rivelarsi già nel primo atto
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di competenza di quest’ultimo e cioè la scelta del difensore
di fiducia e procuratore speciale senza la cui nomina il soggetto collettivo non può validamente costituirsi. Come hanno chiarito le Sezioni Unite “anche la semplice nomina del
difensore di fiducia della persona giuridica da parte del rappresentante legale in situazione di conflitto di interessi (perché indagato come persona fisica) deve considerarsi ricompresa nel divieto posto dall’art. 39 del decreto, in
quanto realizzata da un soggetto che non è legittimato a
rappresentare l’ente, ossia ad esprimere la volontà del soggetto collettivo nel procedimento che lo riguarda”. Il legislatore italiano - continua il Supremo Collegio - ha compiuto una scelta diretta ad evitare forme di invadenza giudiziaria all’interno dell’organizzazione della persona giuridica, rimettendo a quest’ultima ogni decisione al riguardo, nel rispetto della stessa struttura e degli organi del soggetto collettivo. Quanto all’ incompatibilità, la Corte ricorda come
secondo orientamento consolidato della Cassazione, l’incompatibilità prevista dall’art. 39 cit. ha carattere assoluto,
come dimostrerebbe a contrariis l’espressa deroga contenuta nel D.Lgs. n. 231/2001, art. 43, comma 2, in tema di
notificazioni all’ente. In particolare sarebbe privo di efficacia non solo l’atto di costituzione, ma altresì anche l’eventuale nomina di un difensore di fiducia effettuata indipendentemente dalla formale costituzione, con l’ulteriore conseguenza che tale nomina sarebbe tamquam non esset e
gli atti compiuti dal difensore in esecuzione di un mandato
privo di efficacia, inammissibili. Tali principi hanno trovato
conforto nella citata pronunzia delle Sezioni Unite, le quali
hanno stabilito che il rappresentante legale indagato o imputato del reato presupposto non può provvedere, a causa
di tale condizione di incompatibilità, alla nomina del difensore di fiducia dell’ente, per il generale e assoluto divieto di
rappresentanza posto dal D.Lgs. citato, art. 39, e che è
inammissibile, per difetto di legittimazione rilevabile di ufficio ai sensi dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. a), l’impugnazione eventualmente presentata dal difensore dell’ente
nominato dal rappresentante il quale versi nella menzionata situazione di incompatibilità.
Se dunque l’atto di costituzione e la nomina del difensore e
procuratore speciale effettuati dal rappresentante incompatibile sono privi di efficacia, ne consegue che nel processo
l’ente, privo di formale rappresentanza e di fatto non costituitosi, deve essere dichiarato contumace ai sensi dell’art.
41 del decreto e il giudice deve procedere a nominargli un
difensore d’ufficio. Soprattutto, nella fase della costituzione
delle parti, deve ritenersi che al giudice spetti l’obbligo di
verificare la regolarità dell’atto di costituzione e della nomina del difensore che, ai sensi dell’art. 39, comma 2, lett. c),
lo deve sottoscrivere, e, rilevata l’incompatibilità di dichiarare l’inammissibilità della costituzione con la conseguente
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pronunzia dei provvedimenti sopra descritti. La Corte afferma, dunque, che sussiste la nullità assoluta, verificatasi al
momento della celebrazione dell’udienza preliminare ed erroneamente non rilevata dalla Corte territoriale, che pure
ha considerato inefficace la nomina del difensore che ha
assistito l’ente nel corso di tutti i gradi del giudizio di merito. Una volta costituite le parti dinanzi a sé, lo stesso giudice avrebbe poi dovuto registrare la nullità assoluta verificatasi nel grado precedente e adottare i provvedimenti conseguenti. La sentenza impugnata deve dunque essere annullata senza rinvio, ma l’annullamento deve necessariamente essere esteso anche a quella di primo grado fino a
travolgere l’udienza preliminare e il decreto che ha disposto il rinvio a giudizio dell’ente, con conseguente trasmissione degli atti al Tribunale per l’ulteriore corso e cioè la fissazione di una nuova udienza preliminare in ragione della
richiesta di rinvio a giudizio proposta dal pubblico ministero, atto questo che va considerato tuttora valido e produttivo dei suoi effetti tipici.
I precedenti
V. in senso conforme alla prima massima, Cass., SS.UU.,
28 maggio 2015, n. 33041, Covalm Biogas coop a.r.l, Rv.
264310; nonché, Cass., Sez. II, 9 dicembre 2014, n. 52748,
P.M. in proc. VbiOl e altro, Rv. 261967; Cass., Sez. VI, 31
maggio 2011, n. 29930, Ingross Levante Spa, Rv. 250432;
Cass., Sez. VI, 19 giugno 2009, n. 41398, Caporello, Rv.
244409; Cass., Sez. VI, 5 febbraio 2008, n. 15689, Soc. a
r.l. A.R.I. International, Rv. 241011.
In merito alla seconda massima v., oltre alle decisioni già
menzionate, Cass., Sez. II, 9 dicembre 2014, n. 52748,
P.M. in proc. VbiOl e altro, Rv. 261967.
La dottrina
V., S. Beltrami, L’incompatibilità nel procedimento a carico
dell’ente del rappresentante legale imputato del reato presupposto, in (La) Responsabilità amministrativa delle società
e degli enti, Torino, 2014, n. 3, 245 ss.; M. Ceresa Gastaldo,
Procedura penale delle società, Torino, 2015; A. Marandola,
Il processo penale agli enti, in Procedimenti speciali, III, a cura di G. Garuti, in AA.VV., Procedura penale. Teoria e pratica
del processo, diretto da G. Spangher - A. Marandola - G.
Garuti - L. Kalb, 665 ss.; G. Varraso, Il procedimento per gli
illeciti amministrativi dipendenti da reato, Milano, 2012, 140
ss.; S. Silvestri, Rappresentanza in giudizio dell’ente: il legale
rappresentante tra incompatibilità processuali e poteri in
(La) Responsabilità amministrativa delle società e degli enti,
Torino, 2014, n. 3, 139 ss.; A. Spinelli, Il rappresentante legale imputato: l’incompatibilità ed i suoi riflessi sul processo
penale de societate, ivi, 2014, 447.
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a cura di Irene Scordamaglia
NOTIFICAZIONI
NOTIFICAZIONE ALL’IMPUTATO IN CASO D’IRREPERIBILITÀ
Cassazione Penale, Sez. IV, 2 dicembre 2015 (p.u. 24
settembre 2015), n. 47746 - Pres. Brusco - Rel. Savino P.M. Di Nardo (concl. diff.) - Ric. Solhi ed altro
Ai fini della rituale emissione del decreto di irreperibilità
e della conseguente notifica dell’atto giudiziario presso
il difensore di ufficio, secondo quanto prescritto dall’art.
159 c.p.p., le ricerche dell’imputato, destinatario dell’atto, devono essere estese anche a luoghi diversi da quelli espressamente indicati nella detta disposizione - pur
dovendosi ad essi accordare preferenza - e facendo ricorso, se del caso, ad ogni mezzo utile ad assicurare
l’effettiva conoscenza dell’atto medesimo, ivi compreso
il rintraccio dell’interessato attraverso l’utenza telefonica mobile della quale l’autorità procedente sia a conoscenza
Gli imputati, condannati per il reato di cui all’art. 73, d.P.R.
n. 309/1990, interponevano ricorso per Cassazione avverso
la sentenza d’appello, deducendo la nullità assoluta del decreto di irreperibilità emesso nei loro confronti nel corso
del processo di primo grado - e delle successive notifiche
effettuate attraverso il rito degli irreperibili -, poiché tanto la
notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari
che quella del decreto che disponeva il giudizio erano state
eseguite senza il previo esperimento di tutte le ricerche, ivi
comprese quelle da svolgersi attraverso l’utilizzazione delle
loro utenze telefoniche mobili, le quali pure erano in possesso dell’autorità competente perché oggetto di intercettazioni.
La quarta sezione penale della Cassazione, riconosciuto come fondato il detto motivo di gravame, ha annullato senza
rinvio le sentenze di merito ed ha disposto la trasmissione
degli atti al Tribunale competente per la celebrazione del
giudizio di primo grado, rilevando che la conoscenza da
parte dell’autorità procedente dell’utenza mobile del destinatario dell’atto impone che le ricerche di questi siano effettuate anche avvalendosi di siffatto canale, incorrendo,
altrimenti, la stessa autorità in una negligente omissione
che, traducendosi nella loro incompletezza, determina la
nullità assoluta - e, quindi, insanabile e rilevabile in ogni
stato e grado del giudizio - del decreto di irreperibilità e di
ogni atto processuale ad esso connesso.
A tale decisione la S.C. è pervenuta prestando consapevole
adesione a quell’interpretazione della norma posta dall’art.
159 c.p.p. che tende a valorizzarne la ratio di garanzia di effettiva ed efficace ricerca dell’imputato in tutti i posti dove,
per conoscenze o informazioni acquisite, si presuma possa
trovarsi, allo scopo di assicurarne la conoscenza del processo istaurato a suo carico, “utilizzando nei modi più efficaci notizie ed informazioni in possesso dell’autorità proce-
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dente, prescindendo da rigorosi formalismi, atteso il rilievo
costituzionale degli interessi tutelati”.
In effetti sulla questione della latitudine interpretativa dell’obbligo per l’autorità giudiziaria di disporre nuove ricerche, quale presupposto di legittimità del decreto di irreperibilità, è dato riscontrare, nella giurisprudenza di legittimità,
il fronteggiarsi di due orientamenti ermeneutici. Il primo cui, all’evidenza, si riporta la decisione annotata, che si richiama, tra l’altro, ad alcune delle altre pronunce della nomofilachia di analogo tenore: ex plurimis: Sez. V, 17 luglio
2014, n. 35103 - dep. 7 agosto 2014, P., Rv. 260470; Sez. I,
13 gennaio 2010, n. 5476 - dep. 11 gennaio 2010, Liberatore, Rv. 245914; Sez. II, 30 settembre 2009, n. 40041 - dep.
14 ottobre 2009, Tasca, Rv. 245230; Sez. I, 10 gennaio
2006, n. 5479 - dep. 13 febbraio 2006, Paulli, Rv. 235098;
Sez. 5, 20 aprile 2005, n. 33070 - dep. 12 settembre 2005,
Garcia, Rv. 232328; Sez. I, 21 settembre 1993, n. 3488 dep. 16 ottobre 1993, De Simone, Rv. 195304 -, collocandosi nell’ottica garantista del primato da accordare al diritto di difesa, ritiene che il meccanismo disciplinato dall’art.
159 c.p.p. (che sacrifica la conoscenza effettiva dell’atto a
favore di quella legale) debba attivarsi soltanto in via eccezionale (cfr. Rel. prog. prel. c.p.p, per la quale - in ossequio
alla direttiva n. 80 dell’art. 2 Legge Delega 16 febbraio
1987, n. 81, che richiedeva l’introduzione “di particolari garanzie nel rito della irreperibilità, con la precisazione rigorosa della procedura per la ricerca dell’imputato -: “l’introduzione al comma 1 dell’avverbio ‘particolarmente’” risponde
all’idea di: “non rendere esaustiva, e quindi, limitativa l’indicazione dei luoghi ove ricercare l’imputato…in funzione
di una maggiore efficacia del grave e delicato procedimento”) ed osserva, coerentemente, che lo stesso meccanismo, se impone di svolgere le ricerche del destinatario dell’atto soprattutto in luoghi predeterminati (selezionati in base alla maggiore probabilità che nei medesimi possano essere acquisite informazioni utili alla sua individuazione),
non libera, però, l’autorità procedente dall’obbligo di svolgere ulteriori ricerche in altri luoghi secondo le circostanze
del caso concreto, il significato della previsione normativa
essendo quello di rendere indefettibili tutti quegli accertamenti che si rivelino logicamente utili e oggettivamente praticabili sulla base delle circostanze emergenti dagli atti, allo
scopo di non lasciare nulla di intentato per rintracciare l’imputato prima di dichiararlo irreperibile. Il secondo filone interpretativo - cui si riconnettono: Sez. II, 16 gennaio 2015,
n. 2886 - dep. 22 gennaio 2015, Baltag, Rv. 262287; Sez. 2,
29 aprile 2011, n. 32331 - dep. 18 agosto 2011, Morari, Rv.
250764 - privilegiando le ragioni dell’efficienza e della speditezza del processo, pur prendendo atto della lettura dell’avverbio “particolarmente” datane dalla Relazione al progetto preliminare del codice e dalla Corte Costituzionale nella
sentenza n. 399/98, si orienta, invece, nel senso di escludere che dalla detta interpretazione estensiva dei luoghi in cui
necessariamente ricercare, in maniera cumulativa, il destinatario dell’atto, possa farsi discendere l’obbligo in capo
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all’autorità procedente di condurre le ricerche dell’imputato
con mezzi che non consentono non solo l’esatta sua individuazione, ma il collegamento con luoghi specifici in cui potere allargare le ricerche medesime, come nell’ipotesi dell’utilizzazione dell’utenza cellulare che è priva di qualsiasi
collegamento certo ad una persona o ad un luogo, a differenza della utenza telefonica fissa, la cui conoscenza permette di allargare la ricerca anche al luogo ove l’utenza è
installata, con possibile acquisizione di ulteriori notizie circa
l’attuale dimora del ricercato.
La dottrina - cfr. Grilli, Le notificazioni penali, Milano, 1990,
239; Paola, Notificazioni, in Digesto pen., agg. I, Torino,
2000, 492; Macchia, Commento al nuovo codice di procedura penale, coord. da Chiavario, sub art. 159 C.p.p., II, Torino, 1990, 226; F. Viggiano, Art.159 c.p.p., in Giarda - Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato,
Milano, 2010; Galantini, Notificazioni, in Amodio-Dominioni
(diretto da), Commentario del nuovo codice di procedura penale, II, Milano, 1989, 197- è unanime nell’affermare che al
sacrificio della conoscenza effettiva da parte del destinatario del contenuto di un atto del processo si possa pervenire, per effetto dell’emissione del decreto di irreperibilità quale situazione di fatto che può essere anche involontaria
ed incolpevole -, soltanto allorché siano stati esperiti tutti i
mezzi ritenuti idonei ad assicurare che l’imputato sia reso
edotto dell’esistenza di un procedimento a suo carico.
REATI CONTRO IL PATRIMONIO
ESTORSIONE
Cassazione Penale, Sez. II, 6 novembre 2015 (p.u. 8 ottobre 2015), n. 44657 - Pres. Fiandanese - Rel. Carrelli
Palombi di Montrone - P.M. Baldi (concl. parz. diff.) Ric. Lupo ed altri
Integra il delitto di estorsione, e non quello di esercizio
arbitrario delle proprie ragioni, la condotta connotata
da violenza o minaccia di tale intensità da esprimere
una forza d’intimidazione sproporzionata, suscettibile
di andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio preteso diritto di credito così da determinare una coartazione dell’altrui volontà che assume di
per sé stessa i caratteri dell’ingiustizia.
Ad investire la seconda sezione della Cassazione del problema qualificatorio dei fatti dedotti in giudizio - estrinsecatisi in condotte di violenza e minaccia poste in essere da
un sodalizio di persone, dedite all’attività di recupero crediti, nei confronti di soggetti che, versando in situazione di
grave crisi finanziaria, non riuscivano a fare fronte alle loro
esposizioni debitorie, allo scopo di ottenerne l’adempimento mediante il pagamento di somme di denaro o altre utilità
- è stato uno degli imputati di un delitto di estorsione continuata ed in concorso, condannato nel primo e nel secondo
grado di merito per tale fattispecie di reato, il quale contestava la sussunzione dei detti fatti nel delitto di cui all’art.
629 c.p. piuttosto che in quello di esercizio arbitrario delle
private ragioni con violenza alle persone di cui all’art. 393
c.p., essendo risultato che egli aveva compiuto le azioni attribuitegli nella ragionevole convinzione di reclamare un diritto ritenuto astrattamente sussistente.
La S.C. si è, tuttavia, espressa - in riferimento allo specifico
motivo di impugnazione illustrato - per la conferma della
60
sentenza d’appello, sul rilievo che il giudice di merito aveva
dato atto, con motivazione immune da vizi logici e come
tale insindacabile in sede di legittimità, dell’esistenza di
una serie gli elementi di fatto in forza dei quali era stata ritenuta integrata la fattispecie di estorsione in ragione delle
“trasmodanti modalità della condotta che si è estrinsecata
... in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di
ogni ragionevole intento di fare valere un preteso diritto”.
Nell’assumere tale decisione la Cassazione ha espressamente affermato di aderire a quello degli orientamenti giurisprudenziali in competizione nella materia in discussione,
che, in termini generali, individua la linea di demarcazione
tra il delitto di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle private ragioni con violenza alle persone, addirittura in
presenza di un diritto astrattamente tutelabile dinanzi all’autorità giudiziaria, “nel grado di gravità della condotta
violenta o minacciosa che, se manifestata in modo gratuito
o sproporzionato rispetto al fine, ovvero tale da non lasciare possibilità di scelta alla vittima”, integra il più grave delitto di estorsione, perché, nel delitto di esercizio arbitrario
delle proprie ragioni, “la minaccia e la violenza non sono fini a sé stesse, ma sono strettamente connesse alla condotta dell’agente, diretta a far valere il preteso diritto, rispetto
al cui conseguimento si pongono come elementi accidentali, così da non potere mai consistere in manifestazioni
sproporzionate e gratuite di violenza” (in questo senso:
Sez. II, 12 novembre 2015, n. 50150 - dep. il 21 dicembre
2015, n. 50150; Sez. VI, 25 marzo 2015, n. 17785 - dep. 28
aprile 2015, Pipitone, Rv. 263255; Sez. II, del 10 febbraio
2015, n. 9759 - dep. 6 marzo 2015, Gargiuolo e altro, Rv.
263298; Sez. I, 2 luglio 2014, n. 32795 - dep. 23 luglio
2014, Donato, Rv. 261291; Sez. V, 6 marzo 2013, n. 19230
- dep. 3 maggio 2013, Palazzotto ed altro, Rv. 256249; Sez.
VI, 28 ottobre 2010, n. 41365 - dep. 23 novembre 2010,
Straface, Rv. 248736; Sez. VI, 21 giugno 2010, n. 32721 dep. 7 settembre 2010, Hamidovic e altro, Rv. 248169;
Sez. II, 27 giugno 2007, n. 35610 - dep. 26 settembre
2007, Della Rocca, Rv. 237992; Sez. II, 15 febbraio 2007, n.
14440 - dep. 5 aprile 2007, Mezzanica, Rv. 236457). Ad avviso del Collegio, infatti, il criterio che, ai fini dell’inquadramento della condotta nell’una o nell’altra ipotesi di reato,
fa leva sull’elemento materiale della condotta posta in essere ai danni della persona offesa - e, quindi, considera la
gravità della violenza e l’intensità dell’intimidazione - si appalesa di gran lunga più affidabile rispetto a quello - cui si
riferiscono i sostenitori dell’orientamento più risalente e
contrapposto - che coglie il discrimen tra il delitto di estorsione e quello di ragion fattasi nell’elemento psicologico del
soggetto agente, poiché, nel primo, questi persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole,
anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di
soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente medesimo intende conseguire un profitto pur nella
consapevolezza della sua ingiustizia (Sez. II, del 15 maggio
2015, n. 23765 - dep. 4 giugno 2015, P.M. in proc. Pellicori, Rv. 264106; Sez. II, 25 giugno 2014, n. 31224 - dep. 16
luglio 2014, Comite, Rv. 259966; Sez. II, 1° ottobre 2013, n.
705 - dep. 10 gennaio 2014, Traettino, Rv. 258071; Sez. II,
4 dicembre 2013, n. 51433 - dep. 19 dicembre 2013, P.M e
Fusco, Rv. 257375; Sez. II, 29 maggio 2012, n. 22935 dep. 12 giugno 2012, Di Vuonno e altro, Rv. 253192; Sez.
II, 4 marzo 2010, n. 12329- dep. 29 marzo 2010, Olmastroni, Rv. 247228).
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Osservatorio
Contrasti giurisprudenziali
Gli argomenti posti a sostegno di questa lettura giurisprudenziale del criterio differenziale tra il delitto di estorsione e
quello di esercizio arbitrario delle private ragioni sono, a
ben vedere, gli stessi elaborati dalla dottrina per criticare il
primo orientamento di cui si è dato conto e sono sintetizzabili nei termini per i quali l’individuazione del crinale tra le
due fattispecie nell’intensità della violenza o della minaccia
si pone, innanzitutto, in contrasto con il principio di legalità, essendo il detto elemento estraneo allo schema legale
di cui all’art. 393 c.p. - Laurino, Estorsione, ragion fattasi ed
intensità della violenza nella giurisprudenza della Suprema
Corte, in Cassazione penale, 2012, 3174 ss.- ed, in secondo
luogo, rimette alla discrezionale valutazione dell’organo
giudicante la valutazione dei relativi confini, gravida per
l’imputato di conseguenze sul piano sanzionatorio - Verri,
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Un’interessante pronuncia sui criteri di distinzione tra delitto
di estorsione e delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (Nota a Cass. pen., sez. VI, 23 novembre 2010, n.
41365 - dep. 23 novembre 2010, Rel. Matera), in Diritto penale contemporaneo, 11 marzo 2011; Ubiali, Sui rapporti tra
estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni con
violenza alle persone: un revirement giurisprudenziale, Nota
a Cass., Sez. II, ud. 4 dicembre 2013 (dep. 19 dicembre
2013), n. 51433, Pres. Petti, Rel. Rago, ric. Fusco, in Diritto
penale contemporaneo, 13 febbraio 2014 -, dovendosi ritenere, invece, epistemologicamente più corretta la scelta di
valorizzare il dato fattuale della modalità della condotta posta in essere dall’agente esclusivamente in chiave probatoria, quale elemento utile al fine dell’accertamento del dolo Mecca, L’estorsione, Padova, 2007, 218.
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Giurisprudenza
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Diritto penale
Bioetica
Corte Costituzionale 21 ottobre 2015 (ud. 6 ottobre 2015), n. 229 - Pres. A. Criscuolo - Rel.
M.R. Morelli
L’art. 13, commi 3, lett. b), e 4, L. 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) è incostituzionale, ai sensi degli artt. 3, 32 e 117 Cost., nella parte in cui incrimina la selezione di embrioni a scopo eugenetico anche quando finalizzata a prevenire gravidanze che la donna sarebbe comunque
legittimata a interrompere, e in specie il trasferimento in utero di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lett. b), L. 22 maggio 1978, n. 194 (Norme
per la tutela della maternità e sulla interruzione della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche.
Non è invece fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 6, L. n. 40/2004, nella
parte in cui comprende la soppressione di embrioni non trasferiti per le anzidette ragioni. Tale soppressione
non è infatti necessaria per portare a termine utilmente diagnosi e selezione preimpianto, dunque per garantire la salute della donna. L’embrione residuo - dotato di valore costituzionale ex art. 2 Cost. - deve piuttosto
essere crioconservato, in deroga al divieto penale di cui all’art. 14, comma 1, L. n. 40/2004.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Trib. Cagliari, sent. 22 settembre 2007; Trib. Firenze, ord. 17 dicembre 2007; Corte cost. 8 maggio 2009, n. 151;
Trib. Bologna, ord. 29 giugno 2009; Trib. Salerno, ord. 9-13 gennaio 2010; Corte EDU, Sez.II, Costa e Pavan c. Italia,
28 agosto 2012, ricorso n. 54270/10; Trib. Cagliari, ord. 9 novembre 2012; Trib. Roma, ord. 23 settembre 2013;
Corte cost. 5 giugno 2015, n. 96.
Difforme
Trib. Catania, ord., 3 maggio 2004.
La Corte (omissis).
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale ordinario di Napoli sospetta che l’art.
13 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) - con il
vietare, sub comma 3, lettera b), e penalmente sanzionare, sub comma 4, in modo indiscriminato, “ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni”,
senza escludere, dalla fattispecie di reato così configurata, l’ipotesi in cui la condotta dei sanitari “sia finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna degli
embrioni affetti da malattie genetiche” - contrasti con
gli artt. 3 e 32 della Costituzione, “per violazione del
principio di ragionevolezza, corollario del principio di
uguaglianza” e per vulnus al diritto alla salute, tutelato
dalla stessa “legge 40” anche nei confronti della coppia
generatrice; e violi altresì l’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione all’art. 8 della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto
1955, n. 848 “come interpretato nella giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo, laddove ha
affermato che il diritto al rispetto della vita privata e
familiare include il desiderio della coppia di generare
un figlio non affetto da malattia genetica (in tal senso,
Corte EDU, Costa e Pavan contro Italia, sentenza del
28 agosto 2012, § 57)”.
Lo stesso Tribunale sottopone al vaglio di costituzionalità anche il successivo art. 14, commi 1 e 6, della pre-
62
detta legge n. 40 del 2004, nella parte in cui parallelamente vieta e penalmente sanziona la condotta di soppressione degli embrioni, anche ove trattasi di embrioni
soprannumerari risultati affetti da malattie genetiche a
seguito di selezione finalizzata ad evitarne appunto l’impianto nell’utero della donna.
Il rimettente dubita, con riguardo a detto disposto normativo, che ne risultino violati l’art. 2 Cost., “sotto il
profilo della tutela del diritto all’autodeterminazione
della coppia”; l’art. 3 Cost., per irragionevolezza e contraddittorietà rispetto al disposto dell’art. 6 della legge
22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale
della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), che “consente agli operatori sanitari di praticare l’aborto terapeutico - anche oltre il termine di 90
giorni dall’inizio della gravidanza - in presenza di “processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro””; oltre che l’art. 117,
primo comma, Cost., in relazione al medesimo parametro europeo come sopra evocato.
2.- La prima questione è fondata per l’assorbente ragione e nei limiti che si diranno.
2.1.- Con la recente sentenza n. 96 del 2015, questa
Corte ha, infatti, già dichiarato l’illegittimità costituzionale dei precedenti artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1,
della stessa legge n. 40 del 2004, “nella parte in cui non
consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di
gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge
22 maggio 1978, n. 194 […], accertate da apposite strutture pubbliche”.
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Giurisprudenza
Diritto penale
E “Ciò al fine esclusivo”, come chiarito in motivazione,
“della previa individuazione”, in funzione del successivo
impianto nell’utero della donna, “di embrioni cui non
risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il
pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non
la morte precoce) del nascituro”, alla stregua del suddetto “criterio normativo di gravità”.
2.2.- Quanto è divenuto così lecito, per effetto della
suddetta pronunzia additiva, non può dunque - per il
principio di non contraddizione - essere più attratto
nella sfera del penalmente rilevante.
Ed è in questi esatti termini e limiti che l’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, della legge n. 40 del 2004 va incontro a declaratoria di illegittimità costituzionale, nella parte, appunto, in cui vieta, sanzionandola penalmente, la condotta selettiva del sanitario volta esclusivamente ad evitare il trasferimento nell’utero della donna di embrioni che, dalla diagnosi preimpianto, siano
risultati affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1,
lettera b), della legge n. 194 del 1978, accertate da apposite strutture pubbliche.
3.- La seconda connessa questione - di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 6, della legge n. 40 del
2004 - è, invece, non fondata.
Come reiteratamente, infatti, ribadito nella giurisprudenza di questa Corte, la discrezionalità legislativa circa
l’individuazione delle condotte penalmente punibili può
essere censurata in sede di giudizio di costituzionalità
soltanto ove il suo esercizio ne rappresenti un uso distorto od arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza (sentenze n. 81
del 2014, n. 273 del 2010, n. 364 del 2004, ordinanze
n. 249 del 2007, n. 110 del 2003, n. 144 del 2001, ex
plurimis).
Nel caso in esame, deve escludersi che risulti, per tali
profili, censurabile la scelta del legislatore del 2004 di
vietare e sanzionare penalmente la condotta di “soppressione di embrioni”, ove pur riferita - ciò che propriamente il rimettente denuncia - agli embrioni che,
in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave
malattia genetica.
Anche con riguardo a detti embrioni, la cui malformazione non ne giustifica, sol per questo, un trattamento
deteriore rispetto a quello degli embrioni sani creati in
“numero […] superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto”, ex comma 2 del medesimo art. 14, nel testo risultante dalla
sentenza n. 151 del 2009, si prospetta, infatti, l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione, alla quale non
può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella
della procedura di crioconservazione. L’embrione, infatti, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vi-
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ta, non è certamente riducibile a mero materiale biologico.
Con la citata sentenza n. 151 del 2009, questa Corte
ha già, del resto, riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela dell’embrione, riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.; e l’ha bensì ritenuta suscettibile di “affievolimento” (al pari della tutela del
concepito: sentenza n. 27 del 1975), ma solo in caso di
conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni,
prevalenti.
Nella fattispecie in esame, il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione (ancorché) malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova però
giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di
altro interesse antagonista.
E ciò conferma la non manifesta irragionevolezza della
normativa incriminatrice denunciata.
La quale neppure contrasta con l’asserito “diritto di
autodeterminazione” o, per interposizione, con il richiamato parametro europeo, per l’assorbente ragione
che il divieto di soppressione dell’embrione malformato non ne comporta, per quanto detto, l’impianto
coattivo nell’utero della gestante, come il rimettente
presuppone e, in relazione ai suddetti parametri, appunto censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13,
commi 3, lettera b), e 4 della legge 19 febbraio 2004, n.
40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui contempla come ipotesi di
reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei
casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti
da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri
di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela della
maternità e sulla interruzione della gravidanza) e accertate da apposite strutture pubbliche;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 1 e 6, della legge 19
febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione
medicalmente assistita), sollevata - in riferimento agli
artt. 2 e 3 della Costituzione ed all’art. 117, primo comma Cost., in relazione all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 - dal Tribunale ordinario di Napoli,
con l’ordinanza in epigrafe.
63
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Gli ultimi fantasmi della legge ’40: incostituzionale il (supposto)
reato di selezione preimpianto
di Antonio Vallini (*)
Viene dichiarato incostituzionale il reato (che è però circostanza aggravante) di “selezione embrionale a scopo eugenetico”, nella parte in cui potrebbe riferirsi a una selezione preimpianto
volta a garantire un figlio sano a coppie portatrici di gravi anomalie genetiche trasmissibili,
quando la patologia ereditabile metterebbe a repentaglio la salute della donna, consentendole
comunque, successivamente, di ricorrere all’aborto; coppie che già la sentenza della Corte cost.
n. 96/2015 aveva autorizzato ad accedere alla procreazione assistita per usufruire di una diagnosi genetica preimpianto, anche se fertili. La Consulta ritiene invece infondata una questione, incentrata su analoghi motivi, riguardante il reato di embrionicidio, posto che gli embrioni malati
e non impiantati, dotati di rilievo ex art. 2 Cost., possono e devono essere crioconservati e non
v’è motivo di sopprimerli. La decisione, pur perfezionando quel coordinamento necessario tra la
le L. n. 40/2004 e n. 194/1978, suscita perplessità nella misura in cui presuppone che le condotte in questione fossero tipiche alla stregua di figure criminose la cui applicabilità, in casi del genere, era invece da tempo negata da una consolidata interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata. Le ambigue affermazioni circa il rilievo costituzionale dell’embrione
malato in vitro gettano, a loro volta, un’incerta luce su quella che sarà la prossima decisione della Corte, quando si tratterà di bilanciare il valore dell’embrione con quello della ricerca scientifica, della salute pubblica e della libertà dei generanti.
Il “misterioso” reato di diagnosi e
selezione preimpianto
Un fantasma si aggira tra le norme della L. n. 40
del 19 febbraio 2004, in tema di procreazione medicalmente assistita (PMA): una disposizione incriminatrice delle condotte di diagnosi e selezione
preimpianto.
Condotte consistenti, la prima, in un accertamento
genetico su embrioni formati in vitro per individuare temute anomalie, eventualmente trasmesse dai
genitori, e motivo di problemi per la futura gravidanza, o di gravi malattie del nascituro; la seconda,
in una selezione per il trasferimento in utero dei
soli embrioni sani, tra i diversi prodotti a fini diagnostici (1). Fantasma, in quanto proiezione di angosce etiche e ansie di criminalizzazione che emer(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Forabosco, Le diagnosi prenatali e preimpianto, in Canestrari e altri (a cura di), Il governo del corpo, Milano, 2011, 2,
1468 ss.
(2) T.A.R. Lazio, Sez. III ter, 7 aprile 2005, n. 3452, Guida
dir., 2005, 23, 76, nota Messina.
(3) Nella diversità degli accenti: Canestrari, Procreazione assistita: limiti e sanzioni, in questa Rivista, 2004, 417; Casini - Casini - Di Pietro, La legge 19 febbraio 2004, n. 40 “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”. Commentario, Torino, 2004, 57 s.; 472; Consorte, La procreazione medicalmente
assistita: legge 19.2.2004, n. 40, in Canestrari (a cura di), I reati
contro la vita e l’incolumità individuale, Torino, 2006, 224 ss.,
266 ss.; Eusebi, Lo statuto dell’embrione, il problema eugeneti-
64
sero nitidamente nel dibattito politico precedente
l’approvazione della legge, senza che alcuna disposizione della contestata normativa desse poi corpo,
con altrettanto nitore, a corrispondenti figure criminose. L’unico divieto precisamente riservato alle
pratiche in discussione poteva infatti rinvenirsi
nelle Linee guida del 2004 (D.M. 21 luglio 2004) fonte di valore provvedimentale integratrice della
L. n. 40/2004 (cfr. art. 7) (2) - là dove permettevano accertamenti sulla salute dell’embrione soltanto
di carattere osservazionale o morfologico, non genetico appunto.
Fatto sta che, immediatamente dopo l’entrata in
vigore della controversa normativa, cominciarono
le apparizioni, di cui si riportavano testimonianze
anche autorevoli e indubbiamente suggestive, alcune anche recenti (3). Tratti o frammenti di quelco, i criteri della generazione umana: profili giuridici, in Procreazione assistita. Problemi e prospettive, Brindisi, 2005, 156 Manna, La tutela penale della vita in fieri, tra funzione promozionale
e protezione di beni giuridici, in Leg. pen., 2005, 347; Mantovani, Procreazione medicalmente assistita e principio personalistico, ibidem, 332 s.; Rocchi, Statuto e tutela dell’embrione, in
Buccelli (a cura di), Produrre uomini, Firenze, 2005, 211 ss. e
da ultimo, Sanfilippo, La riscrittura giurisprudenziale della legge
n. 40/2004: un caso singolare di eterogenesi dei fini, in Riv. it.
dir. proc. pen., 2015, 856 ss. In giurisprudenza Trib. Catania,
Ord., 3 maggio 2004, in Familia, 2004, 947, nota Palmerini, La
legge sulla procreazione assistita al primo vaglio giurisprudenziale; T.A.R. Lazio, sent. 3452/2005, cit. e 7 aprile 2005 n. 4047,
in Guida dir., 2005, n. 26, 59.
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Giurisprudenza
Diritto penale
l’incriminazione venivano così riconosciuti nelle
fattispecie di sperimentazione sull’embrione (art.
13, comma 1), di selezione embrionale a scopo eugenetico (art. 13, comma 3, lett b), di clonazione
per scissione precoce (art. 13, comma 3, lett. c,
perché la diagnosi si compie su di una cellula separata dall’embrione), di embrionicidio o crioconservazione a danno degli embrioni residui (art. 14,
comma 1), di sovrapproduzione embrionaria (art.
14, comma 2, in virtù del quale era vietato produrre più embrioni di quanti necessari per un unico e
contemporaneo impianto, e comunque in numero
superiore a tre). Talora si intravedeva il sembiante
del fantasma in argomentazioni a contrario, osservando come l’art. 13, comma 2, autorizzi la ricerca
clinica sul singolo embrione, sì, ma esclusivamente
allo scopo di salvaguardare la salute dell’embrione
medesimo, non certo per eventualmente “scartarlo”. Significativi, ancora, certi illeciti non penali,
anzi privi di sanzione specifica, quale l’indiscriminato divieto di accesso alla PMA frapposto a coppie fertili (sebbene desiderose di prevenire la trasmissione alla prole di gravi malattie) - artt. 1 e 4,
comma 1 - o il divieto di revocare il consenso alla
PMA, dunque al trasferimento in utero, una volta
avvenuta la fecondazione dell’ovulo (art. 6, comma
3).
Alcune di queste impostazioni si atteggiavano a
logica implicazione di un principio più generale,
assai impegnativo, che l’art. 1 della L. n. 40
avrebbe per la prima volta consacrato, o finalmente esplicitato: quello della soggettività dell’embrione, persona in atto - non solo in potenza
- o comunque essere umano pienamente titolare
di una dignità umana (4) che non tollererebbe discriminazioni, strumentalizzazioni, selezioni, men
che mai soppressioni, in ragione di condizioni di
salute (5).
Vi erano però alcuni imperterriti scettici - certe
sparute voci dottrinali, prima, sempre più numerosi
giudici per lo più sollecitati ex art. 700 c.p.c., dopo (6) - che sia pur con diversi accenti imputavano
quelle apparizioni a una sorta di pareidolia ermeneutica: quasi che gli interpreti si fossero convinti
di cogliere, nel tessuto normativo, reati che non
esistevano ma che fortemente volevano, o temevano, fossero in vigore, così come capita di scorgere
un volto ectoplasmatico in una macchia su un panno o su un muro, solo perché attendiamo intensamente di vederlo. Che la visione del fantasma fosse
ispirata, in qualche misura, da inconsce aspettative, sembrava confermarlo la sua sospetta selettività: essa si concentrava soltanto sui dettagli a sostegno dell’ipotesi, ma ne tralasciava almeno uno di
segno contrario e, però, di importanza decisiva. In
specie, trascurava che la stessa L. 40/2004 - art. 14,
comma 5 - espressamente riconosce un vero e proprio diritto (altro che delitto) dei generanti ad essere informati, su loro richiesta, circa lo stato di salute dell’embrione prodotto.
Ora, a quale scopo una simile informativa può essere strumentale, se non ad una successiva e consapevole scelta circa l’opportunità di proseguire con
il trasferimento dell’embrione? Quale crudele, beffarda, irragionevole disciplina sarebbe quella che
consentisse di conoscere, ma non di deliberare, imponendo lo stesso la gravidanza e la genitorialità
dopo aver offerto l’opportunità` di sapere che il
concepito, portatore di anomalie genetiche, sarà
probabilmente abortito, o si svilupperà in un figlio
destinato a gravi sofferenze? (mettendo a rischio,
tutto questo, anche la salute psico-fisica della madre). In effetti, aggiungevano gli scettici - ma confermavano, con onestà intellettuale, autori meno
propensi a riconoscere il primato della libertà dei
generanti sulle prerogative del generato (7) - nessun obbligo di gravidanza è contemplato dalla L. n.
(4) Eusebi, Beni penalmente rilevanti e tecniche di procreazione, in Fioravanti (a cura di), La tutela penale della persona.
Nuove frontiere, difficili equilibri, Milano, 2001, 48 ss.
(5) Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, I, Delitti contro
la persona, V ed., Padova, 2013, 4 ss., 23 ss.; Eusebi, Laicità e
dignità umana nel diritto penale (pena, elementi del reato, biogiuridica), in Scritti per Federico Stella, I, Napoli, 2007, 193 ss,
204. L’idea che le pratiche compromettano la dignità persino
del figlio “selezionato” è elaborata da Eusebi, Lo statuto dell’embrione, cit., 156.
(6) Orientamento variamente declinato: v. ad es. Palmerini,
op. cit., 975 ss.; Santosuosso, La procreazione medicalmente
assistita, Milano, 2004, 98 ss.; Villani, La procreazione assistita,
Torino, 2004, 199 ss.; Vallini, Procreazione medicalmente assistita, in Padovani (a cura di), Leggi penali complementari, Milano, 2007, 657 ss.; amplius Id., La diagnosi e selezione preimpianto:da illecito penale a questione deontologica. Eterogenesi
dei fini di un legislatore irragionevole, in Riv. it. med. leg., 2011,
1405 ss.; Id., Illecito concepimento e valore del concepito. Statuto punitivo della procreazione, principî, prassi, Torino, 2012,
288 ss. In giurisprudenza (che si sviluppava dopo un primo rifiuto della Consulta di occuparsi della questione, per ragioni
formali: Corte cost. 24 ottobre 2006, n. 369, Ord., in Giur. cost.,
2006, 3859, note di Casini, Casini; Celotto; Tripodina; D’Amico): Trib. Cagliari 22 settembre 2007, in Guida dir., 2007, n. 46,
59; Trib. Firenze, Ord. 17 dicembre 2007, in Foro it., 2008, 2,
627. Cfr. poi Dolcini, Fecondazione assistita e diritto penale, Milano, 2008, 35 ss.; Baldini, Legge 40/2004 e diagnosi genetica
di preimpianto. Rilievi sull’evoluzione normativo-giurisprudenziale intervenuta, in Baldini - Soldano (a cura di), Nascere e morire: quando decido io? Italia ed Europa a confronto, Firenze,
2011, 99 ss.
(7) Casini - Casini - Di Pietro, op. cit., 127.
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Riassumendo: secondo quelle letture che abbiamo
definito metaforicamente “scettiche”, la legge prevedeva addirittura un diritto di diagnosi preimpianto. Non prevedendo poi (né potendo prevedere)
un obbligo di impianto, ammetteva sostanzialmente la selezione negativa degli embrioni malati. Tale
interpretazione aveva il pregio d’una ragionevolezza pratica, e sistematica, che la rendevano costituzionalmente orientata ex artt. 3 e 32 Cost., dunque
in linea di principio preferibile.
Sul piano della ragionevolezza pratica, semplicemente si constatava come un divieto di diagnosi e
selezione preimpianto, se sviluppato fino alle sue
più coerenti conseguenze, implicasse oneri aberranti e inesigibili (dunque difficilmente codificabili, in effetti non codificati). Quello, per gli aspiranti genitori, di procedere “alla cieca” nel protocollo di PMA, non potendo approfittare della possibilità tecnica di conoscere lo stato di salute dell’embrione da loro prodotto (in contrasto, tra l’altro, con il principio generale che subordina qualsiasi trattamento sanitario a un consenso il più
possibile informato); e/o l’onere di tollerare una
“gravidanza di Stato”, se non addirittura uno “stupro di Stato”. Sul piano della ragionevolezza sistematica, si evidenziava come in un ordinamento
che, con scelta costituzionalmente vincolata (12),
consente l’interruzione volontaria di gravidanza
quando emergano patologie o malformazioni del
feto tali da porre a repentaglio la salute della madre (artt. 4, 5 e 6, L. n. 22 maggio 78, n. 194), sia
privo di senso negare l’opportunità di prevenire
quella stessa gravidanza, con quelle gravi implicazioni, tramite una procreazione in vitro accompagnata da diagnosi e selezione embrionale. Una simile proibizione permetterebbe alla donna di ricorrere soltanto al trattamento medico più invasivo e pericoloso - l’aborto - negandole invece quello meno rischioso e più satisfattivo delle sue ambizioni materne, in quanto non meramente interruttivo di un gestazione, ma potenzialmente in
grado di soddisfare l’aspettativa di un figlio sano.
Una vessazione del tutto gratuita, in quanto non
utile a preservare il concepito, destinato comunque alla soppressione, oltretutto in una fase più
avanzata di sviluppo e quando già impiantato in
utero (con conseguente vulnus anche al valore costituzionale della maternità: infra) (13). Insomma:
(8) Villani, op. cit., 83 ss.; Santosuosso, op. cit., 93 ss.
(9) Vallini, Illecito, cit., 218 ss.; T.A.R. Lazio, III ter, 7/4 - 5
maggio 2005, n. 3452, Guida dir., 2005, 23, 84; diversamente
Trib. Catania, Ord. 3 maggio 2004, cit.
(10) Corte Edu, Evans c. Regno Unito, 10 aprile 2007. Sulla
riconducibilità del destino dell’embrione alla vita privata dei
generanti tutelata dall’art. 8 Cedu: Corte Edu, Grand Chambre,
Parrillo c. Italia, 27 agosto 2015.
(11) Villani, op. cit., 89 s.; Vallini, Illecito, cit., 222.
(12) Corte cost., sent. n. 35 del 10 febbraio 1997.
(13) Per tale ragione denunciavano l’incostituzionalità del
(supposto) divieto: Baldini, Procreazione assistita: esperienze e
prospettive applicative, in Produrre uomini, cit., 328; Canestrari,
Procreazione assistita, cit., 417; Consorte, Il divieto di diagnosi
preimpianto e di selezione degli embrioni nella prospettiva penalistica, in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale, in
Bioetica, 2006, 470 ss. Frati, Montanari, Vergallo, Di Luca, La
diagnosi preimpianto tra libertà della coppia e tutela della vita
prenatale, in Riv. it. med. leg., 2007, 981 ss.; La Rosa, La diagnosi genetica preimpianto: un problema aperto, in Fam. e
dir., 2011, 846 ss.; Modugno, La fecondazione assistita alla luce
dei principi e della giurisprudenza costituzionale, in Procreazione
assistita. Problemi e prospettive, cit., 273 s.; Risicato, Lo statuto
punitivo della procreazione tra limiti perduranti ed esigenze di riforma, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 679 ss.; Rodotà, La vita e
le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006, 143 s.; M. Ro-
40 (8). Certo, il legislatore per un momento almeno deve averlo vagheggiato, nel mentre stabiliva
che il consenso al trattamento non fosse più revocabile una volta formatosi l’embrione; e però un’istintiva remora deve averlo trattenuto dal completare quella disposizione prevedendo espressamente
il dovere di subire l’impianto. Si sarebbe trattato,
per vero, di un atto sanitario obbligatorio palesemente offensivo della dignità e della salute della
donna, nel suo atteggiarsi a gravidanza di Stato, o
addirittura a stupro di Stato, qualora fosse stato
concepito come obbligo coercibile. Un onere, dunque, assolutamente inconciliabile con l'art. 32,
comma 2, Cost., che ammette eccezionalmente
l’imposizione di interventi medici solo se utili alla
salute (anche) dell’obbligato, e purché rispettosi
della “persona umana”. Quel parametro costituzionale si oppone, dunque, anche a un qualunque tentativo ermeneutico di considerare un simile dovere
sottinteso all’art. 6, co. 3; d’altronde l’art. 32, comma 2, prescrive che il trattamento sanitario obbligatorio sia determinato per legge, quindi non si accontenta certo di previsioni implicite (9). Questa
conclusione è ulteriormente supportata dalla giurisprudenza della Corte Edu (dunque imposta anche
ex art. 117 Cost.), stando alla quale dall’art. 8 Cedu può trarsi un diritto a non diventare genitori,
valido anche nei confronti di un embrione in vitro
già prodotto (10). Al sancito divieto di revocare il
consenso dopo la fecondazione deve giocoforza attribuirsi altro significato, ed è operazione persino
possibile (11).
L’interpretazione costituzionalmente
orientata
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almeno in quei casi, e per quei fini, che permettono il ricorso al c.d. aborto terapeutico, diagnosi e
selezione preimpianto devono essere a maggior ragione consentite. Di talché, tra un’interpretazione
che esclude in ogni caso la possibilità di accedere
a quelle pratiche, considerandole addirittura per
certi versi criminose, ed altra che riconosce il diritto a essere pienamente ragguagliati sullo stato
di salute dell’embrione e la facoltà della donna di
rifiutare una gravidanza sgradita, era la seconda da
preferire, perché essa almeno consentiva (sia pure
in parte: v. infra) quel coordinamento necessario
tra L. n. 40/2004 e L. n. 194/1978 che la diversa
impostazione a priori impediva. A costo, è vero,
di estendere la possibilità di procreazione selettiva
oltre i limiti riconosciuti per l’interruzione di gravidanza, considerata appunto la facoltà di rifiutare
in ogni caso il trasferimento dell’embrione in utero: un esito, tuttavia, di per sé costituzionalmente
compatibile, non esistendo alcun obbligo sovraordinato di vietare o addirittura criminalizzare quel
rifiuto (il quale, anzi, costituisce il riflesso necessario dell’art. 32, comma 2, Cost.) (14).
L’interpretazione in questo senso costituzionalmente adeguata non era, però, priva di risvolti problematici, per gli stessi motivi che rendevano le contrapposte impostazioni in realtà non prive di suggestioni. Non era cosi semplice, insomma, liberare le
menti dalla netta impressione che il fantasma avesse una pur parziale consistenza, e potesse anche essere evocato da un qualche magistrato; specialmente le menti dei medici, che nel dubbio continuavano ad astenersi, temendo di incorrere in sanzioni
(o in sgradevoli ripercussioni per le strutture sanitarie presso le quali lavoravano, che rischiavano di
vedersi revocata l’autorizzazione a praticare la fecondazione assistita).
Vi era prima di tutto la questione di principio: bisognava essere ragionevolmente sicuri che l’embrione non fosse da ritenersi persona a tutti gli effetti, né centro di imputazione di una dignità non
bilanciabile con altre e contrapposte istanze. Come
vedremo, il procedere degli eventi ha reso tale questione - forse indecidibile - fondamentalmente superflua e in buona misura eludibile (anche se sempre pronta a riproporsi nella sua ingombrante portata); in ogni caso, così formulata, essa appariva e
appare male impostata. Nell’incertezza circa lo statuto giuridico del concepito, sta a chi intende enfatizzarlo dimostrare d’aver ragione, perché egli, in
questo modo, pretende di limitare diritti fondamentali di chi persona lo è senz’altro (nel caso di
specie la salute e la libertà procreativa della donna) (15). Tale onere della prova non può essere rovesciato evocando il principio di precauzione (16),
dato che esso, così come impostato, già risente di
una logica precauzionale che ha a cuore, appunto,
prerogative personalissime degli aspiranti genitori,
e perché comunque il principio di precauzione opera ove vi sia incertezza epistemologica, non valoriale (lo statuto biologico dell’embrione è già adeguatamente definito dalla embriologia; i dubbi riguardano, semmai, la rilevanza giuridica di quell’entità, che è però questione valutativa, non descrittiva) (17).
Ebbene, tentativi di dimostrare una corrispondenza
“giuridica” tra embrione e persona ne sono stati
compiuti, alcuni anche di notevole capacità analitica, portata culturale e tensione umanistica: ma
nessuno, a dire il vero, appare in grado di soddisfare quell’onere dimostrativo (18). Mancano riferimenti chiari alla vita prenatale in Costituzione,
così come non offrono indicazioni a sostegno della
piena soggettività dell’embrione - tutt’altro - le
Convenzioni internazionali (19), la Cedu e la giu-
mano, Principio di laicità dello stato, religioni, norme penali, in
Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 510 ss.; Sanfilippo, La riscrittura,
cit., 859. Analogo problema si evidenziava in Germania, muovendo anche lì dal presupposto che la diagnosi preimpianto
fosse “implicitamente” vietata dall’ Embryonenschuzgesetz del
13 dicembre 1990 (ESchG), così creandosi un contrasto con la
disciplina che consente l’aborto in caso di embriopatie (v. Giwer, Rechtsfragen der Präimplantationsdiagnostik, Berlin, 2001,
111). Sulla successiva evoluzione dell’ordinamento tedesco v.
infra, nt. 59. Gli argomenti da alcuni Autori proposti per dimostrare, invece, la ragionevolezza della diversa considerazione
legislativa di diagnosi e selezione preimpianto, da un lato, diagnosi prenatale e interruzione di gravidanza, all’altro lato, sono
analiticamente e criticamente considerati in Vallini, Illecito, cit.,
295 ss.
(14) Vallini, Illecito, cit., 307 ss.
(15) Lombardi Vallauri, Riduzionismo e oltre, Padova, 2002,
99 ss., 106 s.
(16) Così invece Mantovani, Diritto penale, parte speciale, I,
cit., 23 ss.; Eusebi, Lo statuto dell’embrione, cit., 151.
(17) Vallini, Procreazione, cit., 621.
(18) Rinviamo all’ampia disamina critica nella quale ci cimentiamo in Vallini, Illecito, cit., 173 ss.
(19) Nel quarto principio della Dichiarazione ONU dei Diritti
del fanciullo (20 novembre 1959), e nel quinto punto del
preambolo della Convenzione sui diritti del bambino del 20 novembre 1989, resa da noi esecutiva con L. 27 maggio 1991, n.
176, si valorizza senz’altro la vita prenatale (Mantovani, Tutela
della vita e della persona umana, in Vassalli (a cura di), Diritto
penale e giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, 191 s.).
Da tali fonti non si può, però, dedurre la piena soggettività dell’embrione: Ronfani, Persona, famiglia, genitorialità responsabi-
Un dilemma di fondo: lo statuto giuridico
dell’embrione umano
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risprudenza della Corte di Strasburgo (20), il diritto
dell’Unione Europea (che d’altronde può interessarsi della questione soltanto per i suoi riflessi su
istituti rientranti nella competenza dell’Unione
stessa, come i brevetti in materia biotecnologica) (21). La Carta fondamentale espressamente
considera la maternità (art. 31 Cost.), concetto
comprensivo anche della gravidanza: relazione biologica di cui il concepito è parte (non però l’embrione in vitro di cui la donna non voglia l’impianto), e che corrisponde, a un tempo, a un interesse
soggettivo dell’aspirante madre e a un interesse og-
gettivo alla riproduzione della vita umana, senza
che ciò implichi logicamente il riconoscimento di
una soggettività prenatale (22). La Corte costituzionale, in materia di interruzione volontaria di
gravidanza (ma anche di PMA), ha ricondotto la
tutela del concepito all’art. 2 Cost. - un’affermazione più volte ribadita, ma dalle implicazioni non
chiarissime (v. infra) - sempre però precisando che
le prerogative di chi “persona ancora deve diventare” sono recessive rispetto a quelle della donna,
che persona è già (23).
le: continuità e innovazione nel diritto dell’età della tecnica, in
Carusi - Castignone (a cura di), In vita, in vitro, in potenza: lo
sguardo del diritto sull’embrione, Torino, 2011, 39; Maffei, La
tutela internazionale dei diritti del bambino, in Pineschi (a cura
di), La tutela internazionale dei diritti umani. Norme, garanzie,
prassi, Milano, 2006, 240 s. Nella Convenzione di Oviedo sulla
biomedicina, del 1997, il termine “essere umano” è volutamente generico, per tener conto del difetto di un comune sentire circa lo statuto dell’embrione (Andorno, La tutela della dignità umana: fondamento e scopo della Convenzione di Oviedo, in Furlan (a cura di), Bioetica e dignità umana. Interpretazioni a confronto a partire dalla Convenzione di Oviedo, Milano, 2009, 6; Cataldi, La Convenzione del Consiglio d’Europa sui
diritti umani e la biomedicina, in La tutela internazionale cit.,
592 s.). Manca in particolare, nella Convenzione di Oviedo e
nel relativo Protocollo in tema di clonazione, un divieto di diagnosi e selezione preimpianto: Giwer, op. cit., 148 ss. L’art. 12
stabilisce il divieto di “procedere a dei tests predittivi di malattie genetiche o che permettano sia di identificare il soggetto
come portatore di un gene responsabile di una malattia sia di
rivelare una predisposizione o una suscettibilità genetica a una
malattia se non a fini medici o di ricerca medica, e sotto riserva di una consulenza genetica appropriata”; il §83 del Rapporto esplicativo precisa che “l’art. 12, di per sé, non comporta alcuna limitazione al diritto di procedere a test diagnostici su di
un embrione al fine di determinare se sia portatore di caratteri
ereditari che produrranno una grave malattia nel nascituro”.
(20) La Commissione nega l’applicazione al nascituro dell’art. 2 Cedu (decisione, 13 maggio 1980, W.P. c. Regno Unito,
ricorso n. 8416/78,). La Corte edu assume toni prevalentemente agnostici, riconoscendo ampia discrezionalità agli Stati circa
la qualifica giuridica della vita prenatale, e comunque considerando il rapporto tra “generanti” ed “embrione” espressione
del diritto alla vita privata e familiare (art. 8 Cedu). In questo
quadro, l’embrione non viene qualificato come “altra persona”, ma assume semmai rilievo obiettivo quale referente di
quelle istanze “morali” cui l’art. 8, comma 2, Cedu attribuisce
la funzione di possibile “controinteresse”. V. Evans c. Regno
Unito, 10 aprile 2007; Boso c. Italia, 5 settembre 2002, Vo c.
France, 8 luglio 2004 e A, B e C c. Irlanda, 16 dicembre 2010;
Knecht v. Romania, 2 ottobre 2012. V. ancora Costa e Pavan c.
Italia, 28 agosto 2012, § 62: “La notion d’“enfant” ne saurait
être assimilée à celle d’ “embryon”, nonché Corte Edu, Sez. II,
27 agosto 2015, Parrillo c. Italia, ricorso n. 46470/11, in Dir.
pen. cont., con nota di Tigano, 30 settembre 2015, ove pure si
nega che l’embrione possa essere oggetto di “proprietà” o
“possesso”, ex art. 1 Prot. Cedu n. 1, non essendo un bene patrimoniale (il che ovviamente non significa che l’embrione sia,
allora, persona: v. la dissenting opinion del giudice Sajó). Sul
tema Bestagno, Art. 2, in Bartole - De Sena - V. Zagrebelsky (a
cura di), Commentario breve alla Convenzione Europea per la
salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2012, 56 ss.; De Stefani, Dimensioni del biodiritto
nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani: aspetti
penalistici, in Rodotà e altri (a cura di), Ambito e fonti del biodiritto, Milano, 2010, 662 ss.; Cacace, Identità e statuto dell’embrione umano: soggetto di diritto/oggetto di tutela?, in Riv. it.
med. leg., 2013, 1743 ss.; De Stasi, Alla ricerca di una nozione
giuridica di “embrione umano”: il contributo del judicial dialogue tra Corti internazionali, in Federalismi.it, 2015, 1, 10 ss.
(21) La dignità dell’embrione viene particolarmente valorizzata in Corte di Giustizia UE 18 ottobre 2011, C-34/10, Oliver
Brüstle/Greenpeace eV., ove, interpretando la Dir. 98/44/CE, si
considerano non brevettabili invenzioni che implichino, anche
in una fase preliminare, “la distruzione di embrioni umani o il
loro uso come materiale di partenza”, pure quando il brevetto
- che ha un intrinseca natura industriale e commerciale - sia richiesto a fini di ricerca. L’impatto della decisione è potenzialmente notevole (cfr. Vezzani, Invenzioni biotecnologiche e tutela
dell’ordine pubblico e della morale nel diritto europeo dei brevetti: il caso Brüstle, in Dir. um. dir. int., 2012, 447 ss.; Resta,
Dignità, persone, mercati, Torino, 2014, 61 ss.; Eusebi, Beni
giuridici e generazione della vita. Note alla luce di alcune vicende giudiziarie europee, in Criminalia, 2011, 523 ss.; Valentini,
Biodiritto penale delle invenzioni e laicità europea. Sull’eterno girotondo delle cellule staminali embrionali, in Riv. it. med. leg.,
2015, 979 ss.). La Corte del Lussemburgo precisa, tuttavia,
che la soluzione proposta vale ai soli fini della brevettabilità e
non pretende di condizionare la questione generale dello statuto giuridico dell’embrione, né di negare, in linea di principio, la
liceità della sperimentazione sull’embrione. La decisione è stata poi notevolmente ridimensionata dalla successiva Corte di
Giustizia UE, Grande Sez., 18 dicembre 2014, causa C-364/13,
International Stem Cell c. Comptroller General of Patents, Designs and Trade Marks, almeno per quanto concerne la definizione di embrione. La logica prettamente “mercatoria” di queste decisioni è rimarcata da Meola, Sulla brevettabilità dei gameti femminili non fecondati, in Riv. biodiritto, 2015, 3, 192 ss.
(22) Sviluppiamo questa lettura in Vallini, Illecito concepimento, cit., 198 ss.
(23) Sentt. n. 27 del 18 febbraio 1975; n. 26 del 10 febbraio
1981; n. 35 del 10 febbraio 1997: Pezzini, Inizio e interruzione
della gravidanza, in Il governo del corpo, cit., 2, 1671 ss.; Zanchetti, Interruzione della gravidanza, in Palazzo - Paliero (a cura
di), Commentario breve alle leggi penali complementari, IIed.,
Padova, 2007, 2007, 2012 s. La Corte, con Ord. n. 196 del 20
giugno 2012, ha respinto per difetto di rilevanza una questione
di costituzionalità relativa all’art. 4, L. n. 194/1978 per contrasto, tra l’altro, con l’art. 117, comma 1, Cost., che assumeva
quale “norma interposta” la già cit. Corte di Giustizia UE
“Brüstle c. Greenpeace”. In tema di pma v. C. cost. 8 maggio
2009, n. 151, 5 giugno 2015, n. 96, di cui tratteremo nel testo,
nonché la decisione in commento; v. poi sentt. nn. 46, 47 e 48
del 13-28 gennaio 2005, che, ai fini dell’ammissione di quesiti
referendari, negavano un contenuto “costituzionalmente” vincolato alle norme della L. n. 40/2004 da cui si deduceva il divieto di clonazione terapeutica, di diagnosi preimpianto, o la
stessa soggettività dell’embrione (art. 1 in primis).
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La legge ordinaria propone, a sua volta, indicazioni
non compatibili con la piena o tendenziale equiparazione tra embrione e persona. Prima di tutto la
L. n. 194/1978 - richiamata più volte, con toni
adesivi, dalla L. n. 40/2004 - prospetta termini di
bilanciamento tra vita del feto e salute della gestante incompatibili con l’ipotesi che il primo sia
“uomo” a tutti gli effetti, almeno finché non maturi una “capacità di vita autonoma”. La stessa L. n.
40/2004, nonostante una certa vulgata, non postula
una simile equiparazione: subordina alla nascita
(non al concepimento) l’acquisizione di status familiari (artt. 8 e 9, commi 2 e 3), e non assume
quale valore principale il diritto alla vita dell’embrione (così come, invece, dovrebbe essere preminente, su ogni altra istanza, il diritto alla vita di
una persona), privilegiando semmai l’intangibilità
dei processi riproduttivi, cioè l’esigenza (priva di
copertura costituzionale) che essi non vengano tecnicamente “distratti” da un orientamento che si
suppone “naturale” e, perciò, “preferibile”. In effetti, l’embrionicidio (art. 14, commi 1 e 6) è sanzionato in modo molto più mite dell’omicidio (art.
575 c.p.), ed è sanzionato al pari della crioconservazione, che pur essendo un trattamento utile a
preservare la vita dell’embrione in un contesto extracorporeo è evidentemente avvertita quale forma
di costrizione di quell’entità in una situazione “innaturale”, potenzialmente preliminare ad ulteriori
strumentalizzazioni. Alle fattispecie di sperimentazione corrisponde, invece, una sanzione assai più
elevata (art. 13, commi 1, 3, 4 e 5), pur non essendone elemento costitutivo la morte dell’embrione,
a conferma di come il legislatore preferisca persino
l’estinzione dello zigote, rispetto ad una sua manipolazione tecnica (d’altronde tale estinzione è fenomeno assai frequente anche in processi riproduttivi “naturali”). Opzioni di criminalizzazione che
ovviamente non avrebbero senso, se l’embrione
avesse la stessa dignità giuridica di una persona
adulta. La “soggettività” del concepito di cui tratta
genericamente l’art. 1, L. n. 40/2004, deve dunque
intendersi in termini relativi e peculiari (24).
Vi è infine da considerare l’argomento ontologico,
secondo il quale l’embrione sarebbe biologicamente indistinguibile dal nato, ragion per cui l’attribuzione di uno statuto giuridico minorato contrasterebbe con l’art. 3 Cost. L’embrione, si sostiene, è
un essere caratterizzato da un corredo genetico tipicamente umano, ma distinto da quello di ogni altro individuo della stessa specie, nel quale è già insito il “progetto” della persona adulta, e che al
tempo stesso gli fornisce l’intrinseca e autonoma
capacità di svilupparsi, sicché il passaggio dallo zigote, al feto, al neonato, e così via sino all’adulto
non conoscerebbe soluzione di continuità qualitativamente significativa (né tale potrebbe considerarsi il momento in cui l’essere umano acquisisce la
sensazione del dolore, o addirittura la consapevolezza di sé, ché altrimenti dovremmo egualmente
negare la qualifica di persona a soggetti adulti incapaci o in coma) (25). Ebbene, questa pur seducente
rappresentazione non può essere tuttavia condivisa
per ragioni di metodo, e di contenuto (26). Essa sopravvaluta il contributo che acquisizioni sperimentali possono fornire alla soluzione di una questione
di valore (27), e in ogni caso tralascia di considerare evidenze scientifiche che denotano, invece, nette differenze tra lo statuto biologico dello zigote e
della persona “nata”. In primo luogo, il futuro fenotipo non è rigorosamente ed esclusivamente determinato dal genotipo già presente nell’ovulo fecondato, dipendendo in buona misura da interazioni tra l’embrione impiantato e il corpo della madre (28); interazioni senza le quali, per altro verso,
l’embrione non è affatto “di per sé” capace di svilupparsi, sicché l’utero materno - offrendo un contributo essenziale, infungibile e condizionante l’an
e il quomodo dello sviluppo - non può essere paragonato a un qualsiasi altro “ambiente accogliente”
(24) Vallini, Illecito, cit., 202 ss., 207 ss.; analogamente Losappio, Procreazione assistita, in Commentario breve alle leggi
penali, cit., 2058.
(25) Oltre ai già citt. contributi di Mantovani ed Eusebi, v.
ad es. Palazzo, Persona (delitti contro la), in Enc. dir., XXXIII,
Milano, 1983, 300; Lombardi Vallauri, Terre, Milano, 1989, 156
s.; Serra, L’uomo embrione. Il grande misconosciuto, Siena,
2003, 29 ss.
(26) Sulla differenza concettuale tra “essere (geneticamente) umano” e “persona”: Canale, La qualificazione giuridica della vita umana prenatale, in Il governo del corpo, cit., 1259 s.
L’equiparazione tra le due nozioni è, insomma, una petizione
di principio: Mori, Manuale di bioetica, Firenze, 2010, 151 s.,
158 ss.; Neri, La bioetica in laboratorio, Bari, 2001, 177 s.; Klopfer, Verfassungsrechtliche Probleme der Forschung an humanen
pluripotenten embryonalen Stammzellen und ihre Würdigung
im Stammzellgesetz, Berlin, 2006, 69.
(27) Le scienze sperimentali hanno infatti una funzione descrittiva, non valutativa: Ferrajoli, Diritti fondamentali e bioetica.
La questione dell’embrione, in Ambito e fonti del biodiritto, cit.,
241; Flamigni, La questione dell’embrione. Le discussioni, le polemiche, i litigi sull’inizio della vita personale, Milano, 2010, 221
ss.; Neri, La bioetica in laboratorio, Bari, 2001, 175 ss.; Redi, La
clonazione:aspetti scientifici, in Il governo del corpo, cit., 277;
Vezzoni, Si può clonare un essere umano?, Bari, 2003, 105 s.;
Vineis, Equivoci bioetici, Torino, 2006, 36, 98.
(28) Vineis, op. cit., 3 ss. Il dna non è il “progetto” dell’uomo adulto, semmai ne è la “ricetta”: Dawkins, L’orologiaio cieco. Creazione o evoluzione?, Milano, 2003, 393 ss.
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dove cresce il bambino o invecchia l’adulto (29).
Per tali ragioni appare ben discutibile che l’embrione collocato in ambiente extracorporeo possa considerarsi (biologicamente) individuo anche soltanto in potenza (30). Il destino dell’embrione, anche
se impiantato in utero, è inoltre aperto a possibilità
ben eterogenee, rispetto al destino di un individuo
“nato”: l’embrione è virtualmente anche una nonpersona (31), e più persone. Può, infatti, scindersi
e dar vita a più individui (gemelli omozigoti) - sicché gli manca il requisito della individualità (32) così come può tramutarsi in un tumore, o in una
chimera, anche se la sorte statisticamente del tutto
prevalente consiste nel mancato impianto e nella
estinzione (33).
L’interpretazione costituzionalmente orientata doveva poi confrontarsi con alcuni divieti, forse enfatizzati, nella loro portata, dalle letture di diverso
segno, ma niente affatto immaginari.
Debole ostacolo comportava la citata norma delle
linee guida 2004, disapplicabile dal giudice ordinario se in contrasto con le disposizioni della legge e
le indicazioni della Carta fondamentale. D’altronde, il riconosciuto diritto dei richiedenti a essere
informati sulla salute dell’embrione non può essere
irragionevolmente ridimensionato da un provvedimento ministeriale, che consenta loro di disporre,
al più, di una diagnosi approssimativa, quando invece potrebbero usufruire delle ben più precise indicazioni di un’indagine genetica; col rischio, oltretutto, che le decisioni circa il destino dell’embrione vengano disorientate da informazioni incomplete e inaffidabili, con possibile pregiudizio ai danni
dello stesso concepito. Una disposizione così maldestra era destinata a vita breve: presto dichiarata
illegittima dal Tar (34), non veniva più riprodotta
nelle linee guida successive (del 2008 e del 2015).
Neppure l’articolata disposizione penale dell’art. 13
L. n. 40/2004 frapponeva un reale impedimento (35). La giurisprudenza civile, di cui si è detto,
sommariamente ma correttamente asseriva che tale
norma fosse riferita alla ricerca scientifica sull’embrione, dunque non avesse niente a che fare con
condotte di carattere diagnostico e selettivo funzionali a un protocollo di PMA. Effettivamente, il
concetto di “sperimentazione” si riferisce all’atto di
chi indaga, con metodo scientifico, su dati materiali per comprovare o falsificare un’ipotesi scientifica
(non per compiere un accertamento medico), così
come può considerarsi sperimentale un atto medico
quando ancora non adeguatamente comprovato
nelle sue implicazioni positive e negative (tale non
è la diagnosi preimpianto, non almeno con riferimento alle sue più comuni applicazioni, e men che
mai può esserlo una mera “scelta” di embrioni sulla
base dei risultati di quella diagnosi) (36). Una volta escluso che le condotte in discussione siano riconducibili al primo comma dell’art. 13, esse non
possono ritenersi considerate né dal secondo comma - ove si contempla un’esimente del reato del
primo comma, la quale non può certo attribuire tipicità penale a casi ulteriori rispetto a quelli cui il
primo comma si riferisce - né dal terzo comma, dove si elencano circostanze aggravanti, in quanto tali necessariamente specializzanti la (e non estensive della) fattispecie base cui accedono (37). Che si
tratti di aggravanti, non v’è dubbio alcuno. Esse
vengono così espressamente qualificate dalla legge
(art. 13, comma 4), precisando, oltretutto, che sono privilegiate nel bilanciamento con eventuali attenuanti; il relativo, indeterminato aumento di pena pretende per forza, poi, un rinvio all’art. 63 c.p.,
norma generale in materia di aggravanti (38). Tutte le condotte descritte dal terzo comma devono
(29) V. Neri, op. cit., 24 ss.; Vineis, op. cit., 14.
(30) Sulla scorta di argomenti di questo tenore la Corte interamericana dei diritti umani, con decisione del 28 novembre
2012, Artavia Murillo y otros c. Costa Rica, ha negato l’estensione all’embrione in vitro del diritto alla vita sancito nell’art. 4
della relativa Convenzione americana sui diritti umani (San José, 22 novembre 1969), ove pure tale tutela è, alla lettera, retrocessa fino al momento del concepimento: v. Cappuccio, I
“nuovi diritti” dinanzi alla Corte interamericana, tra la ricerca di
un consenso esterno e l’assenza di margine di apprezzamento,
in www.diritti-cedu.unipg.it., 16 maggio 2014; De Stasi, op. cit.
15 ss.
(31) Anche per vincolo logico: Severino, Sull’embrione, Milano, 2005, 45 ss.; Lombardi Vallauri, Riduzionismo, cit., 105.
(32) Mori, La tutela del pre-embrione formato “in vitro”, in
questa Rivista, 1995, 1435; Flamigni, La questione dell’embrione, cit., 80 s.
(33) Flamigni, Mori, La legge sulla procreazione medicalmente assistita. Paradigmi a confronto, Milano, 2005, 112; Redi,
La clonazione, cit., 277.
(34) T.A.R. Lazio, 21 gennaio 2008, n. 398. Su queste vicende: Dalla provetta alla Corte. La legge n. 40 del 2004 di nuovo a
giudizio, a cura di Bin e altri, Torino, 2008, passim.
(35) Amplius: Vallini, Illecito concepimento, cit., 299 ss.
(36) Cassani, La diagnosi genetica preimpianto e la sua rilevanza penale, in Ind. pen., 2009, 119 ss.; cfr. altresì Forabosco,
op. cit., 1471, 1474 ss.
(37) Per tutti, sia consentito rinviare a Vallini, Circostanze
del reato, in De Francesco (a cura di), Le forme di manifestazione del reato, Torino, 2011, 4.
(38) Su questi criteri, di recente, Basile, Reato autonomo o
circostanza? Punti fermi e questioni aperte a dieci anni dall’intervento delle Sezioni Unite sui “criteri di distinzione”, in Brunelli (a
cura di), Studi in onore di Franco Coppi, I, Torino, 2011, 11 ss.
Scogli superabili dall’interprete: le linee
guida, le fattispecie di sperimentazione
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dunque ritenersi almeno implicitamente connotate
da un requisito di “sperimentalità” che è assente
nelle forme di diagnosi e selezione preimpianto di
nostro interesse. D’altra parte, queste tecniche non
comportano una produzione di embrioni per fini
estranei alla L. n. 40/2004 (l’orientamento è pur
sempre verso una procreazione preceduta da una
diagnosi) (39), né una selezione embrionale che
possa dirsi “eugenetica”, non almeno finché perseguano i medesimi scopi delle pratiche abortive ammesse dalla L. n. 194/1978, la cui liceità è ribadita
dalla L. n. 40/2004, la quale entrerebbe in contraddizione con se stessa, se considerasse quegli scopi
corrispondenti ad una finalità “eugenetica” che altrove stigmatizza. Non costituiscono interventi di
alterazione o predeterminazione del patrimonio genetico dell’embrione, bensì una selezione di embrioni in ragione di loro predate caratteristiche genetiche. Non configurano una clonazione per scissione precoce, quando la diagnosi venga compiuta
su una cellula sottratta ad una blastocisti, dunque
ormai incapace di differenziarsi in un individuo distinto (in ogni caso difetta il fine di ricerca o riproduttivo, essendo la scissione strettamente funzionale a fini diagnostici).
Neanche l’art. 14, comma 1 rappresentava un ostacolo reale. Non almeno rispetto ad un “lasciar
estinguere” l’embrione soprannumerario, che non
integra un reato di embrionicidio per omissione.
Non impedire un evento equivale a cagionarlo solo
ove consti un obbligo giuridico di impedirlo (art.
40, comma 2, c.p.); ebbene, nessuna disposizione
configura un dovere del genere, a carico del sanitario, e a favore dello zigote in vitro. Al contrario, la
L. n. 40/2004 criminalizza l’unica condotta che
consentirebbe di preservare la vita embrionale, vale a dire la crioconservazione (40).
(39) Il Bundesgerichtshof tedesco, con decisione del 6 luglio
2010, 5 StR 386/09, in http://www.hrr-strafrecht.de, ha escluso
l’integrazione del § 1 (1) nr. 2 ESCHG (norma che punisce colui
che attua una fecondazione non animata dall’intento di instaurare una successiva gravidanza) in un caso di PMA accompagnata da diagnosi preimpianto. Tanto la norma tedesca quanto
quella italiana considerano la finalità sussistente al momento
della produzione dell’embrione (non, successivamente, all’esito
della diagnosi).
(40) Vallini, Illecito concepimento, 223 ss.; v. poi 220 s., sulla
mancanza di un obbligo di garanzia anche a carico dei genitori. Id., La diagnosi preimpianto e` un diritto, in Corr. mer., 2013,
435 s., replicando a Eusebi, Problemi aperti circa le condotte incidenti sulla vita umana, in Riv. it. med. leg., 2012, 862. Per
analoghe ragioni, in Germania, il BGH 6 luglio 2010, cit., ha
escluso che il medico possa realizzare, mediante omissione, il
reato di cui al § 2 Abs. ESchG, norma che punisce colui che
utilizza un embrione per uno scopo diverso dalla sua preservazione, e dunque comprende la soppressione dell’embrione
(Günther, §2, in Günther, Taupitz, Kaiser, Embryonenschutzge-
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I limite degli embrioni producibili e il
divieto di accesso a coppie fertili:
l’intervento delle Corti
Difficilmente eludibili in via ermeneutica, invece,
altre due prescrizioni, che se non comportavano
l’illiceità tout court di diagnosi e selezione preimpianto, comunque ne ostacolavano la concreta praticabilità o ne ridimensionavano l’utilità. Si fa riferimento al reato di sovrapproduzione embrionaria
(art. 14, commi 2 e 6), e alle norme che limitavano l’accesso alla procreazione assistita alle sole coppie sterili o infertili (artt. 1 e 4, comma 1).
Il primo impediva di adeguare le pratiche in esame
alle migliori raccomandazioni tecniche, fecondando un numero significativo di ovuli, così da aumentare ragionevolmente la probabilità che almeno alcuni embrioni, tra i diversi prodotti, fossero
immuni dalla patologia trasmissibile dai genitori.
Non potendo rimediare l’interprete al chiaro disposto dell’art. 14, comma 2, si attendeva la Consulta;
la quale, in effetti, dichiarava incostituzionale il limite massimo di embrioni producibili e trasferibili
con sent. n. 151/2009 (41), che originava sì da ordinanze di rimessione riferite a casi di diagnosi
preimpianto, e però si appoggiava ad argomentazioni di altra e più generale portata. In specie, la Corte rilevava come quel limite massimo, rigidamente
prestabilito dal legislatore, impedisse l’adeguamento del protocollo riproduttivo alle variabili peculiarità del caso concreto, così ostacolando la discrezionalità tecnica del sanitario, con rischi irragionevoli per la salute della donna (42) (bene prevalente
sulle supposte prerogative dell’embrione, comunque già relativizzate dalle pratiche di PMA consentite dalla legge, le quali, per loro stessa natura,
mettono in conto il sacrificio di alcuni ovuli feconsetz, Stuttgart, 2008, 220).
(41) Corte cost. 8 maggio 2009, n. 151, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2009, 928, nota Dolcini, Embrioni nel numero “strettamente necessario”: il bisturi della Corte costituzionale sulla legge
n. 40 del 2004.
(42) V. già Canestrari, Procreazione, cit., 421; Dolcini, Embrione, pre-embrione, ootide: nodi interpretativi nella disciplina
della procreazione medicalmente assistita, in Riv. it. dir. proc.
pen. 2004, 452 ss., 464, 471; Risicato, Lo statuto punitivo, cit.,
679 ss.; Tripodina, Studio sui possibili profili di incostituzionalità
della legge n. 40 del 2004 recante “norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, in Dir. pubbl., 2004, 529 ss.; Vallini, Procreazione, cit., 651 ss. In senso contrario, ritenendola
conforme ad accreditati orientamenti medici: Casini - Casini Di Pietro, op. cit., 239; Eusebi, La vita individuale precoce: soltanto materiale biologico?, in Leg. pen., 2005, 362 ss. (v. tuttavia il Parere della comunità scientifica internazionale sulla legge
italiana sulla pma, in Flamigni, Diario di un laico, Bologna,
2007, 267 ss.).
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dati (43); un’elevata probabilità di estinzione degli
embrioni accompagna, d’altronde, anche la procreazione c.d. naturale). In particolare, non appariva costituzionalmente consentito, ex artt. 3 e 32
Cost., impedire il trasferimento in utero di un numero di embrioni superiore a tre, quando necessario per sopperire a basse probabilità di impianto, o
impedire la produzione di un serbatoio di zigoti
crioconservati cui attingere in caso di mancata gravidanza o aborto prematuro. In caso di fallimento
dei primi tentativi, la donna veniva infatti costretta a sottoporsi da capo al protocollo di PMA, e
dunque esposta nuovamente ai rischi della iperstimolazione ormonale.
Così modellato dal dispositivo di incostituzionalità,
l’art. 14, commi 2 e 6, cit. incrimina adesso un eccesso di fecondazioni in vitro rispetto a un limite
elastico desumibile, di volta in volta, dalla scienza
medica in rapporto alle peculiarità del singolo caso
clinico. Una norma siffatta si presta a essere riletta
in termini funzionali all’interpretazione costituzionalmente orientata di cui stiamo discutendo, giacché sulla definizione di quel limite ben può incidere l’esigenza medica di disporre di un numero di
embrioni adeguato al buon esito di una diagnosi e
selezione preimpianto (44).
Nella sentenza n. 151/2009, e in altre pronunce
successive, la Corte costituzionale si è altresì preoccupata del destino degli embrioni soprannumerari, asserendo che la riconosciuta possibilità di produrne comporti, giocoforza, la necessità di mantenerli in vita e dunque l’introduzione di una eccezione “implicita” al divieto di crioconservazione (45); eccezione che, tuttavia, non è si è tradotta
in una dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice dell’art. 14, comma 1, e quindi
conserva lo statuto di una pur autorevole (ma opinabile) interpretazione (46), che per la sua ragio-
nevolezza pratica ha incontrato il favore di ampia
dottrina (47), ed è alla base delle disposizioni delle
linee guida che prescrivono le modalità di conservazione in azoto liquido (48) (la Corte ha piuttosto
modificato l’art. 14, comma 3, L. n. 40/2004 “nella
parte in cui non prevede che il trasferimento degli
embrioni, da realizzare non appena possibile [...]
debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna”, conservando però il riferimento a
imprevedibili cause di forza maggiore, ostative al
trasferimento, per cui la clausola di liceità continua a non essere applicabile al caso in cui la malattia dell’embrione sia messa in conto fin dall’inizio,
in ragione di note anomalie genetiche di cui la
coppia è portatrice (49)).
Le norme che limitavano l’accesso alla PMA unicamente alle coppie sterili e infertili comportavano,
invece, che diagnosi e selezione preimpianto potessero essere applicate soltanto a chi lamentasse malattie o infermità incidenti sulla capacità riproduttiva, o al limite a chi non riuscisse ad avere figli vivi
e vitali a causa di aborti ripetuti, problemi genetici
o malattie infettive (50). La platea di soggetti a cui
l’accesso a quelle tecniche avrebbe dovuto essere
consentito ex artt. 3 e 32 Cost. - potendo costoro
usufruire, più avanti, di una interruzione volontaria
di gravidanza - appariva tuttavia ben più ampio,
comprendendo altresì coppie portatrici di gravi patologie trasmissibili alla prole, ma capaci di riprodursi naturalmente, come magari dimostrato da precedenti, tragiche esperienze di figli sofferenti a causa
della malattia, o di aborti attuati per evitare la nascita di bambini segnati da analogo destino.
Anche su questo fronte, nell’impossibilità per l’interprete di rimediare (51) (potendosi tutt’al più suggerire azioni “in frode alla legge” (52)), si è atteso, e
puntualmente si è ottenuto, l’intervento delle Corti.
È stata la Corte Edu la prima a pronunciarsi nel
(43) Sul punto: Manetti, La sentenza sulla PMA, o del legislatore che volle farsi medico, in www.costituzionalismo.it, 28
maggio 2009.
(44) Trib. Bologna, Ord. 29 giugno 2009, in www.altalex.com; Trib. Salerno 9-13 gennaio 2010, in Fam. e dir., 2010,
476, note Segni; La Rosa.
(45) V., successivamente, Corte cost., Ord. n. 97 del 17
marzo 2010, nonché la stessa decisione che qui annotiamo.
(46) Vallini, Illecito, cit., 240 ss.
(47) Ad es., Busnelli, Rilevanza giuridica della vita prenatale,
categorie civilistiche, principi costituzionali, in In vita, in vitro, cit.,
33 s.; Dolcini, Embrioni, cit., 960 s.; Eusebi, Problemi aperti, cit.,
860 ss.; Sanfilippo, La riscrittura giurisprudenziale, cit., 855.
(48) Cfr. altresì la Relazione finale della Commissione ministeriale di studio sugli embrioni crioconservati nei centri di procreazione medicalmente assistita, 8 gennaio 2010, in www.salute.gov.it (presieduta da Francesco D’Agostino e istituita il 25
giugno 2009).
(49) Vallini, Illecito, cit., 231 ss., 241 s.
(50) Flamigni, Mori, La legge sulla procreazione assistita, cit.,
60.
(51) Nonostante il contrario parere di Trib. Salerno 9 gennaio 2010, cit., che spacciava per interpretazione costituzionalmente orientata un’indebita disapplicazione di una norma di
legge: D’Amico, La decisione n. 151 del 2009 della Corte costituzionale fra aspetti di principio e ricadute pratiche, in Nascere e
morire, cit., 138; Dolcini, La procreazione medicalmente assistita: profili penalistici, in Il governo del corpo, cit., 2, 1576; Ferrando, La riscrittura costituzionale e giurisprudenziale della legge
sulla procreazione assistita, in Fam. dir., 2011, 519.
(52) Per accedere alla PMA è infatti sufficiente lamentare
una sterilità “idiopatica”, cioè senza causa identificata, e però
testimoniata da ripetuti, e fallimentari, tentativi di riproduzione
“naturale”, che per ovvie ragioni solo i diretti interessati potranno certificare: Flamigni, Mori, La legge, cit., 54; T.A.R. Lazio, III quater, 31 ottobre 2007 - 21 ottobre 2008, n. 398.
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2012, con una decisione dirompente, nella quale ha
condannato lo stato italiano a risarcire una coppia
non sterile portatrice sana di mucoviscidosi, cui la
L. n. 40/2004 impediva l’accesso alla PMA e, dunque, alla diagnosi e selezione preimpianto (53). In
quella decisione - che peraltro non teneva conto
dell’interpretazione costituzionalmente orientata ormai consolidatasi nei tribunali, e dunque postulava
l’esistenza di un divieto assoluto - si rimproverava
l’ordinamento italiano di limitare in modo sproporzionato la facoltà di avere un figlio sano, quale
espressione della libertà al rispetto della vita privata
e familiare (art. 8 Cedu). Tale sproporzione nel porre un vincolo in linea di principio consentito (perché attuato in un caso “previsto dalla legge” e in
funzione della salvaguardia di interessi ritenuti meritevoli dall’art. 8, comma 2, Cedu) era rivelata dall’irragionevole discriminazione rispetto alla possibilità di far ricorso alla diagnosi prenatale ed eventualmente all’aborto terapeutico, in presenza di
quelle medesime motivazioni, e per il conseguimento dei medesimi fini, che spingevano la coppia a
chiedere la diagnosi preimpianto.
Il dispositivo della Corte europea, operando ex art.
117 Cost., rafforzava l’interpretazione costituzionalmente orientata, rendendolo anche “convenzionalmente adeguata” (54); e però ancora non consentiva ai Tribunali di disapplicare il limite in questione, offrendo loro, al più, un ulteriore argomento a supporto di una questione di costituzionalità (55). In effetti, attesa e implacabile è arrivata, di
recente, la sentenza del Giudice delle Leggi n.
96/2015, che senza neppure richiamare l’art. 117
Cost. - sufficienti allo scopo sono infatti apparsi gli
artt. 3 e 32 Cost., per le ragioni ormai più volte
rammentate - ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, L.
n. 40/2004, nella parte in cui non consentivano il
ricorso alle tecniche di PMA alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1,
lett. b), L. n. 194/1978, accertate da apposite strutture pubbliche (56). Viene con questa sentenza
perfezionato, insomma, quel coordinamento ancora
difettoso tra la disciplina della PMA e quella della
IVG.
Non chiarissimo il motivo per cui si sia operato un
paragone, tuttavia, con l’interruzione volontaria di
gravidanza oltre i novanta giorni di gestazione, e
non con quella ben più agevolmente praticabile
nei primi novanta giorni; così, all’apparenza, rendendo irragionevolmente più arduo accedere a fecondazione artificiale, diagnosi e selezione pregestazionali, che non già all’aborto in una fase precoce della gravidanza. I giudici costituzionali hanno
probabilmente riscontrato la difficoltà di estendere,
mediante una sentenza manipolativa, le condizioni
strettamente procedurali di cui agli artt. 4 e 5, L.
n. 194/1978, calibrate su di una gestazione già in
atto, al diverso fenomeno della PMA. I presupposti
per accedere alla interruzione volontaria di gravidanza dopo i primi novanta giorni sono più rigorosi, ma anche strutturalmente più semplici, consistendo fondamentalmente nella certificazione medica di una grave patologia o malformazione fetale,
tale da mettere gravemente a repentaglio la salute
della madre; certificazione praticabile, mutatis mutandis, anche al momento della domanda di fecondazione artificiale, assumendo in tal caso i tratti di
una diagnosi genetica preconcezionale (volta a identi-
(53) Corte Edu, Sez. II, 28 agosto 2012, , Costa - Pavan c.
Italia, ricorso n. 54270/10, in Dir. pen. cont., 9 novembre 2012,
nota Verri, divenuta definitiva l’11 febbraio 2013, dopo il rigetto in via preliminare del ricorso italiano alla Gran Camera. Una
decisione quasi scontata (e presa all’unanimità), ma che suscita, comunque, alcune perplessità: Malfatti, La Corte di Strasburgo tra coerenze e incoerenze della disciplina in materia di
procreazione assistita e interruzione volontaria della gravidanza:
quando i “giochi di parole” divengono decisivi, in Riv. AIC,
www.rivistaaic.it, 2012, n. 3, 2 ss,; Nardocci, La Corte di Strasburgo riporta a coerenza l’ordinamento italiano, fra procreazione artificiale e interruzione volontaria di gravidanza. Riflessioni a
margine di Costa e Pavan c. Italia, ivi, 2013, n. 1, 8 ss.; Repetto,
“Non di sola CEDU ...”. La fecondazione assistita e il diritto alla
salute in Italia e in Europa, in Dir. pubb., 2013, 143 ss.
(54) Trib. Cagliari, Ord. 9 novembre 2012, in Corr. mer.,
2013, 429, nota Vallini, La diagnosi preimpianto, cit.
(55) In realtà il Tribunale di Roma, chiamato a chiudere la
vicenda degli stessi coniugi che avevano fatto ricorso a Strasburgo, quasi atteggiandosi a “giudice dell’esecuzione” della
decisione della Corte Edu discutibilmente (ma con argomenti
non del tutto peregrini) disapplicava le norme che precludeva-
no l’accesso alla PMA e diagnosi genetica preimpianto: Ord.
23 settembre 2013, in Dir. pen. cont., 16 dicembre 2013, sulla
quale Ruggeri, Spunti di riflessione in tema di applicazione diretta della CEDU e di efficacia delle decisioni della Corte di Strasburgo, in Diritti comparati, 8 ottobre 2013; Vallini, Ardita la rotta o incerta la geografia? La disapplicazione della legge 40/2004
“in esecuzione” di un giudicato della Corte Edu in tema di diagnosi preimpianto, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2014, 251 ss.;
Iadicicco, La diagnosi genetica preimpianto nella giurisprudenza
italiana ed europea. L’insufficienza del dialogo tra le Corti, in
Quad. cost., 2015, 333 ss. Lo stesso giudice capitolino, in relazione a due casi analoghi, sollevava successivamente la questione di costituzionalità che si traduceva nella sent. n.
96/2015 (Oord. del 15 gennaio e del 28 febbraio 2014).
(56) Corte cost. 5 giugno 2015, n. 96, in Dir. pen. cont., nota
di Viganò, Fecondazione assistita per coppie fertili portatrici di
malattie geneticamente trasmissibili (e una chiosa finale sulla
questione della diretta applicazione della CEDU), 8 giugno
2015, e in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 1453, nota Vallini, Il curioso (e doloroso) caso delle coppie fertili portatrici di malattie
ereditarie, che potevano ricorrere all'aborto, ma non alla diagnosi e selezione preimpianto.
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ficare mutazioni genetiche e probabilità di trasmissione a un concepito che ancora non esiste), alla
quale si accompagnerà una pura prognosi (per forza
di cose) circa future ripercussioni di quella patologia del figlio sulla salute della donna. Pura prognosi
che non potrà non essere prevalentemente condizionata dal vissuto soggettivo della stessa interessata, così molto avvicinandosi, nei fatti, a quella prescritta dagli artt. 4 e 5, L. n. 194/1978.
Fosse pure soltanto per un’astuzia della ragione, la
Consulta ha dunque ottenuto la quadratura del
cerchio: ha garantito la serietà, quanto a statuto
nosografico, delle patologie trasmissibili che giustificano la richiesta della coppia fertile, ma al tempo
stesso ha subordinato ad una previsione venata di
soggettivismi il requisito del pericolo per la salute
della donna, così opportunamente assimilando le
condizioni di accesso alla diagnosi e selezione
preimpianto a quelle che consentono l’aborto nei
primi novanta giorni (57). Certo, il concetto di
“grave malattia genetica trasmissibile” rimane in
certa misura indeterminato; da qui l’auspicio, in
sentenza - peraltro condiviso da buona parte della
dottrina (58) - a che il legislatore introduca “apposite disposizioni al fine della […] individuazione
(anche periodica, sulla base della evoluzione tecnico-scientifica) delle patologie che possano giustificare l’accesso alla PMA di coppie fertili e delle
correlative procedure di accertamento (anche agli
effetti della preliminare sottoposizione alla diagnosi
preimpianto) e di una opportuna previsione di forme di autorizzazione e di controllo delle strutture
abilitate ad effettuarle (anche valorizzando, eventualmente, le discipline già appositamente individuate dalla maggioranza degli ordinamenti giuridici
europei in cui tale forma di pratica medica è ammessa)”. Colpisce come le Linee guida approvate il
1° luglio 2015 non solo ignorino del tutto tali sollecitazioni - anzi, la stessa esistenza della sent. n.
96/2015! - ma addirittura prescrivano che “le indagini relative allo stato di salute degli embrioni […]
dovranno sempre essere volte alla tutela della salute e dello sviluppo di ciascun embrione”, quasi a
negare la possibilità di una selezione. Un’ultima
prova di resistenza all’ormai ampia e irreversibile
apertura delle Corti, velleitariamente tentata con
un provvedimento ministeriale?
Ad ogni modo, con questa decisione, nel mentre si
demoliva l’ultimo impedimento alla piena implementazione di una lettura costituzionalmente e
convenzionalmente orientata, su ogni altro fronte
sembrava assumersi implicitamente come valida e
acquisita quella lettura. Si dava infatti per scontato
che, una volta avuto accesso alla PMA, le coppie
fertili portatrici di anomalie genetiche potessero ricorrere a diagnosi e selezione preimpianto. Il fantasma, se mai era esistito, sembrava insomma definitivamente esorcizzato.
(57) Vallini, op. ult. cit., 1480 ss.
(58) Ad es. Ferrando, La riscrittura, cit., 520; Iadicicco, op.
cit. 340 ss. In Germania analoghe le premesse, diversi gli sviluppi. In origine si riteneva impraticabile la dgp, pur in mancanza di un divieto esplicito nel ESchG, e pur esistendo, paradossalmente, la possibilità di ricorrere alla interruzione volontaria di gravidanza in caso di malformazioni embrionali (Böcher, Präimplantationsdiagnostik und Embryionenschutz, Göttin-
gen, 2004, 73 ss.; Günther, §2, cit., 221 ss.). A seguito di BGH,
6 luglio 2010, cit., che invece escludeva l’illiceità della tecnica
(supra, nt. 40 e 41, il Bundestag (con L. 21 novembre 2011) introduceva un §3a nella ESchG, ove si delineano i presupposti
di praticabilità della dgp, tra i quali il parere di un’apposita
commissione etica.
(59) Ord. 3 aprile 2014.
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Eccesso di zelo della Consulta?
L’incostituzionalità della fattispecie di
selezione eugenetica…
Perché, allora, la decisione in commento?
Essa origina da un procedimento, per una volta,
penale. Alcuni medici che operavano diagnosi e
selezioni preimpianto (senza crioconservazione degli embrioni soprannumerari) vengono rinviati a
giudizio per il reato di associazione per delinquere
finalizzata alla produzione di embrioni per scopi diversi da quelli previsti dalla L. n. 40/2004, alla selezione embrionaria con finalità eugenetiche, all’embrionicidio. Il Tribunale di Napoli rimette la
questione alla Corte costituzionale, ritenendo irragionevole che assumano rilevanza penale condotte
la cui necessaria legittimità è ormai riconosciuta
dalla Corte Edu e dalla Corte costituzionale, in ragione degli artt. 3 e 32 Cost., 117 Cost. e 8 Cedu.
Presupposto di questa scelta è che non sia percorribile un’esegesi adeguatrice delle disposizioni citate:
affermazione in certa misura contraddittoria, visto
che nella stessa ordinanza di rimessione si dà ampiamente conto di come una interpretazione costituzionalmente orientata, al riguardo, fosse da tempo praticata in giurisprudenza (59).
In effetti, si può non convenire con la lettura che
abbiamo in questa sede ribadito, secondo la quale a
condotte come quelle oggetto di imputazione l’art.
13, comma L. 40/2004 non è applicabile, non costituendo esse sperimentazione scientifica; sicché, a
fortiori, alle stesse non si riferiscono neppure le fat-
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tispecie del comma 3, in quanto circostanze aggravanti della figura criminosa del comma 1 (supra).
Si può non concordare, altresì, con l’idea che
egualmente non sia applicabile la fattispecie di embrionicidio, realizzabile per omissione solo ove
consti un obbligo impeditivo dell’evento (supra).
Con argomenti del genere, però, ineludibili sul piano strettamente tecnico-penalistico, il Tribunale
avrebbe dovuto almeno confrontarsi. Invece, in
tutta l’ordinanza non compare il concetto di “circostanza aggravante”, di “posizione di garanzia”, di
“obbligo di impedimento”. Il giudice partenopeo
neppure prova a trar spunto da frequenti e non trascurabili indicazioni interpretative secondo le quali, in ogni caso, diagnosi e selezione preimpianto,
attuate nelle stesse situazioni in cui potrebbe ricorrersi ad aborto terapeutico, non implicano una produzione di embrioni per fini “diversi” da quelli propri della L. n. 40/2004, né possono ritenersi “eugenetica” in senso stretto (60).
Si può certo immaginare che il giudice non abbia
voluto risolvere in via interpretativa la questione,
perché sperava in un più efficace e vincolante intervento chiarificatore della Corte costituzionale.
Se così è, sorprende allora che non sia stata la Corte a rispondere, ad esempio, con una sentenza interpretativa di rigetto. Anche nell’apparato motivazionale della sent. n. 229/2015, assai sommario,
non si riconosce la natura circostanziale delle fattispecie impugnate, non ci si pone il problema della
realizzabilità per omissione del reato di embrionicidio, né si considerano i contenuti dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente
orientata sostanzialmente confermati dalla stessa
Corte costituzionale nella sent. n. 96/2015.
Si prende insomma per buona la rilevanza penale
di quelle condotte, e si dichiara incostituzionale
l’art. 13, comma 3, lett. b), e 4, L. n. 40/2005,
“nella parte in cui contempla come ipotesi di reato
la condotta di selezione degli embrioni anche nei
casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad
evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lett. b), L. 22 maggio 1978, n. 194 […] e accertate da apposite strutture pubbliche”. È come se
la Corte volesse portare sbrigativamente a compi-
mento un’operazione inaugurata, ed ampiamente
impostata, con la sent. n. 96/2015, alle cui motivazioni infatti fa integrale rinvio, soltanto affermando che “quanto è divenuto […] lecito, per effetto
della suddetta pronunzia additiva [appunto la
96/2015] non può dunque - per il principio di non
contraddizione - essere più attratto nella sfera del
penalmente rilevante” (così, in realtà, contraddicendosi, poiché se la precedente decisione aveva
reso lecite diagnosi e selezione preimpianto, queste
condotte già dovevano ritenersi escluse dalla “sfera
del penalmente rilevante”, ché altrimenti lecite
non potevano ritenersi).
La Consulta dichiara invece non fondata la questione di costituzionalità relativa al reato di embrionicidio. Il senso di questa opzione, come chiarito nelle motivazioni, sta nel ribadire una volta di
più che gli embrioni soprannummerari non possono che essere crioconservati, in virtù di un’implicita deroga all’art. 14, comma 1, L. n. 40/2004.
Potremmo chiosare: poco male. Anzi, è meglio che
la Corte abbia, con una pronuncia di incostituzionalità, reso ancor più evidente l’inapplicabilità dell’art. 13 alle condotte in questione (vista tra l’altro
l’ambiguo contenuto delle linee guida 2015: supra).
A questo punto i medici non avranno davvero più
motivi di preoccupazione (61). Sul piano strettamente pratico il risultato di questa sentenza sarà,
in effetti, prevalentemente benefico, ed è stato
non a caso salutato con letizia da associazioni che
da tempo combattono, in sede politica e giudiziaria, per la “demolizione” della L. n. 40/2004 (62).
A chi però è tenuto a mantenere sulle cose uno
sguardo, sinché possibile, squisitamente tecnico, la
scelta della Consulta è motivo di talune perplessità. Prima di tutto non si comprende quali conseguenze ne debba trarre l’interprete costretto a ricucire il tessuto sistematico della L. n. 40/2004. Ammettiamo pure che il concetto di “eugenetica” fosse - prima della sent. n. 229/2015 - potenzialmente
applicabile alla selezione preimpianto volta non
già a migliorare la “razza”, o a ottenere figli alti e
belli, bensì a prevenire forme di gravidanza legittimamente interrompibili ai sensi della L. n.
194/1978, in ragione di malattie e malformazioni
del feto suscettibili di pregiudicare la salute della
madre: la vaga portata semantica di quel concetto
(60) Sia consentito rinviare, per tutti, a Vallini, Illecito, 299
del rifiuto di prestazione impugnato presso Trib. Bologna 29
giugno 2009, cit.
(62) Http://www.associazionelucacoscioni.it/rassegnastampa/fecondazione-assistita-la-consulta-non-reato-selezionare-embrioni-sani.
ss.
(61) Proprio il permanere del divieto di eugenetica avrebbe
distolto molti centri di PMA dal procedere alla diagnosi e selezione preimpianto, anche dopo la sent. n. 151/2009 della Corte
costituzionale: Dolcini, Embrioni, 962. Vedi, in effetti, le ragioni
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si presta, volendo, a una simile operazione ermeneutica (63). Quel che davvero non si può ammettere è che le ipotesi dell’art. 13, comma 3, siano figure autonome di reato (v. supra), o che una fattispecie circostanziale possa non essere unilateralmente speciale rispetto alla fattispecie criminosa
cui accede, comprendendo situazioni a quest’ultima
non riconducibili. Rimangono, dunque, tre sole
possibili letture: o intendiamo la decisione 96/2015
come se avesse, in realtà, un contenuto meramente
interpretativo, cioè confermativo dell’esegesi già
praticabile (così tradendo, però, le chiare intenzioni del redattore e il chiaro tenore del dispositivo);
o estendiamo il concetto di “sperimentazione”, di
cui al primo comma, sino a ricomprendervi qualsiasi “manipolazione” dell’embrione anche a scopo
diagnostico o preventivo, di conseguenza ampliando l’ambito applicativo dell’art. 13, comma 3, nei
termini postulati dalla Corte; o, viceversa, riduciamo la portata del dispositivo della sentenza, ritenendola implicitamente riferita a puntuali ipotesi
di diagnosi e selezione preimpianto che abbiano,
per motivi specifici, quel carattere di sperimentalità preteso dal primo comma.
Seguendo quest’ultimo approccio, il dispositivo
della sent. n. 229/2015 varrebbe, ad esempio, solo
per applicazioni di (diagnosi e) selezione preimpianto di cui non siano ancora pienamente chiare
implicazioni e potenzialità, come potrebbe accadere quando non sia del tutto provata - e però sia ragionevolmente temuta dai medici e dalla coppia l’incidenza di una certa caratteristica genetica sull’insorgenza di una certa malattia, o nel caso in cui
dette pratiche presentino ancora un margine significativo di errore, rispetto alla individuazione di
una peculiare mutazione genetica. A meno di non
ritenere (ulteriore, possibile opzione ermeneutica)
i protocolli di diagnosi e selezione preimpianto, in
quanto tali, intrinsecamente sperimentali: ipotesi da
taluno pure sostenuta (64), ma che sembra con-
traddire la chiara convinzione, in ambito medico,
che certe applicazioni almeno siano ormai ampiamente comprovate (65).
La lettura estensiva dell’art. 13, invece, sebbene
proposta anche in dottrina (v.supra), ci sembra contrasti col principio di tassatività della norma penale.
È davvero arduo dilatare una nozione lessicalmente
e concettualmente pregnante come quella di sperimentazione sino a comprendervi una qualsivoglia
“manipolazione” dell’embrione, senza varcare il labile confine che distingue l’interpretazione estensiva
dalla analogia in malam partem. Se scegliamo questa
strada, andiamo a disegnare margini applicativi dell’art. 13 e, di conseguenza, delle sue aggravanti assai
poco contenitivi, così attraendo nell’area del penalmente rilevante tutta una serie di situazioni che, altrimenti, non vi rientrerebbero. In certi casi l’esito
può essere anche positivo: così, si farà criminosa (e
aggravata) ogni forma di procreazione selettiva non
strettamente sperimentale, e però eugenetica, non
legittimata dalla sent. n. 96/2015, come ad esempio
quella volta unicamente a selezionare il sesso o le
caratteristiche fisiche del nascituro in assenza di
qualsiasi indicazione medico-sanitaria (66). Meno
apprezzabile che venga a qualificarsi senz’altro come
criminosa una selezione embrionale orientata a far
nascere un figlio geneticamente compatibile con altro già in vita, così che quest’ultimo possa disporre
di un donatore di cellule staminali utili a guarirlo
da una grave patologia (67).
Ma, soprattutto, siamo davvero certi che la decisione della Corte, così intesa, non faccia rientrare dalla
porta quel che ha fatto uscire dalla finestra? A stretto rigore (pur sottacendolo) detta decisione rende
inapplicabile una aggravante: ma una condotta non
più riconducibile ad una fattispecie circostanziale
(speciale), può comunque mantenere rilevanza alla
stregua della fattispecie base (generale). Non ci stupirebbe, allora, se taluno argomentasse proprio dal
dispositivo della 96/2015, per sostenere che esso in-
(63) Lo negavano, peraltro, gli stessi Casini - Casini - Di Pietro, op. cit., 217; cfr. altresì Baldini, Procreazione assistita, cit.,
310, n. 38; Flamigni - Mori, La legge, cit. 129 ss.; Manna, La
tutela penale, cit., 349; Cassani, La diagnosi genetica preimpianto, cit., 114 ss., spec. nt. 801; da ultimo e per tutti Borsari,
Profili penali della terapia genica, in Il governo del corpo,
cit., 554.
(64) Casini - Casini - Di Pietro, op. cit., 206, che parlano più
precisamente di pratica “non routinaria” (il che però di per sé
non significa che essa sia “sperimentale”).
(65) Cassani, La diagnosi genetica preimpianto, cit., 119 ss.,
con rinvii a pubblicazioni scientifiche; cfr. altresì Forabosco,
op. cit., 1471, 1474 ss. Nel documento di base sulla diagnostica preimpianto e prenatale, prodotto il 22 novembre 2010 dal
Comitato direttivo per la bioetica (CDBI) del Consiglio d’Euro-
pa, si afferma che “dans les pays où le D.P.I. est pratiqué, il
est devenu une méthode clinique bien établie” (corsivi nostri).
(66) Schuster, La procreazione selettiva, in Il governo del corpo, cit., 2, 1415; Dolcini, La procreazione, cit., 1567.
(67) Una procedura del genere, fosse pure non strettamente sperimentale, in virtù di questa lettura sarebbe tipica, se
non altro, ai sensi dell’art. 13, comma 1. In ogni caso stentiamo a considerarla connotata da una finalità eugenetica (con
conseguente aggravamento di pena ex art. 13, comma 3, lett.
b), mancando l’intento di ottenere un figlio corrispondente a
certi standard (per quanto opinabili) di perfezione, e solo ricercandosi una compatibilità genetica con altro individuo. Cfr.
Musio, Misure di tutela dell’embrione, in Stanzione - Sciancalepore (a cura di), Procreazione assistita, Milano, 2004, 249.
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Non meno problematiche appaiono le argomentazioni della Corte per quel che riguarda l’asserita
compatibilità costituzionale della fattispecie di embrionicidio, nella parte in cui comprende condotte
finalizzate “ad evitare l’impianto nell’utero della
donna degli embrioni affetti da malattie genetiche”
(parte che il giudice a quo chiedeva di censurare).
Questa decisione, lo si è detto, è coerente con la
convinzione, già in passato argomentata (e in specie
nella sent. n. 151/2009), che gli zigoti residuati da
una PMA con sovrapproduzione embrionale possano - e non possano che essere - crioconservati, nonostante il generale divieto penale ancora contenuto nell’art. 14, commi 1 e 6 (e nonostante la non riferibilità, al caso specifico, dell’esimente del comma
3, per le ragioni già ricordate). Gli embrioni esclusi
dall’impianto in quanto “malati” non sarebbero qualificabili come mero materiale biologico, né sarebbero perciò meno meritevoli di rispetto degli embrioni
sovrannumerari: anche per essi unico destino praticabile sarebbe, dunque, la preservazione in azoto liquido, implicitamente ed eccezionalmente lecita.
Non si capisce perché, anche in questa occasione,
la Consulta non abbia voluto “esplicitare” tale supposta deroga a una fattispecie criminosa, estendendo l’oggetto del giudizio al reato di crioconservazione per poi modificarlo con pronuncia additiva. Ad
ogni modo, forte di tale convinzione, la Corte ritiene fuor di luogo incidere sulla figura tipica dell’embrionicidio, al fine di rendere praticabile la selezione preimpianto. Al contrario, in quella incriminazione si esprimerebbe un esercizio di discrezionalità punitiva del legislatore contenuto entro i li-
miti della ragionevolezza, posto che all’embrione
bisogna riconoscere una dignità rilevante ex art. 2
Cost., “suscettibile di “affievolimento” (al pari della tutela del concepito: sent. n. 27 del 1975) […]
solo in caso di conflitto con altri interessi di pari
rilievo costituzionale (come il diritto alla salute
della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti”. Ebbene, nel
caso di specie “il vulnus alla tutela della dignità
dell’embrione (ancorché) malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova
[…] giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista”.
Questo passaggio è di grande rilievo, ed è come se
fosse rivolto al futuro. Dal passato dipende relativamente: nella sent. n. 151/2009, che pure viene
richiamata quale precedente conforme, in realtà
non si affermava che il valore dell’embrione soprannumerario, per quanto bilanciabile, potesse essere tratto dall’art. 2 Cost. (diversamente si asseriva che nella L. n. 40/2004 “la tutela dell’embrione
non è […] assoluta, ma limitata dalla necessità di
individuare un giusto bilanciamento con la tutela
delle esigenze di procreazione”), né si operava un
richiamo alle sentenze in tema di interruzione volontaria di gravidanza, che trattano, per la precisione, del feto in gestazione. È dunque nella sentenza
in commento che, per la prima volta, si afferma
un’almeno tendenziale equiparazione tra il concepito che già si sta sviluppando nel corpo della madre e l’embrione in vitro, malato o non malato,
prossimo al trasferimento o rifiutato dai generanti.
Un’affermazione all’apparenza impegnativa, forse
non indispensabile per constatare la “non manifesta irragionevolezza” dell’incriminazione, e probabilmente pensata per preparare la prossima decisione, con la quale il giudice delle leggi dovrà misurare la tenuta costituzionale degli artt. 6, commi 3, e
13, L. n. 40/2004, rispetto agli artt. 3, 9, 13, 32 e
33 Cost., e dunque provvedere a un bilanciamento
davvero inedito: su un piatto della stadera, il valore dell’embrione in vitro malato, non più utilizzabile per la procreazione e incapace di sviluppo, che i
generanti vogliano riservare alla ricerca scientifica;
sull’altro piatto non più, come consueto, la salute
della donna, bensì la libertà dei generanti di disporre del loro embrione anche per fini non riproduttivi e il valore della ricerca scientifica funzionale all’evoluzione medica e, dunque, alla salute quale interesse della collettività (68).
(68) Trib. Firenze, n. 4942 del 7 dicembre 2012. Il giudice a
quo censura l’irragionevolezza di un divieto che, predisponen-
do in assoluto la prevalenza di un interesse alla non manipolazione dell’embrione se non per fini riproduttivi, neppure tenta
direttamente conferma la punibilità della (diagnosi
e) selezione preimpianto ai sensi dell’art. 13, comma
1, L. n. 40/2004. Magari sostenendo, al contempo,
l’applicabilità di altre aggravanti non considerate
dalla Corte costituzionale - ma oggetto del rinvio a
giudizio di fronte allo stesso Tribunale di Napoli come quella di produzione di embrioni per fini diversi da quelli ammessi dalla L. n. 40/2004. Ad una
simile, maliziosa lettura - niente affatto peregrina - si
potrebbe tutt’al più contrapporre il senso generale
della sentenza, chiaramente orientato ad escludere
l’applicazione dell’art. 13 tout court.
…ma non del reato di embrionicidio.
Sibilline premesse alla prossima decisione
in tema di ricerca sugli embrioni
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Una affermazione, al tempo stesso, ben poco impegnativa, perché dire che l’embrione assume rilievo
ex art. 2 Cost., e nondimeno la sua tutela è “suscettibile di affievolimento” quando si debbano salvaguardare altri beni “di pari valore” costituzionale,
significa tutto e niente: in questo modo, non si definiscono, né si quantificano, i beni costituzionali
in gioco. L’art. 2 Cost. valorizza un interesse sì fondamentale, ma dalla incerta e controversa portata la dignità (69) - oltretutto riferendolo a una persona (la semantica stessa del concetto di dignità sembra rimandare ad una relazione tra persone) (70),
mentre il concepito, per la Corte, “persona deve
ancora diventare” (d’altronde, se l’avesse mai considerato pari o parificabile a una persona, non ne
avrebbe in più occasioni tanto relativizzato la tutela). È dunque ben difficile comprendere cosa davvero significhi, cosa implichi, quanto pesi, e come
possa essere di volta in volta declinato, quel riferimento “depersonalizzato” al valore simbolico, emo-
tigeno e generico della dignità umana (71). Lecito
è il sospetto che la Corte voglia sentirsi libera di
compiere il bilanciamento che vorrà, nella prossima e annunciata occasione, senza che alcuna scelta
possa essere, su queste premesse, né prevedibile né
falsificabile (d’altronde anche la recente decisione
della Corte Edu sul caso “Parrillo”, sempre riferita
all’art. 13, L. n. 40/2004, appare scarsamente
orientativa (72)). Non si tratta d’una prospettiva
tranquillizzante, perché se già è dubbio che l’organo democraticamente eletto possa prendere decisioni definitive su un tema eticamente controverso
come quello dello statuto del concepito, ancor più
dubbio è che tale opzione possa dipendere dall’intuizione valoriale di una Corte costituzionale.
Se vogliamo, invece, procurarci coordinate almeno
in parte più pregnanti, bisogna riconoscere che solo quando si tratti di un concepito partecipe di un
consapevole progetto genitoriale (in fase di gestazione, o, se in vitro, almeno destinato al trasferi-
un bilanciamento tra interessi contrapposti e non distingue in
ragione dell’effettiva possibilità di impiegare l’embrione in un
processo procreativo. Viene chiesto, per la precisione, un intervento additivo sulla clausola di liceità dell’art. 13, comma 2, da
ampliarsi ai casi di sperimentazione per finalità “costituzionalmente rilevanti”, attuati su un embrione non più impiegabile
per una PMA e quindi destinato ad estinguersi, previo parere
dei generanti. Un’impostazione del genere già era autorevolmente proposta da Modugno, op. cit., 277 s.; Bin, La corte e la
scienza, in D’Aloia (a cura di), Bio-tecnologie e valori costituzionali, Torino, 2005, 17 ss. Il nesso tra libertà di ricerca scientifica, democrazia e personalismo, specialmente quando la ricerca sia correlata alla salvaguardia della salute, è evidenziato da
Chieffi, Ricerca scientifica e tutela della persona. Bioetica e garanzie costituzionali, Napoli, 1993, 14, 66 ss. e passim. Il diritto
individuale alla conoscenza scientifica è sancito nell’art. 27,
comma 1, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e
nell’art. 15 del Patto internazionale per i diritti economici sociali e culturali.
(69) Sulla “manipolabilità” del richiamo alla dignità (specie
nell’ambito del biodiritto) v. Canestrari, Principi di biodiritto penale, 2015, 31 ss.; De Francesco, Una sfida da raccogliere: la
codificazione delle fattispecie a tutela della persona, in Vinciguerra - Dassano (a cura di), Scritti in memoria di Giuliano Marini, Napoli, 2010, 288; Fiandaca, Scelte di tutela in materia di
fecondazione assistita e democrazia laica, in Leg. pen., 2005,
342 s.; Id., Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, tra
laicità e “post-secolarismo”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 559;
Manna, La tutela penale, cit., 2005, 345 ss.; Palazzo, Tendenze
e prospettive nella tutela penale della persona umana, in La tutela penale della persona, cit., 420 ss.; Resta, La dignità, in Ambito e fonti del biodiritto, cit., 285 s.; Risicato, Dal «diritto di vivere» al «diritto di morire». Riflessioni sul ruolo della laicità nell’esperienza penalistica, Torino, 2008, 38 s.; Tesauro, Riflessioni
in tema di dignità umana, bilanciamento e propaganda razzista,
Torino, 2013, 1 ss.; Vallini, Illecito concepimento e valore del
concepito, Torino, 2012, 21 ss ; Veronesi, Uno statuto costituzionale del corpo, in Il governo del corpo, cit., 1, 143 ss.
(70) Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una
genetica liberale, Torino, 2002, 45; Fiandaca, Scelte di tutela,
cit., 342 s.; Tigano, Tutela della dignità umana, cit., 1752 ss.;
Busnelli, Rilevanza giuridica, cit., 28; Resta, La dignità, cit., 284;
Canale, La qualificazione giuridica, cit., 1266 ss.
(71) Una possibile lettura è quella di Busnelli, L’inizio della
vita umana, in Riv. dir. civ., 2004, I, 552 ss., 564 ss.
(72) “Parrillo c. Italia”, cit.. In essa si afferma che la scelta
di destinare alla ricerca scientifica un embrione (quale quella
pretesa dalla ricorrente, dopo la tragica morte del compagno
assieme al quale aveva generato in vitro), attiene alla vita privata e familiare salvaguardata dall'art. 8 Cedu; nondimeno, la
proibizione dell’art. 13 sarebbe espressione di una opzione discrezionale dello Stato, legittimamente volta a salvaguardare
“controinteressi” ritenuti meritevoli dallo stesso art. 8 Cedu.
Lo spazio di questa insindacabile discrezionalità sarebbe, d’altronde, molto ampio, considerata la varietà di orientamenti riscontrabile nelle legislazioni degli Stati membri del Consiglio
d’Europa. Pesa sulla decisione la circostanza che la ricorrente
non avesse fornito prova della volontà presunta del compagno. Si nega, infine, che l'embrione - in quanto entità non
commerciabile - possa costituire oggetto di un possesso salvaguardato dall'art. 1 Protocollo Cedu n. 1. Questa pur importante decisione offre scarse indicazioni alla Corte costituzionale.
In primo luogo, essa programmaticamente non affronta il tema della compatibilità dell’art. 13, L. n. 40/2004 con la libertà
di ricerca scientifica (art. 10 Cedu: v. Corte Edu, II Sez. sez.,
Decisione su Parrillo c. Italia, 28 maggio 2013), e non si riferisce ad un embrione “malato e non biopsabile”, incapace di
svilupparsi in utero (come invece la cit. Ord. di rimessione del
Trib. Firenze). Inoltre, la Grande Chambre propone una tecnica
argomentativa consueta, trattando dell’art. 8 Cedu (cfr. C. Pitea, Art. 8, in Commentario breve, cit., 307 ss.), non riproducibile (non, almeno, con le stesse implicazioni) in un giudizio “interno” di costituzionalità. Si pensi, ad es., all'argomento comparatistico; alla perimetrazione di uno “spazio di libera discrezionalità” rapportato al potere di sindacato di una Corte sovranazionale; all'individuazione della “morale diffusa” quale controinteresse capace di legittimare ingerenze statali in una libertà fondamentale dell'individuo (T. Scovazzi, La protezione della
morale come limite all’esercizio dei diritti umani (e come causa
di scivoloni), in La tutela internazionale, cit., 451 ss.), quando invece l’art. 33 Cost. esclude chiaramente che la libertà di ricerca scientifica trovi un contrappeso in istanze puramente etiche, quando, ad esempio, non ripropone quel limite del “buon
costume” che l’art. 21 Cost. conosce in rapporto alla libertà di
manifestazione del pensiero.
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mento) entra in gioco l’unico valore esplicitamente considerato dalla Costituzione in questa materia
(art. 31), e in specie quello della maternità. Inoltre,
per le ragioni già considerate supra, finché non sia
impiantato in utero - se non, addirittura, finché si
trovi in una fase di sviluppo ancora compatibile
con una scissione gemellare (73) - è arduo ritenere
l’embrione “persona” anche soltanto in potenza:
una constatazione che, a parere di autorevole dottrina costituzionalistica, assumerebbe una “rilevanza decisiva” (74). Nello zigote in vitro affetto da
anomalie geniche o malformazioni e non adatto a
svilupparsi in utero sembra poi difettare, a priori,
quel requisito di inherent capacity che la stessa Corte di Giustizia UE, con decisione rilevante ex art.
117 Cost., considera essenziale affinché si possa attribuire “dignità umana” ad una entità biologica (75). Destinare un embrione in tali condizioni
alla ricerca scientifica, piuttosto che a una rapida e
inevitabile estinzione, è opzione forse non in contrasto, bensì persino conforme a una dignità umana
“depersonalizzata”, di cui pure è espressione la ricerca scientifica (attività che caratterizza la nostra
specie, attribuendole un netto vantaggio evolutivo (76)), tanto più quando finalizzata ad atti di solidarietà tra individui (cioè allo sviluppo di terapie
per gravissime malattie) (77).
Tornando al tema cui questa nota è più precisamente dedicata, vi sono da considerare implicazioni più immediate, e più pressanti, perché riguardano la possibile e prossima condanna di alcuni medici per un delitto in fin dei conti punito con la re-
clusione fino a tre anni, con la multa da € 50.000
a € 150.000, e con la pena accessoria della sospensione fino ad un anno dall’esercizio professionale.
La questione è: siamo tenuti a dedurre dalla sent.
n. 229/2015 - nella parte in cui rigetta nel merito,
e non per irrilevanza, la questione di costituzionalità attinente all’art. 14, comma 1 - che il reato di
embrionicidio sia effettivamente applicabile a vicende come quella che ha dato origine all’ordinanza di rimessione? Continuiamo a pensare che la risposta debba essere negativa, per le ragioni più sopra evidenziate. La decisione della Corte non può
alterare regole di parte generale, che rispondono a
un’esigenza di legalità e personalità della responsabilità penale, secondo le quali solo chi sia titolare
di un obbligo giuridico di impedire l’evento può rispondere penalmente del mancato impedimento
dell’evento stesso. Né la (vagamente) enfatizzata
dignità dell’embrione può di per sé implicare un simile obbligo, che deve essere invece definito dalla
legge, e non può desumersi sic et simpliciter da disposizioni, come l’art. 32 Cost., volte a garantire la
salute della persona: la stessa Corte riconosce che
lo statuto giuridico dell’embrione non è sic et simpliciter equiparabile a quello di una persona. Non ci
rassicura, tuttavia, la consapevolezza di quanto la
prassi tenda a mortificare il valore della legalità,
trattando di posizioni di garanzia (78).
Per dar la caccia a un fantasma bisogna prima di
tutto evocarlo, sicché c’è il rischio, in questo modo, che sfugga di mano e riacquisti una sua sinistra
presenza.
(73) Solo dal momento della gastrulazione riteneva sussistente un embrione meritevole di tutela privilegiata rispetto al
pre-embrione il Report of the Committee of Inquiry onto Human
Fertilisation and Embryology, 1984, 11.22, 11.24 11.30, in
http://www.hfea.gov.uk, dal quale trasse ispirazione l’Human
Fertilisation and Embryology Act inglese del 1990. Ampiamente, sull’evoluzione normativo-giurisprudenziale di tale definizione, Penasa, La legge della scienza: nuovi paradigmi di disciplina
dell’attività medico-scientifica, Napoli, 2015, 299 ss. Nello stesso senso, in Spagna, l’art. 1, comma 2, Ley 14/2006, de 26 de
mayo, sobre técnicas de reproducción humana asistida (ancora
Penasa, op. ult. cit., 332 ss.).
(74) Modugno, op. cit., 242.
(75) Sulla rilevanza di questa decisione quale parametro di
costituzionalità ex art. 117 Cost. anche della L. n. 40/2004 v.
Valentini, op. cit., 990.
(76) “L’evoluzione della scienza […] probabilmente è il più
potente strumento dell’adattamento biologico che sia mai apparso nel corso dell’evoluzione organica”: Popper, Nuvole ed
orologi, in Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, Roma, 2002, 310; “bloccare la scienza-tecnica in quanto
tale è antiumano”: Lombardi Vallauri, Riduzionismo, cit., 126,
corsivo nostro.
(77) Bellelli, La sperimentazione sugli embrioni: la nuova disciplina, Familia, 2004, 990; Busnelli, Rilevanza, 35 ss.; Ferrando, La nuova legge in materia di procreazione medicalmente assistita: perplessità e critiche, Corr. giur., 2004, 812 s.; Penasa,
La procreazione medicalmente assistita: due modelli a confronto, in Camassa - Casonato (cura di), La procreazione medicalmente assistita: ombre e luci, a Trento, 2005, 127; Tripodina,
Studio, cit., 521 ss.. Cfr., ancora, Redi, Libertà di ricerca, bioetica e cellule staminali, in Procreazione assistita. Problemi e prospettive, cit., 130; Tigano, La rilevanza penale della sperimentazione sugli embrioni tra la tutela del diritto alla vita e la libertà di
ricerca scientifica, in Ind. pen., 2011, 155. Cfr., poi, la risoluzione di maggioranza commissione di studio sull’utilizzo di cellule
staminali per finalità terapeutiche (c.d. “commissione Dulbecco”, nominata dal Ministro della Salute con decreto del 6 settembre 2000), Roma, 28 dicembre 2000, reperibile ad es. in
Salute, www.aduc.it; nonché l’opinione (contrastata) di alcuni
membri del Comitato nazionale per la bioetica, nel Parere sul
destino degli embrioni derivanti da pma e non più impiantabili,
26 ottobre 2007, nonché nel Parere sull’impiego terapeutico
delle cellule staminali del 27 ottobre 2000.
(78) Palazzo, Corso di diritto penale, V ed., Torino, 2013,
275.
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Processo penale
Competenza territoriale
Cassazione Penale, SS.UU., 24 aprile 2015 (ud. 26 marzo 2015), n. 17325 - Pres. Santacroce Rel. Squassoni
Il luogo di consumazione del delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, di cui all’articolo 615 ter c.p., è quello nel quale si trova il soggetto che effettua l’introduzione abusiva o vi si mantiene
abusivamente.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass. Pen., sez. I, ord. 28 ottobre 2014 (dep. 18 dicembre 2014), n. 52575, Pres. Siotto, Est. Locatelli, confl. comp.
tra Trib. Napoli e Trib. Roma, in Dir. Pen. Cont., 20 gennaio 2015.
Difforme
Cass., Sez. I, 27 maggio 2013, n. 40303, Martini, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2014, 3, 1502.
La Corte (omissis).
Ritenuto in fatto
1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Napoli ha esercitato l’azione penale nei confronti di
R.M. e S.G. in ordine al reato previsto dall’art. 81 c.p.,
art. 110 c.p., art. 615 ter c.p., commi 2 e 3, perché, in
concorso tra loro ed agendo la R. in qualità di impiegata della Motorizzazione civile di Napoli, si introducevano abusivamente e ripetutamente nel sistema informatico del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per
effettuare visure elettroniche che esulavano dalle mansioni della imputata ed interessavano lo S. (amministratore di una agenzia di pratiche automobilistiche).
Con sentenza in data 2 dicembre 2013, il Giudice della
udienza preliminare del Tribunale di Napoli ha dichiarato la propria incompetenza per territorio ritenendo
competente il Giudice del Tribunale di Roma in ragione della ubicazione della banca-dati della Motorizzazione civile presso il Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti con sede in (OMISSIS).
Chiesto il rinvio a giudizio da parte del Procuratore della Repubblica per entrambi gli imputati, il Giudice della
udienza preliminare del Tribunale di Roma, con ordinanza del 16 giugno 2014, ha sollevato conflitto negativo di competenza per territorio ritenendo che il luogo
di consumazione del reato di accesso abusivo ad un sistema informatico dovesse radicarsi ove agiva l’operatore remoto e, pertanto, a (OMISSIS).
2. La Prima Sezione penale, cui il ricorso è stato assegnato tabellarmente, con ordinanza n. 52575 del 28 ottobre 2014, depositata il 18 dicembre 2014, rilevato un
potenziale contrasto di giurisprudenza, ha rimesso gli atti alle Sezioni Unite.
Con decreto in data 23 dicembre 2014 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissandone per la trattazione l’odierna udienza camerale.
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Considerato in diritto
1. Il quesito posto alle Sezioni Unite è il seguente: “Se,
ai fini della determinazione della competenza per territorio, il luogo di consumazione del delitto di accesso
abusivo ad un sistema informatico o telematico, di cui
all’art. 615 ter c.p., sia quello in cui si trova il soggetto
che si introduce nel sistema o, invece, quello nel quale
è collocato il server che elabora e controlla le credenziali di autenticazione fornite dall’agente”.
1.1. La questione è di particolare rilievo dal momento
che il reato informatico, nella maggior parte dei casi, si
realizza a distanza in presenza di un collegamento telematico tra più sistemi informatici con l’introduzione illecita, o non autorizzata, di un soggetto, all’interno di
un elaboratore elettronico, che si trova in luogo diverso
da quello in cui è situata la banca-dati.
Gli approdi ermeneutici hanno messo in luce due opposte soluzioni che si differenziano nel modo di intendere
la spazialità nei reati informatici: per alcune, competente per territorio è il tribunale del luogo nel quale il soggetto si è connesso alla rete effettuando il collegamento
abusivo, per altre, il tribunale del luogo ove è fisicamente allocata la banca-dati che costituisce l’oggetto
della intrusione.
1.2. Una sola sentenza della Corte di cassazione ha approfondito il tema in esame, individuando la competenza territoriale nel luogo ove è allocato il server (Sez. 1,
n. 40303 del 27/05/2013, Martini, Rv. 257252).
Secondo tale impostazione, ciò che rileva ai fini della
integrazione del delitto è il momento in cui viene posta
in essere la condotta che si connota per l’abusività (inconferenti essendo le finalità perseguite) che si perfeziona quando l’agente, interagendo con il sistema informatico o telematico altrui, si introduce in esso contro la
volontà di chi ha il diritto di estromettere l’estraneo.
Posta la centralità del jus excludendi, la fattispecie si
perfeziona nel momento in cui il soggetto agente entra
nel sistema altrui, o vi permane, in violazione del domicilio informatico, sia che vi si introduca contro la volontà del titolare sia che vi si intrattenga in violazione
delle regole di condotta imposte. Il delitto può, di con-
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seguenza, ritenersi consumato solo se l’agente, colloquiando con il sistema, ne abbia oltrepassato le barriere
protettive o, introdottosi utilizzando un valido titolo
abilitativo, vi permanga oltre i limiti di validità dello
stesso.
Deriva che l’accesso si determina nel luogo ove viene
effettivamente superata la protezione informatica e si
verifica la introduzione nel sistema e, quindi, dove è
materialmente situato il server violato, l’elaboratore che
controlla le credenziali di autenticazione del client.
Il luogo di consumazione del reato non è dunque quello
in cui vengono inserite le credenziali di autenticazione,
ma quello in cui si entra nel server dal momento che la
procedura di accesso deve ritenersi atto prodromico alla
introduzione nel sistema.
Nella ipotesi di accesso da remoto, l’attività fisica viene
esercitata in luogo differente da quello in cui si trova il
sistema informatico o telematico protetto, ma è certo
che il client invia le chiavi logiche al server web il quale le riceve “processandole” nella fase di validazione che
è eseguita unicamente all’interno dell’elaboratore presidiato da misure di sicurezza.
In sostanza, l’opzione ermeneutica che ha fissato presso
il server il luogo di consumazione del reato fa leva sulla
constatazione che l’effettivo ingresso di cui trattasi si
verifica solo presso il sistema centrale con il superamento delle barriere logiche dopo la immissione delle credenziali di autenticazione da remoto.
Altra sentenza (Sez. 3, n. 23798 del 24/05/2012, Casalini, Rv. 253633), pur senza approfondire, ha affermato,
in riferimento al diverso reato di frode informatica, che
la competenza territoriale deve essere individuata nel
luogo in cui si trova il server all’interno del quale sono
archiviati i dati oggetto di abusivo trattamento.
1.3. Un significativo segnale di mutamento in ordine
alla riflessione giurisprudenziale sul luogo di consumazione del reato di accesso abusivo a sistema informatico
può cogliersi in una decisione (Sez. 1, n. 34165 del
15/06/2014, De Bo, non massimata); la Corte, nel risolvere il conflitto di competenza sollevato dall’autorità
giudiziaria del luogo di digitazione della password di accesso alle risorse informatiche, ha rilevato come la questione (non conferente nel caso in esame) fosse fondata
su argomenti giuridici e scientifici meritevoli di attento
esame critico e, quindi, di ulteriore analisi in sede di ricostruzione dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 615 ter c.p.
La ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite - dopo
avere evidenziato che il client ed il server sono componenti di un unico sistema telematico - osserva che l’accesso penalmente rilevante inizia dalla postazione remota ed il perfezionamento del reato avviene nel luogo
ove si trova l’utente (diverso da quello in cui è ubicato
il server).
1.4. La impostazione della ricordata sentenza n. 40303
del 2013 della Corte di cassazione è criticata dal Giudice rimettente (e da parte della dottrina) che puntualizza
come l’intera architettura di un sistema per la gestione
e lo scambio di dati (server, client, terminali e rete di
trasporto delle informazioni) corrisponde, in realtà, ad
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una sola unità di elaborazione, altrimenti definita “sistema telematico”.
In questa prospettiva, il terminale mediante il quale l’operatore materialmente inserisce username e password è
ricompreso, quale elemento strutturale ed essenziale,
nell’intera rete di trattamento e di elaborazione dei dati,
assumendo rilevanza il luogo di ubicazione della postazione con cui l’utente accede o si introduce nel sistema
che contiene l’archivio informatico.
2. Prima di esaminare la questione controversa, è opportuno puntualizzare, nello stretto ambito richiesto per
risolvere il quesito, la struttura della fattispecie dell’art.
615 ter c.p., iniziando dalla nozione di introduzione e
trattenimento nel sistema.
La materia è già stata passata al vaglio delle Sezioni
Unite (sent. n. 4694 del 27/10/2011, Casani, Rv.
25129) che ha precisato come le condotte descritte dalla norma sono punite a titolo di dolo generico e consistono:
a) nello introdursi abusivamente in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza - da intendere come l’accesso alla conoscenza dei dati o informazioni contenute nello stesso - effettuato sia da lontano
(condotta tipica dello hacker), sia da vicino (cioè da persona che si trova a diretto contatto con lo elaboratore);
b) nel mantenersi nel sistema contro la volontà, espressa o tacita, di chi ha il diritto di esclusione, da intendere come il persistere nella già avvenuta introduzione,
inizialmente autorizzata o casuale, violando le disposizioni, i limiti e i divieti posti dal titolare del sistema.
2.1. Nel caso che ci occupa (almeno dagli atti in visione
di questa Corte) risulta che la R., pur avendo titolo e formale abilitazione per accedere alle informazioni in ragione della sua qualità di dipendente della competente amministrazione e di titolare di legittime chiavi di accesso,
si è introdotta all’interno del sistema, in esecuzione di un
previo accordo criminoso con il coimputato al fine di
consultare l’archivio per esigenze diverse da quelle di servizio; pertanto, la condotta deve essere considerata di per
sé illecita sin dal momento dell’accesso, essendo irrilevante la successiva condotta di mantenimento.
2.2. Per quanto concerne il bene giuridico, va ricordato
che l’art. 615 ter c.p., è stato introdotto nel nostro ordinamento in esito alla Raccomandazione del Consiglio
di Europa del 1989 per assicurare una protezione all’ambiente informatico o telematico che contiene dati personali che devono rimanere riservati e conservati al riparo da ingerenze ed intrusioni altrui e rappresenta un
luogo inviolabile, delimitato da confini virtuali, paragonabile allo spazio privato dove si svolgono le attività
domestiche.
Per questo la fattispecie è stata inserita nella Sezione IV
del Capo III del Titolo XII del Libro II del codice penale, dedicata ai delitti contro la inviolabilità del domicilio, che deve essere inteso come luogo, anche virtuale,
dove l’individuo esplica liberamente la sua personalità
in tutte le sue dimensioni e manifestazioni.
È stato notato che, con la previsione dell’art. 615 ter
c.p., il legislatore ha assicurato la protezione del domicilio informatico quale spazio ideale in cui sono contenuti
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i dati informatici di pertinenza della persona ad esso
estendendo la tutela della riservatezza della sfera individuale, quale bene costituzionalmente protetto; all’evidenza il parallelo con il domicilio reale - sulla cui falsariga è stata strutturata la norma - è imperfetto.
In realtà, la fattispecie offre una tutela anticipata ad
una pluralità di beni giuridici e di interessi eterogenei e
non si limita a preservare solamente i contenuti personalissimi dei dati raccolti nei sistemi informatici protetti, ma ne offre una protezione da qualsiasi tipo di intrusione che possa avere anche ricadute economico-patrimoniali (Sez. 4, n. 3067 del 04/10/1999, Piersanti, Rv.
214946).
È condivisa l’opinione secondo la quale il delitto previsto dall’art. 615 ter c.p., è di mera condotta (ad eccezione per le ipotesi aggravate del comma 2, nn. 2 e 3) e si
perfeziona con la violazione del domicilio informatico e, quindi, con la introduzione nel relativo sistema - senza la necessità che si verifichi una effettiva lesione del
diritto alla riservatezza dei dati (Sez. 5, n. 11689 del
06/02/2007, Cerbone, Rv. 236221).
Dal momento che oggetto di tutela è il domicilio virtuale, e che i dati contenuti all’interno del sistema non
sono in via diretta ed immediata protetti, consegue che
l’eventuale uso illecito delle informazioni può integrare
un diverso titolo di reato (Sez. 5, n. 40078 del
25/05/2009, Genchi, Rv. 244749).
2.3. Il legislatore, introducendo con la L. 23 dicembre
1993, n. 547, i cosiddetti computer’s crimes, non ha
enunciato la definizione di sistema informatico o telematico (forse per lasciare aperta la nozione in vista dell’evoluzione della tecnologia), ma ne ha presupposto il
significato.
In argomento, l’art. 1 della Convenzione Europea di
Budapest del 23 novembre 2001, definisce sistema informatico “qualsiasi apparecchiature o gruppi di apparecchiature interconnesse o collegate, una o più delle
quali, in base ad un programma, compiono l’elaborazione automatica dei dati”.
La giurisprudenza ha fornito una definizione tendenzialmente valida per tutti i reati facenti riferimento alla
espressione “sistema informatico”, che deve intendersi
come un complesso di apparecchiature destinate a compiere una qualsiasi funzione utile all’uomo attraverso
l’utilizzazione (anche parziale) di tecnologie informatiche che sono caratterizzate, per mezzo di una attività di
“codificazione” e “decodificazione”, dalla “registrazione”
o “memorizzazione” tramite impulsi elettronici, su supporti adeguati, di “dati”, cioè, di rappresentazioni elementari di un fatto, effettuata attraversi simboli (bit) in
combinazioni diverse, e dalla elaborazione automatica
di tali dati, in modo da generare informazioni costituite
da un insieme più o meno vasto di informazioni organizzate secondo una logica che consente loro di esprimere un particolare significato per l’utente (Sez. 6, n.
3067 del 04/10/1999, Piersanti, Rv. 214945).
In generale, un dispositivo elettronico assurge al rango
di sistema informatico o telematico se si caratterizza per
l’installazione di un software che ne sovrintende il funzionamento, per la capacità di utilizzare periferiche o di-
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spositivi esterni, per l’interconnessione con altri apparecchi e per la molteplicità dei dati oggetto di trattamento.
Per evitare vuoti di tutela e per ampliare la sfera di protezione offerta ai sistemi informatici e telematici, è opportuno accogliere la nozione più ampia possibile di
computer o unità di elaborazione di informazioni, come
del resto la Corte ha già fatto in materia di carte di pagamento, trattandosi di strumenti idonei a trasmettere
dati elettronici nel momento in cui si connettono all’apparecchiatura POS (così Sez. F, n. 43755 del
23/08/2012, Chiriac, Rv. 253583).
Nell’ambito della protezione offerta dall’art. 615 ter
c.p., ricadono anche i sistemi di trattamento delle informazioni che sfruttano l’architettura di rete denominata
client-server, nella quale un computer o terminale (il
client) si connette tramite rete ad un elaboratore centrale (il server) per la condivisione di risorse o di informazioni, che possono essere rese disponibili a distanza
anche ad altri utenti.
La tutela giuridica è riservata ai sistemi muniti di misure di sicurezza perché, dovendosi proteggere il diritto di
uno specifico soggetto, è necessario che questo abbia dimostrato di volere riservare l’accesso alle persone autorizzate e di inibire la condivisione del suo spazio informatico con i terzi.
3. La condotta illecita commessa in un ambiente informatico o telematico assume delle specifiche peculiarità
per cui la tradizionale nozione - elaborata per una realtà
fisica nella quale le conseguenze sono percepibili e verificabili con immediatezza - deve essere rivisitata e adeguata alla dimensione virtuale.
In altre parole, il concetto di azione penalmente rilevante subisce nella realtà virtuale una accentuata modificazione fino a sfumare in impulsi elettronici; l’input rivolto
al computer da un atto umano consapevole e volontario
si traduce in un trasferimento sotto forma di energie o
bit della volontà dall’operatore all’elaboratore elettronico, il quale procede automaticamente alle operazioni di
codificazione, di decodificazione, di trattamento, di trasmissione o di memorizzazione di informazioni.
L’azione telematica viene realizzata attraverso una connessione tra sistemi informatici distanti tra loro, cosicché gli effetti della condotta possono esplicarsi in un
luogo diverso da quello in cui l’agente si trova; inoltre,
l’operatore, sfruttando le reti di trasporto delle informazioni, è in grado di interagire contemporaneamente sia
sul computer di partenza sia su quello di destinazione.
È stato notato che nel cyberspace i criteri tradizionali
per collocare le condotte umane nel tempo e nello spazio entrano in crisi, in quanto viene in considerazione
una dimensione “smaterializzata” (dei dati e delle informazioni raccolti e scambiati in un contesto virtuale senza contatto diretto o intervento fisico su di essi) ed una
complessiva “delocalizzazione” delle risorse e dei contenuti (situabili in una sorte di meta-territorio).
Pertanto non è sempre agevole individuare con certezza
una sfera spaziale suscettibile di tutela in un sistema telematico, che opera e si connette ad altri terminali mediante reti e protocolli di comunicazione.
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Del resto, la dimensione aterittoriale si è incrementata
da ultimo con la diffusione dei dispositivi mobili (tablet, smartphone, sistemi portatili) e del cloud computing, che permettono di memorizzare, elaborare e condividere informazioni su piattaforme delocalizzate dalle
quali è possibile accedere da qualunque parte del globo.
Va comunque precisato che, se i dati oggetto di accesso
abusivo sono archiviati su cloud computing o resi disponibili da server che sfruttano tali servizi, potrebbe risultare estremamente difficile individuare il luogo nel quale le informazioni sono collocate.
4. Le esposte osservazioni sono utili per risolvere la questione sottoposta alle Sezioni Unite.
In estrema sintesi, si può rilevare che le due teorie contrapposte sul luogo del commesso reato si ancorano l’una (quella della Prima Sezione della Corte di cassazione) sul concetto classico di fisicità del luogo ove è collocato il server e l’altra (quella del Giudice rimettente)
sul funzionamento delocalizzato, all’interno della rete,
di più sistemi informatici e telematici.
Ora - pur non sminuendo le difficoltà di trasferire al caso concreto il criterio attributivo della competenza territoriale dell’art. 8 c.p.p., parametrato su spazi fisici e
non virtuali - la Corte reputa sia preferibile la tesi del
Giudice remittente, che privilegia le modalità di funzionamento dei sistemi informatici e telematici, piuttosto
che il luogo ove è fisicamente collocato il server.
4.1. Deve, innanzitutto, ricordarsi come l’abusiva introduzione in un sistema informatico o telematico - o il
trattenimento contro la volontà di chi ha diritto di
esclusione - sono le uniche condotte incriminate, e, per
quanto rilevato, le relative nozioni non sono collegate
ad una dimensione spaziale in senso tradizionale, ma a
quella elettronica, trattandosi di sistemi informatici o
telematici che archiviano e gestiscono informazioni ossia entità immateriali.
Tanto premesso, si rileva come la ricordata sentenza
della Prima Sezione abbia ritenuto che l’oggetto della
tutela concreta coincida con l’ambito informatico ove
sono collocati i dati, cioè con il server posto in luogo
noto.
Tale criterio di articolare la competenza in termini di
fisicità, secondo gli abituali schemi concettuali del
mondo materiale, non tiene conto del fatto che la nozione di collocazione spaziale o fisica è essenzialmente
estranea alla circolazione dei dati in una rete di comunicazione telematica e alla loro contemporanea consultazione da più utenti spazialmente diffusi sul territorio.
Non può essere condivisa, allora, la tesi secondo la quale
il reato di accesso abusivo si consuma nel luogo in cui è
collocato il server che controlla le credenziali di autenticazione del client, in quanto, in ambito informatico, deve attribuirsi rilevanza, più che al luogo in cui materialmente si trova il sistema informatico, a quello da cui parte il dialogo elettronico tra i sistemi interconnessi e dove
le informazioni vengono trattate dall’utente.
Va rilevato, infatti, come il sito ove sono archiviati i
dati non sia decisivo e non esaurisca la complessità dei
sistemi di trattamento e trasmissione delle informazioni,
dal momento che nel cyberspazio (la rete internet) il
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flusso dei dati informatici si trova allo stesso tempo nella piena disponibilità di consultazione (e, in certi casi,
di integrazione) di un numero indefinito di utenti abilitati, che sono posti in condizione di accedervi ovunque.
Non è allora esatto ritenere che i dati si trovino solo
nel server, perché nel reato in oggetto l’intera banca dati è “ubiquitaria”, “circolare” o “diffusa” sul territorio,
nonché contestualmente compresente e consultabile in
condizioni di parità presso tutte le postazioni remote
autorizzate all’accesso.
A dimostrazione della unicità del sistema telematico
per il trattamento dei dati, basti considerare che la traccia delle operazioni compiute all’interno della rete e le
informazioni relative agli accessi sono reperibili, in tutto o in parte, sia presso il server che presso il client.
Né può in contrario sostenersi, come afferma l’orientamento che in questa sede si ritiene di non condividere,
che le singole postazioni remote costituiscano meri strumenti passivi di accesso al sistema principale e non facciano altrimenti parte di esso.
4.2. Da un punto di vista tecnico-informatico, il sistema
telematico deve considerarsi unitario, essendo coordinato da un software di gestione che presiede al funzionamento della rete, alla condivisione della banca dati, alla
archiviazione delle informazioni, nonché alla distribuzione e all’invio dei dati ai singoli terminali interconnessi.
Consegue che è arbitrario effettuare una irragionevole
scomposizione tra i singoli componenti dell’architettura
di rete, separando i terminali periferici dal server centrale, dovendo tutto il sistema essere inteso come un
complesso inscindibile nel quale le postazioni remote
non costituiscono soltanto strumenti passivi di accesso
o di interrogazione, ma essi stessi formano parte integrante di un complesso meccanismo, che è strutturato
in modo da esaltare la funzione di immissione e di estrazione dei dati da parte del client.
I terminali, secondo la modulazione di profili di accesso
e l’organizzazione della banca-dati, non si limitano soltanto ad accedere alle informazioni contenute nel data
base, ma sono abilitati a immettere nuove informazioni
o a modificare quelle preesistenti, con potenziale beneficio per tutti gli utenti della rete, che possono fruire dì
dati più aggiornati e completi per effetto dell’interazione di un maggior numero di operatori.
Alla luce di questa considerazione, va focalizzata la nozione di accesso in un sistema informatico, che non
coincide con l’ingresso all’interno del server fisicamente
collocato in un determinato luogo, ma con l’introduzione telematica o virtuale, che avviene instaurando un
colloquio elettronico o circuitale con il sistema centrale
e con tutti i terminali ad esso collegati.
L’accesso inizia con l’unica condotta umana di natura
materiale, consistente nella digitazione da remoto delle
credenziali di autenticazione da parte dell’utente, mentre tutti gli eventi successivi assumono i connotati di
comportamenti comunicativi tra il client e il server.
L’ingresso o l’introduzione abusiva, allora, vengono ad
essere integrati nel luogo in cui l’operatore materialmente digita la password di accesso o esegue la procedu-
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ra di login, che determina il superamento delle misure
di sicurezza apposte dal titolare del sistema, in tal modo
realizzando l’accesso alla banca-dati.
Da tale impostazione, coerente con la realtà di una rete
telematica, consegue che il luogo del commesso reato si
identifica con quello nel quale dalla postazione remota
l’agente si interfaccia con l’intero sistema, digita le credenziali di autenticazione e preme il testo di avvio, ponendo così in essere l’unica azione materiale e volontaria che lo pone in condizione di entrare nel dominio
delle informazioni che vengono visionate direttamente
all’interno della postazione periferica.
Anche in tal senso rileva non il luogo in cui si trova il
server, ma quello decentrato da cui l’operatore, a mezzo
del client, interroga il sistema centrale che gli restituisce le informazioni richieste, che entrano nella sua disponibilità mediante un processo di visualizzazione sullo
schermo, stampa o archiviazione su disco o altri supporti materiali.
Le descritte attività coincidono con le operazioni di
“trattamento”, compiute sul client, che il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 4, lett. a), (codice della privacy)
definisce come “qualunque operazione o complesso di
operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti
elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di
dati, anche se non registrati in una banca di dati”.
La condotta è già abusiva (secondo la clausola di antigiuridicità speciale) nel momento in cui l’operatore non
autorizzato accede al computer remoto e si fa riconoscere o autenticare manifestando, in tale modo, la sua volontà di introdursi illecitamente nel sistema con possibile violazione della integrità dei dati.
Deve precisarsi in ogni caso che, se il server non risponde o non valida le credenziali, il reato si fermerà alla soglia del tentativo punibile.
Nelle ipotesi, davvero scolastiche e residuali, nelle quali
non è individuabile la postazione da cui agisce il client,
per la mobilità degli utenti e per la flessibilità di uso dei
dispositivi portatili, la competenza sarà fissata in base
alle regole suppletive (art. 9 c.p.p.).
4.3. Il luogo in cui l’utente ha agito sul computer - che
nella maggior parte dei casi, è quello in cui si reperiscono le prove del reato e la violazione è stata percepita
dalla collettività - è consono al concetto di giudice naturale, radicato al locus commissi delicti di cui all’art.
25 Cost.
La Corte costituzionale, infatti, non ha mancato di sottolineare al riguardo (v. sentenza n. 168 del 2006) come
il predicato della “naturalità” del giudice finisca per assumere nel processo penale “un carattere del tutto particolare, in ragione della fisiologica allocazione di quel
processo nel locus commissi delicti”, giacché la “celebrazione di quel processo in quel luogo, risponde ad esigenze di indubbio rilievo, fra le quali, non ultima, va
annoverata quella - più che tradizionale - per la quale il
diritto e la giustizia devono riaffermarsi proprio nel luo-
84
go in cui sono stati violati”. In tale cornice, se l’azione
dell’uomo si è realizzata in un certo luogo - sia pure attraverso l’uso di uno strumento informatico e, dunque,
per sua natura destinato a produrre flussi di dati privi di
una loro “consistenza territoriale” - non v’è ragione alcuna per ritenere che quel “fatto”, qualificato dalla legge come reato, non si sia verificato proprio in quel luogo, così da consentire la individuazione di un giudice
anche “naturalisticamente” (oltre che formalmente)
competente. Predicato, quello di cui si è detto, che, al
contrario, non potrebbe ritenersi affatto soddisfatto ove
si facesse leva sulla collocazione, del tutto casuale, del
server del sistema violato.
4.4. D’altra parte, che il fulcro della attenzione normativa sia stato, per così dire, allocato nel luogo in cui si
trova ad operare l’autore del delitto - evocando, dunque, una sorta di sincretismo tra la localizzazione dell’impianto informatico utilizzato per realizzare il fattoreato e la persona che, proprio attraverso quell’impianto, accede e dialoga col sistema nella sua indefinibile
configurazione spaziale - lo si può desumere anche dal
modo in cui risultano strutturate le circostanze aggravanti previste dal comma secondo dell’art. 615 ter c.p.
Se si considera, infatti, l’aggravante di cui al n. 2, del
predetto comma, non avrebbe senso alcuno immaginare
una competenza per territorio saldata al luogo - in ipotesi del tutto eccentrico rispetto al “fatto” - in cui si trova il server, visto che è proprio l’attività violenta dell’agente (e, dunque, la relativa collocazione territoriale) a
specificare, naturalisticamente, il locus commissi delicti.
Allo stesso modo, è sempre il luogo in cui si trova ed
opera l’agente ad essere quello che meglio individua il
“fatto”, ove da esso sia derivata, a norma del n. 3, la interruzione, la distruzione o il danneggiamento del sistema o di qualche sua componente: è l’operazione di manipolazione, infatti (si pensi alla introduzione di un virus) che qualifica, specificandola in chiave aggravatrice,
la condotta punibile, con l’ovvia conseguenza che è l’azione umana (e non altro) a determinare il “fatto” e
con esso il suo riferimento spazio-temporale. Circostanze, quelle testè evidenziate, che valgono anche per l’aggravante dell’abuso della qualità pubblica dell’autore
del fatto di cui al n. 1, posto che - ancora una volta - è
sempre la condotta di accesso a indicare “chi”, “dove” e
“quando” hanno realizzato la fattispecie incriminata,
qualificandola “abusiva” in ragione delle specifiche disposizioni che regolano l’impiego del sistema.
5. Deve ora, per completezza, rilevarsi che la conclusione è trasferibile alla diversa ipotesi nella quale un soggetto facoltizzato ad introdursi nel sistema, dopo un accesso legittimo, vi si intrattenga contro la volontà del
titolare eccedendo i limiti della autorizzazione.
In questo caso, non può farsi riferimento all’azione con
la quale l’agente ha utilizzato le sue credenziali e dato
l’avvio al sistema, dal momento che tale condotta commissiva è lecita ed antecedente alla perpetrazione del
reato.
Necessita, quindi, fare leva sull’inizio della condotta
omissiva che, come è stato puntualmente osservato,
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coincide con un uso illecito dello elaboratore, con o
senza captazione di dati.
L’operatore remoto, anche in questo caso, si relaziona,
con impulsi elettronici e colloquia con il sistema dalla
sua postazione periferica presso la quale vengono trasferiti i dati con la conseguenza che è irrilevante il luogo
in cui è collocato il server per le già dette ragioni.
6. Conclusivamente, va affermato il seguente principio
di diritto:
“Il luogo di consumazione del delitto di accesso abusivo
ad un sistema informatico o telematico, di cui all’art.
615 ter c.p., è quello nel quale si trova il soggetto che
effettua l’introduzione abusiva o vi si mantiene abusivamente”.
7. Consegue che nella specie deve essere dichiarata la
competenza dell’autorità giudiziaria del Tribunale di
Napoli, atteso che la condotta abusiva è stata contestata come materialmente realizzata dalla imputata R.M.
negli uffici della Motorizzazione civile di (OMISSIS),
dove, servendosi del computer in dotazione dell’ufficio,
essa si sarebbe introdotta abusivamente e ripetutamente
nel sistema informatico del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.
P.Q.M.
dichiara la competenza del G.u.p. del Tribunale di Napoli, cui dispone trasmettersi gli atti.
(omissis).
Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico
e competenza territoriale
di Elisa Anselmi (*)
La S.C. risolve il contrasto giurisprudenziale in ordine alla individuazione del luogo di consumazione del delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, individuandolo nel
luogo in cui l’agente interagisce con il sistema, ed accogliendo, così, la soluzione che meglio è
idonea a garantire il principio del giudice naturale. Le Sezioni Unite colgono l’occasione per
mettere a fuoco la condotta della fattispecie in esame, accogliendo una nozione ampia ed unitaria di sistema informatico o telematico, idonea a garantire una adeguata tutela al domicilio informatico.
Premessa
Le Sezioni Unite con la sentenza che qui si commenta risolvono la questione relativa alla individuazione del locus commissi delicti nel reato di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico (art. 615 ter c.p.) Il quesito posto dalla Prima
Sezione concerneva, in particolare, il problema di
stabilire se esso fosse rappresentato dal luogo in cui
si trova il soggetto che si introduce nel sistema o
vi si mantiene abusivamente, ovvero quello in cui
è collocato il server.
La S.C. accoglie la prima soluzione interpretativa,
ponendo così fine ad un contrasto appena insorto,
ma in relazione al quale si rendeva necessario un
intervento che, sotto il profilo sostanziale, facesse
chiarezza in ordine alla nozione di sistema informatico o telematico, in modo tale da precisare la condotta incriminata, e che garantisse, sotto il profilo
processuale, il principio del giudice naturale.
Con la pronuncia in esame le Sezioni Unite mettono pertanto a fuoco il momento consumativo del
reato in esame, rimediando alla difficoltà insita nel
tradurre, in termini fisici, una condotta caratterizzata da una forte connotazione virtuale.
Il caso di specie
La sentenza in commento trae origine da una vicenda nella quale il Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Napoli esercitava l’azione penale nei confronti di M. R. e G. S. ai sensi degli
artt. 81, 110 e 615 ter, comma 2, c.p. perché, in
concorso tra loro ed agendo la M.R. quale impiegata della Motorizzazione civile di Napoli, si introducevano abusivamente e ripetutamente nel sistema
informatico del Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti per effettuare operazioni nell’interesse
dell’imputato, le quali esulavano dalle mansioni
della dipendente. Il G.U.P. partenopeo, tuttavia,
dichiarava la propria incompetenza per territorio,
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
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ritenendo competente il Tribunale di Roma, in
quanto giudice del luogo in cui si trovava la banca
dati violata. Il G.U.P. del Tribunale di Roma non
era dello stesso avviso, e sollevava, pertanto, conflitto negativo di competenza per territorio, poiché
riteneva che il luogo di consumazione del reato de
quo fosse da individuare nel luogo in cui l’operatore remoto effettua l’accesso al server.
La Prima Sezione Penale, alla quale era stato assegnato il ricorso, decideva di rimettere gli atti alle
Sezioni Unite, atteso che riteneva potenzialmente
configurabile un contrasto giurisprudenziale (1).
Gli elementi costitutivi della fattispecie
La pronuncia che si annota interviene per fare innanzitutto chiarezza in ordine agli elementi costituivi del delitto punito dall’art. 615 ter c.p.
La questione del locus commissi delicti del delitto in
esame, come rilevato dalla S.C., è di dubbia soluzione interpretativa, in ragione della caratteristiche
strutturali della fattispecie stessa.
Si tratta, infatti, di un reato di mera condotta, salvo le ipotesi aggravate di cui all’art. 615 ter, comma
2, nn. 2 e 3, c.p. Essa può essere alternativamente
integrata dalla introduzione abusiva in un sistema
informatico o telematico protetto da misura di sicurezza, ovvero dal mantenimento al suo interno
contro la volontà di chi ha il diritto di esclusione.
La condotta tipica può essere realizzata “internamente”, ossia attraverso il contatto o il collegamento diretto dell’agente con il sistema in cui accede, ovvero “a distanza”, ossia attraverso una rete
informatica collegata al sistema, violato (2). In tale
evenienza la condotta si realizza mediante un collegamento telematico tra sistemi informatici, così
che è di tutta evidenza come il corretto inquadramento di tale elemento costitutivo risente, inevita(1) Cass. Pen., sez. I, Ord. 28 ottobre 2014 (dep. 18 dicembre 2014), n. 52575, Pres. Siotto, Est. Locatelli, confl. comp.
tra Trib. Napoli e Trib. Roma, in Dir. Pen. Cont., 20 gennaio
2015, con commento di P. De Martino, Rimessa alle Sezioni
Unite una questione in tema di competenza territoriale del delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico.
(2) V. G. Pica, La disciplina penale degli illeciti in materia di
tecnologie informatiche, in Riv. pen. ec., 1995, 404; C. Pecorella, Il diritto penale dell’informatica, Padova, 2000, 308; R. Flor,
Sull’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico,
cit., 91; G. Fiandaca - E. Musco, op. loc. ult. cit.; L. Cuomo, La
tutela penale del domicilio informatico, in Cass. pen., 2000,
3000.
(3) Come rileva Maurizia Lina Sciuba, in Osservazioni a
Cass. Pen., 26 Marzo 2015, Sez. Uu, n. 17325, in Cass. Pen.,
10, 2015, 3507: “Lo sforzo non è infatti teso alla individuazione
di un tempo, quello della consumazione, e da qui di un luogo,
quello della competenza, semplicemente attraverso un valido
adattamento dei soliti contenitori concettuali, ma quello ben
86
bilmente, delle peculiarità tecniche di procedure,
elaborazioni e componenti informatiche (3).
Qualora il luogo in cui si trova il server, ovvero
quello in cui si collocano i dati, sia divergente da
quello in cui si trova l’agente che pone in essere la
condotta abusiva, si pone il problema di individuare quale sia il luogo di consumazione della fattispecie criminosa.
Per quanto attiene all’elemento oggettivo del reato, la S.C. si preoccupa di definire esattamente la
nozione di sistema informatico o telematico, atteso
che esso costituisce l’oggetto della condotta abusiva dell’agente. A tale scopo è richiamata la definizione fornita dall’art. 1 della Convenzione Europea
di Budapest del 23 novembre 2001, secondo la
quale per sistema informatico deve intendersi
“qualsiasi apparecchiatura o gruppi di apparecchiature interconnesse o collegate, una o più delle quali, in base ad un programma, compiono l’elaborazione automatica di dati” (4). Analoga è la definizione fornita dalla giurisprudenza, secondo la quale
per sistema informatico deve intendersi un complesso di apparecchiature destinate a compiere una
qualsiasi funzione utile all’uomo, attraverso un
software che ne sovraintende il funzionamento, e
caratterizzate dalla registrazione o memorizzazione
di dati, nonché dalla elaborazione automatica degli
stessi.
Si tratta di un reato punito a titolo di dolo generico, volto a salvaguardare l’area informatica riservata, attraverso la tutela dello ius excludendi alios del
relativo titolare. La fattispecie è integrata, pertanto, a prescindere dalla successiva condotta di appropriazione e utilizzazione dei dati ivi contenuti,
la quale è destinata ad integrare, eventualmente,
una diversa ipotesi criminosa in concorso con l’art.
615 ter c.p. (5). Il bene protetto è, infatti, costituimaggiore di riuscire addirittura a concepire la dimensione spazio temporale all’interno di un universo che non ha connotazioni fisiche, non conosce distanze, funziona secondo impulsi
elettronici e abbatte le normali scansioni e lungaggini temporali”. Sul punto si vedano Maurizio Bellacosa, Il luogo di consumazione del delitto di accesso abusivo a un sistema informatico
o telematico: in attesa delle Sezioni Unite, 6; L. Picotti, La nozione di “criminalità informatica” e la sua rilevanza per le competenze penali europee, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2011, 844-845;
ID., Sistematica dei reati informatici, cit., 89; I. Salvadori, L’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico. Una fattispecie paradigmatica dei nuovi beni giuridici emergenti nel diritto penale dell’informatica, in AA.VV., Tutela penale della persona e nuove tecnologie, a cura di L. Picotti, Padova, 2013, 127.
(4) Cass. Pen., SS.UU., 26 marzo 2015, n. 17325, cit.
(5) V. Sez. V, 6 febbraio 2007, n. 11689, in CED, n. 236221;
Sez. I, 27 maggio 2013, n. 40303, ivi, n. 257252, e in Cass.
pen., 2014, 1704.
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to dal domicilio informatico, inteso quale luogo
virtuale nel quale l’individuo è libero di esplicare
la propria personalità. La S.C., sotto questo profilo,
chiarisce che la fattispecie si pone a tutela del domicilio in senso ampio, inteso quale estensione virtuale del soggetto titolare di un sistema informatico, nella quale assicurare la protezione della riservatezza dei dati e dei programmi a fronte di qualsiasi intrusione, anche laddove la stessa abbia ricadute di natura economico-patrimoniale.
Così ricostruita la struttura della fattispecie, è evidente come la questione interpretativa concerna l’elemento oggettivo della stessa. Ritengono, invero,
le Sezioni Unite che l’individuazione del locus commissi delicti assuma caratteri problematici in quanto,
nei reati informatici, si pone l’esigenza di definire
materialisticamente una condotta caratterizzata da
una forte componente virtuale. L’input rivolto al
computer da un atto umano si traduce, infatti, in
un trasferimento della volontà dell’operatore, che
assume la forma di energie o bit, al sistema informatico, che procede automaticamente alle operazioni
di codificazione, decodificazione, trattamento, trasmissione o memorizzazione di informazioni. La condotta dunque è realizzata nel cyberspace, in relazione
al quale entrano in crisi le tradizionali categorie spazio-fisico-temporali per le seguenti ragioni. In primis
in quanto la condotta riguarda dati e informazioni
“dematerializzati” (6), ossia digitalizzati e scambiati
in rete; in secondo luogo poiché tali informazioni
sono collocate in una dimensione aterritoriale, il
c.d. cyberspazio, così che non sempre è possibile individuarne una esatta collocazione geografica (7).
Non da ultimo occorre sottolineare come la presenza dei dati in rete ne consenta la contemporanea
consultazione da parte di un numero indefinito di
utenti abilitati, che sono in grado di accedere da po(6) Con riferimento al digitale, parla più correttamente di
dematerializzazione e non di immaterialità P. Tonini, Manuale
di procedura penale, XVI ed., Milano, 2015, 358, secondo il
quale, appunto, “è indifferente la base materiale sulla quale il
documento informatico è fisicamente incorporato, purché ve
ne sia una”; per tale motivo, non ci pare corretto affermare
che l’incorporamento è “immateriale”. È immateriale l’opera
dell’ingegno, la creazione dell’intelletto. Viceversa, l’incorporamento digitale avviene mediante la fissazione di un segnale
elettrico, luminoso o magnetico su di una base materiale. In
tale senso, cfr. anche F. Alcaro, Riflessioni “vecchie” e “nuove”
in tema di beni immateriali. Il diritto d’autore nell’era digitale, in
Rass. dir. civ., 2006, 951.
(7) Peraltro, la dimensione “aterritoriale” del cyberspazio si
è incrementata negli ultimi anni con la diffusione del cloud
computing, che permette di memorizzare, archiviare, elaborare
e condividere files su server distribuiti su un territorio geografico esteso. Il tradizionale criterio territoriale risulta dagli esiti incerti pure nei sistemi di file sharing, in cui due o più computer
si scambiano informazioni mediante particolari modalità di
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stazioni remote (ossia ovunque), così che, in definitiva, l’intera banca dati è spesso diffusa sul territorio, nonché contestualmente compresente e accessibile da remoto.
Il luogo di consumazione del delitto
In ordine alla individuazione del locus commissi delicti del reato de quo si sono pertanto contrapposte
le seguenti tesi interpretative.
Secondo un primo orientamento il luogo di consumazione è quello in cui è collocato il server (8), ossia il luogo in cui l’agente s’introduce nel sistema
altrui, ovvero vi permane contro la volontà del titolare. L’argomento principale posto a fondamento
di questa impostazione si fonda sul rilievo che il
server rappresenta il luogo in cui viene effettivamente superata la protezione informatica, atteso
che esso integra l’elaboratore che controlla le credenziali di autenticazione dell’utente.
Secondo il diverso orientamento, accolto dal Giudice rimettente, il luogo di consumazione del reato
è quello in cui si trova il terminale mediante il
quale l’operatore accede al sistema che contiene
l’archivio informatico.
Le Sezioni Unite con la pronuncia de quo accolgono quest’ultima tesi, valorizzando, così, la componente materiale e volontaria della condotta tipica,
a fronte della dimensione virtuale del sistema informatico o telematico violato. Il luogo di commissione del reato “si identifica con quello nel quale
dalla postazione remota l’agente si interfaccia con
l’intero sistema, digita le credenziali di autenticazione e preme il tasto di avvio, ponendo così in essere l’unica azione materiale e volontaria che lo
pone in condizione di entrare nel dominio delle
informazioni che vengono visionate direttamente
connessione. Cfr. Maurizio Bellacosa, Il luogo di consumazione
del delitto di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico:
in attesa delle Sezioni Unite, 6; L. Picotti, La nozione di “criminalità informatica”, cit., 831; R. Flor, Social networks e violazioni
penali, loc. cit.; S. Aterno - M. Mattiucci, Cloud Forensics e
nuove frontiere delle indagini informatiche nel processo penale,
in Arch. pen., 2013, 876-877; R. Zannotti, Accesso abusivo ad
un sistema telematico, cit., 952; C.F. Grosso, Su di un’interessante controversia interpretativa in tema di luogo del commesso
reato e di giudice competente per territorio in materia di accesso
abusivo in un sistema informatico, 1531. Per una descrizione
dei più diffusi servizi di cloud computing, da Dropbox a iCloud
o Drive, v. F. Fossetti, L’ufficio aperto sulle nuvole, in La Repubblica, 13 Settembre 2014. Sulle caratteristiche del file sharing,
v. M. Zonaro, Le 50 parole della Digital Forensics più utilizzate
nelle Aule di Giustizia, Roma, 2014, 27.
(8) V. Cass., Sez. I, 27 maggio 2013, n. 40303, Martini, in
Riv. it. dir. e proc. pen., 2014, 3, 1502, con nota di Grosso.
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all’interno della postazione periferica”. Questa soluzione ha, inoltre, l’indubbio pregio di cogliere
l’unitarietà del sistema informatico o telematico,
inteso quale insieme di sistemi interconnessi e
coordinati da un software di gestione. Le postazioni
remote, infatti, non sono meri strumenti di accesso, ma parte integrante di un meccanismo complesso, abilitati ad immettere nuove informazioni o
a modificare quelle esistenti. Ne consegue che la
condotta di accesso non coincide con l’ingresso all’interno del server collocato in un determinato
luogo, ma con l’introduzione telematica o virtuale,
che inizia con il materiale superamento delle misure di sicurezza poste a tutela del sistema. Lo stesso
deve dirsi in ordine alle ipotesi di mantenimento
abusivo, atteso che, anche in questo caso, il reato
si consuma nel luogo in cui l’utente si è interfacciato con il sistema.
Nelle ipotesi residuali in cui non sia individuabile
la postazione da cui agisce il soggetto, la competenza sarà invece individuata sulla base delle regole
suppletive sancite dall’art. 9 c.p.p.
Una soluzione in linea con il principio del
giudice naturale
La soluzione al contrasto giurisprudenziale, oltre ad
apportare una maggiore chiarezza sulla struttura
della fattispecie, è da apprezzare anche sotto il profilo dei principi processuali in tema di giudice naturale, per un duplice ordine di ragioni.
Il principio appena menzionato, sancito dall’art. 25
Cost. è volto, innanzitutto, a garantire la predeterminazione del giudice competente ad opera della
legge, attraverso norme formulate in maniera tale
da escludere il conferimento di un potere discrezionale (9).
Sotto questo aspetto, il potenziale contrasto giurisprudenziale poneva pertanto l’esigenza di porre fine alle incertezze in ordine al luogo di consumazione del delitto, e, conseguentemente, al radicamento della competenza per territorio. Il principio del
(9) V. Paolo Tonini, Manuale di procedura penale, cit., 8889.
(10) Cass. Pen., SS.UU., 28 febbraio 2013, n. 27343, con
nota di Alberto Liguori, Connessione e pendenza dei procedimenti nella stessa fase: la dottrina fa breccia nelle Sezioni Unite,
in Cass. Pen., 11, 2013, 3819.
(11) Corte cost., sent. 5-21 aprile 2006, n. 168, in Giur.
cost., 2006, 1495. In dottrina, in termini analoghi, cfr., per tutti,
P. Tonini, Manuale di procedura penale, cit., 88-89.
(12) Si vedano, tra gli altri, A. Nappi, Guida al Codice di Procedura Penale, IX ed., Milano, 2004, 36; ID., voce Competenza
penale, in Digesto disc. pen., II, Torino, 1988, 351; E. Zappalà,
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giudice naturale impone, infatti, norme chiare da
interpretare in maniera rigorosa e spazi limitati, se
non assenti, di discrezionalità del giudice (10), trattandosi di materia soggetta a riserva di legge. Tale
rilievo ha verosimilmente spinto la Prima Sezione
a rimettere immediatamente la questione alle Sezioni Unite, prima ancora che si formasse un contrasto giurisprudenziale, non potendosi tollerare alcuna incertezza interpretativa in ordine al criterio
di individuazione del giudice competente.
In secondo luogo occorre ricordare come, secondo
l’orientamento richiamato nella pronuncia in commento, la naturalità del giudice assuma nel processo penale un carattere del tutto particolare, in ragione della “fisiologica” allocazione di quel processo nel locus commissi delicti. Il radicamento della
competenza territoriale in “quel luogo” risponde,
infatti, all’esigenza tradizionale per la quale il diritto e la giustizia devono essere affermati proprio nel
luogo in cui sono violati (11), al duplice scopo di
agevolare la raccolta delle prove e di assicurare la
esemplarità della pena (12). Sotto questo profilo
deve quindi riconoscersi alla pronuncia in esame il
pregio di rispettare la ratio ispiratrice del criterio
generale sancito dall’art. 8 c.p.p., al fine di consentire un più efficace accertamento del reato ed
un’appropriata applicazione della pena. Infatti,
mentre il luogo in cui si colloca il server è spesso
distante da quello in cui l’agente ha posto in essere
la condotta incriminata, il luogo in cui l’utente interagisce con il sistema è, spesso, quello in cui si
reperiscono le prove del reato, nonché quello in
cui la collettività percepisce il disvalore della condotta.
In conclusione può ritenersi che la soluzione accolta dalla S.C. sia, pertanto, perfettamente compatibile con entrambe le componenti del principio del
giudice naturale, in quanto il luogo di consumazione del reato in esame consente l’individuazione di
un giudice non solo formalmente, ma anche “naturalisticamente” competente.
Commento all’art. 8, in G. Conso - V. Grevi (a cura di), Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 2005,
16; G. Bellavista, voce Competenza penale, in Noviss. Dig. it.,
III, Torino, 1959, 771; G.M. Baccari, La cognizione e la competenza del giudice, Milano, 2011, 205. V. anche Corte cost.,
sent. 23 giugno-6 luglio 1994, n. 280, in Giur. cost., 1994, 2481
(con nota di P. Ventura), secondo cui “il criterio del forum commissi delicti, pur se ispirato da finalità attinenti in modo prevalente alla economia processuale” risponde anche alla “esigenza di una più facile raccolta delle prove e dunque evidentemente incide, rendendolo più agevole, sull’esercizio del diritto
di difesa”.
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Cassazione Penale, Sez. VI, 7 ottobre 2015 (ud. 23 giugno 2015), n. 40320 - Pres. Ippolito Ric. M.V.
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia nell’ambito di un rapporto professionale o
di lavoro, la sussistenza di un rapporto di natura para-familiare non può essere aprioristicamente esclusa nel
caso di rapporti di lavoro intercorrenti tra professionisti di elevata qualificazione.
L’insussistenza di un rapporto para-familiare non può essere desunta dal dato - meramente quantitativo - costituito dal numero dei soggetti operanti nell’organizzazione in cui siano commesse le condotte in ipotesi
maltrattanti, dovendo essa piuttosto fondarsi sull’aspetto qualitativo, cioè sulla natura dei rapporti intercorrenti tra superiore e sottoposto.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass., Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416, M.V. e altro, D&G online del 23 dicembre 2014.
Difforme
Cass., Sez. VI, 16 ottobre 2014, n. 49545, P., Foro it., 2015, II, 461; Cass., Sez. VI, 27 maggio 2014, n. 39774, P.L.,
D&G, 2014, 65; Cass., Sez. VI, 5 marzo 2014, n. 13088, B.C. e I.S., Guida dir., 2014, n. 16, 107; Cass., Sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594, P.M., Foro it., 2009, II, 533.
La Corte (omissis).
Ritenuto in diritto
3. Il ricorso è fondato. Il Collegio ritiene che le argomentazioni svolte dal giudice dell’udienza preliminare a
corredo della sua decisione di non luogo a procedere
non offrano una congrua e ragionevole giustificazione
del giudizio assolutorio formulato nei confronti dell’imputato con riguardo ad entrambi i delitti di cui all’imputazione. In particolare, la sentenza impugnata contiene affermazioni distoniche rispetto ai principi espressi
da questa Corte in materia e presenta aspetti di evidente illogicità del ragionamento.
Giova premettere che la fattispecie di maltrattamenti in
famiglia, tradizionalmente concepita in un contesto familiare, è stata nel tempo estesa - ed in tale senso è l’attuale
disposto normativo dell’art. 572 c.p. - anche a rapporti di
tipo diverso, di educazione ed istruzione, cura, vigilanza e
custodia nonché a rapporti professionali e di prestazione
d’opera. Proprio avendo riguardo a tale ultima categoria
di rapporti, questa Suprema Corte ha riconosciuto la possibilità di sussumere nella fattispecie dei maltrattamenti
commessi da soggetto investito di autorità in contesto lavorativo la condotta di c.d. mobbing posta in essere dal
datore di lavoro in danno del lavoratore, quale fenomeno
connotato da una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti reiterati nel tempo convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare
il dipendente nell’ambiente di lavoro, aventi dunque carattere persecutorio e discriminatorio (Cass. Sez. 5, n.
33624 del 09/07/2007, P.C. in proc. De Nubblio, Rv.
237439). Avuto riguardo alla ratio dell’art. 572 c.p. - che
si sostanzia quale delitto contro l’assistenza familiare - affinché la condotta persecutoria e maltrattante del datore
di lavoro in danno del dipendente - ovvero, in ambito di
rapporti professionali, del superiore nei confronti del sot-
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toposto - possa essere sussunta nella fattispecie incriminatrice in parola è indispensabile che il rapporto interpersonale sia caratterizzata dal tratto della “parafamiliarità”:
l’ampliamento ad opera della giurisprudenza del perimetro
delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello strettamente endo-familiare ha invero lasciato invariata la collocazione sistematica
della fattispecie incriminatrice nel titolo dei delitti in materia familiare, di tal che, ai fini della integrazione del reato, non è sufficiente la sussistenza di un generico rapporto
di subordinazione/sovra-ordinazione, ma è appunto necessario che sussista il requisito della para-familiarità, che si
caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di
abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle
comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi
ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del
rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità
ed informalità. Ai fini della configurabilità del delitto di
maltrattamenti in famiglia nell’ambito di un rapporto professionale o di lavoro, è pertanto necessario che il soggetto attivo si trovi un una posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale
da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare (Sez.
6, n. 43100 del 10/10/2011, R.C. e P., Rv. 251368).
4.1. Di tali condivisibili principi non ha fatto buon governo il giudice di merito laddove ha affermato l’insussistenza di un contesto interpersonale di natura para-familiare sulla base di argomentazioni contrarie a logica
ed a comuni massime d’esperienza nonché a diritto.
4.2. In primo luogo, la sussistenza (o insussistenza) di un
rapporto di natura para-familiare non può essere aprioristicamente esclusa nel caso di rapporti di lavoro, come
quello in esame, intercorrenti tra professionisti di elevata
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qualificazione. Sul punto, il dato testuale rappresentato
dalla estensione operata dal rinnovato art. 572 c.p., anche, tra gli altri, a rapporti professionali, di educazione
ed istruzione, non giustifica l’apodittica esclusione operata dal primo giudice, il quale pure ammette, sia pur in
via di mera ipotesi, che all’origine dei provvedimenti organizzativi adottati dal S. possa esservi stato un intento
vessatorio e forsanche espulsivo. È infatti contraria a comune massima di esperienza l’affermazione contenuta
nella sentenza impugnata, secondo la quale la dinamica
relazionale supremazia-soggezione psicologica sarebbe per
sua natura assente nel caso di professionisti di particolare
qualificazione, né sarebbe ravvisabile in tali casi la riduzione del soggetto debole in una condizione esistenziale
dolorosa e intollerabile a causa di sopraffazioni sistematiche. Invero, non può dubitarsi della possibilità di ravvisare anche in situazioni lavorative coinvolgenti professionisti di alto livello un rapporto di forte soggezione del sottoposto al suo superiore gerarchico, capace con i suoi
provvedimenti organizzativi di determinare un concreto,
drastico demansionamento del primo, così da comprometterne la posizione all’interno dell’organizzazione e di
metterne a rischio non solo le prospettive di acquisizione
di più elevate abilità, ma lo stesso mantenimento delle
proprie capacità professionali.
Paradigmatica in questo senso si rivela proprio la posizione del cardiochirurgo, le cui qualità operatorie dipendono
in parte non secondaria dalla casistica (numero e qualità)
degli interventi eseguiti, sicché una diversa ripartizione
degli interventi chirurgici tra il ricorrente e i colleghi, la
sua destinazione ad attività di consulenza in una struttura
diversa e meno importante delle procedenti e l’individuazione di un chirurgo reperibile diverso da lui ben potrebbero, in presenza dell’intento vessatorio di cui sopra e
contrariamente a quanto affermato nella sentenza sottoposta a verifica, traslare quella forma di rapporto intersoggettivo in fatto penalmente rilevante ex art. 572 c.p.
Inoltre, l’insussistenza di un rapporto para-familiare non
può essere desunta dal dato - meramente quantitativo costituito dal numero dei soggetti operanti nell’organizzazione in cui siano commesse le condotte in ipotesi
maltrattanti, dovendo essa piuttosto fondarsi sull’aspetto qualitativo, cioè sulla natura dei rapporti intercorrenti tra superiore e sottoposto. Si potranno pertanto ravvisare gli estremi della para familiarità allorché ci si trovi
in presenza di una relazione interpersonale stretta e
continuativa, connotata da un rapporto di soggezione e
subordinazione del sottoposto rispetto al superiore, il
quale si atteggi in modo da innestare la sopra descritta
dinamica relazionale “supremazia - subalternità” (Sez. 6,
n. 53416 del 22.10.2014, PG in proc. M.V. e M.S.).
Una relazione di siffatta natura difficilmente potrà essere configurata in realtà organizzazioni di notevoli dimensioni, nell’ambito delle quali i rapporti fra dirigenti
e sottoposti tendono ad essere più superficiali e spersonalizzati (non potendosi peraltro escludere dinamiche
para-familiari nell’ambito dei singoli reparti e, dunque,
nei rapporti fra il capo reparto ed il singolo addetto). In
caso di strutture di dimensioni piccole o medie (come
appunto nella specie, relativa non all’intero Ospedale di
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(OMISSIS), ma alla sola Unità Operativa di Cardiochirurgia), la valutazione sul punto non può invece prescindere da una attenta indagine sulle effettive dinamiche relazionali intercorrenti fra direttore e aiuto, sì da
rilevare la sussistenza o meno di uno stato di soggezione
nei termini sopra delineati.
4.3. Parimenti illogico e, pertanto, censurabile è il passaggio del percorso motivazionale della sentenza in esame in cui il giudice ha escluso la sussistenza della condizione di subordinazione in considerazione della possibilità di accesso del ricorrente a un complesso di tutele,
giudiziarie e non, e del concreto ricorso da parte sua all’azione dinanzi al giudice del lavoro. Ed invero, lo stato
subordinazione e di soggezione del lavoratore vittima rispetto al superiore, quale condicio sine qua non per la
sussumibilità del c.d. mobbing nella fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti in famiglia, deve sussistere
all’atto delle condotte vessatorie ed oppressive e non
può essere escluso - ex post - dal fatto che la vittima,
dopo avere subito un sistematico e continuativo atteggiamento discriminatorio, abbia azionato tutti gli strumenti di reazione in suo potere per opporsi alla prevaricazione e denunciare i fatti affinché possano essere perseguiti. Seguendo il ragionamento del primo giudice, si
dovrebbe giungere all’affermazione del principio, del
tutto illogico ed irragionevole, che il reato de quo sia
configurabile soltanto a condizione che la vittima accetti passivamente le vessazioni subite e che la successiva reazione della persona offesa, che abbia adito le vie
legali per i fatti di cui sia stata vittima, sia suscettibile
di esentare da penale rilevanza il comportamento criminale posto in essere, col che il reato di c.d. mobbing così come larga parte delle incriminazioni penali in
danno alla persona, soprattutto quelle procedibili a querela - verrebbe ad essere configurabile soltanto in astratto (Sez. 6, n. 53416 del 22.10.2014, PG in proc. M.V.).
4.4. Fondato è anche il motivo di ricorso relativo al
contestato delitto di cui all’art. 323 c.p.
Va al riguardo ribadita la correttezza del riferimento operato dalla ricorrente parte civile al D.P.R. n. 3 del 1957,
art. 13, comma 3, in ordine alla ipotizzata violazione da
parte dell’imputato del dovere di collaborazione.
Tale norma, che impone ad un pubblico dipendente un
particolare dovere di collaborazione con tutti coloro
che operano nella struttura amministrativa in cui egli è
inserito, è ancora in vigore per i dirigenti medici, in
quanto - nonostante la previsione del D.Lgs. n. 3 del
1993, art. 2, e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2 - la
contrattazione collettiva per la dirigenza medica non ha
mai disciplinato la materia e, perciò, non ha determinato la disapplicazione dell’art. 13. Questo, dunque, continua a disciplinare il comportamento del pubblico dipendente dirigente medico. Da tale articolo, peraltro,
secondo la condivisibile giurisprudenza del Consiglio di
Stato, “deve desumersi una volontà normativa più ampia di quanto non possa apparire dalla formula letterale,
per quanto riguarda i soggetti cui si riferisce l’art. 13
cit., comma 3, in modo cioè da ricomprendervi non soltanto superiori e colleghi in senso stretto, ma tutti coloro i quali siano chiamati ad assolvere, per conto della
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amministrazione di appartenenza, compiti sia pure indirettamente attinenti all’attività di organizzazione dell’ufficio cui il dipendente appartiene” (Consiglio di Stato, Sez. 4 Sent. n. 466 del 30/05/1994).
Anche la giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato il perdurante vigore del D.P.R. n. 3 del 1957,
art. 13, sia in ambito di personale pubblico non contrattualizzato (Sez. 6, n. 1777/2006, Rv. 233114, Abeysundera), sia in ambito di dirigenza medica, facendone specifica applicazione proprio con riferimento a caso analogo a
quello in esame, in cui si è ritenuto che il “primario di
un ospedale è tenuto, quale pubblico dipendente, a prestare la sua opera in conformità delle leggi ed in modo
da assicurare sempre l’interesse della pubblica amministrazione, in particolare ispirandosi nei rapporti con i colleghi, ai sensi dell’art. 13 dello statuto degli impiegati civili dello Stato, al principio di una assidua e solerte collaborazione. Sussiste, pertanto, il reato di abuso di ufficio
con violazione di legge, secondo la nuova formulazione
dell’art. 323 c.p., allorché il medesimo ponga in essere
comportamenti di vessazione ed emarginazione dei medici del reparto che non assecondano le proprie scelte”
(Cass. n. 3704/1999, Rv. 213027, Sanna), mentre nel caso oggi in esame, secondo la prospettazione accusatoria,
le condotte contestate sono finalizzate alla vessazione,
mediante emarginazione e sostanziale demansionamento,
di un qualificato professionista. Fondate sono pure le
censure che la parte civile ricorrente ha avanzato in ordine alla applicabilità dell’art. 97 Cost. La giurisprudenza
di legittimità ha sovente negato che il reato di abuso
d’ufficio possa sussistere nella forma della violazione del
predetto articolo, nella parte in cui ha natura meramente
programmatica e, perciò, generica e inutilizzabile in campo penale per la necessità di precisa e tassativa descrizione della norma incriminatrice. Questa Corte ha, però, ritenuto che l’art. 97 Cost., può costituire parametro di riferimento per il reato di abuso d’ufficio nella parte in cui
esso esprime un carattere immediatamente precettivo, in
relazione all’imparzialità dell’azione del funzionario pubblico, che, nel suo nucleo essenziale, si traduce “nel divieto di favoritismi e, quindi nell’obbligo per l’amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi
tutelabili con la medesima misura” (Cass. n 25162/2008.
Rv. 239892, Sassara).
È stato perciò condivisibilmente ritenuto che nella fattispecie di cui all’art. 323 c.p., il requisito della violazione di norme di legge può essere integrato anche soltanto dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della P.A., per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi che impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata
applicazione (cfr. in termini: nn. 27453/2011, Rv.
250422, Acquistucci e 25162/2008, Rv. 239892, Sassara; e, più in generale, anche n. 9862/2009, Rv. 243532,
Rigoldi; n. 155/2011, Rv. 251498; Rossi; Sez. 2, Sentenza n. 35048/2008, Rv. 243183, Masucci).
Ovviamente tale principio, già affermato per l’ipotesi di
favoritismo, deve applicarsi anche al caso di vessazione,
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emarginazione e discriminazione motivata da ritorsione
e finalizzata a procurare un ingiusto danno (Sez. 6, n.
4115 del 14.6.2012, Artibani).
4.5. Alla stregua delle su esposte considerazioni, la sentenza impugnata deve essere annullata con riguardo ai
reati di cui agli artt. 572 e 323 c.p., contestati al capo
A della rubrica con rinvio al Tribunale di Varese, che
dovrà procedere a nuova deliberazione sul punto facendo applicazione dei principi di diritto sopra espressi.
In particolare, il G.U.P. dovrà verificare, nei limiti e per
i fini propri all’udienza preliminare, l’esistenza di una situazione para- familiare e di uno stato di soggezione e subalternità del ricorrente rispetto all’imputato, avendo riguardo, da un lato, alle dinamiche relazionali in seno all’Unità Operativa di Cardiochirurgia dell’Ospedale di
Circolo di (OMISSIS) e, nello specifico, a quelle intercorrenti fra il M. e il S.; dall’altro lato, all’esistenza o meno di una condizione di soggezione e subalternità della
vittima, confrontandosi con le condotte, oggetto di specifica contestazione, attuate dal primario S. nei confronti
della parte civile, quali la destinazione del M. ad attività
di consulenza in struttura diversa dalla precedente, la
nuova ripartizione degli interventi chirurgici tra la stessa
parte civile e gli altri colleghi e l’individuazione di un diverso chirurgo reperibile, anche al fine di inferirne l’eventuale esistenza di un intento vessatorio ed espulsivo
in relazione agli altri elementi di fatto, anche di segno
contrario, legittimamente acquisiti al giudizio. Il giudice
di rinvio dovrà prendere attentamente in esame le circostanze obbiettivamente accertate presenti agli atti del
giudizio ed esplicitare, con motivazione attenta ed immune da vizi logico giuridici, le ragioni per le quali le evenienze indicate dalla pubblica accusa come sintomatiche
siano o meno tali da integrare i reati contestati. Il giudice dovrà, inoltre, verificare se le condotte attuate dall’imputato in danno della persona offesa siano connotate
dai caratteri dell’abitualità, della sistematicità e dell’intenzionalità persecutoria, necessari ai fini della configurabilità della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572
c.p., nonché dalla deliberata violazione di norme e dal
deliberato intento lesivo, propri alla fattispecie di cui all’art. 323 c.p.
Alla luce di quanto fin qui esposto si rende necessario,
in conclusione, l’annullamento della sentenza impugnata in relazione a tutti i reati di cui all’unico capo di imputazione, con rinvio degli atti al Tribunale di Varese
perché, in coerente applicazione dei principi di diritto
dettati dalle richiamate decisioni di legittimità, proceda
a nuovo esame sui punti e profili critici segnalati, anche
con riferimento alle specifiche censure enunciate dal ricorrente, colmando - nella piena autonomia dei relativi
apprezzamenti di merito - le indicate lacune e discrasie
della motivazione.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuova deliberazione al Tribunale di Varese.
(omissis).
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La rilevanza penale del mobbing del primario nei confronti del
medico sottoposto
di Antonella Madeo (*)
Da alcuni anni si è consolidato un indirizzo in giurisprudenza che considera applicabile il delitto
di maltrattamenti in famiglia al c.d. mobbing nell’ambiente di lavoro a condizione che il rapporto
di lavoro abbia carattere parafamiliare, carattere che peraltro esclude aprioristicamente nelle imprese di medio/grandi dimensioni. La sentenza in esame si distacca da questo filone sotto due
profili. In primo luogo, afferma che il carattere parafamiliare è qualitativo e prescinde quindi dalle dimensioni dell’impresa. Inoltre riconduce a detto delitto anche le vessazioni compiute in ambito professionale sanitario pubblico, dove di regola la giurisprudenza ravvisa il delitto di abuso
d’ufficio. Per la Cassazione nel caso in esame il mobbing del primario nei confronti del medico
specializzato integra gli estremi del concorso tra maltrattamenti ed abuso.
Il mobbing nell’ordinamento italiano
La Cass., VI Sez. pen., sent. 23 giugno 2015, n.
40320 (depositata il 7 ottobre 2015), affronta una
questione che negli ultimi anni è spesso giunta all’attenzione della giurisprudenza, ovvero se assuma
rilevanza penale il comportamento c.d. mobbing e,
in caso positivo, a quale o quali fattispecie esso sia
riconducibile.
Prima di analizzare la pronuncia, è opportuno chiarire brevemente cosa si intende per mobbing. Il verbo inglese - letteralmente “assalire tumultuando” è stato introdotto nel linguaggio giuridico per indicare comportamenti vessatori, persecutori ed umilianti, ripetuti e sistematici, realizzati in ambito lavorativo, da parte del superiore gerarchico, del datore di lavoro o del preposto nei confronti del subordinato (mobbing verticale discendente) (1) oppure da parte di lavoratori nei confronti di colleghi
(mobbing orizzontale) o ancora, seppure meno frequentemente, da parte del lavoratore verso il datore o superiore (mobbing verticale ascendente) (2). I
comportamenti sono mirati a infliggere sofferenze,
isolare o licenziare la vittima ed hanno come effetto pregiudizievole, a seconda del fine perseguito, il
demansionamento, il licenziamento o l’induzione
del lavoratore al licenziamento, e in ogni caso sof-
ferenze psichiche (3), quando non addirittura fisiche (4).
Il fenomeno ha assunto proporzioni così gravi e
preoccupanti da indurre il legislatore dell’Unione
europea ad “esortare gli Stati membri a rivedere e,
se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e
le molestie sessuali sul posto di lavoro, nonché a
verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie del mobbing” (5).
Il legislatore italiano non ha tenuto conto delle
suddette richieste, con la conseguenza che a tutt’ora non esiste nel nostro ordinamento una fattispecie penale ad hoc che reprima il mobbing. Ciò nonostante la giurisprudenza cerca di non lasciare impuniti questi fatti ma di contrastarli, facendoli
rientrare in alcuni reati comuni, laddove le modalità del mobbing lo consentano, ferma restando la
possibilità della vittima di ottenere tutela in sede
civile, mediante azione di risarcimento, in ragione
della lesione di suoi diritti nell’ambito del rapporto
contrattuale di lavoro, ex art. 2087 c.c., nonché,
prima dell’accertamento del danno, attraverso
provvedimenti cautelari d’urgenza, ex art. 700
c.p.c., aventi ad oggetto la cessazione del comportamento vessatorio e, qualora questo abbia deter-
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Quando il mobbing è realizzato dal datore di lavoro per
spingere il lavoratore a licenziarsi o per precostituirsi la giusta
causa di licenziamento, si ha il c.d. mobbing strategico, altrimenti detto bossing.
(2) Si ha mobbing ascendente quando il lavoratore, al fine
di ottenere un vantaggio (promozione, mansioni superiori, risarcimento danni), affermi falsamente o tenga dei comportamenti mirati a far credere che il suo datore di lavoro o superiore o preposto abbia nei suoi confronti atteggiamenti vessatori
e persecutori.
(3) Sono tipiche conseguenze del mobbing gli stati emotivi
di stress e ansia, gli attacchi di panico, l’insonnia.
(4) Il mobbing può essere causa di stress così forte da minare il sistema immunitario della vittima e facilitare la formazione
di malattie degenerative (es. tumori) e psicosomatiche (psoriasi e altre dermatiti) o la contrazione di malattie batteriche o virali.
(5) Così l’art. 10 della Risoluzione del 20 settembre 2001, n.
2339 (INI) del Parlamento europeo sul mobbing sul posto di lavoro.
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minato il licenziamento del lavoratore, la reintegrazione sul posto di lavoro.
Premesso che nell’ampia categoria del mobbing
rientrano situazioni molteplici ed eterogenee, non
ci sono problemi a ravvisare la punibilità di quelle
che si manifestano in comportamenti in sé illeciti,
come violenze, minacce, molestie, ingiurie: in tal
caso, infatti, potranno applicarsi, a seconda delle
modalità concrete di mobbing, i delitti di percosse,
di lesioni personali, di minaccia, di violenza privata, di violenza sessuale (6), di ingiuria, di diffamazione, di estorsione (7).
Problematica è, invece, l’attribuzione di una rilevanza penale a forme più subdole di mobbing, contraddistinte da ripetuti comportamenti vessatori e
umilianti, realizzati con modalità e/o mezzi apparentemente legittimi, in quanto rientranti nell’esercizio di un potere discrezionale autoritativo o disciplinare, ma in realtà pretestuosi e abusivi. In altre parole, è difficile l’accertamento e l’inquadramento penale di condotte sorrette da un animus vexandi et nocendi che trovino fondamento, nei casi
più sfumati, in presupposti oggettivi apparentemente giustificanti l’esercizio del potere discrezionale; nei casi più manifesti, in presupposti ingannevoli, falsi o pretestuosi. Si pensi, come esempio
del primo tipo, al datore o preposto o superiore gerarchico che, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, disponga il trasferimento di un lavoratore da
un reparto all’altro o un cambio di mansioni, formalmente in ragione di una migliore organizzazione aziendale o di una maggiore adeguatezza delle
nuove mansioni alle capacità lavorative del dipendente, ma in realtà per l’intento di allontanarlo o
provocargli un disagio (8); e, come esempio del secondo tipo, al caso in cui il superiore o datore di
lavoro adotti provvedimenti disciplinari nei confronti del lavoratore per comportamenti illeciti in
realtà da questo non tenuti (9). Le scelte del superiore, in entrambe le ipotesi, non sono dettate dall’interesse dell’azienda e non sono giustificate né
(6) È il caso di molestie sessuali, frequenti soprattutto nei
confronti di lavoratrici.
(7) Si possono ravvisare gli estremi dell’estorsione, quando
le vessazioni ripetute da parte del datore di lavoro comprendono le minacce di licenziamento del lavoratore se questi non accetta alcune condizioni, come per esempio il demansionamento.
(8) Si veda in tal senso Cass., Sez. VI, 22 settembre 2010,
n. 685, P.C. in proc. C., in Foro it., 2011, II, 97, con riguardo a
vessazioni realizzate da un capo squadra dello stabilimento
Mirafiori nei confronti di un’operaia, in cui, peraltro, è stata
esclusa la rilevanza penale del mobbing.
(9) Così ad esempio in Cass., Sez. VI, 27 maggio 2014, n.
39774, P.L., in D&G, 2014, 65, in cui si è esclusa la rilevanza
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imparziali, bensì mirate ad infliggere sofferenze morali, a punire, ad emarginare o allontanare definitivamente il lavoratore.
La riconducibilità del mobbing al delitto di
maltrattamenti contro familiari e conviventi
In situazioni come quelle sopra descritte la giurisprudenza è cauta nel riconoscere una responsabilità penale, in quanto manca nel nostro ordinamento una fattispecie ad hoc e alcuni reati presenti nel
nostro codice penale, solo a certe condizioni, possono adattarsi ad essere applicati alle condotte di
mobbing; peraltro, come abbiamo già sottolineato,
esiste per il lavoratore sempre la possibilità di ottenere una tutela dei propri diritti in sede civile mediante azione di risarcimento.
Una parte della dottrina (10) si è posta il problema
della riconducibilità del mobbing lavorativo al delitto di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p., in
quanto anche quest’ultimo si caratterizza per l’abitualità di condotte persecutorie, dirette o indirette,
idonee a incutere uno stato di soggezione nella vittima, provocandole un disagio fisico, psichico e un
ragionevole senso di timore (11). Peraltro, si sono
evidenziate condivisibilmente varie differenze tra i
due fenomeni, che rendono difficile l’applicabilità
dell’art. 612 bis c.p. al mobbing. In particolare, lo
stalking si realizza nel settore privato ed attiene alla
dinamica delle relazioni umane, mentre il mobbing
attiene al settore lavorativo e professionale, sia
pubblico che privato; il mobbing può essere realizzato da più persone, mentre lo stalking è un crimine
per lo più monosoggettivo; lo stalking rappresenta
una forma di persecuzione totale, che investe la
vittima ovunque si trovi, mentre il mobbing si realizza solo nell’ambiente di lavoro (12). Soprattutto
ciò che rende incompatibile il mobbing con il delitto di stalking è la diversità di motivazioni, il primo
essendo volto ad allontanare la vittima, a porre fine al rapporto lavorativo, mentre il secondo ad avpenale, ai sensi dell’art. 572 c.p., della condotta dell’amministratore di una azienda di autolinee, che aveva formulato infondate contestazioni disciplinari nei confronti di un lavoratore,
al fine di precostituirsi le condizioni per il licenziamento per
giusta causa, poi effettivamente avvenuto.
(10) A. M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2010; F. Bartolini, Lo stalking e gli atti persecutori nel diritto penale e civile. Mobbing:
molestie, minacce, violenza privata, Piacenza, 2009.
(11) Così C. Renzetti, La rilevanza penale del mobbing: una
questione ancora irrisolta, in Cass. pen., 2011, 3451.
(12) Sul punto si rinvia ad A. M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, cit., 201.
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vicinarla, cercando di creare o ricreare, in modo
impositivo, un rapporto con la stessa (13).
Più idoneo ad essere applicato a continuativi comportamenti vessatori e discriminanti del datore di
lavoro, soprattutto nei rapporti di lavoro privato,
appare il delitto di maltrattamenti contro familiari
e conviventi (art. 572 c.p.). L’adattabilità di questa
fattispecie dipende in primis dall’ampiezza e genericità della condotta incriminata (“maltrattare”),
che per di più non è definita dal legislatore. È la
giurisprudenza che ne ha delineato i contorni, affermando che “maltrattare” significa infliggere sofferenze fisiche o anche solo morali, non necessariamente costituenti di per sé reato (14). E il mobbing,
come abbiamo evidenziato, consiste proprio nell’infliggere umiliazioni, sofferenze morali e/o fisiche, che possono anche non assurgere a fatti di per
sé illeciti.
Inoltre, la condotta di maltrattamento, per rilevare
ai sensi dell’art. 572, deve essere reiterata nel tempo, non essendo sufficienti isolati e sporadici episodi: il maltrattamento, infatti, è un reato abituale (15). E anche sotto questo profilo la norma incriminatrice si presta benissimo ad essere applicata
al mobbing, perché questo si contraddistingue proprio per la ripetitività, la sistematicità e la protrazione nel tempo dei comportamenti vessatori, mortificanti, emarginanti (16). Anzi, come è stato ben
evidenziato da autorevole dottrina (17), i maltrattamenti sono strutturalmente più consoni a punire
il mobbing lavorativo rispetto a reati come le lesioni e la violenza privata dato che questi ultimi sono
reati istantanei che si perfezionano con una sola
condotta.
Altro fattore che consente l’applicazione di questo
delitto è rappresentato dal fatto che i maltrattamenti sono puniti non solo quando commessi nell’ambito della famiglia ma anche all’interno di relazioni interpersonali contraddistinte dalla sottoposizione all’altrui autorità o dall’affidamento ad altri
per ragioni di educazione, istruzione, cura, custodia, vigilanza, o per l’esercizio di una professione o
arte. In particolare, la sottoposizione all’altrui autorità e l’affidamento per l’esercizio di una professione o arte appaiono riferibili rispettivamente al rapporto di lavoro subordinato, privato e pubblico, e
al rapporto professionale.
Ulteriore dato comune tra i maltrattamenti familiari e il mobbing è rappresentato dall’elemento soggettivo, in quanto in entrambe le situazioni le condotte vessatorie e mortificanti sono tenute dall’agente con la consapevolezza e volontà della loro ripetitività e dell’effetto che questa provoca, ovvero
uno stato di sofferenza, di disagio, di malessere nella vittima. Le condotte, cioè, sono unite tra loro
dal dolo, dall’animus vexandi (18).
La giurisprudenza di legittimità, salvo che nelle
primissime sentenze dove ha affermato la riconducibilità del mobbing lavorativo all’art. 572 c.p. ogni
qualvolta se ne ravvisino in concreto i tre sopra citati requisiti del rapporto di supremazia/soggezione
tra mobber e vittima, della ripetitività delle condotte vessatorie e della finalità persecutoria (19), ha
consolidato un’interpretazione più restrittiva che
richiede un quid pluris nel rapporto tra datore di lavoro o superiore gerarchico e lavoratore subordinato: il carattere parafamiliare. Ciò perché le relazioni prese in considerazione dall’art. 572 c.p. sono
(13) Così A. M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politicocriminale e promozione mediatica, cit., 201; R. Bartoli, Mobbing
e diritto penale, in questa Rivista, 2012, 88. Contrario all’applicabilità dell’art. 612 bis c.p. al mobbing è anche A. Galanti, Prime considerazioni in ordine al reato di stalking: se diventasse
(anche) mobbing, in Giust. pen., 2010, II, 64.
(14) Cfr. Cass., Sez. VI, 11 luglio 2014, n. 34197, M.R., in
questa Rivista, 2014, 1060; Cass., Sez. VI, 8 ottobre 2013, n.
44700, P.M. Scardaccione, in Guida dir., 2013, n. 47, 80;
Cass., Sez. VI, 19 giugno 2012, n. 25183, P.M. Scardaccione,
in Cass. pen., 2013, 2338. In senso conforme, in dottrina, A.
Spena, Reati contro la famiglia, in C. F. Grosso - T. Padovani C. E. Pagliaro (diretta da), Trattato di diritto penale. Parte speciale, XIII, Milano, 2012, 363.
(15) In dottrina A. Spena, Reati contro la famiglia, cit., 360;
M. Meneghello, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in S.
Riondato (a cura di), Diritto penale della famiglia, IV, II ed., Milano, 2011, 648; L. Monticelli, Maltrattamenti in famiglia o verso
fanciulli, in A. Cadoppi - S. Canestrari - A. Manna - M. Papa (diretto da), Trattato di diritto penale, Torino, 2009, 650. In giurisprudenza Cass., Sez. VI, 29 gennaio 2014, n. 12020, M.A., in
D&G, 2014, 389; Cass., Sez. VI, 25 settembre 2013, n. 43221,
B., in Giust. pen., 2014, II, 665; Cass., Sez. VI, 31 maggio 2012,
n. 34480, D.L.V. e altro, in Cass. pen., 2013, 3145.
(16) In tal senso L. Monticelli, Mobbing e profili penali, in A.
Cadoppi - S. Canestrari - A. Manna - M. Papa (diretto da), Trattato di diritto penale. Diritto penale del lavoro, Torino, 2015,
1039; R. Bartoli, Mobbing e diritto penale, cit., 86; S. Beltrani,
La rilevanza penale del mobbing, in Cass. pen., 2011, 1286; N.
Folla, Quando il mobbing integra il delitto di maltrattamenti in
famiglia?, in Lav. giur., 2011, 1025; R. Dies, La difficile tutela penale contro il mobbing, in S. Scarponi (a cura di), Il mobbing.
Analisi giuridica interdisciplinare, Padova, 2009, 106; C. Perini,
La tutela penale del mobbing, in F. Carinci (diretto da), Mobbing, organizzazione, malattia professionale, Torino, 2006, 158.
(17) R. Bartoli, Mobbing e diritto penale, cit., 87-88.
(18) In senso conforme L. Monticelli, Mobbing e profili penali, cit., 1039; C. Parodi, Ancora su mobbing e maltrattamenti
in famiglia (nota a Trib. Milano, Sez. V penale, 30.11.2011), in
www.penalecontemporaneo.it del 3 ottobre 2012.
(19) Così Cass., Sez. VI, 22 gennaio 2001, n. 10090, Erba,
in Cass. pen., 2002, 248; Cass., Sez. V, 9 luglio 2007, n. 33624,
P.M. in c. De Nubbio, in Foro it., 2007, II, 593. In senso conforme in dottrina C. Parodi, Ancora su mobbing e maltrattamenti
in famiglia, cit., 14.
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eterogenee e il loro accostamento con previsione
del medesimo trattamento sanzionatorio da parte
del legislatore può spiegarsi solo se tra le stesse si
individui un comun denominatore, ravvisato appunto nel requisito della parafamiliarità.
Si ha parafamiliarità quando il rapporto di lavoro è
caratterizzato da relazioni intense e abituali, da
condivisione di spazi e di tempi, da comunanza di
consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione
di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia
riposta dal soggetto più debole del rapporto in
quello che ricopre la posizione di supremazia, come
accade nelle comunità familiari (20).
Quest’interpretazione è stata criticata sia da una
parte della dottrina (21), sia da una parte della giurisprudenza di merito (22), sotto il profilo della
violazione dei principi di riserva di legge e di uguaglianza e ragionevolezza, in quanto introduce arbitrariamente un requisito - la parafamiliarità - che
non è previsto dall’art. 572 c.p., e che ha effetto
discriminatorio nella misura in cui rende applicabile il delitto solo se le vessazioni avvengono in un
ambiente lavorativo di tipo familiare, non invece
nelle imprese medio/grandi.
A ben vedere, si può prescindere dalla parafamiliarità, per giustificare l’applicabilità dei maltrattamenti al mobbing lavorativo, in quanto l’art. 572
c.p. prevede già espressamente un requisito comune alle relazioni extrafamiliari ed endofamiliari: il
rapporto di supremazia/soggezione. La norma incriminatrice, infatti, accanto al familiare e al convivente, prevede come soggetto passivo dei maltrattamenti la persona sottoposta all’autorità del maltrattante o affidata a questo. Ratio di questo requisito è da rinvenirsi nel fatto che la posizione di superiorità e i poteri direttivi e disciplinari da essa
derivanti, da un lato, favoriscono, nell’ambiente
lavorativo e professionale come in quello familiare,
manifestazioni di prepotenza e prevaricazione del
soggetto in posizione di supremazia e rendono al
contempo difficile al sottoposto sottrarsi alle vessa-
zioni in ragione della sua posizione di debolezza;
dall’altro, determinano nel vessato una percezione
della sofferenza maggiore rispetto a quella che
avrebbe se il comportamento persecutorio ed umiliante provenisse da un estraneo. È innegabile, infatti, che “fa più male” essere sbeffeggiati e denigrati da una persona con la quale si ha un rapporto
stretto, piuttosto che da una persona con la quale
il rapporto è più superficiale o comunque meno
coinvolgente.
Anche a condividere la tesi che considera comune
alle relazioni previste dall’art. 572 il carattere parafamiliare, l’atteggiamento della giurisprudenza di
legittimità appare contraddittorio. Emerge, infatti,
che, pur facendosi riferimento, per l’accertamento
della parafamiliarità, a criteri qualitativi, quali la
natura del rapporto, il contatto diretto e prossimo
tra datore e lavoratore, la comunanza di vita e di
abitudini, la condivisione degli spazi lavorativi,
l’affidamento e la fiducia del lavoratore nei confronti del superiore, anziché a criteri quantitativi,
quali le dimensioni e la complessità dell’azienda, il
numero dei dipendenti, sostanzialmente si esclude
la parafamiliarità e, conseguentemente, il delitto di
cui all’art. 572, proprio nei casi in cui i comportamenti persecutori sono tenuti all’interno di imprese di grandi dimensioni e/o con un numero consistente di lavoratori (23). E a conferma di ciò, in
molte pronunce si fa riferimento, come esempi di
relazioni lavorative e professionali contraddistinte
da parafamiliarità, al rapporto tra padrone di casa e
colf e tra maestro e apprendista, implicitamente intendendosi questo carattere ravvisabile solo in un
ambiente lavorativo molto circoscritto, fatto di pochi dipendenti, se non addirittura di un unico lavoratore.
Una posizione così restrittiva non ci trova concordi; un rapporto basato sulla fiducia e sull’affidamento, simile a quello familiare, si può cogliere anche nelle imprese di medie e grandi dimensioni.
Occorre che queste non siano prese in considera-
(20) Così Cass., Sez. VI, 16 ottobre 2014, n. 49545, P., in
Foro it., 2015, II, 461; Cass., Sez. VI, 5 marzo 2014, n. 13088,
B.C. e I.S., in Guida dir., 2014, n. 16, 107; Cass., Sez. VI, 28
marzo 2012, n. 12517, R. e altro, in Riv. pen., 2012, 748; Cass.,
Sez. VI, 10 ottobre 2011, n. 43100, R.C. e P., in Cass. pen.,
2012, 2983; Cass., Sez. VI, 22 settembre 2010, n. 685, cit.
(21) A. Della Bella, La repressione penale del mobbing nelle
aziende di grandi dimensioni (nota a Trib. Milano, Sez. di Cassano d’Adda, 14.3.2012), in Corr. mer., 2013, 198; L. Zoli, Sulla rilevanza penale del mobbing: i maltrattamenti sono configurabili
anche all’interno di imprese medio/grandi, in www.penalecontemporaneo.it del 28 gennaio 2015.
(22) Trib. Milano, Sez. di Cassano d’Adda, 14 marzo 2012,
in Corr. mer., 2013, 195; Trib. Milano, Sez. V pen., 30 novem-
bre 2011, in www.penalecontemporaneo.it del 3 ottobre 2012.
(23) Ad esempio si è esclusa l’applicabilità dell’art. 572 nei
confronti di una datrice di lavoro accusata di comportamenti
vessatori nei confronti di un dipendente, in ragione dell’incompatibilità del carattere della parafamiliarità con la realtà aziendale del caso, caratterizzata da uno stabilimento di notevole
entità spaziale e dalla presenza di circa cinquanta dipendenti
(Cass., Sez. VI, 5 marzo 2014, n. 13088, cit.). Analogamente si
è esclusa la parafamiliarità in un caso di mobbing realizzato
dal direttore generale di una grande azienda, ritenendosi questo carattere non ravvisabile in un’organizzazione articolata, in
cui si contavano centinaia di dipendenti ed erano presenti, tra
i soggetti apicali, anche i c.d. quadri intermedi (Cass. Sez. VI, 6
febbraio 2009, n. 26594, P.M., in Foro it., 2009, II, 533).
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zione come realtà unica e complessa, dove i lavoratori perdono la loro individualità e il rapporto col
superiore si spersonalizza, ma nella dimensione
“parcellizzata”, in quanto le imprese medio/grandi
sono sempre articolate in tante piccole unità (sedi,
reparti, settori) fatte di spazi lavorativi circoscritti,
gestiti da un preposto che ha la responsabilità di
un numero limitato di persone. L’instaurazione di
un rapporto parafamiliare è ben possibile tra preposto e lavoratori di un reparto o di un settore. Non
bisogna, in altri termini, dare per scontato che, siccome in un’azienda grande e complessa il rapporto
tra datore di lavoro e subordinato è distante e spersonalizzato per mancanza di un contatto diretto e
personale, non sia possibile in assoluto un rapporto
parafamiliare all’interno della struttura. In queste
realtà lavorative complesse le funzioni e, con esse,
i relativi poteri decisionali e disciplinari, sono delegati a vari preposti. Pertanto, il rapporto parafamiliare può intercorrere tra preposti (ad esempio,
capi reparto, responsabili di settore, responsabile
del personale) e lavoratori sottoposti. Se la grandezza di un’impresa non deve comportare una presunzione di mancanza di parafamiliarità, la sua parcellizzazione in tante piccole unità lavorative non
deve, peraltro, neppure determinare la presunzione
contraria di sussistenza di parafamiliarità. Deve essere accertata dal giudice nel caso concreto la natura e la qualità del rapporto intercorrente tra preposto e sottoposto: laddove venga riscontrata nei
fatti la sussistenza di un rapporto personale diretto
ed assiduo, che determini nel superiore un dovere
di assistenza, di solidarietà, di formazione, e nel
sottoposto fiducia e affidamento nel primo, si potrà
ravvisare il carattere familiare che rende applicabile, in caso di vessazioni, il delitto di cui all’art. 572
c.p.
Dobbiamo, peraltro, evidenziare che il requisito di
supremazia/soggezione, espressamente previsto dall’art. 572 c.p., che deve contraddistinguere il rapporto lavorativo/professionale determina un limite
all’applicazione del delitto in esame: esso è adattabile solo al mobbing verticale discendente, non invece a quello verticale ascendente, perché commesso dal subordinato nei confronti del superiore,
né al mobbing orizzontale, perché commesso da un
soggetto di pari grado (24).
La sentenza in esame merita attenzione proprio
perché contrasta con la tendenza dominante sopra
descritta; appartiene, cioè, ad un filone minoritario
nella giurisprudenza di legittimità (25), che realmente prescinde da valutazioni quantitative nell’accertamento della parafamiliarità.
Il mobbing, nel caso di specie, è stato realizzato in
ambito sanitario dal primario dell’Unità operativa
di cardiochirurgia di una struttura ospedaliera pubblica nei confronti di un suo sottoposto, un medico
specializzato in cardiochirurgia e ricercatore universitario: in altre parole, all’interno di un rapporto
di lavoro pubblico professionale di alta qualificazione, anziché nell’ambito di un rapporto di lavoro
privato. I plurimi comportamenti tenuti dal primario, aventi intento persecutorio e umiliante, oltre
che pregiudizievole per la professionalità dello specializzato, erano consistiti nell’esautorare questo
dal compito, precedentemente affidatogli, di effettuare consulenze cardiologiche, in virtù di una
convenzione con l’ASL, presso determinate strutture ospedaliere - compito trasferito ad altro medico -, nonché nel ridurre sempre di più l’attività
cardiochirurgica del medesimo, al punto da far diventare gli interventi da questo effettuati come primo operatore di gran lunga numericamente inferiori, oltre che qualitativamente meno “formativi” e
“professionalizzanti”, rispetto agli interventi tenuti
da colleghi con minore anzianità di servizio, così
da compromettere lo sviluppo professionale del
cardiochirurgo.
I suddetti fatti venivano contestati nei capi d’accusa ai sensi dei delitti di maltrattamenti verso familiari e conviventi ex art. 572 c.p. e di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. Il G.U.P. di Varese pronunciava
sentenza di non luogo a procedere per insussistenza
dei fatti ascritti al primario, ritenendo non configurabile il primo delitto per mancanza dei requisiti
della “parafamiliarità” e di supremazia-soggezione
nel rapporto tra primario e cardiochirurgo; e il secondo delitto perché la norma integratrice del precetto penale, la cui violazione avrebbe configurato
abuso d’ufficio, sarebbe stata troppo indeterminata
e quindi non idonea a fondare un addebito di responsabilità (26).
(24) Questo aspetto porta una parte della dottrina a ritenere
inadeguato in assoluto il delitto di maltrattamenti alla repressione penale del mobbing. In tal senso S. Bonini, “Dalla fase
zero alla fase sei”. Aspetti penalistici del mobbing, in S. Scarponi (a cura di), Il mobbing. Aspetti interdisciplinari, Padova,
2009, 62; R. Dies, La difficile tutela penale contro il mobbing, in
S. Scarponi (a cura di), Il mobbing. Analisi giuridica interdisciplinare, cit., 118.
(25) In tal senso Cass., Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416,
M.V. e altro, in D&G online del 23 dicembre 2014.
(26) Il primario era stato accusato di aver violato l’art. 13,
comma 3, d.P.R. 10 gennaio 1957 (Testo unico delle disposi-
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Il caso
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Contro la sentenza del G.U.P. il medico proponeva ricorso in Cassazione, lamentando violazione di
legge ed erronea applicazione dell’art. 572 c.p. nella parte in cui venivano esclusi i requisiti della parafamiliarità e della supremazia-subordinazione nel
rapporto intercorrente tra lui e il primario, nonché
violazione dell’art. 323 c.p. nella parte in cui venivano ritenuti gli artt. 3, d.P.R. n. 3/1957 e 97
Cost. inidonei come fonte di obblighi la cui violazione possa costituire abuso d’ufficio.
La decisione della Cassazione: sulla
configurabilità del delitto di maltrattamenti
contro familiari e conviventi
La pronuncia in esame accoglie in toto il ricorso,
annullando la sentenza impugnata con rinvio al
G.U.P. di Varese al fine di una nuova deliberazione in ordine alla configurabilità dei maltrattamenti
e dell’abuso di ufficio.
Ciò per la ragione che il G.U.P. di Varese ha apoditticamente escluso che un rapporto tra professionisti di alta qualificazione possa essere contraddistinto da una condizione di supremazia/soggezione
ed ha affermato che comunque, anche ad ammetterne la sussistenza, nel caso di specie non era ravvisabile l’altro requisito essenziale, rappresentato dalla
parafamiliarità, date le dimensioni e la complessità
della struttura ospedaliera. Il giudice di merito ha
escluso il carattere parafamiliare (e conseguentemente la configurabilità dell’art. 572 c.p.), utilizzando apertamente i criteri quantitativi, in conformità
alla tendenza della giurisprudenza dominante.
La Cassazione prende le distanze da questa linea
interpretativa, affermando innanzitutto che anche
in un rapporto professionale di elevata qualificazione, come quello del caso in esame intercorrente tra
primario e medico specializzato, sussiste una relazione di supremazia/soggezione, che pone il secondo in condizione di dipendenza dal primo, nonché
di debolezza, in quanto le decisioni del superiore
possono, come nel caso di specie in cui avevano
comportato un drastico demansionamento del sottoposto, “metterne a rischio non solo le prospettive
di acquisizione di più elevate abilità, ma lo stesso
zioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato),
che impone ai pubblici dipendenti l’osservanza del principio di
assidua e solerte collaborazione, nonché l’art. 97 Cost. nella
parte in cui impone l’obbligo di imparzialità del pubblico funzionario.
(27) Così letteralmente si legge in un passo della sentenza
in commento.
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mantenimento delle proprie capacità professionali” (27).
Il principio è condivisibile. Il fatto che primario e
aiuto siano entrambi medici e collaborino professionalmente non deve far pensare che essi siano in
posizione paritaria. Sono comunque superiore e
sottoposto, in quanto il primario dirige un reparto
- nel caso di specie l’unità di cardiochirurgia dell’ospedale -, determina e affida i compiti ai medici
strutturati che vi afferiscono ed impartisce loro direttive di lavoro. I medici sono, quindi, suoi sottoposti, tenuti a rispettare le sue decisioni e a svolgere il lavoro in conformità alle sue direttive, in
quanto affidati alla sua responsabilità.
Una volta affermata la sussistenza di un rapporto
di supremazia/soggezione, la Cassazione si spinge
oltre e va contro l’interpretazione dominante, affermando che la parafamiliarità di cui all’art. 572,
da intendersi come stretta personalità della relazione lavorativa/professionale tra due soggetti, non è
incompatibile con la struttura ospedaliera, pur
complessa, in cui si sviluppa il rapporto professionale tra primario e medici sottoposti.
Lo svolgimento dell’attività medico-chirurgica da
parte dei secondi avviene, infatti, come abbiamo
poc’anzi evidenziato, sotto il controllo e secondo le
direttive del primo, il quale è per essi maestro e
formatore professionale, oltre che superiore gerarchico. I medici strutturati afferenti al reparto/unità
di cui il primario è il responsabile sono suoi “allievi” e sottoposti, che lo coadiuvano nell’attività sanitaria. Tra l’uno e gli altri, quindi, c’è un rapporto
di collaborazione e solidarietà professionale, con
un contatto diretto, personale, quotidiano o quasi,
che determina una condizione di dipendenza, fiducia e affidamento dei medici sottoposti, come accade nelle comunità familiari. Anche quando il primario ha un atteggiamento distaccato, ciò non significa che venga meno la parafamiliarità, ma solo
che egli vuole evidenziare la distanza professionale
e gerarchica esistente. Parafamiliarità, d’altronde,
non significa confidenza (28), ma comunanza di vita e di abitudini, condivisione di spazi, nel nostro
caso lavorativi, e questa sicuramente sussiste tra il
primario e i medici suoi collaboratori e sottoposti.
(28) Con riguardo al fatto che la parafamiliarità non deve
essere confusa con la confidenza, si rinvia a Cass., Sez. VI, 26
giugno 2014, n. 31713, L.P. e altri, in D&G online del 18 luglio
2014, che ha escluso la riconducibilità al delitto di cui all’art.
572 c.p. di condotte vessatorie tenute da responsabili di reparto di una grande azienda nei confronti di alcune lavoratrici.
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Non è condivisibile, pertanto, la tesi sostenuta dal
G.U.P. di Varese, oltre che da varie pronunce di
legittimità in tema di mobbing sanitario (29), che il
carattere parafamiliare è incompatibile con una
struttura complessa come quella ospedaliera. Il requisito, infatti, va riferito ai singoli rapporti professionali esistenti all’interno dei reparti, nel caso di
specie dell’unità di cardiochirurgia, e non alla
struttura ospedaliera nel suo complesso, così come
abbiamo detto con riguardo alle imprese private,
dove si deve fare riferimento ai reparti e ai settori,
anziché a tutta l’azienda.
In ordine alle vessazioni compiute nell’ambito di
un rapporto di lavoro pubblico sanitario la giurisprudenza, quando ne ammette la rilevanza penale,
ravvisa tendenzialmente il delitto di abuso d’ufficio
anziché quello di maltrattamenti contro familiari e
conviventi (30).
I comportamenti e i provvedimenti aventi natura
persecutoria e discriminante nei confronti di un
sottoposto all’interno di strutture ospedaliere pubbliche provengono, infatti, da medici che rivestono
la qualifica di pubblico funzionario: in tale veste
essi possono essere chiamati a rispondere del reato
proprio di abuso d’ufficio. Tali condotte, infatti,
solo apparentemente rientrano nell’esercizio di un
potere disciplinare e autoritativo, configurando in
realtà un abuso, perché fondate su presupposti falsi
o quantomeno pretestuosi e sorrette da un animus
vexandi vel nocendi. In particolare, esse sono ricondotte, sia nella sentenza in esame sia in altre pronunce di legittimità relative a mobbing sanitario,
all’abuso d’ufficio per violazione di legge e precisamente per inosservanza del dovere di assidua e solerte collaborazione tra pubblici funzionari, di cui
all’art. 13, comma 3, d.P.R. 10 gennaio 1957 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto
degli impiegati civili dello Stato), nonché del dovere di imparzialità, ex art. 97 Cost.
Quando un primario o altro dirigente medico demansiona un suo sottoposto o ne riduce l’attività o
la penalizza con l’affidamento di compiti qualitativamente meno apprezzabili e meno qualificanti
professionalmente o crea in altro modo pregiudizio
e mortificazione al medico sottoposto, se questo
comportamento o provvedimento non è giustificato da reali motivi di incapacità professionale o di
insubordinazione del sottoposto, bensì da ragioni
personali del superiore, tipo voler favorire altri medici o punire il non assecondamento delle proprie
pretese illecite da parte della vittima, l’esercizio del
potere autoritativo e disciplinare diventa abuso per
violazione dei doveri di collaborazione e di imparzialità. I dirigenti medici, infatti, in quanto dipendenti pubblici, sono tenuti a collaborare con tutti
coloro che operano nella medesima struttura ospedaliera, sia coi colleghi di pari grado, sia coi superiori gerarchici, sia coi sottoposti. Il dovere di collaborazione, imposto dall’art. 13 del Testo unico
sugli impiegati pubblici, è esteso ai dirigenti medici, secondo l’interpretazione consolidata nella giurisprudenza amministrativa ed accolta anche dalla
sentenza in esame, in quanto la contrattazione collettiva per la dirigenza medica nulla dispone in materia. La Cassazione, nel caso in esame, afferma anche che l’art. 13 ha un contenuto precettivo sufficientemente determinato da costituire fonte di un
dovere la cui violazione configura abuso d’ufficio.
Mentre sulla riconducibilità all’abuso d’ufficio della
violazione dell’art. 13, d.P.R. n. 3/1957 c’è concordia nella giurisprudenza di legittimità (31), non altrettanto può dirsi con riguardo alla violazione dell’art. 97 Cost. Secondo un’interpretazione diffusa
in passato ed accolta dal G.U.P. di Varese, la norma costituzionale ha natura programmatica e quindi non può essere oggetto di diretta violazione (32). La Cassazione, invece, seguendo un filone
più recente, riconosce valore precettivo alla dispo-
(29) Significativa è una sentenza (Cass., Sez. VI, 16 ottobre
2014, n. 49545, C.E.A.M. e altri, in Foro it, 2015, II, 461) che ha
escluso che i ripetuti comportamenti vessatori tenuti da un dirigente sanitario nei confronti di una dottoressa sua sottoposta
costituissero maltrattamenti ai sensi dell’art. 572 c.p., proprio
per incompatibilità del carattere parafamiliare con il rapporto
professionale ospedaliero. Si legge in proposito che “ancorché
le dimensioni del presidio ospedaliero di (omissis), teatro della
condotta denunziata, non siano certamente paragonabili a quelle di un grande centro urbano, è tuttavia da escludere che il carattere di struttura pubblica possa prevedere nel suo ambito forme di subordinazione lavorativa del tipo di quelle richiamate dalle citate pronunce”, ossia aventi appunto carattere parafamiliare.
(30) Vedi Cass., Sez. VI, 14 giugno 2012, n. 41215, A.W., in
Cass. pen., 2013, 3142; Cass., Sez. VI, 17 febbraio 2011, n.
27453, Acquistucci, in Guida dir., 2011, n. 45, 82; Cass., Sez.
VI, 12 febbraio 2008, n. 25162, Sassara, in Cass. pen., 2009,
1025; Cass., Sez. V, 12 febbraio1999, n. 3704, Sanna, in Giust.
pen., 2000, II, 112.
(31) Cfr. Cass., Sez. VI, 14 giugno 2012, n. 41215, A.W.,
cit.; Cass., Sez. VI, 21 novembre 2005, n. 1777, Abeysundera,
in Cass. pen., 2007, 2064; Cass., Sez. V, 12 febbraio 1999, n.
3704, Sanna, cit.
(32) Vedi Cass., Sez. VI, 18 febbraio 2009, n. 13097, C.T. e
altri, in CED, n. 243577; Cass., Sez. VI, 10 aprile 2007, Meaggia, in Guida dir., 2007, n. 28, 76; Cass., Sez. VI, 11 ottobre
2005, n. 12769, F.D., in CED, n. 233730; Cass., Sez. VI, 8 mag-
(Segue). La rilevanza del mobbing sanitario
come abuso d’ufficio
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Giurisprudenza
Diritto penale
sizione costituzionale nella parte in cui impone
che l’azione della pubblica amministrazione - quindi anche di quella sanitaria svolta dai dirigenti medici - sia conforme al principio di imparzialità. Si
ha violazione di questo principio quando un superiore gerarchico tiene comportamenti mirati a favorire alcuni sottoposti a discapito di altri più meritevoli. Ciò è accaduto nel caso in esame, nel momento in cui l’attività cardiochirurgica del medico
sottoposto è stata progressivamente sempre più ridotta dal primario, con correlativo incremento dell’attività di altri cardiochirurghi aventi minore anzianità, favoriti ingiustificatamente dal primario.
Ulteriore aspetto che rende la sentenza in commento peculiare e condivisibile, nonché inusuale
rispetto agli orientamenti della giurisprudenza in
tema di mobbing sanitario, è l’aver ravvisato nella
condotta persecutoria e discriminante del primario
un concorso formale di reati. In casi analoghi, i
giudici, quando ammettono la responsabilità penale del dirigente medico, la riconducono al solo delitto di abuso d’ufficio. Qui, invece, la si riferisce
anche al delitto di maltrattamenti contro familiari
o conviventi. Nella sentenza, in realtà, questo
aspetto non viene messo in risalto, perché non viene spiegata la ragione dell’applicabilità del concorso di reati. Sotto questo profilo, la decisione appare
deficitaria. Ratio del concorso è da ravvisarsi nella
plurioffensività del fatto, in quanto il comportamento vessatorio del dirigente medico, diversamente da quello realizzato all’interno di in rappor-
to di lavoro privato, oltre a ledere la personalità
del sottoposto, offende anche l’interesse della p.a.
ad un’azione imparziale dei propri funzionari pubblici. Solo il concorso formale dei maltrattamenti
contro familiari e dell’abuso d’ufficio consente,
quindi, di coprire l’intero disvalore del fatto, in
quanto il primo delitto tutela l’interesse della personalità del sottoposto vessato (33) e il secondo
l’interesse all’imparzialità dell’azione amministrativa, nel nostro caso in ambito sanitario.
La decisione, si è detto, è inusuale. La giurisprudenza, infatti, tendenzialmente è molto cauta già
ad applicare il solo delitto di maltrattamenti alle
vessazioni in ambito lavorativo/professionale, per il
fatto che l’art. 572 c.p. prevede pene molto severe,
ritenute sproporzionate rispetto a fatti di questo genere. Nel nostro caso, invece, la Cassazione non si
è fatta condizionare dalla cornice edittale e, addirittura, ha ritenuto configurabile, diversamente dal
G.U.P. di Varese, il concorso con l’abuso d’ufficio,
reato pure punito severamente.
È facile prevedere, peraltro, che la sentenza in
commento rimarrà isolata o quanto meno inserita
in un filone minoritario. Ne è prova il fatto che subito dopo questa pronuncia la Sezione VI della
Cassazione, in un caso di mobbing realizzato dal datore di lavoro nei confronti di un lavoratore col
quale sussisteva anche un vero e proprio rapporto
familiare (34), ha ciò nonostante escluso il carattere parafamiliare e la configurabilità del delitto di
maltrattamenti (35).
gio 2003, n. 35108, Zardini, in Cass. pen., 2004, 4073.
(33) Superata la tesi risalente, pur autorevole, secondo la
quale la collocazione nel Titolo XI farebbe sì che debba considerarsi oggetto giuridico dell’art. 572 c.p. l’interesse dello Stato di salvaguardare la famiglia quale nucleo elementare, mentre l’incolumità e il decoro delle persone che ne fanno parte
sarebbero interessi presi in considerazione in via subordinata e
riflessa (così V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, VII,
Torino, 1984, 926; R. Gioffredi, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Noviss. Dig. it., 1939, 37), la dottrina prevalente
ritiene che non sia la famiglia oggetto della tutela, perché, se
così fosse, non si spiegherebbe perché la condotta di maltrattamenti sia prevista nella medesima disposizione e punita col
medesimo trattamento sanzionatorio anche in rapporti extrafamiliari (cura, vigilanza, autorità, professione). Peraltro, mentre
alcuni individuano l’oggetto giuridico nell’integrità fisica e morale della persona, in particolare di chi è parte debole del rapporto familiare od extrafamiliare (così G. D. Pisapia, Delitti contro la famiglia, Torino, 1953, 95 ss.; G. Azzali, La concubina
quale soggetto passivo del reato di maltrattamenti, in Riv. it. dir.
pen., 1950, 528) altri sostengono in modo condivisibile che,
essendo i maltrattamenti puniti in ragione della loro reiterazione, è preferibile parlare di offesa della personalità che coinvolge tutto l’individuo nell’intera sua dimensione e dignità di persona (così F. Coppi, Maltrattamenti in famiglia, in Enc. dir.,
XXV, Milano, 1975, 236; in senso conforme L. Monticelli,
Mobbing e profili penali, cit., 1044; C. Parodi, Ancora su mobbing e maltrattamenti in famiglia, cit., 7; G. Pavich, Il delitto di
maltrattamenti. Dalla tutela della famiglia alla tutela della personalità, Milano, 2012, 10).
(34) Il datore di lavoro, titolare dell’impresa insieme al figlio,
era anche suocero del lavoratore. Egli, proprio dopo il matrimonio del lavoratore con sua figlia, aveva cominciato a trattare
male il genero, anche davanti agli altri dipendenti, e ad emarginarlo sempre di più.
(35) Cass., Sez. VI, 15 settembre 2015 n. 44589, C.L. e
C.C., in D&G online del 5 novembre 2015.
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Processo penale
Messa alla prova
Prime criticità applicative
in tema di sospensione
del processo per la messa
alla prova
di Luigi Annunziata (*)
Con Legge n. 67/2014 si introduceva l'istituto della sospensione del processo per la messa alla prova dell'imputato (c.d. probation processuale), mutuato dal rito minorile. La natura ibrida dell'istituto
e le peculiarità della relativa disciplina hanno generato difficoltà finanche in ordine al suo inquadramento sistematico: procedimento speciale o causa estintiva del reato? Tali difficoltà si sono riverberate sull'applicazione pratica della normativa di nuovo conio; ciò nonostante, si è registrata una proliferazione di richieste di accesso alla probation. La concreta risoluzione delle criticità emerse è stata
e sarà rimessa agli interventi della giurisprudenza di merito e di legittimità, cui resta affidata la coerente applicazione dell'istituto: in questo quadro, l'opera esegetica dell'interprete non pare poter
prescindere dal costante confronto con gli approdi giurisprudenziali succedutisi in materia.
Cenni introduttivi
Se ne coglie nitidamente la natura ibrida: non a ca-
Con L. n. 67 del 28 aprile 2014, il legislatore ha
disciplinato le ipotesi di sospensione del processo
penale per la messa alla prova dell’imputato (c.d.
probation processuale): come noto, si tratta di un
istituto mutuato dal rito minorile ed esteso al processo a carico di imputati maggiorenni (1).
so la relativa disciplina si deve tanto a disposizioni
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Per una sommaria disamina dell’istituto “originario” e
delle relative criticità applicative, si vedano tra gli altri M.G. Basco-S. De Gennaro, La messa alla prova nel processo penale
minorile, Torino, 1997; L. Biarella, Processo penale minorile,
Montecatini Terme, 2011, 128 ss.; Ead., La messa alla prova
dell’imputato minorenne, in nel diritto.it, n. 6/10, 803 ss.; M.
Bouchard, Processo penale minorile, in Dig. pen., X, Torino,
1995, 152; L. Caraceni, Processo penale minorile, in Enc. dir.,
IV, Agg., Milano, 2000, 1038; M. Colamussi, Una risposta alternativa alla devianza minorile: la “messa alla prova”. Profili controversi della disciplina, C.P., 1996, 2809; S. Di Nuovo-G. Grasso, Diritto e procedimento penale minorile, 2005, Milano, 470;
L. Fadiga, Le regole di Pechino e la giustizia minorile, in Giust.
cost., 1989, 2, p. 16; U. Gatti - M. Marugo, La sospensione del
processo e messa alla prova: limiti e contraddizioni di un “nuovo” strumento della giustizia minorile, in R. crim., 1992, 1, 85;
S. Giambruno, Il processo penale minorile, Padova, 2003; P.
Giannino, Il processo penale minorile, Padova, 1997; E. Lanza,
La sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato
minorenne, Milano, 2003; C. Losana, Sub art. 28 disp. proc. mi-
n.,in Comm. Chiavario-Proc. min., 289; P. Martucci, Il difficile
equilibrio tra giudici e servizi, MG, 1994, 3, 96; V. Mazza-F. Galanti-I. Patrone, La messa alla prova e la mediazione penale,
D.e.P., 1993, 2, 162; A. Mestitz, Messa alla prova e mediazione
penale, MG, 2005, 1, 47; F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Milano, 1991; V. Patané, L’individualizzazione del processo penale minorile, Milano, 1991; P. Pazè, Processo, difesa, servizi ed assistenza al minore, QCSM, 1989, 538;
L. Pepino, Sospensione del processo con messa alla prova, in
D. pen., XIII, Torino, 1997, 481; Id., Imputato minorenne, in D.
pen., VI, Torino, 286; V. Pugliese, La messa alla prova del minore al vaglio della Cassazione, MG, 1996, 1, 97; E. Sacchettini,
La sospensione è revocata per le ripetute trasgressioni alle prescrizioni imposte, in Famiglia e Minori, 1° giugno 2008, n. 6, 22;
G. Spangher, Lineamenti del processo minorile riformato, in GP,
1992, III, 201; Id., Sub art. 3 disp. proc. min., in Comm. Chiavario-Proc. min., 55; M. Sturlese, Carcere minorile e comunità terapeutiche: custodia o trattamento? (Spotorno 9-10 maggio
2003), in Cass. pen., 2003, 11, 3594.
(2) Per una prima analisi sulle caratteristiche dell’istituto di
nuovo conio, si vedano G. Amato, L’impegno è servizi sociali e
lavori di pubblica utilità, in Guida dir., 2014, 21, 87 ss.; R. Barto-
Diritto penale e processo 1/2016
di carattere sostanziale (artt. 168 bis, 168 ter, 168
quater, 657 bis c.p.) quanto a norme processuali
(artt. 464 bis, 464 novies c.p.p. ed agli artt. 141 bis
e 141 ter disp. att. c.p.p.) (2).
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Processo penale
La commistione ontologica si riverbera sugli effetti
previsti in caso di positivo superamento della probation: la prevista integrazione di una nuova causa
di estinzione del reato determina, come di consueto, il proscioglimento dell’imputato.
L’introduzione di una messa alla prova anche per
gli adulti si deve ad una triplice esigenza: promuovere la deflazione della popolazione carceraria,
mettendo un serio freno al cronico sovraffollamento degli istituti di pena; alla stessa stregua, rispondere alle sollecitazioni provenienti sul punto dalla
Corte europea dei diritti dell’uomo (3); infine, non
meno rilevante, incentivare l’alleggerimento del
carico processuale.
Tali esigenze ed i conseguenti obiettivi vengono
perseguiti dal legislatore attraverso una sorta di responsabilizzazione del reo, favorendone il reinserimento sociale e la rieducazione non più attraverso
il “transito” dagli istituti di pena (transito, in realtà, per lo più “figurato”, visti i limiti edittali entro
i quali si atteggia l’applicazione della probation),
bensì mediante la preferenza accordata alla realizzazione di condotte riparatorie e/o risarcitorie in fa-
vore della vittima del reato, che in tal modo vedrebbe “evaporare” più rapidamente le conseguenze
deleterie del comportamento criminale subìto, peraltro senza essere costretta a “rivivere” tali circostanze nell’altrimenti imprescindibile agone dibattimentale (4).
Vi sono tuttavia diverse ragioni per le quali l’introduzione della probation anche nel processo penale a
carico di imputati maggiorenni rischi di non replicare le “fortune” riscontrate nell’ambito del rito
minorile e, soprattutto, di non riuscire a centrare
gli obiettivi cui dichiaratamente è ispirata: alcune
di tali ragioni risultano ancorate alla natura stessa
dell’istituto; altre sono emerse con prepotenza già a
seguito delle primissime applicazioni della normativa di nuovo conio.
Tra le prime, deve anzitutto segnalarsi come l’accesso alla probation appaia generare non già la sospensione del processo per la messa alla prova, ma
l’applicazione di una sorta di “cripto-pena” (5) su richiesta della stessa parte destinata a subirne gli effetti, poiché presupposto necessario per accedere
all’istituto sembra essere l’accertamento della sussi-
li, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una
goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in questa Rivista, 2014, 661 ss.; V. Bove, Messa alla prova per gli adulti: una
prima lettura della L. 67/2014, in www.penalecontemporaneo.it, 25 giugno 2014; M.S. Calabretta-A. Mari, La sospensione del procedimento (l. 28 aprile 2014, n. 67), Milano, 2014; M.
Chiavario, Diritto processuale penale, VI ed., Torino, 2015, 626
ss.; C. Conti-A. Marandola-G. Varraso (a cura di), Le nuove norme sulla giustizia penale, Padova, 2014; R. De Vito, La scommessa della messa alla prova dell’adulto, in Questione giustizia,
2013, 6, 9 ss.; A. Di Tullio D’Elisiis, La messa alla prova dell’imputato, Rimini, 2014; G. L. Fanuli, L’istituto della messa alla prova ex lege 28 aprile, n. 67. Inquadramento teorico e problematiche applicative, in Arch. n. proc. pen., 2014, 427 ss.; F. Fiorentin, Preclusioni e soglie di pena riducono la diffusione, in Guida
dir., 2014, 21, 68 ss.; Id., Revoca discrezionale per chi viola il
programma, ivi, 83; Id., Risarcire la vittima è condizione imprescindibile, ivi, 75 ss.; Id., Rivoluzione copernicana per la giustizia
riparativa, ivi, 63 ss.; Id., Una sola volta nella storia giudiziaria
del condannato, ivi, 70 ss.; Id., Volontariato quale forma di “riparazione sociale”, ivi, 78 ss.; R. Fonti, Novità legislative interne,
in Proc. pen. giust., 2014, 4, 10 ss.; M. L. Galati-L. Randazzo,
La messa alla prova nel processo penale. Le applicazioni pratiche della legge n. 67/2014, Milano, 2015; F. Giunchedi, Probationitalian style: verso una giustizia riparativa, in www.archiviopenale.it; A. Marandola, La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica
criminale, in questa Rivista, 2014, 674 ss.; M. Miedico, Sospensione del processo e messa alla prova anche per i maggiorenni,
in www.penalecontemporaneo.it, 14 aprile 2014; R. Piccirillo,
Le nuove disposizioni in tema di sospensione del procedimento
con messa alla prova, in R. Piccirillo-P. Silvestri, Prime riflessioni
sulle nuove disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili-Rel.
dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione n.
III/07/2014, Novità legislative: legge 28 aprile 2014, n. 67, in
www.cortedicassazione.it; L. Pulito, Messa alla prova per adulti:
anatomia di un nuovo modello processuale, in Proc. pen. giust.,
2015, 97 ss.; A. Sanna, L’istituto della messa alla prova: alterna-
tiva al processo o processo senza garanzie?, in Cass. pen., 2015,
1262 ss.; G. Spangher, Considerazioni sul processo “criminale”
italiano, Torino, 2015, 61; G. Tabasco, La sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati adulti, in
www.archiviopenale.it; P. Tonini, Manuale di procedura penale,
Milano, 2014, 824 ss.; N. Triggiani (a cura di), La deflazione
giudiziaria. Messa alla prova degli adulti e proscioglimento per
tenuità del fatto, Torino, 2014; G. Zaccaro, La messa alla prova
per adulti. Prime considerazioni, in www.questionegiustizia.it.
(3) Il riferimento va alla celebre Cedu, 8 gennaio 2013, Torregiani c. Italia, in Cass. pen., 2013, 1, 11 ss., con nota di G.
Tamburino, La sentenza Torregiani e altri della Corte di Strasburgo, con cui il Giudice sovranazionale ha condannato l’Italia per
la violazione dell’art. 3 Conv. EDU, per non aver garantito al
detenuto ricorrente lo spazio minimo vitale necessario al rispetto della di lui dignità umana e - dunque - dei principi contenuti nella Convenzione. Per una dotta disamina delle problematiche connesse e derivanti da tale vicenda si vedano - tra
gli altri - G. Della Morte, La situazione carceraria italiana viola
strutturalmente gli standard sui diritti umanai (a margine della
sentenza Torregiani c. Italia), in Dir. um. dir. int., 2013, 1, 147
ss.; M. Dova, Torregiani c. Italia, un barlume di speranza nella
cronaca del sistema sanzionatorio, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2013, 2, 948 ss.; F. Viganò, Sentenza pilota della Corte EDU sul
sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato
all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno, in
www.penalecontemporaneo.it.
(4) In tal senso va l’art. 168 bis, comma 2, c.p., che - nel delineare i contenuti del regime della probation - individua gli
oneri essenziali del reo nella “prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti
dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo
stesso cagionato”. Al riguardo, per un approfondimento critico
della scelta legislativa, si vedano F. Fiorentin, Rivoluzione copernicana per la giustizia riparativa, cit., 63 ss.; L. Pulito, Messa
alla prova per adulti: anatomia di un nuovo modello processuale,
cit., 98 ss.
(5) La definizione e, più in generale, il pungente assunto è
di G. Spangher, Considerazioni sul processo “criminale” italiano,
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Processo penale
stenza del fatto-reato e della responsabilità dell’imputato: il dato appare ricavabile dalla lettura degli
artt. 168 quater, comma 2 c.p. e 464 quater, comma
3 c.p.p., i quali richiedono una prognosi positiva
circa l’astensione dalla commissione di “ulteriori”
reati da parte dell’istante. Tutto ciò, con evidente
pregiudizio del principio di legalità e della presunzione di non colpevolezza, che si verificherebbe
laddove l’istante subisse una limitazione della propria libertà personale (quale è, in effetti, quella derivante dalla probation) senza essersi reso responsabile del relativo fatto-reato.
Peraltro, la preventiva irrogazione di una sanzione
(rectius, di una “cripto-pena”) con contestuale implicita rinunzia all’istruttoria dibattimentale non
appare - in linea generale ed astratta - un piatto
talmente prelibato da attrarre famelici commensali (6).
Inoltre, è stato da più parti rilevato come il nuovo
istituto - in ragione dei limiti oggettivi previsti dall’art. 168 bis c.p. - copra approssimativamente l’area applicativa delle misure alternative alla detenzione (e, in particolare, dell’affidamento in prova
al servizio sociale), alle quali tuttavia il reo ricorrerebbe solo all’esito del processo, in caso di condanna (7); allo stesso modo, la gran parte dei possibili
fruitori della probation potrebbe comunque giovarsi
- laddove il processo dovesse scontare un esito sfavorevole - del beneficio della sospensione condizionale della pena, dal quale peraltro deriverebbe l’ulteriore identica conseguenza estintiva del reato.
Eppure, non ci si può esimere dal segnalare come dai dati recentemente divulgati dal Ministero della
Giustizia - emerga una inattesa proliferazione di richieste di accesso alla messa alla prova (8).
A maggior ragione, dunque, alle problematiche già
evidenziate devono essere affiancate quelle di matrice diversa, in quanto derivanti dalla prima (diffusa) prassi applicativa della probation.
È dunque in ragione delle peculiarità sopra evidenziate - nonché per alcuni “vuoti normativi” circa
specifiche questioni lasciate irrisolte dal legislatore
- che le prime applicazioni dell’istituto in parola
hanno lasciato trasparire questioni e criticità variegate, talune già superate anche attraverso l’interpretazione del dato normativo fornita dalla giurisprudenza di legittimità, altre - invece - in relazione alle quali non si è fatta ancora piena luce.
Ebbene, per ragioni di chiarezza espositiva, appare
opportuno affrontare partitamente tali criticità.
cit., 61: l’Autore, nel descrivere l’istituto di nuovo conio, lo
configura “come una richiesta unilaterale dell’imputato, condivisa dal giudice, non condizionata, dopo l’esercizio dell’azione penale, dal parere del p.m., di anticipazione, rispetto al momento
esecutivo, di una cripto-pena (a contenuto rieducativo, risarcitorio, riparatorio)”. A considerazioni paritetiche giungeva anche
F. Caprioli, Audizione del 03.07.2012 in Commissione II Giustizia alla Camera dei Deputati, Raccolta di documentazione per
l’esame parlamentare dell’Atto Senato n. 925, recante delega al
Governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla
prova e nei confronti degli irreperibili n. 37 della XVII legislatura,
in Servizio Studi del Senato (a cura di), Roma, 2013, 47: l’Autore, anziché di “cripto-pena”, parlava di “criptocondanna” nei
confronti dell’imputato che intendesse accedere alla probation.
(6) Riprende ed amplia il tema, in dottrina, B. Bertolini, Esistono autentiche forme di “diversione” nell’ordinamento processuale italiano? Primi spunti per una riflessione, in www.penalecontemporaneo.it, 18 novembre 2014. L’Autrice - in una prospettiva piuttosto critica - include la probation tra le “diversioni”, ossia tra quegli strumenti attraverso cui si sottraggono all’accertamento processuale quei reati per cui il processo medesimo viene ritenuto superfluo, se non addirittura dannoso.
Nella stessa direzione sembra andare anche L. Pulito, Messa
alla prova per adulti: anatomia di un nuovo modello processuale,
cit., 103, che - con una efficace sintesi - definisce l’istituto una
“diversion una tantum di scarso appeal”.
(7) Per un inquadramento della questione e delle problematiche connesse, si vedano F. Fiorentin, Preclusioni e soglie di
pena riducono la diffusione, cit., 68; L. Pulito, Messa alla prova
per adulti: anatomia di un nuovo modello processuale, cit., 103
ss.
(8) Al riguardo, si noti che già i primi dati resi noti dal Ministero della Giustizia - aggiornati al 31 ottobre 2014 e, quindi, riferiti ai primi sei mesi di applicazione dell’istituto - parlavano di
4.689 richieste di accesso alla probation, di cui solamente 109
all’epoca già accolte: per maggiori approfondimenti circa la
natura del dato e le sue specificazioni si vedano V. Maglione,
Imputati in coda per la messa alla prova, in www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com, 1° dicembre 2014; C. Rizzo, Carceri. Ben
cinquemila richieste per la “messa alla prova”, in www.tempi.it,
1° dicembre 2014. Ancor più significativi sono però i dati da ultimo divulgati dal Ministero della Giustizia (su www.giustizia.it):
infatti, al 31 dicembre 2015, sono state ben 9.445 le richieste
di accesso alla probation, di cui 6.557 già accolte.
Diritto penale e processo 1/2016
Sulla applicabilità della probation ai
processi in corso: questioni di diritto
intertemporale
La già segnalata natura ibrida dell’istituto in parola
e la sua “mista” collocazione, oltre ad aumentare le
perplessità circa la natura sostanziale o processuale
della probation, hanno finito per generare problematiche e criticità applicative di considerevole rilevanza.
La questione che forse più di tutte ha determinato
l’insorgere di un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale attiene alla applicabilità della disciplina sulla messa alla prova anche ai processi in corso
alla data di entrata in vigore della legge n. 67 del
28 aprile 2014, nei quali - peraltro - risultasse già
spirato il termine decadenziale previsto dall’art.
103
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Processo penale
464 bis, comma 2 c.p.p. (9) per la formalizzazione
della richiesta di ammissione alla probation (10).
Per comprendere la rilevanza che la questione ha
assunto sin dalle primissime settimane successive
all’entrata in vigore della nuova normativa, basti
pensare che - con ordinanza n. 30559 del 9 luglio
2014 - la Corte di Cassazione, vista “la delicatezza
della materia e la possibilità di soluzioni interpretative in radicale contrasto, afferenti il regolamento
di diritti di rilievo costituzionale”, già ne rimetteva
l’esame alle Sezioni Unite (11): la questione, tuttavia, veniva cancellata dal ruolo in ragione dell’imminente maturazione del termine prescrizionale del
reato oggetto del ricorso (12).
A distanza di tre mesi, i Giudici di legittimità affermavano inoltre la manifesta infondatezza di una
questione di legittimità costituzionale sollecitata in
ragione del presunto contrasto dell’art. 464 bis,
comma 2 c.p.p. con l’art. 3 Cost., nella parte in cui
- sostanzialmente escludendo l’applicazione della
probation ai procedimenti pendenti al momento
dell’entrata in vigore della nuova normativa, nei
quali sia già spirato il termine decadenziale previsto per la formalizzazione della relativa domanda riserverebbe un diverso trattamento ai soggetti imputati in procedimenti parimenti pendenti, nei
quali tuttavia risulti ancora accidentalmente possi-
(9) Giova rammentare che gli artt. 464 bis ss. c.p.p. individuano, a pena di decadenza, un termine finale di presentazione della richiesta di ammissione alla probation, comunque riferito a momenti processuali (o procedimentali) tutti rientranti
nell’alveo del giudizio di primo grado: le conclusioni rassegnate dalle parti al termine dell’udienza preliminare, nel procedimento ordinario; la dichiarazione di apertura del dibattimento
di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di
citazione diretta a giudizio; quindici giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato all’imputato o dalla comunicazione
del relativo avviso al difensore, nei casi di giudizio immediato;
il medesimo termine previsto dall’art. 461 c.p.p. per l’opposizione, nei procedimenti per decreto.
(10) Per una acuta ricognizione dei primi interventi dottrinali
sul punto, si vedano A. Diddi, La fase di ammissione alla prova,
in N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria, cit., 137 ss.;
F. Martella, Messa alla prova per “adulti”: la questione della (assenza di) disciplina intertemporale, in www.penalecontemporaneo.it, 15 aprile 2015; L. Pulito, Messa alla prova per adulti:
anatomia di un nuovo modello processuale, cit., 101 ss.
(11) In tal senso, Cass., Sez. VI, Ord. 9 luglio 2014, n.
30559, in www.archiviopenale.it, con nota di F. Giunchedi, In
nome della nomofiliachia. La Cassazione cerca di prevenire i fenomeni di overruling; si veda anche la nota di C. Pecorella, La
messa alla prova...alla prova delle sezioni unite, in Cass. pen.,
2014, 10, 3264.
(12) Per una efficace ricostruzione della vicenda sottoposta
al vaglio della S.C. e delle questioni di diritto immediatamente
connesse, si veda F. Picciché, Alle Sezioni Unite la questione
dell’applicabilità del nuovo istituto della messa alla prova ai processi in corso, in www.penalecontemporaneo.it, 21 ottobre
2014. In particolare, nell’ordinanza la Corte afferma che “con
le nuove disposizioni [...] il legislatore ha previsto la messa alla
prova sia quale causa di estinzione del reato (come esplicitamente previsto dall’art. 168 ter, comma 2, cod. pen. e confermato dalla collocazione della norma nel capo I del Titolo VI del
codice penale, subito dopo la disciplina della sospensione condizionale della pena) sia come possibilità di definizione alternativa della vicenda processuale (come confermato dall’inserimento delle specifiche norme in apposito titolo V bis del libro
VI - Procedimenti speciali - del codice di rito”. La Corte passa
poi in rassegna le finalità che caratterizzano l’istituto in parola
(individuandole, in ordine di rilevanza, anzitutto in quella rieducativa, poi in quella deflattiva e, infine, in quella volta a garantire la tutela della persona offesa dal reato). A questo punto, nel
rammentare i rigorosi termini decadenziali entro i quali l’imputato può avanzare la richiesta di ammissione alla probation, la
Corte afferma che “la disciplina processuale della messa alla
prova [...] regolata dagli artt. 464 bis e seguenti del codice di
rito [...] individua espressamente un termine finale di presentazione della richiesta, con diversificazioni collegate ai differenti
procedimenti, ma comunque ristretta al giudizio di primo grado (le conclusioni rassegnate dalle parti al termine dell’udienza
preliminare, nel procedimento ordinario; la dichiarazione di
apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio; quindici
giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato all’imputato o dalla comunicazione del relativo avviso al difensore, nei
casi di giudizio immediato; il medesimo termine previsto dall’art. 461 c.p.p. per l’opposizione, nei procedimenti per decreto)”. In considerazione di tali peculiari caratteristiche dell’istituto di nuovo conio, la Corte prosegue affermando che l’assenza
- nella L. n. 67/2014 - di norme di diritto intertemporale “impone di affrontare la questione se la nuova disciplina possa trovare applicazione anche nel processo che abbia già superato
la fase processuale indicata dal secondo comma del nuovo
art. 464 bis c.p.p., entro la quale può essere formulata, a pena
di decadenza, la richiesta di sospensione del procedimento
con messa alla prova”. In buona sostanza, secondo la Corte,
la natura sostanziale dell’istituto in parola potrebbe favorire
l’accoglimento di una “interpretazione estensiva della norma
anche ai fatti pregressi ed ai procedimenti pendenti, sia per
l’applicazione dell’art. 2, comma 4, c.p. sia per coerenza alla
significativa evoluzione della giurisprudenza sul principio di retroattività della lex mitior, alla luce delle fonti internazionali e
comunitarie e dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo”.
I Giudici di legittimità rammentano tuttavia che il principio della retroattività della lex mitior non può essere pedissequamente trasferito in ambito processuale, in cui domina invece il principio del tempus regit actum: ecco dunque che, ove si riconoscesse la natura processuale del nuovo istituto, la relativa disciplina non potrebbe applicarsi a fatti pregressi e, comunque,
a quei processi che abbiano già superato il momento processuale entro il quale la richiesta di messa alla prova può essere
avanzata. Tali considerazioni non sembrano però convincere
del tutto la Corte, dal momento che una simile interpretazione
finirebbe con il discriminare irragionevolmente gli imputati il
cui processo - alla data di entrata in vigore della legge n.
67/2014 - si trovi ancora nella fase anteriore alla dichiarazione
di apertura del dibattimento, rispetto a quelli per i quali il processo si trovi invece in una fase più avanzata. In definitiva, nel
rimettere la questione alle Sezioni Unite, la Corte afferma comunque che “la soluzione più garantista, che meglio coniuga
le esigenze difensive con un portato normativo non leggibile in
modo inequivoco, è ovviamente quella dell’immediata applicabilità dell’istituto della messa alla prova anche ai fatti pregressi
e per i processi pendenti, pur in assenza di una disciplina transitoria, in applicazione delle regole generali previste dall’art. 2,
comma 4 c.p. e dei principi sopra indicati”: come si vedrà nel
prosieguo della trattazione, tale soluzione non verrà invece
raccolta dai successivi interventi della S.C.
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bile presentare l’istanza di sospensione del processo
per la messa alla prova (13).
D’altronde, la tesi secondo cui - per eliminare presunte disparità di trattamento - si dovrebbe consentire l’applicazione della probation a tutti i procedimenti in corso veniva fortemente criticata già
nella Relazione del Massimario della Cassazione
sulla L. n. 67/2014, ove si evidenziavano le variegate problematiche praticamente connesse ad una
tale soluzione (14).
Ciò posto, come rilevato, la questione circa l’applicabilità della probation ai processi in corso deflagrava - com’era prevedibile - già in coincidenza della
presentazione delle prime richieste di accesso all’istituto e, dunque, dei relativi primi interventi dei
giudici di merito.
In particolare, con provvedimento del 21 maggio
2014, il Tribunale di Torino - muovendo dalla ritenuta natura sostanziale del nuovo istituto e configurando, nel caso di specie, il mancato rispetto
del termine di cui all’art. 464 bis c.p.p. come causa
di forza maggiore (vertendo il processo già in fase
di istruzione dibattimentale all’entrata in vigore
della L. n. 67/2014) - riteneva applicabile agli imputati l’istituto della restituzione in termini di cui
all’art. 175 c.p.p., così consentendo loro di richiedere l’accesso alla probation (15): la decisione di
merito esaltava dunque i profili sostanziali del nuovo istituto, propendendo per l’applicazione retroattiva della lex mitior (individuata, per l’appunto,
nella legge introduttiva della messa alla prova per
gli adulti) (16).
(13) In tal senso, Cass., Sez. VI, 22 ottobre 2014 - dep. 18
novembre 2014, n. 47587, cit.: nel ritenere manifestamente infondata la q.l.c. (la cui sollevazione veniva sollecitata dalla Procura Generale presso la Corte di Cassazione), i Giudici di legittimità affermavano come “il tema dell’individuazione del termine finale di proponibilità della richiesta di ammissione al nuovo
istituto involge all’evidenza scelte rimesse alla discrezionalità
del legislatore, come tali insindacabili tranne il caso in cui risultino palesemente irragionevoli, come stabilito dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 393 del 2006 a proposito
della norma transitoria della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3 regolante l’applicazione retroattiva del più favorevole regime di prescrizione introdotto con quella legge. Tuttavia, proprio il ricordato carattere alternativo del procedimento di messa alla prova rispetto all’accertamento giudiziale penale non
rende, a parere del collegio, irragionevole la fissazione del termine finale di presentazione della richiesta al momento della
dichiarazione di apertura del dibattimento nel caso di procedimenti con citazione diretta a giudizio ai sensi dell’art. 550
c.p.p., e segg.”.
(14) Cfr. R. Piccirillo, Le nuove disposizioni in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, in R. Piccirillo - P. Silvestri, Prime riflessioni sulle nuove disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei
confronti degli irreperibili-Rel. dell’Ufficio del Massimario della
Corte di cassazione n. III/07/2014, Novità legislative: legge 28
aprile 2014, n. 67, cit. Nella Relazione si legge infatti che “gli
aspetti sostanziali della nuova misura non consistono in automatismi dei quali il giudice possa fare applicazione anche all’esito del dibattimento, in sede di impugnazione o addirittura in
fase esecutiva. Essi postulano un esperimento comportamentale, scandito da valutazioni a forte contenuto discrezionale (a
partire da quella che inerisce all’idoneità del programma di
trattamento rispetto agli obiettivi di risocializzazione senza
condanna e della prognosi favorevole circa il rispetto del programma e l’astensione dell’imputato istante da ulteriori reati) e
osservato dal giudice attraverso organi a ciò deputati. L’applicazione di siffatto regime sarebbe precluso al giudice di legittimità e non risulterebbe agevolmente praticabile - in assenza di
chiare previsioni procedurali del legislatore - neppure dal giudice di merito (peraltro individuabile nel solo giudice di primo
grado, data l’esclusione di un rimedio impugnatorio diverso
dal ricorso per cassazione) una volta iniziata l’istruttoria dibattimentale”.
(15) In tal senso, Trib. Torino, Ord. 21 maggio 2014, in
www.penalecontemporaneo.it, con nota di M. Miedico, Sospensione del processo e messa alla prova per imputati maggiorenni: un primo provvedimento del Tribunale di Torino. Per un
analitico commento della decisione si vedano anche G. Negri,
Per i processi in corso scatta la messa alla prova, in Lex 24,
2014, 153, 48; G. Zaccaro, La messa alla prova per adulti. Prime considerazioni, cit. Nel caso di specie, due imputate - nel
corso della prima udienza utile successiva all’entrata in vigore
della L. n. 67/2014, ma in un momento processuale già successivo all’apertura del dibattimento - avevano richiesto la sospensione del processo con messa alla prova, allegando il programma di trattamento elaborato con l’ufficio esecuzione penale esterna. Il Tribunale, riconoscendo la natura anche sostanziale dell’istituto (in quanto nuova causa di estinzione del
reato, che si produce in caso di positivo superamento della
probation), stabiliva che la misura, in assenza di norme transitorie che contemplassero ipotesi di richiesta di accesso all’istituto nell’ambito di procedimenti in cui il termine fosse già scaduto, si sarebbe dovuta applicare anche ai processi in corso:
ciò, alla luce dei principi generali previsti dall’ordinamento in
ordine all’applicazione ai processi in corso dei mutamenti di
natura penale sostanziale favorevoli agli imputati (art. 2, comma 4, c.p.). Pertanto, essendo scaduto il termine previsto a pena di decadenza per formulare la richiesta di sospensione, il
Tribunale torinese sosteneva che i diritti delle imputate potessero e dovessero essere garantiti mediante l’applicazione dell’istituto della restituzione nel termine, ex art. 175 c.p.p., posto
che il rispetto del termine non sarebbe stato possibile per causa di forza maggiore (il c.d. factum principis) e considerato che
le imputate avrebbero chiesto di esercitare il diritto alla prima
occasione per loro utile. Nello stesso senso, seppur con argomentazioni parzialmente difformi ed ulteriori, ha concluso anche Trib. Genova, Ord. 12 ottobre 2014, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di C. Pecorella, Il Tribunale di Genova
ammette la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova presentata nella prima udienza utile dopo l’entrata
in vigore della legge 28 aprile 2014 n. 67, 29 ottobre 2014.
(16) Il ragionamento seguito dal Tribunale di Torino si fondava sulla rivisitazione di alcuni approdi interpretativi forniti - a
proposito della portata applicativa da riconoscere all’art. 2,
comma 4 c.p. - dalla Corte costituzionale, laddove stabiliva
che “la locuzione ‘disposizioni più favorevoli al reo’ si riferisce a
tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato” (in tal senso, testualmente,
Corte cost., 23 novembre 2006, n. 393, in Giur. cost., 2006,
4106 ss., con osservazioni di G. Dodaro, Principio di retroattività favorevole e “termini più brevi” di prescrizione dei reati). Alla
stessa stregua, il Tribunale si rifaceva agli approdi - ancora riferiti alla riforma, in tema di termini di prescrizione dei reati,
operata dalla L. n. 251/2005 (c.d. legge ex Cirielli) - cui era
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Nell’arco di pochi mesi la questione giungeva all’esame della Suprema Corte: sin dalle prime pronunce succedutesi sul tema, i Giudici di legittimità pur riconoscendo la peculiarità della problematica,
tanto da rimetterne (vanamente) l’analisi alle Sezioni Unite - hanno sempre rigettato con forza la
via interpretativa segnata dal Tribunale di Torino
(e seguita anche da altri giudici di merito), rifacendosi all’ormai consolidato assunto per cui dalla lettura del precetto costituzionale si possa e si debba
ricavare unicamente il principio di irretroattività
della legge penale incriminatrice, ma non anche
quello inerente una pretesa retroattività della legge
più favorevole al reo (la c.d. lex mitior) (17).
Sulla scorta di tali approdi, in ogni occasione in
cui la questione - pur sotto diverse “angolazioni”- è
giunta all’esame della Suprema Corte, i Giudici di
legittimità hanno negato la possibilità di applicare
la probation ai processi in corso alla data di entrata
in vigore della nuova disciplina, allorquando siano
già spirati i termini indicati all’art. 464 bis
c.p.p. (18).
Ad ogni modo, ad un anno di distanza dal palesarsi
della questione, la stessa può dirsi definitivamente
superata anche grazie al recente ulteriore intervento della S.C., che - con sent. n. 18265 del 4 maggio 2015 - ha recepito le critiche da più parti giunte verso la soluzione prospettata dai giudici di merito.
Al riguardo, per comprendere ed approfondire
compiutamente i termini della questione, occorre
preliminarmente esaltare la collocazione sistematica della disciplina sulla messa alla prova, la quale
porta a ritenere che l’istituto costituisca un nuovo
procedimento speciale, apparendo prevalenti tali
peculiarità rispetto a quelle di stampo sostanziale.
Non può dunque trovare applicazione, nelle fattispecie di cui si tratta, il principio della lex mitior,
che va ricondotto alle norme concernenti le fattispecie penali e le sanzioni ivi previste, con esclusione delle norme processuali, che invece trovano
il loro primo principio di riferimento nel diverso
canone normativo del tempus regit actum (19): in
tale contesto, appare dunque da escludere l’applicabilità ai processi in corso della normativa di nuo-
giunta la Consulta in Corte cost., 22 luglio 2011, n. 236, in
Cass. pen., 2006, 419 ss., con note di E. M. Ambrosetti, La
nuova disciplina della prescrizione: primo passo verso la “costituzionalizzazione” del principio di retroattività delle norme penali
favorevoli al reo e di O. Mazza, Il diritto intertemporale (ir)ragionevole (a proposito della legge ex Cirielli), in D&G, 2006, n. 45,
46 ss.: in tale pronuncia, la Consulta dichiarava l’illegittimità
costituzionale dell’art. 10, comma 3 L. n. 251/2005 limitatamente alle parole “dei processi già pendenti in primo grado ove
vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento”. Seppur
non richiamata dal Tribunale piemontese nel provvedimento di
cui si tratta, identica questione veniva affrontata anche da Corte cost., 28 marzo 2008, n. 72, in Cass. pen., 2008, 1338 ss.,
con nota di G. Santalucia, Sulla transitorietà della legge ex Cirielli non vi è ancora chiarezza. Giova inoltre segnalare che alle
medesime conclusioni del Tribunale di Torino giungeva, in dottrina, S. Perelli, L’impatto della messa alla prova e del processo in absentia sui processi in corso e, in particolare, sul giudizio
di appello, in www.questionegiustizia.it.
(17) In tal senso, Corte cost., 6 marzo 1995, n. 80, in Giur.
cost., 1995, 726 ss., nonché la stessa Corte cost., 22 luglio
2011, n. 236, cit.
(18) Così, in ordine cronologico, Cass., Sez. fer., 31 luglio
2014, n. 35717, in Guida dir., 2014, 37, 71, che ha stabilito che
“la sospensione del procedimento con messa alla prova, di cui
agli artt. 3 e 4 l. n. 67 del 28 aprile 2014, non può essere richiesta dall’imputato nel giudizio di cassazione, né invocandone l’applicazione in detto giudizio, né sollecitando l’annullamento con rinvio al giudice di merito. Infatti il beneficio della
estinzione del reato, connesso all’esito positivo della prova,
presuppone lo svolgimento di un iter procedurale, alternativo
alla celebrazione del giudizio, introdotto da nuove disposizioni
normative, per le quali, in mancanza di una specifica disciplina
transitoria, vige il principio ‘tempus regit actum’. Né alla luce
della sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2011, è
configurabile alcuna lesione del principio di retroattività della
‘lex mitior’, che per sé imponga l’applicazione dell’istituto a
prescindere dalla assenza di una disciplina transitoria” (ad
identiche conclusioni perveniva poi Cass., Sez. fer., 9 settem-
bre 2014 - dep. 10 ottobre 2014, n. 42318, in CED, 261096,
2015); nonché Cass., Sez. II, 4 novembre 2014 - dep. 20 novembre 2014, n. 48025, in Cass. pen., 2015, 3, 1142 ss., con
nota di N. Pascucci, Sospensione del procedimento con messa
alla prova e assenza di una disciplina transitoria: alle omissioni
del legislatore si aggiunge la scure dei giudici di legittimità, in
cui la Corte ha ribadito che “la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova è proponibile solo entro i termini di cui all’art. 464 bis, comma 2 c.p.p., non dopo la sentenza
di primo grado e, men che mai, nel giudizio di cassazione. Ciò
vale anche per i procedimenti in corso al momento dell’entrata
in vigore della l. 28 aprile 2014 n. 67, che ha introdotto gli artt.
168 bis ss. c.p. e 464 bis ss. c.p.p.”. Al riguardo, per maggiori
approfondimenti, si veda - in dottrina - G. Zaccaro, No alla
“messa alla prova” in Cassazione, in www.questionegiustizia.it.
(19) In tal senso, Cass., Sez. II, 16 gennaio 2015 - dep. 4
maggio 2015, n. 18265, in D&G, 5 maggio 2015, con nota di
C. Campanaro, Messa alla prova: i limiti temporali sono inderogabili. In particolare, la Corte chiarisce che l’art. 464 bis c.p.p.,
nell’individuare un termine finale per la presentazione della richiesta di sospensione del processo per la messa alla prova,
pur con alcune necessarie diversificazioni, restringe comunque
tale termine al giudizio di primo: una tale soluzione risponde
dunque ad una scelta precisa del legislatore, che individua in
questo modo i procedimenti in cui la disciplina sostanziale può
trovare applicazione. Nella dettagliata ulteriore ricostruzione,
la Corte osserva come “il nuovo istituto della messa alla prova
si configura come un percorso del tutto alternativo rispetto all’accertamento giudiziale penale, ma non incide affatto sulla valutazione sociale del fatto, la cui valenza negativa rimane anzi il
presupposto per imporre all’imputato, il quale ne abbia fatto
esplicita richiesta un programma di trattamento alla cui osservanza con esito positivo consegua l’estinzione del reato”. Esaltando dunque la natura processuale - piuttosto che sostanziale
- dell’istituto di nuovo conio, la Corte conclude affermando
che la relativa disciplina deve restare esclusa dall’ambito di
operatività del principio di retroattività della legge più favorevole.
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vo conio (fatta eccezione per quelli in relazione ai
quali, all’entrata in vigore della L. n. 67/2014, non
sia già spirato il termine per la formalizzazione della richiesta di accesso alla probation) (20).
Una tale soluzione interpretativa non si pone in
contrasto con il principio della lex mitior, come elaborato dalla giurisprudenza della Cedu (21): si deve
infatti “escludere che la mancata previsione di una
applicazione retroattiva dell’istituto della messa alla prova si ponga in contrasto con l’art. 7, par. 1
CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo e violi l’art. 117 Cost., comma 1, che del primo
(norma interposta) costituisce il parametro di legalità costituzionale” (22).
V’è da dire, peraltro, che un significativo contributo al superamento del conflitto interpretativo sembrerebbe essere giunto - seppur implicitamente anche dal legislatore.
Infatti, l’assenza di una norma transitoria (e le difficoltà applicative che ne sono scaturite sin da subito) rendeva auspicabile un nuovo intervento legislativo, che puntualmente si palesava nella legge
n. 118 dell’11 agosto 2014 (recante la “introduzione dell’articolo 15-bis della legge 28 aprile 2014,
n. 67, concernente norme transitorie per l’applicazione della disciplina della sospensione del procedimento penale nei confronti degli irreperibili”).
Già dalla rubrica si evince come la norma intervenisse sì sulla L. n. 67/2014, introducendovi una disciplina transitoria, ma limitando la sfera di operatività di tale addendum alle sole ipotesi di sospensione del procedimento per irreperibilità dell’impu(20) Per i primi efficaci contributi circa la portata della pronuncia de qua, si vedano E. N. La Rocca, Messa alla prova:
esclusa nei giudizi di impugnazione, in www.quotidianogiuridico.it, 14 maggio 2015; G. Negri, La messa alla prova non si applica per il passato, in www.quotidianoildiritto.ilsole24ore.com,
5 maggio 2015.
(21) Il riferimento va a Cedu, 17 settembre 2009, Scoppola
c. Italia, in Cass. pen., 2010, 832 ss., con nota di G. Ichino,
L’“affaire Scoppola c. Italia” e l’obbligo di conformarsi alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo; anche in Riv. it.
dir. proc. pen., 2010, 397, con nota di C. Pecorella, Il caso
Scoppola davanti alla Corte di Strasburgo; nonché in Cass. pen.,
2010, 2020 ss., con nota di M. Gambardella, Il “caso Scoppola”: per la Corte europea l’art. 7 CEDU garantisce anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole. In tale pronuncia, la Corte di Strasburgo ha fortemente valorizzato la
centralità dell’art. 7 Conv. EDU, che - nel disciplinare il principio di legalità - non ha sancito solo “il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma, implicitamente, il principio
della retroattività della legge meno severa”; tuttavia, secondo la
stessa Cedu, “tale principio non diviene, al contempo, un principio dell’ordinamento processuale”, così ritenendo implicitamente ragionevole l’applicazione del principio tempus regit actum in ambito processuale.
(22) In tal senso, testualmente, Cass., Sez. II, 16 gennaio
2015 - dep. 4 maggio 2015, n. 18265, cit. Ad analoghe conclu-
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tato (pure disciplinate nella L. n. 67/2014, ma nel
capo terzo) (23): l’assenza di qualsivoglia riferimento al capo secondo della L. n. 67/2014 e, dunque,
alla disciplina in materia di messa alla prova, non
può far altro che confermare ancor di più come pur a fronte delle prime criticità interpretative non vi sia stato alcun ripensamento del legislatore
circa l’individuazione delle fattispecie ammesse all’applicazione del nuovo istituto, escludendo dal
relativo raggio d’azione tutti i processi in corso nei
quali siano già spirati i termini di cui all’art. 464
bis, comma 2 c.p.p. (24).
Sui rimedi esperibili avverso la denegata
ammissione alla probation
Altra importante questione interpretativa ha riguardato l’individuazione dei rimedi esperibili avverso il provvedimento che decida sulla richiesta
di sospensione del processo per la messa alla prova.
Va anzitutto rilevato come la S.C., nello stabilire
che “l’ordinanza con la quale il giudice del dibattimento rigetta l’istanza di sospensione del processo
per la messa alla prova dell’imputato è impugnabile, ai sensi dell’art. 586 c.p.p., solo unitamente alla
sentenza”, non abbia fatto luce su una questione
che - per quanto non particolarmente complessa ha creato serie difficoltà applicative (25).
Il punto di partenza è costituito certamente dal
dettato dell’art. 586 c.p.p., in ossequio al quale si è
infatti espressa la S.C., così negando l’autonoma
impugnabilità del provvedimento in questione (26): stando a quanto rilevato nella pronuncia
sioni giungeva anche Cass., Sez. fer., 31 luglio 2014, n. 35717,
cit.
(23) Cfr. art. 1 L. 11 agosto 2014, n. 118: Nel capo III della
legge 28 aprile 2014, n. 67, dopo l’articolo 15 è aggiunto il seguente: “Art. 15-bis. - (Norme transitorie). - 1. Le disposizioni di
cui al presente capo si applicano ai procedimenti in corso alla
data di entrata in vigore della presente legge, a condizione che
nei medesimi procedimenti non sia stato pronunciato il dispositivo della sentenza di primo grado. 2. In deroga a quanto previsto
dal comma 1, le disposizioni vigenti prima della data di entrata
in vigore della presente legge continuano ad applicarsi ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge quando l’imputato è stato dichiarato contumace e non è stato
emesso il decreto di irreperibilità”.
(24) Per una efficace disamina dell’addendum normativo, si
veda R. Bricchetti, Sanata una svista, introdotto il regime transitorio per le nuove regole sugli irreperibili, in www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com, 1° settembre 2014.
(25) Cfr. Cass., Sez. V, 15 dicembre 2014 - dep. 6 febbraio
2015, n. 5673, in CED, 262106, 2015.
(26) In motivazione, la Corte richiama proprie precedenti
decisioni fondate sui medesimi principi, in particolare riguardanti la negazione dell’autonoma impugnabilità delle ordinanze di accoglimento o di rigetto dell’istanza di sospensione del
dibattimento proposta dall’imputato ai sensi dell’art. 5 L. n.
134/2003 (a proposito, cioè, dell’applicazione - a processo in
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de qua, l’unica eccezione dovrebbe essere ricollegata alle ipotesi di abnormità del provvedimento endoprocessuale (in quanto tale, autonomamente ricorribile per Cassazione), sennonché - in assenza
di un siffatto esiziale vizio nell’ordinanza di rigetto
dell’istanza di sospensione del processo per accedere alla probation - l’autonoma impugnazione della
stessa non potrebbe essere ritenuta ammissibile.
Una tale “soluzione” si è tuttavia scontrata sia con
critiche provenienti da buona parte della dottrina,
sia con difformi pronunce successivamente adottate dai Giudici di legittimità.
Deve anzitutto rilevarsi come una tale restrittiva
interpretazione ometta di considerare che - in ragione del ruolo della Corte - il controllo (postumo)
sull’ordinanza non potrebbe che essere limitato alla
legittimità, dovendo ritenersi preclusa ogni valutazione circa la bontà delle determinazioni assunte
dal giudice di merito nell’esercizio dei propri poteri
discrezionali (si pensi, ad esempio, alle fondamentali decisioni in ordine al numero ed alla tipologia
degli obblighi e delle prescrizioni contenute nel
programma di trattamento, al giudizio prognostico
negativo di non recidiva, alla congruità delle prescrizioni rispetto al fatto commesso ed alle finalità
rieducative poste alla base della misura).
Ciò, con la conseguenza che - anche attraverso
l’impugnazione dell’ordinanza de qua in uno al
provvedimento conclusivo del grado di giudizio potrebbero comunque risultare sostanzialmente
pregiudicate le legittime aspettative dell’imputato
istante, nonché il suo diritto di accesso all’istituto,
al riconoscimento giudiziale del positivo superamento della probation, o - ancora - alla previsione
di prescrizioni eque ed idonee al perseguimento
delle finalità dell’istituto (27).
Al contempo, si deve considerare come l’art. 464
quater, comma 7 c.p.p. - nel prevedere la possibilità
di ricorrere per cassazione avverso l’ordinanza che
decida sulla richiesta di accesso alla probation - stabilisca nell’ultimo periodo che “l’impugnazione non
sospende il procedimento”: se dunque è vero che nel
testo normativo di nuovo conio manca una esplicita divaricazione rispetto alla disciplina di cui all’art. 586 c.p.p., la specifica clausola appena riportata appare idonea a consentire la possibilità di impugnare autonomamente il provvedimento emesso
in materia di messa alla prova, rappresentando neanche troppo velatamente - l’intenzione in tal
senso perseguita dal legislatore.
Dall’insieme delle considerazioni appena svolte
può farsi dunque derivare un sistema per cui l’ordinanza che decida sull’istanza di accesso alla probation possa essere impugnata sia attraverso il ricorso
per cassazione (in via autonoma, ai sensi del combinato disposto degli artt. 464 quater, comma 7,
568 e 586, comma 1 c.p.p.), sia mediante l’appello
(congiuntamente alla pronuncia di merito assunta
dal giudice di prime cure) (28).
D’altronde, in questo senso sono andati pressoché
tutti i successivi interventi della Suprema Corte,
resi allorquando i Giudici di legittimità si sono
confrontati con impugnazioni presentate direttamente ed autonomamente avverso ordinanze di diniego dell’accesso alla probation (29): deve dunque
ritenersi definitivamente superata l’isolata statuizione con cui la S.C. - all’origine del proprio percorso esegetico - negava l’autonoma ricorribilità
per cassazione dell’ordinanza emessa in materia di
corso - delle novità introdotte da tale legge in materia di patteggiamento): anche in tali ipotesi, infatti, “le eventuali doglianze circa violazioni di diritti spettanti alle parti possono essere fatte valere con l’impugnazione avverso il provvedimento
conclusivo del giudizio di primo grado”.
(27) Il tema è stato affrontato nello specifico da A. Marandola, La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di
un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, cit.,
683, nonché da G. Tabasco, La sospensione del procedimento
con messa alla prova degli imputati adulti, cit., 34: l’Autore, nel
segnalare come - nel quadro sopra delineato - risulterebbero
pregiudicati i diritti e le garanzie dell’imputato, auspica il loro
ripristino attraverso l’intervento “riparatore” del legislatore.
(28) A considerazioni paritetiche giungono anche M. L. Galati-L. Randazzo, La messa alla prova nel processo penale. Le
applicazioni pratiche della legge n. 67/2014, cit., 94 ss. Le Autrici affermano infatti che, in costanza di un sistema delle impugnazioni differentemente congegnato, data la peculiarità
della valutazione del Giudice di legittimità, sarebbe impossibile
per l’imputato contestare nel merito la decisione assunta dal
giudice di prime cure circa il diniego di accesso al nuovo istituto, ove il relativo provvedimento risulti rispettoso dei parametri
di legittimità previsti dal testo normativo e dalla conseguente
interpretazione.
(29) Cfr. Cass., Sez. VI, 22 ottobre 2014 - dep. 18 novembre
2014, n. 47587, in CED, 261255, 2015, avverso ordinanza del
Trib. Brindisi 9 giugno 2014, n. 1863; Cass., Sez. VI, 9 dicembre 2014 - dep. 13 febbraio 2015, n. 6483, in D&G, 16 febbraio
2015, con nota di C. Minnella, Si applica la probation alle ipotesi aggravate di detenzione di sostanze stupefacenti di lieve entità?, avverso ordinanza del G.U.P. di Padova 26 giugno 2014,
n. 481; nonché, soprattutto, Cass., Sez. II, 12 marzo 2015 dep. 8 aprile 2015, n. 14112, in D&G, 9 aprile 2015, avverso
ordinanza del G.U.P. di Palermo del 7 novembre 2014, in cui la
Suprema Corte evidenzia preliminarmente che “l’ordinanza del
Giudice per l’udienza preliminare emessa in data 7/11/2014 è
provvedimento espressamente ricorribile per cassazione ai
sensi dell’art. 464 quater c.p.p., comma 7”, così esaltando la
portata applicativa della clausola su riportata, individuandovi
la base normativa alla quale collegare la divaricazione rispetto
al modello di cui all’art. 586 c.p.p. e - quindi - la possibilità per
l’imputato ed il pubblico ministero di impugnare anche autonomamente l’ordinanza emessa a seguito di rituale richiesta di
sospensione del processo per la messa alla prova.
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Una ulteriore questione posta sin da subito all’attenzione dell’interprete ha invece riguardato l’indi-
viduazione del perimetro di operatività della probation, posto che l’art. 168 bis, comma 1 c.p. - nel
rintracciare i presupposti di matrice oggettiva cui
subordinare l’applicazione dell’istituto - àncora il
relativo riferimento in primo luogo al dato edittale,
richiamando i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni (32): il dato normativo risulta
dunque carente di ogni esplicito riferimento alla
possibile incidenza - sul punto - di eventuali circostanze aggravanti (ovvero attenuanti) collegate alle
rispettive ipotesi-base.
Ebbene, al riguardo, con una prima condivisibile
pronuncia, i Giudici di legittimità hanno chiarito
che, proprio in ragione del mero riferimento edittale contenuto nell’art. 168 bis c.p., “deve guardarsi
unicamente alla pena massima prevista per la fattispecie base, prescindendo dal rilievo che nel caso
concreto potrebbe assumere la presenza della contestazione di qualsivoglia aggravante, comprese
quelle ad effetto speciale” (33).
Una tale soluzione sembra circoscrivere e risolvere
i termini della questione posta.
In primo luogo, infatti, deve essere valorizzata la
portata del dato normativo, poiché il “silenzio” del
legislatore sul punto non può essere ritenuto - e
non è - frutto di una svista, bensì il risultato di una
precisa scelta che trova fondamento anche nei lavori preparatori della L. n. 67/2014 (34).
Si tratta dunque di un silenzio voluto, finalizzato
anche a distinguere una tale soluzione normativa
rispetto ad altre (presenti nell’ordinamento, aventi
(30) Cfr. Cass., Sez. V, 15 dicembre 2014 - dep. 6 febbraio
2015, n. 5673, cit.
(31) In tal senso vanno anche M. L. Galati-L. Randazzo, La
messa alla prova nel processo penale. Le applicazioni pratiche
della legge n. 67/2014, cit., 94 ss. Le Autrici segnalano, tra l’altro, il problema relativo all’esiguità di motivi di ricorso per cassazione astrattamente ipotizzabili avverso l’ordinanza di accoglimento della richiesta di accesso alla probation.
(32) In particolare, un primo caso giunto all’attenzione della
Suprema Corte traeva origine dall’ordinanza con cui il G.U.P.
di Padova aveva rigettato la richiesta di sospensione del processo per la messa alla prova, avanzata da due imputati chiamati a rispondere della violazione dell’art. 73 Legge Stupefacenti: secondo l’interpretazione resa dal G.U.P., la contestazione agli imputati dell’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 80 ,d.P.R. n. 309/1990, elevando la pena massima irrogabile al di là del limite dei quattro anni previsto dall’art. 168
bis c.p., non avrebbe consentito l’ammissione degli istanti alla
probation, non risultando integrato un presupposto imprescindibile per l’applicazione del nuovo istituto. Tale esegesi si fondava sulla esaltazione della finalità deflattiva perseguita dal legislatore attraverso la normativa di nuovo conio, senza tuttavia
prendere nella dovuta considerazione i limiti oggettivi di applicazione dell’istituto (correlati, soprattutto, al dato edittale di riferimento), ritenuti dalla Corte decisivi proprio nell’ottica della
predetta finalità deflattiva: “sembra, piuttosto, alla Corte che
proprio la ratio deflattiva perseguita dal legislatore costituisca
la chiave di riscontro di una diversa lettura del dato normativo
di riferimento, interpretato in primo luogo alla luce del relativo
tenore letterale e in considerazione degli spunti di raffronto garantiti dal sistema”.
(33) In tal senso, testualmente, Cass., Sez. VI, 9 dicembre
2014 - dep. 13 febbraio 2015, n. 6483, cit.
(34) In questo senso, si vedano i dossier di accompagnamento del testo normativo all’approvazione sia del Senato che
della Camera, nei quali “viene data spiegazione comune al silenzio del dato normativo sul punto. Silenzio puntualmente rimarcato proprio per distinguere la soluzione normativa in disamina da quelle, già presenti nell’ordinamento […], nelle quali il
limite edittale assume rilievo quale parametro di riferimento
per l’applicazione dei relativi istituti, laddove, di contro, esplicitamente, viene operato un richiamo alla operatività delle aggravanti che prevedono una pena di specie diversa o di quelle
ad effetto speciale”. Giova segnalare come il disegno di legge
sulla messa alla prova perveniva all’esame del Senato dopo
essere stato approvato - nella versione che contiene l’attuale
testo dell’art. 168 bis c.p. - dalla Camera: in Commissione Giustizia al Senato il disegno di legge in questione venne trattato
unitamente ad altri testi, tra i quali figurava il disegno di legge
rubricato al n. 111 A.S.; come rammentato anche dalla Corte
nella citata pronuncia, tale ultimo testo recava un esplicito riferimento - quanto alla configurazione del limite edittale di accesso alla probation - alle aggravanti ad effetto speciale ed a
quelle che determinano l’applicazione di pene di specie diver-
sospensione del processo per la messa alla prova (30).
Tale sistema, certamente più equilibrato rispetto a
quello inizialmente tracciato dai Giudici di legittimità, non appare comunque in grado di risolvere le
problematiche connesse alle legittime aspettative
dell’imputato, volte a far sì che - sul provvedimento di diniego dell’accesso alla probation - possa realizzarsi un vaglio più tempestivo ed incisivo, concernente il merito della decisione assunta dal giudice di prime cure.
Un intervento “correttivo” del legislatore, del tipo
di quello da più parti auspicato sul punto, potrebbe
sì incidere sull’attuale formulazione del testo normativo, ma non in guisa tale da attribuire al giudice di legittimità poteri diversi ed ulteriori rispetto
a quelli che gli sono propri: in buona sostanza, appare comunque difficile immaginare una maggiore
“invasività” della S.C. rispetto ai poteri discrezionali attribuiti per legge al giudice di merito.
Di qui la necessità, sempre evidentemente attraverso un adeguato intervento legislativo, di affiancare al ricorso per Cassazione anche una specifica
ed autonoma ipotesi di impugnazione dinnanzi al
giudice di merito sovraordinato rispetto a quello di
prime cure (31).
Sulla individuazione dei reati attratti dalla
probation
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portata opposta e contenute, ad esempio, negli
artt. 4 e 278 c.p.p., ovvero nell’art. 157 c.p.) in relazione alle quali il parametro di riferimento per
l’applicazione dei rispettivi istituti non è dato soltanto dal limite edittale, essendo ivi riconosciuta
significativa incidenza anche alla operatività di
eventuali circostanze aggravanti ad effetto speciale
o che prevedano una pena di specie diversa.
In secondo luogo, si deve rammentare come l’art.
168 bis c.p. - nell’ampliare il novero dei reati attratti dalla probation - faccia riferimento (oltre ai
predetti limiti edittali) alle fattispecie criminose
incluse unicamente nel secondo comma dell’art.
550 c.p.p. e non, invece, a quelle richiamate nell’intera norma de qua (deve pertanto essere ammessa l’applicazione della probation anche in relazione
ai reati di competenza collegiale, puniti con pena
edittale massima fino a quattro anni (35)).
L’esclusione dell’art. 550, comma 1 c.p.p. dalla sfera di applicabilità della probation non è affatto casuale, perché tale norma contiene un esplicito riferimento al predetto art. 4 c.p.p., che - con riguardo
ai criteri di ripartizione della competenza - considera anche le aggravanti ad effetto speciale quale
fattore incidente sul dato edittale: insomma, ove
avesse inteso operare in tal senso anche per la disciplina della messa alla prova, il legislatore avrebbe potuto agevolmente inserire nell’art. 168 bis c.p.
un richiamo indiscriminato all’art. 550 c.p.p., anziché limitare il rinvio alla sola disposizione di cui al
secondo comma della norma de qua.
Lo soluzione normativa adottata dimostra quindi
inequivocamente la fermezza della precisa scelta
del legislatore, con conseguente applicabilità della
probation a tutti i reati rientranti nei limiti edittali
previsti dall’art. 168 bis c.p., senza che la contestasa. Il testo approvato al Senato (e poi trasmesso alla Camera
per la votazione definitiva) è stato evidentemente diverso da
quello inserito nel d.d.l. n. 111 A.S., risultando privo dell’indicazione ivi comparente: nei vari passaggi parlamentari susseguitisi vi è dunque la prova di una precisa volontà del legislatore, volta a rendere le circostanze aggravanti - quali che siano ininfluenti sul limite edittale preso in considerazione per l’applicazione dell’istituto in esame. Per una completa disamina dell’iter parlamentare seguito dall’attuale testo normativo si rinvia
al Dossier n. 89 della XII legislatura, a cura del Servizio Studi del
Senato, Roma, 2013. Più in generale, per una complessiva
analisi delle peculiarità proprie dei disegni di legge predisposti
in materia, si vedano M. Colamussi, Adulti messi alla prova seguendo il paradigma della giustizia riparativa, in Dir. pen. giust.,
2012, 6, 123 ss.; D. Vigoni, La metamorfosi della pena nella dinamica dell’ordinamento, Milano, 2011, pp. 308 ss.; F. Zaccaria, Scenari de iure condendo: la messa alla prova anche per gli
adulti?, in N. Triggiani (a cura di), La messa alla prova dell’imputato minorenne tra passato, presente e futuro. L’esperienza del
Tribunale di Taranto, Bari, 2011, 153 ss.
(35) Viceversa, nell’ordinanza emessa dal G.U.P. di Padova
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zione all’imputato di qualsivoglia circostanza aggravante possa incidere negativamente sull’accoglimento dell’istanza di sospensione del processo.
La ratio di una tale sottile scelta legislativa deve essere rinvenuta nei principi ispiratori legati all’introduzione del nuovo istituto, volti a perseguire l’esigenza di garantire effettività alla funzione deflattiva del carico processuale: proprio il perseguimento di tali esigenze deve dunque guidare l’interprete
nella puntuale individuazione dei fondamenti oggettivi dell’istituto in parola, tra cui rientra a pieno
titolo l’introduzione - nel testo normativo di nuovo
conio - dell’ulteriore presupposto applicativo appena esaminato (36).
Sulla configurabilità di una messa alla
prova “parziale”
Altra questione di particolare rilievo pratico attiene alla possibilità di consentire l’accesso alla probation anche a colui il quale risulti imputato - allo
stesso tempo e nello stesso procedimento penale sia per reati ricompresi nel novero di quelli previsti
dall’art. 168 bis c.p., sia per reati che ne restino
esclusi.
Ci si interroga dunque sulla configurabilità di una
probation “parziale”, con conseguente eventuale sospensione del processo solo con riferimento ai reati
“ammissibili” e, invece, prosecuzione dello stesso
con riguardo all’accertamento giudiziale delle fattispecie non rientranti nella sfera di applicazione
dell’istituto (37).
La questione si è posta già in corrispondenza dei
primi interventi dei giudici di merito, tra cui “spiccava”- ancora una volta - il provvedimento assunto
dal Tribunale di Torino in data 21 maggio
2014 (38): il Tribunale piemontese, pur richiaman(dalla quale scaturiva il richiamato intervento della S.C.) si sosteneva proprio che la contestazione dell’aggravante di cui all’art. 80 L.S. - determinando il radicamento della competenza
presso il Tribunale in composizione collegiale - avrebbe dovuto
necessariamente incidere anche sulle ipotesi di accesso alla
probation, individuate dal giudice di merito come perfettamente coincidenti con i casi di citazione diretta a giudizio dell’imputato dinnanzi al Tribunale in composizione monocratica.
(36) Ad identiche conclusioni pervenivano anche L. Pulito,
Messa alla prova per adulti: anatomia di un nuovo modello processuale, cit., 103; G. Zaccaro, La messa alla prova per adulti.
Prime considerazioni, cit., 9.
(37) Per un approfondimento sul tema della “messa alla
prova parziale” si vedano, senza pretesa di completezza, V.
Bove, Messa alla prova per gli adulti, cit., 18 ss.; G. L. Fanuli,
L’istituto della messa alla prova, cit., 430 ss.; M. L. Galati-L.
Randazzo, La messa alla prova nel processo penale, cit., 84 ss.
(38) Trib. Torino, Ord. 21 maggio 2014, cit. Per un analitico
commento della decisione si vedano anche G. Negri, Per i processi in corso scatta la messa alla prova, cit.; G. Zaccaro, La
messa alla prova per adulti. Prime considerazioni, cit. Per ogni
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do la prevalente giurisprudenza in tema di c.d.
“patteggiamento parziale” (che, come noto, nega la
possibilità di separazione del processo nel caso in
cui, per questioni edittali, sia ammissibile il patteggiamento solo in relazione ad alcuni tra i reati contestati all’imputato) (39), non escludeva la possibilità di addivenire ad una probation parziale, vista la
diversa natura dell’istituto della messa alla prova
rispetto al patteggiamento (la cui ratio risponde
soltanto ad esigenze deflattive, da contrapporre a
quelle anche risocializzanti e rieducative sottese alla probation) (40).
Nell’arco di pochi mesi la questione è giunta al vaglio della S.C. (41), che - con la sent. n. 14112
dell’8 aprile 2015 - ha negato fermamente la configurabilità di una “messa alla prova parziale”, sulla
scorta della condivisibile considerazione per cui
“appare stridente con la struttura del sistema e con
gli stessi presupposti dell’istituto che possa avvenire una “parziale” risocializzazione del soggetto interessato” (42).
Merita di essere valorizzato il silenzio del legislatore sul punto: in un siffatto quadro normativo, non
essendo validamente ipotizzabile la sospensione
dell’intero procedimento, l’unica soluzione processuale percorribile appare essere quella legata all’applicazione della clausola di salvezza contenuta nell’art. 18, comma 1, prima parte c.p.p., dovendo rinvenirsi - nei procedimenti oggettivamente cumulativi - una tipica situazione in cui la trattazione unitaria della vicenda risulti assolutamente necessaria
per l’accertamento dei fatti, così escludendosi la possibilità di addivenire ad una separazione processuale.
Più in generale, riprendendo alcune apprezzabili
osservazioni fatte proprie dalla Corte nella citata
pronuncia, l’inconfigurabilità di una messa alla
prova parziale fa leva soprattutto sulla ratio più intima dell’istituto, improntata alla contemporanea
risocializzazione e rieducazione del reo (43): se si
respinge l’idea o la possibilità stessa di addivenire
ad una “parziale” resipiscenza dell’imputato, non
ulteriore approfondimento circa il contenuto del provvedimento de quo, si rinvia a quanto riportato sub nt. 15.
(39) Giova infatti rammentare come una folta corrente giurisprudenziale faccia leva sull’argomento del mancato rispetto
e/o perseguimento dell’effetto deflattivo per negare l’ammissibilità del c.d. “patteggiamento parziale” (o, allo stesso modo,
del c.d. “giudizio abbreviato parziale”). Per un approfondimento della questione e delle problematiche connesse si vedano,
tra i più recenti, L. Cercola, Patteggiamento parziale: ancora resistenze dai giudici di legittimità, in Cass. pen., 2014, pp. 2581
ss.; A. Remelli, Deflazione dibattimentale e parcellizzazione dei
riti speciali: un mosaico di difficile composizione, in questa Rivista, 2012, 963 ss.
(40) A parere del Tribunale, ritenere inammissibile la “messa alla prova parziale” condurrebbe a conseguenze paradossali in tutte quelle ipotesi in cui l’imputato - che si vedesse respingere l’istanza per esservi, nell’imputazione, anche reati per
cui la definizione alternativa non fosse prevista dalla legge venisse poi assolto per i soli reati che precludevano l’accesso
alla messa alla prova, ma condannato per i reati per i quali
avrebbe avuto diritto alla probation.
(41) Nel caso sottoposto all’esame della Corte di cassazione, il giudice di merito (G.U.P. di Palermo) aveva ammesso al
giudizio abbreviato due imputati, respingendo l’istanza di ammissione alla messa alla prova che gli stessi avevano presentato in relazione soltanto ad alcuni tra i reati loro ascritti (poiché
gli altri non rientravano, per limiti edittali, nella previsione di
cui all’art. 168 bis c.p.). A parere del giudice di merito, pur essendo astrattamente ammissibile la possibilità di presentare
una richiesta di messa alla prova parziale, per accogliere la relativa domanda sarebbe necessario valutarne, in concreto, la
compatibilità o meno con la disposizione di cui all’art. 18,
comma 1, prima parte c.p.p. In sostanza, stando a quanto argomentato dal giudice di merito, posto che l’ammissione alla
messa alla prova parziale comporterebbe necessariamente la
separazione del processo per cui sia disposta la sospensione
da quello avente ad oggetto le altre imputazioni, non sarebbe
possibile accedere alla probation quando il giudice rilevi l’esigenza di procedere unitariamente in relazione a tutti i reati
contestati all’imputato, in attuazione dell’art. 18, comma 1, prima parte c.p.p. Nel dare applicazione a tale interpretazione, il
giudice di merito riteneva dunque non concedibile nel caso di
specie la messa alla prova parziale, in quanto riteneva la trattazione unitaria del processo come assolutamente necessaria
per l’accertamento dei fatti, che non consentivano una valutazione separata.
(42) In tal senso, Cass., Sez. II, 12 marzo 2015 - dep. 8 aprile 2015, n. 14112, cit. Per una approfondita disamina della
pronuncia si vedano J. Della Torre, La Cassazione nega l’ammissibilità della messa alla prova “parziale” in nome della rieducazione “totale” del richiedente, in www.penalecontemporaneo.it, 20 maggio 2015; C. Santoriello, La Cassazione dice no
alla messa alla prova parziale, in www.quotidianogiuridico.it, 16
aprile 2015; G. Valer, Un punto sull’applicazione della messa alla
prova per adulti, in www.questionegiustizia.it, 27 aprile 2015.
(43) In dottrina, fortemente critico rispetto ad una tale soluzione è J. Della Torre, La Cassazione nega l’ammissibilità della
messa alla prova “parziale” in nome della rieducazione “totale”
del richiedente, cit. Secondo l’Autore, la decisione del Supremo Collegio desterebbe qualche perplessità nella parte in cui
sembra desumere dalla ratio rieducativa e risocializzante dell’istituto una presunzione assoluta di non concedibilità della
messa alla prova parziale, ove siano contestati nei confronti
del medesimo soggetto anche reati per cui il rito non può essere concesso. Né sembrerebbero convincenti le argomentazioni secondo cui l’istituto sarebbe ammissibile solo ove fosse
possibile una simultanea e totale risocializzazione dell’imputato. La lettera della legge non farebbe riferimento a criteri stringenti dai quali trarre in maniera inequivoca la conclusione per
cui non sarebbe possibile accedere all’istituto quando siano
contestati anche reati non ricompresi nell’art. 168 bis c.p., sicché impedire l’accesso alla probation solo perché sia contestato all’imputato anche un reato per cui non sia concedibile la
messa alla prova, significherebbe costruire in via esegetica
una preclusione assoluta non prevista dalla littera legis. Pertanto, pur essendo indubbio che il giudice di merito, nella valutazione sulla concedibilità della messa alla prova, debba tener
conto anche del fatto che sia contestato nei confronti del richiedente un reato non rientrante tra quelli ricompresi nel catalogo di cui all’art. 168 bis c.p., secondo l’Autore si potrebbe
ipotizzare un’alternativa all’approccio astratto ed “assolutista”
proposto dalla Cassazione: il dato normativo consentirebbe
cioè di effettuare una valutazione concreta, che permetterebbe
al giudice di ammettere parzialmente il richiedente al rito, ove
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può concedersi spazio ad una “limitata” forma di
probation.
A conferma di ciò, peraltro, può essere individuato
anche un forte argomento letterale, posto che il legislatore - nella formulazione dell’art. 168 bis c.p. non ha fatto riferimento ai “reati” ma ai “procedimenti per reati”, così lasciando intendere “una visione unitaria e complessiva della prospettiva di risocializzazione del soggetto che potrà realizzarsi attraverso la messa alla prova previa sospensione dell’intero “procedimento” ma solo quando ciò sia
possibile in relazione a tutti i reati in contestazione” (44).
La Corte, nella pronuncia de qua, non si è invece
occupata di un’ulteriore forma di probation “parziale”, vale a dire quella che potrebbe verificarsi laddove ad uno stesso soggetto siano sì contestati più
reati rientranti tutti nel paradigma di cui all’art.
168 bis c.p., ma costui richieda di accedere alla
messa alla prova solo in relazione ad una o ad alcune tra tali fattispecie: il verificarsi di una simile
ipotesi non appare peregrina, ben potendo essere
giustificata - nell’ottica del richiedente - dalla circostanza per cui, in relazione ad alcune fattispecie
contestategli, questi ritenga di poter ottenere una
pronuncia assolutoria (o comunque favorevole) all’esito dell’ordinario sviluppo processuale.
Sul punto, sulla scorta delle medesime argomentazioni già svolte, dovrebbe ugualmente concludersi
per l’impossibilità di configurare una tale forma di
probation parziale: appare infatti evidente come,
anche in tali ipotesi, non sarebbe rispettato il paradigma di cui all’art. 18 c.p.p.; inoltre, rivivrebbero
analogamente sia le considerazioni in ordine all’inammissibilità di una parziale risocializzazione del
reo, sia - soprattutto - quelle concernenti l’evenritenesse possibile effettuare, in base agli elementi effettivamente disponibili, una prognosi positiva sulla rieducazione dell’interessato. In senso parzialmente conforme si è espresso anche L. Fanuli, L’istituto della messa alla prova ex lege 28 aprile,
n. 67. Inquadramento teorico e problematiche applicative, cit.,
430.
(44) In tal senso, testualmente, Cass., Sez. II, 12 marzo
2015 - dep. 8 aprile 2015, n. 14112, cit. Sotto ulteriori profili, la
Corte afferma come la disciplina del nuovo istituto non preveda un diritto assoluto in capo all’imputato di accedere alla probation, richiedendo invece sempre l’esercizio di un potere valutativo da parte del giudice, che deve inquadrarsi non solo nel
più ampio quadro della situazione personale dell’imputato, ma
anche del contesto processuale nel quale verrebbe ad operare
la sospensione del procedimento. L’ammissibilità della richiesta di messa alla prova presuppone infatti necessariamente
una valutazione prognostica positiva sulle possibilità rieducative dell’interessato, per la cui formulazione “non può prescindersi dal tipo di reato commesso, dalle modalità di attuazione
dello stesso e dai motivi del delinquere, al fine di valutare se il
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tuale contrasto con la precisa formulazione dell’art.
168 bis c.p. (45).
Sulla ammissibilità della messa alla prova
“per più reati”
Applicando a contrario le riflessioni ed i principi
posti a fondamento della inconfigurabilità di una
probation “parziale”, appare possibile risolvere anche una ulteriore questione emersa in materia di
messa alla prova e legata ai dubbi circa la ammissibilità di una probation avente ad oggetto più reati
(tutti, evidentemente, rientranti nel paradigma di
cui all’art. 168 bis c.p.).
Per superare tale criticità appare ancora opportuno
fare riferimento al dato normativo, posto che l’art.
168 bis, comma 4 c.p. - nel prevedere che “la sospensione del procedimento con messa alla prova
dell’imputato non può essere concessa per più di
una volta” - non incide negativamente sulla ammissibilità della richiesta di accesso alla probation
che abbia ad oggetto “più reati” contestati all’imputato: la locuzione “per più di una volta”, infatti,
non significa “per più reati”; una operazione ermeneutica che giungesse ad equiparare tali concetti oltre che una forzatura in malam partem della littera
legis - contrasterebbe con la ratio risocializzante dell’istituto (e con la più recente interpretazione fornitane dalla giurisprudenza di legittimità) (46).
Sotto altro profilo, i giudici di merito si sono recentemente confrontati con eccezioni di inammissibilità della probation fondate non solo e non tanto sulla pluralità di reati in relazione ai quali l’imputato richiedeva l’accesso all’istituto, ma sulla circostanza per cui tali reati fossero avvinti dal vincolo della continuazione.
fatto contestato debba considerarsi [o meno] un episodio del
tutto occasionale”. Di conseguenza, a parere della Corte, nei
casi in cui siano contestati all’imputato anche reati per cui non
sia astrattamente concedibile la messa alla prova, non sarebbe
possibile effettuare proprio quel vaglio positivo sulla possibilità
di risocializzazione del richiedente, “che rappresenta il vero ed
unico motivo fondante dell’istituto”. Ciò perché, conclude il
Collegio, l’essenza rieducativa della messa alla prova non può
ricollegarsi al solo fatto di consentire all’imputato di ottenere
l’estinzione del reato, ma ha basi più profonde, “che tendono
all’eradicazione completa delle tendenze di condotta antigiuridica del soggetto e che contrastano con l’idea di un individuo
semi-risocializzato”.
(45) A conclusioni difformi giunge, in dottrina, L. Fanuli, L’istituto della messa alla prova ex lege 28 aprile, n. 67. Inquadramento teorico e problematiche applicative, cit., 430, secondo
cui sarebbe ammissibile anche una tale ulteriore forma di probation parziale.
(46) Cfr. Cass., Sez. II, 12 marzo 2015 - dep. 8 aprile 2015,
n. 14112, cit.
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Una tale doglianza appare non solo infondata, ma
- sulla scorta delle riflessioni già svolte - del tutto
ultronea: è infatti lo stesso istituto della continuazione ad avere una valenza “premiale”, sicché sarebbe irragionevole snaturarne l’essenza e l’impianto teleologico, non potendo mai essere applicato in
malam partem.
Semmai, la prassi applicativa avrebbe potuto sollevare la problematica opposta, concernente la possibilità di accedere alla probation in presenza di più
reati che non siano espressione di un medesimo disegno criminoso: come già segnalato, in ogni caso,
la questione - pur conservando un maggior pregio
ermeneutico - non sarebbe comunque meritevole
di accoglimento.
A conclusioni sostanzialmente paritetiche è giunto, nel primissimo intervento giurisprudenziale sul
punto, anche il Tribunale di Milano, affermando
che la richiesta di sospensione del processo per la
messa alla prova risulti ammissibile laddove abbia
ad oggetto più reati contestati all’imputato, ciascuno dei quali compatibile con il regime di cui all’art. 168 bis c.p., a prescindere dalla sussistenza o
meno di un vincolo di continuazione tra gli stessi (47).
Attraverso condivisibili considerazioni “di sistema”, il Tribunale milanese è giunto alla conclusione per cui il fondamentale parametro che - in tali
ipotesi - deve guidare la valutazione del giudice attiene al controllo circa l’inclusione di tutti i reati
in contestazione nel novero di quelli richiamati
dall’art. 168 bis c.p., a prescindere dalla sussistenza
o meno di un vincolo di continuazione tra gli stessi (48).
Tale soluzione appare peraltro in linea con i principi già valorizzati (anche) dalla giurisprudenza di
legittimità, soprattutto con riguardo alla inconfigurabilità della probation “parziale” (49), di cui la questione in parola sembra rappresentare l’opposta faccia di una medesima medaglia.
Non v’è dubbio, infatti, che l’ammissione di una
probation per più reati (rectius, per tutti i reati contestati all’imputato) risulti idonea ad assicurare l’unitaria trattazione della vicenda processuale, con
conseguente adesione sia al paradigma di cui all’art. 18 c.p.p. sia allo spirito della nuova disciplina
(che, all’art. 168 bis c.p., include nell’applicazione
della probation i “procedimenti per reati”), nonché alla ratio globalmente risocializzante e rieducativa
sottesa all’istituto di cui si tratta.
(47) Cfr. Trib. Milano, Ord. 28 aprile 2015, con nota di S. Finocchiaro, Secondo il Tribunale di Milano, la richiesta di messa
alla prova è ammissibile anche “per più reati”, in www.penalecontemporaneo.it, 12 maggio 2015.
(48) Sul punto, l’ordinanza in commento richiama la disciplina dettata in materia di sospensione condizionale della pena: non vi sarebbero dunque ragioni ostative all’estensione alla
messa alla prova della soluzione interpretativa consolidatasi in
relazione all’art. 164, comma 4 c.p., per cui la possibilità di riconoscere il beneficio non viene limitata in ipotesi di condanna
per reati tutti avvinti dal vincolo della continuazione. Nell’ordi-
nanza si afferma piuttosto come la pluralità di contestazioni a
carico dell’imputato rappresenti un dato che il giudice può e
deve considerare nella formulazione della prognosi in ordine al
futuro comportamento dell’imputato ed alla sua astensione
dal commettere ulteriori reati: potrà quindi essere l’esito negativo di una tale valutazione a determinare il rigetto dell’istanza
di accesso alla probation, ma non già la mera sussistenza di
una pluralità di reati (sempre che per ciascuno di essi sia pacificamente ammissibile la messa alla prova).
(49) Sul punto, per maggiori approfondimenti, si rimanda a
quanto riportato nel par. 5.
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Misure cautelari
I vizi degli automatismi cautelari
persistenti nell’art. 275, comma
3, c.p.p.
di Marcello Daniele (*)
Sull’onda delle sentenze con cui la Corte costituzionale ha solo parzialmente demolito gli automatismi cautelari introdotti dal pacchetto sicurezza del 2009, la L. n. 47 del 2015 ha lasciato nell’art. 275, comma 3, c.p.p. alcuni residui meccanismi presuntivi, che continuano a reprimere in
modo irragionevole i poteri cognitivi del giudice. È una scelta costituzionalmente eccepibile, che
non elimina il pericolo di arbitrarietà nelle decisioni di privazione della libertà, e comunque non
si rivela realmente capace di incrementare la tutela della sicurezza. Ancora una volta il legislatore, voglioso di tranquillizzare l’opinione pubblica e di mantenere il consenso elettorale, ha perso
l’occasione per ripristinare in pieno la garanzia dell’habeas corpus.
Una modifica legislativa non risolutiva
costituzionalmente indifendibili. Ma questo non è
stato l’esito della novella, con la conseguenza che
la disciplina vigente si presta, a parere di chi scrive, ad ulteriori declaratorie di illegittimità.
La L. 16 aprile 2015, n. 47 ha rimodellato il comma 3 dell’art. 275 c.p.p. in due modi: a) prevedendo una doppia presunzione relativa - di presenza
delle esigenze cautelari e di stretta necessità della
custodia in carcere - nei procedimenti per i gravi
delitti tassativamente elencati; b) prescrivendo
una presunzione assoluta di stretta necessità della
carcerazione, a fianco della presunzione relativa di
presenza delle esigenze cautelari, in rapporto ai
procedimenti per tre sole fattispecie: associazione
mafiosa (art. 416 bis c.p.), associazione sovversiva
(art. 270 c.p.) ed associazione con finalità di terrorismo (art. 270 bis c.p.) (1).
Erano modifiche prevedibili, considerato che il legislatore ha recepito il dispositivo delle numerose
declaratorie di illegittimità intervenute al riguardo (2). Non appaiono, però, modifiche sufficientemente coraggiose. Poteva essere l’occasione per eliminare una volta per tutte gli automatismi cautelari in malam partem che purtroppo ancora residuano
nel nostro sistema, e che continuano ad apparire
La sent. n. 265 del 2010 della Corte costituzionale
ha meritoriamente enucleato le ragioni per cui la
presunzione assoluta di stretta necessità della carcerazione è inaccettabile perfino nei procedimenti
per i reati più gravi. È una presunzione che, essenzialmente, non possiede un adeguato fondamento
empirico, derivandone un’ingiustificata riduzione
di quel potere di accertamento induttivo del giudice nel caso concreto che costituisce il nucleo della
garanzia dell’habeas corpus salvaguardato dagli artt.
13 Cost. e 5 Cedu.
Il fondamento empirico in questione non è offerto
dalla struttura dei reati elencati dall’art. 275, comma 3, c.p.p.: illeciti, che, “per quanto odiosi e riprovevoli”, “presentano disvalori nettamente diffe-
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Per un commento v. G. Spangher, Un restyling per le misure cautelari, in questa Rivista, 2015, 530 s. Cfr. pure A. Marandola, I nuovi criteri di scelta della misura, in G.M. Baccari K. La Regina - E.M. Mancuso, Il nuovo volto della giustizia pe-
nale, Padova, 2015, 411 s.; E. Turco, La riforma delle misure
cautelari, in Proc. pen. giust., 2015, n. 5, 110 s.
(2) Si allude alla pletora di decisioni della Corte costituzionale che, a partire dalla sent. 25 maggio 2010, n. 265, aveva
censurato l’art. 275, comma 3, c.p.p. nella versione rimaneggiata dalla L. 15 luglio 2009, n. 94.
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L’opera incompiuta della Corte
costituzionale
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renziabili”, con la conseguenza che “possono proporre esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con diverse misure”.
Il fondamento empirico non appare ricavabile
nemmeno dalla gravità di questi reati. Di per sé, la
gravità è un connotato che non vale a rendere la
carcerazione in ogni caso indispensabile: un’equazione del genere nasconderebbe una chiara violazione della presunzione di non colpevolezza. Né,
per lo stesso motivo, sarebbe consentito appellarsi
alla funzione special-preventiva che la presunzione
potrebbe esercitare: nessuna efficacia deterrente sarebbe invocabile nei confronti di persone a carico
delle quali esistono solo indizi della possibile commissione di un reato, in base ad una valutazione
incompleta suscettibile di essere sovvertita in giudizio (3).
Le argomentazioni della Corte costituzionale trovano significative assonanze con il case law della Corte europea dei diritti dell’uomo. Le prescrizioni nazionali tali da vietare la libertà provvisoria delle
persone indiziate di reati gravi - rilevano i giudici
di Strasburgo - in linea di principio entrano in tensione con l’art. 5 Cedu, in quanto impediscono al
giudice di accertare l’effettiva presenza di un’esigenza di ordine pubblico capace di giustificare una
deroga al diritto alla libertà personale (4).
Inoltre la Corte europea ricorda costantemente come il trascorrere del tempo e il fisiologico affievolimento del bisogno cautelare che ne discende sia
un fattore non irrilevante per determinare la legittimità della privazione della libertà (5). Ma proprio
l’impossibilità di considerare quest’ultimo è l’effetto della presunzione assoluta di stretta necessità
della carcerazione (6); la quale, a causa del rinvio
all’art. 275, comma 3, c.p.p. da parte dell’art. 299,
comma 2, dovrebbe essere applicata non solo nella
fase genetica, ma pure in relazione alle vicende
successive della misura (7), finendo così per congelare lo status custodiae.
Muovendo da queste condivisibili premesse, la
Corte costituzionale si è però fermata a metà del
guado, limitandosi a convertire la presunzione di
cui si discute da assoluta a relativa (8): è applicata
(3) Cfr. Corte cost. n. 265 del 2010. Convergono sulle considerazioni della Corte, fra i molti, R. Adorno, L’inarrestabile irragionevolezza del carcere cautelare “obbligatorio”: cade la presunzione assoluta anche per i reati di “contesto mafioso”, in
Giur. cost., 2013, 2409 s.; E. Amodio, Inviolabilità della libertà
personale e coercizione cautelare minima, in AA.VV., Le fragili
garanzie della libertà personale, Milano 2014, 18 s.; G. Di Chiara, Custodia in carcere e presunzioni assolute di adeguatezza, in
Dir. pen. proc., 2010, 1151 s.; M. Gialuz, Gli automatismi cautelari tra legalità costituzionale e garanzie convenzionali, in Proc.
pen. giust., 2013, n. 6, 113 s.; G. Giostra, Carcere cautelare
“obbligatorio”: la campana della Corte costituzionale, le “stecche” della cassazione, la sordità del legislatore, in Giur. cost.,
2012, 4897 s.; F. Giunchedi, La presunzione di adeguatezza della custodia cautelare. Frammenti di storia ed equilibri nuovi, in
Giur. it., 2013, 712 s.; G. Illuminati, Esigenze cautelari, proporzionalità, adeguatezza: quali traguardi?, in AA.VV., Le fragili garanzie, cit., 334 s.; L. Kalb, Motivazione ed effettività del sistema
dei controlli, in AA.VV., Le fragili garanzie, cit., 177 s.; S. Lorusso, Necessario valutare la possibilità di applicare misure meno
rigorose della custodia in carcere, in Guida dir., 2010, n. 35, 60
s.; V. Manes, Lo “sciame di precedenti” della Corte costituzionale sulle presunzioni in materia cautelare, in Dir. pen. proc.,
2014, 464 s.; A. Marandola, Sull’(in)adeguatezza della custodia
inframuraria applicata ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero il punto di “non ritorno” degli automatismi in sede cautelare, in Giur. cost., 2013,
891 s.; E. Marzaduri, Disciplina delle misure cautelari personali
e presunzioni di pericolosità: un passo avanti nella direzione di
una soluzione costituzionalmente accettabile, in Leg. pen., 2010,
501 s.; O. Mazza, Le persone pericolose (in difesa della presunzione d’innocenza), in www.penalecontemporaneo.it., 20 aprile
2012, 8 s.; P. Moscarini, L’ampliamento del regime speciale
della custodia in carcere per gravità del reato, in questa Rivista,
2010, 232 s.; P.P. Paulesu, Reati di mafia e automatismi cautelari, in Riv. dir. proc., 2012, 1493 s.; A. Presutti, Gli incerti confini delle esigenze cautelari: le cautele come forma di anticipazione della pena, in AA.VV., Le fragili garanzie, cit., 44 s.; S. Quattrocolo, Aporie e presunzioni nei criteri selettivi della tutela cautelare personale. Verso il crepuscolo del giudizio di proporzionali-
tà e di adeguatezza?, in A. Gaboardi-A. Gargani-G. MorganteA. Presotto-M. Serraino (a cura di), Libertà dal carcere, libertà
nel carcere, Torino, 2013, 221 s.; T. Rafaraci, Omicidio volontario e adeguatezza della custodia cautelare in carcere: la Consulta
censura la presunzione assoluta, in Giur. cost., 2011, 3722 s.; L.
Scomparin, Censurati gli automatismi custodiali anche per le fattispecie associative in materia di narcotraffico: una tappa intermedia verso un riequilibrio costituzionale dei regimi presuntivi,
in Giur. cost., 2011, 3732 s.; P. Tonini, La Consulta pone limiti
alla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, in questa Rivista, 2010, 951 s.; F. Vergine, Art. 275, comma 3, c.p.p.: una norma dall’utilizzo eccessivo, in questa Rivista,
2014, 433 s.
(4) Cfr. in particolare Cedu, 19 giugno 2001, S.B.C. c. Regno
Unito, § 22 s., a seguito della quale il legislatore inglese ha
modificato la sec. 25 Criminal Justice and Public Order Act
1994 prevedendo che la libertà provvisoria possa essere concessa anche nei procedimenti per i reati più gravi, se il giudice
rinvenga la presenza di “circostanze eccezionali” capaci di giustificarla; in altri termini, trasformando la presunzione di necessità della custodia cautelare da assoluta a relativa, come ha
fatto la Corte costituzionale italiana.V. pure Id., 11 luglio 2006,
Boicenco c. Moldavia, § 134 s., e Id., 26 marzo 2009, Krejèíø c.
Repubblica Ceca, § 100 s.
(5) Cfr. Cedu 16 novembre 2000, Vaccaro c. Italia, § 36 s.; v.
anche Id., 3 marzo 2009, Hilgartner c. Polonia, § 29 s. In dottrina cfr. O. Mazza, La libertà personale nella Costituzione europea, in M.G. Coppetta (a cura di), Profili del processo penale
nella Costituzione europea, Torino, 2005, 64 s.
(6) Cfr. M. Gialuz, Gli automatismi cautelari, cit., 117 s.; F.
Zacché, Vecchi automatismi cautelari e nuove esigenza di difesa
sociale, in O. Mazza - F. Viganò (a cura di), Il “pacchetto sicurezza” 2009, Torino, 2009, 292 s.
(7) Così G. Spangher, La “neutralizzazione” della pericolosità
sociale. Prime riflessioni, in Giust. pen., 2010, I, 407. In giurisprudenza Cass., SS.UU., 19 luglio 2012, n. 34473. In senso
diverso v. Cass., Sez. VI, 16 giugno 2015, n. 27544, e Id., Sez.
IV, 11 giugno 2015, n. 26570.
(8) A favore di questo esito già M. Chiavario, Una “carta di
libertà espressione di impegno civile: con qualche sgualcitura (e
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la custodia in carcere salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che, “in relazione al caso
concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.
Le incrostazioni residue dell’art. 275,
comma 3, c.p.p.: a) il circolo vizioso
indotto dalla presunzione relativa di
presenza dei pericula libertatis
La L. n. 47 del 2015 non si è spinta oltre i confini
raggiunti dalla Corte costituzionale, e come si accennava è una scelta che appare meritevole di dissenso.
Di per sé, in rapporto ai procedimenti per i reati
più gravi la presunzione relativa di stretta necessità
della carcerazione potrebbe anche essere tollerata.
Molti rilevano che essa addosserebbe a carico della
difesa una probatio diabolica (9). Ma è consentito
replicare che, considerata da sola, non svuoterebbe
la garanzia giurisdizionale. La prova necessaria a
vincerla potrebbe essere ricavata dagli elementi conoscitivi addotti dall’accusa per dimostrare la sussistenza delle esigenze cautelari; i quali, non potendo
ridursi alla sola gravità del reato (art. 274, lett. b e
c c.p.p.), e dovendo ricomprendere anche i dati a
favore della difesa (artt. 291, comma 1 e 309, comma 5, c.p.p.), in linea di massima dovrebbero offrire al giudice una visione sufficientemente completa
dell’entità dei pericula libertatis (10).
I termini del discorso mutano se - come avviene
nell’attuale testo dell’art. 275, comma 3, c.p.p. - la
presunzione relativa di stretta necessità della carcerazione si accompagna ad un’altra presunzione relativa: quella di presenza dei pericula libertatis, rinvequalche...patinatura) di troppo, in Id. (a cura di), Commento al
nuovo codice di procedura penale, III, Milano, 1990, 16 s.
(9) Cfr. E. Amodio, Inviolabilità della libertà, cit., 33 s.; M.
Gialuz, Gli automatismi cautelari, cit., 118 s.; G. Illuminati, Esigenze cautelari, cit., 335 s.; A. Marandola, I nuovi criteri, cit.,
417 s.; E. Marzaduri, Ancora ristretto il campo di operatività della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare
in carcere, in Leg. pen., 2011, 703; S. Quattrocolo, Aporie e
presunzioni, cit., 224 s.; T. Rafaraci, Omicidio volontario, cit.,
3725 s.; P. Tonini, La carcerazione cautelare per gravi delitti: dalle logiche dell’allarme sociale alla gestione in chiave probatoria,
in questa Rivista, 2014, 266 s.; F. Zacché, Le cautele fra prerogative dell’imputato e tutela della vittima di reati violenti, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2015, 663 s.
(10) Si potrebbe eccepire che la prassi dimostra come le
prescrizioni richiamate nel testo siano agevolmente eludibili;
tuttavia l’obiezione varrebbe non solo riguardo alla presunzione in questione, ma anche in rapporto all’applicazione delle
misure cautelari in base alle regole ordinarie.
(11) V. E. Marzaduri, Ancora ristretto il campo, cit., 698; F.
Morelli, L’allentamento delle presunzioni legali e giurisprudenziali, in D. Chinnici (a cura di), Le misure cautelari personali nella
strategia del “minimo sacrificio necessario”, Roma, 2015, 35 s.;
116
nibile nella prescrizione secondo cui la custodia in
carcere va disposta salvo che “siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze
cautelari”.
È difficile non riconoscere come la combinazione
delle due presunzioni origini un vuoto cognitivo
totale, tale da lasciare spazio alla massima arbitrarietà nelle decisioni di privazione della libertà (11).
La presunzione relativa di presenza delle esigenze
cautelari obbliga la difesa a fornire la prova - di fatto impossibile - dell’inesistenza di tutti i pericula libertatis (12). Essa perlopiù lascia in mano al giudice
i soli elementi addotti dall’accusa per dimostrare la
sussistenza del fumus delicti: un compendio indiziario spesso incapace di fornire gli input necessari per
stabilire se la presunzione relativa di stretta necessità della carcerazione sia superabile.
La sopravvivenza della presunzione relativa di presenza dei pericula libertatis, insomma, produce danni
non meno gravi di quelli a cui la Corte costituzionale ha tentato di porre rimedio.
b) Le aporie della presunzione assoluta di
stretta necessità della carcerazione nei
procedimenti per associazione mafiosa,
sovversiva e terroristica
La L. n. 47 del 2015 ha, al contempo, mantenuto
la presunzione assoluta di stretta necessità della
carcerazione in rapporto ai procedimenti per associazione mafiosa, sovversiva e terroristica (13).
Una presunzione assoluta che, per la sua perentorietà (“è applicata la custodia cautelare in carcere”), esonera il giudice dall’obbligo di motivazione
in merito all’inidoneità degli arresti domiciliari
T. Rafaraci, Omicidio volontario, cit., 3726 s.; P. Tonini, La carcerazione, cit., 266 s.; E. Valentini, La domanda cautelare nel sistema delle cautele personali, Bologna, 2012, 317 s.; F. Zacché,
Le cautele, cit., 662 s. Suggerisce per tale ragione un’interpretatio abrogans della presunzione relativa di presenza delle esigenze cautelari E. Marzaduri, L’applicazione della custodia in
carcere alla luce della nuova disciplina delle presunzioni in materia cautelare, in www.lalegislazionepenale.eu, 1° dicembre
2015, 13 s.
(12) Cfr. D. Negri, Sulla presunzione assoluta di adeguatezza
della sola custodia cautelare in carcere nell’art. 275 comma 3
c.p.p., in Cass. pen., 1996, 2837 s.; P.P. Paulesu, Reati di mafia,
cit., 1495 s.; S. Ruggeri, Art. 2 d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, in
Leg. pen., 2009, 442; P. Spagnolo, Il tribunale della libertà tra
normativa nazionale e normativa internazionale, Milano, 2008,
316 s.; F. Zacché, Le cautele, cit., 663 s.
(13) Restano esclusi dall’area operativa della presunzione
assoluta i delitti di contesto mafioso e il concorso esterno nell’associazione mafiosa, in rapporto ai quali opera la presunzione relativa introdotta da Corte cost. 25 marzo 2013, n. 57, e
25 febbraio 2015, n. 48: cfr. G. Spangher, Un restyling, cit.,
530 s.
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con controllo elettronico introdotto all’art. 275,
comma 3 bis, c.p.p. (14).
Quanto all’associazione mafiosa, è una scelta che
trova un avallo in un obiter dictum della stessa sen.
n. 265 del 2010. La Corte costituzionale aveva notato come quella punita dall’art. 416 bis c.p. sia l’unica tipologia di associazione criminale della quale
il legislatore indica non solo le finalità, ma anche il
metodo operativo: un metodo fondato sulla “condizione di assoggettamento e di omertà” che deriva da
“un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso
di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e
dotato di particolare forza intimidatrice”.
Tale connotato strutturale, secondo la Corte, consentirebbe di fondare la presunzione assoluta sulla
massima di esperienza secondo la quale le esigenze
cautelari potrebbero essere soddisfatte esclusivamente dalla carcerazione, “non essendo le misure
“minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza,
neutralizzandone la pericolosità” (15). Considerazioni in parte simili si rinvengono nella decisione
Pantano c. Italia del 2003, con cui la Corte europea
dei diritti dell’uomo aveva ritenuto compatibile
con l’art. 5 Cedu la carcerazione obbligatoria ex
art. 275, comma 3, c.p.p. di una persona indiziata
di associazione mafiosa (16).
È un’argomentazione dotata di una sua forza persuasiva. È noto come la fattispecie dell’art. 416 bis
c.p. si inscriva in una logica non solo punitiva ma
anche, e soprattutto, preventiva. Il suo scopo è
quello di anticipare la soglia della punibilità e, sul
versante procedimentale, di facilitare l’adozione
dei provvedimenti cautelari, consentendone l’impiego ben prima della commissione dei reati-fine
programmati dall’associazione (17). Il che porta taluni a ritenere che la custodia in carcere obbligatoria, normalmente inaccettabile, in questo contesto
diverrebbe fisiologica e, dunque, costituzionalmente tollerabile (18).
Collocandosi sul versante opposto, altri replicano
come la presunzione assoluta di stretta necessità
della carcerazione per il delitto ex art. 416 bis c.p.
si trovi in radicale contrasto con la presunzione di
non colpevolezza. Fondare la presunzione assoluta
sulla probabilità che l’indiziato, qualora non fosse
incarcerato, continui a prestare il proprio apporto
all’associazione - si è rilevato - significherebbe presupporre il già avvenuto accertamento della colpevolezza, finendo col trasformare la custodia in una
pena anticipata (19).
Quest’ultima linea di pensiero è coerente con l’impostazione in base alla quale, in virtù delle implicazioni dell’art. 27, comma 2, Cost., la carcerazione ante iudicium potrebbe unicamente perseguire finalità cautelari nel senso stretto del termine (vale
a dire impedire la fuga o l’inquinamento delle prove); non, invece, la finalità di proteggere la sicurezza pubblica, evitando che l’indiziato resti libero
di commettere reati (20).
Ma è una visione che si scontra con il fatto che il
diritto alla libertà personale e la presunzione di
non colpevolezza appaiono suscettibili di un bilanciamento con la tutela della sicurezza (21). Lo si
evince da precise indicazioni normative rinvenibili
nella Convenzione europea, le quali, in assenza di
espliciti segnali contrari nella nostra Costituzione,
assumono il ruolo di parametri di legittimità rilevanti per l’ordinamento interno. Non si allude solo
all’art. 5, § 1, lett. c), Cedu, che prevede la possibilità della privazione della libertà quando risulti necessario “impedire” all’indiziato di “commettere un
reato”; va ricordato anche il diritto alla vita previsto dall’art. 2 Cedu, dal quale discende l’obbligo
per i legislatori nazionali di prevenire le aggressioni
ai diritti dei cittadini da parte degli individui potenzialmente pericolosi (22). Ed è chiaro come la
(14) V. G. Spangher, Un restyling, cit., 531. Per converso
l’obbligo di motivazione in questione si riattiverebbe in rapporto
alla presunzione relativa di stretta necessità della carcerazione,
nelle situazioni in cui quest’ultima fosse superata da una prova
contraria: cfr. A. Marandola, I nuovi criteri, cit., 417.
(15) Corte cost. n. 265 del 2010. V. anche, in precedenza,
Corte cost. n. 450 del 1995, in merito a cui si rinvia alle riflessioni critiche di A. De Caro, Presupposti e criteri applicativi, in
A. Scalfati (a cura di), Trattato di procedura penale, 2, II, Le misure cautelari, Milano, 2008, 86 s., di O. Mazza, Le persone pericolose, cit., 9 s., e di D. Negri, Sulla presunzione assoluta, cit.,
2839 s.
(16) Cfr. Cedu 6 novembre 2003, Pantano c. Italia, § 70, su
cui v. G. Mantovani, Dalla Corte europea una legittimazione alla
presunzione relativa di pericolosità degli indiziati per mafia, in
Leg. pen., 2004, 513 s.
(17) Cfr. in particolare R. Orlandi, Inchieste preparatorie nei
procedimenti di criminalità organizzata: una riedizione dell’inquisitio generalis?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 570 s. V. pure
P.P. Paulesu, Reati di mafia, cit., 1497 s.
(18) Cfr. P.P. Paulesu, Reati di mafia, cit., 1498 s.
(19) Così in particolare O. Mazza, Le persone pericolose,
cit., 10 s.
(20) Cfr. sempre O. Mazza, Le persone pericolose, cit., 7 s.;
v. anche G. Illuminati, Carcere e custodia cautelare, in Cass.
pen., 2012, 2377 s.
(21) In questo senso v. già M. Chiavario, La libertà personale
nell’Italia degli anni settanta, in L. Elia - M. Chiavario (a cura di),
Libertà personale, Milano, 1977, 230 s. Cfr. ora G. Spangher,
La “neutralizzazione”, cit., 410.
(22) Si veda F. Viganò, La neutralizzazione del delinquente
pericoloso nell’ordinamento italiano, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2012, 1360 s.
Diritto penale e processo 1/2016
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presunzione assoluta di stretta necessità della carcerazione, volta ad impedire che l’indiziato possa
partecipare all’attività associativa, altro non faccia
che inserirsi in questa logica di prevenzione.
Sono altre le distonie che derivano dalla presunzione assoluta di cui si discute, e che inducono a ritenerla incostituzionale. Ad uno sguardo più attento,
il fondamento induttivo che pretende di sorreggerla - le peculiarità del vincolo associativo che contraddistingue l’associazione mafiosa - si rivela non
così tanto solido. L’art. 416 bis c.p. descrive condotte di diversa entità, che muovono dalla “partecipazione” (comma 1) fino a raggiungere la “promozione”, la “direzione” e la “organizzazione”
(comma 2). Condotte che, contraddistinguendo diversi ruoli e contributi all’interno dell’associazione,
vengono punite con pene distinte, e sono suscettibili di originare esigenze cautelari di diversa entità,
non tutte necessariamente contrastabili con la sola
custodia in carcere (23).
Si aggiunga che la presunzione assoluta è capace di
risultare tanto dannosa quanto inutile. Dannosa
nella misura in cui rischia di condurre a distorsioni
applicative e, di conseguenza, all’abuso della carcerazione (24). Considerata l’estrema fragilità dell’accertamento dei presupposti cautelari, necessariamente basato su materiali incompleti e selezionati
dall’organo di accusa, nonché il basso tasso di precisione della fattispecie delineata dall’art. 416 bis
c.p. (25), in molti casi non sarebbe difficile riscontrare artificiosamente la presenza dei gravi indizi di
un’associazione mafiosa al solo fine di applicare il
più severo regime cautelare dell’art. 275, comma 3,
c.p.p. (26).
Al di là di queste situazioni patologiche, la previsione della custodia in carcere obbligatoria appare
inutile. A fronte di gravi indizi di un vincolo associativo totalizzante e indissolubile quale quello mafioso, il ricorso alla carcerazione sarebbe tendenzialmente obbligato anche in mancanza della presunzione assoluta ex art. 275, comma 3, c.p.p.: la
privazione della libertà, in tali ipotesi, sarebbe imposta dalla logica stessa dell’accertamento.
Ecco, in definitiva, il difetto capitale della presunzione assoluta di cui si discute: il fatto che essa
esenti il giudice dal difficile compito di determinare in concreto la forza del vincolo associativo e
l’entità del contributo criminoso dell’indiziato.
Una semplificazione cognitiva che, per quanto possa agevolare le indagini, determina una chiara elusione dell’obbligo di motivazione statuito dall’art.
13, comma 2, Cost. (27).
Né varrebbe obiettare che la carcerazione obbligatoria nei procedimenti per associazione mafiosa
rappresenterebbe uno strumento indispensabile per
prevenire tentativi di coartazione nei confronti degli organi giurisdizionali (28). Un obiettivo irrinunciabile per lo Stato quale la protezione dell’incolumità e della libertà morale dei magistrati va
perseguito con appositi strumenti di tutela (29), tra
i quali non può rientrare l’impiego di meccanismi
normativi che rischiano di favorire errori ed abusi
a scapito delle persone sottoposte ad un procedimento penale.
Tutte queste considerazioni valgono, a fortiori, per
la presunzione assoluta di stretta necessità della
carcerazione prevista nei procedimenti per associazione sovversiva o con finalità di terrorismo (30). È
evidente come si tratti di ipotesi strutturate in modo diverso dall’associazione mafiosa. Le relative
fattispecie indicano gli obiettivi perseguiti dalle
strutture criminali (31), ma omettono di delineare
(23) Cfr. R. Adorno, L’inarrestabile irragionevolezza, cit.,
2414 s.; M. Gialuz, Gli automatismi cautelari, cit., 115 s.; E.
Marzaduri, L’applicazione, cit., 9 s.; E. Turco, La riforma, cit.,
113. Tanto è vero che la più sopra citata Cedu 6 novembre
2003, Pantano c. Italia, ha comunque precisato che, nel contesto della lotta alla mafia, una “presunzione legale di pericolosità” sarebbe giustificabile “in particolare quando non fosse assoluta, ma si prestasse ad essere contraddetta dalla prova
contraria” (§ 69).
(24) V. G. Illuminati, Esigenze cautelari, cit., 336.
(25) Spesso impossibile da distinguere, al momento della
decisione cautelare, dalle limitrofe ipotesi del concorso esterno
e dei delitti di contesto mafioso, come si è detto esclusi dall’area operativa della presunzione assoluta.
(26) Cfr. P.P. Paulesu, Reati di mafia, cit., 1496 s.
(27) Cfr. O. Mazza, Le persone pericolose, cit., 13 s. V. pure
L. Scomparin, Censurati gli automatismi, cit., 3738 s.
(28) Così V. Grevi, Misure cautelari, in G. Conso - V. Grevi M. Bargis, Compendio di procedura penale, VII ed., Padova,
2014, 422.
(29) Ad esempio, attribuendo la competenza a decidere sul-
le richieste cautelari e sulle relative impugnazioni a magistrati
dislocati in circoscrizioni territoriali distanti dal luogo della supposta commissione del reato, utilizzando il sistema della videoconferenza per consentire all’organo di accusa e all’indiziato di
partecipare in caso di impedimenti logistici.
(30) Cfr. D. Chinnici-D. Negri, Una riforma carica di ambizioni ma troppo cauta negli esiti, in D. Chinnici (a cura di), Le misure cautelari, cit., 12; F. Morelli, L’allentamento, cit., 33 s. In senso contrario v. P. Borrelli, Una prima lettura delle novità della
legge 47 del 2015 in tema di misure cautelari personali, in
www.penalecontemporaneo.it, 3 giugno 2015, 12, secondo cui
la carcerazione obbligatoria sarebbe giustificata dalla “matrice
ideologica” che caratterizza i delitti in questione, tale da rendere “ardua la previsione che mezzi diversi di contenimento”
“possano arginare la spinta criminale del soggetto”. Nello
stesso senso V. Pazienza - G. Fidelbo, Le nuove disposizioni in
tema di misure cautelari, in www.cortedicassazione.it, 13 s.
(31) In particolare, punendo chiunque “promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette e idonee a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti
nello Stato ovvero a sopprimere violentemente l’ordinamento
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il metodo operativo seguito, con la conseguenza di
non presentare nessuna sostanziale differenza con
le fattispecie associative in rapporto a cui, a seguito
degli interventi della Corte costituzionale e della
L. n. 47 del 2015, la custodia in carcere obbligatoria è stata ormai eliminata (32).
Nell’ambito dei procedimenti in questione, capaci
di generare il massimo allarme sociale a causa della
recente recrudescenza del terrorismo di matrice
islamica, emerge con ancora più chiarezza il vero
volto della presunzione assoluta: quello di una finzione che, ammantata dalla pseudo-giustificazione
dell’impossibilità di neutralizzare la pericolosità dei
potenziali associati se non con la privazione della
libertà, si rivela un mero spot elettorale mirato ad
attribuire consenso al legislatore di turno.
L’auspicabile minimizzazione degli
automatismi cautelari in malam partem
Al fine di recuperare l’ortodossia costituzionale
della disciplina non sarebbe sufficiente convertire
le residue presunzioni assolute di stretta necessità
della carcerazione in presunzioni relative, ma occorrerebbe, come si diceva, un ulteriore passo: sopprimere definitivamente tutte le presunzioni relative di presenza delle esigenze cautelari attualmente
previste.
Sono esiti non conseguibili attraverso l’interpretazione conforme (33), ma che richiederebbero un
ulteriore sfrondamento legislativo dell’art. 275,
comma 3, c.p.p. Un intervento che, sperabilmente,
non si limiti a compromessi forieri di equivoci applicativi come quelli adottati dalla stessa L. n. 47
politico e giuridico dello Stato” (art. 270 c.p.), e chiunque “promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni
che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità
di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico” (art. 270
bis c.p.).
(32) Si allude all’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (v. Corte cost. 19 luglio 2011, n. 231), al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (cfr. Corte cost.
12 dicembre 2011, n. 331) e alla contraffazione di marchi, brevetti o prodotti (v. Corte cost. 18 aprile 2012, n. 110).
(33) V., in rapporto alla versione previgente dell’art. 275,
comma 3, c.p.p., G. Giostra, Carcere cautelare, cit., 4899 s.; L.
Giuliani, Violenza sessuale di gruppo e discrezionalità del giudice de libertate: dalla Corte di cassazione una quinta declaratoria
di incostituzionalità della presunzione assoluta di adeguatezza
della custodia cautelare, in Cass. pen., 2012, 929 s.; S. Quattrocolo, Quando il legislatore ordinario forza i principi generali, il
giudice forza i limiti della giurisdizione, in Dir. pen. cont., 2012,
n. 1, 173 s.; D. Vigoni, Anche per il reato di violenza sessuale di
gruppo è da escludersi la presunzione di adeguatezza della cu-
Diritto penale e processo 1/2016
del 2015 in rapporto ad altre due presunzioni tuttora operanti nel nostro sistema (34): la presunzione
di stretta necessità della carcerazione in caso di trasgressione delle prescrizioni imposte dagli arresti
domiciliari concernenti il divieto di allontanarsi
dalla propria abitazione (art. 276, comma 1 ter,
c.p.p.), e la presunzione di inadeguatezza degli arresti domiciliari in caso di condanna per il delitto di
evasione nei cinque anni precedenti al fatto oggetto del procedimento (art. 284, comma 5 bis,
c.p.p.).
Ora tali presunzioni sono superabili qualora si riscontri, rispettivamente, la “lieve entità” (35) della
trasgressione o dell’evasione. Intese correttamente,
entrambe le valutazioni dovrebbero ricomprendere
tutto il perimetro del giudizio di proporzionalità ed
adeguatezza, estendendosi anche alle eventuali variazioni d’intensità dei pericula libertatis generate
dal comportamento dell’indiziato. Ma è possibile
che la giurisprudenza si limiti a concepirle come
accertamento della mera presenza o no della trasgressione o dell’evasione, così da vanificare le modifiche normative (36).
E se i conditores sono incapaci di escogitare soluzioni più nette nei procedimenti per i reati di ordinaria amministrazione, non sorprenderebbe se, vogliosi di tranquillizzare l’opinione pubblica, nei
procedimenti per i reati più allarmanti persistessero
nell’errore di ritenere che, nel nome della tutela
della sicurezza, la sola gravità della fattispecie giustifichi la compressione dei poteri cognitivi del giudice.
stodia in carcere?, in Proc. pen. giust., 2012, n. 3, 49.
(34) Si vedano le critiche di D. Negri, Tecniche di riduzione
della custodia in carcere ad extrema ratio, in D. Chinnici (a cura
di), Le misure cautelari, cit., 54 s. Cfr. pure F. Alonzi, Un primo
timido passo verso la giusta direzione, 4 s. e Id., Un ripensamento opportuno ma poco coraggioso, 3 s., entrambi in
www.lalegislazionepenale.eu, 1° dicembre 2015; B. Bertolini,
Sostituzione degli arresti domiciliari con la custodia in carcere:
crisi di un automatismo cautelare, in Cass. pen., 2015, 3196 s.;
P. Borrelli, Una prima lettura, cit., 15 s.; A. Marandola, I nuovi
criteri, cit., 418 s.; E. Turco, La riforma, cit., 114 s.
(35) Un parametro peraltro abbozzato da Corte cost. 25
febbraio 2002, n. 40 già in rapporto alla previgente versione
dell’art. 276, comma 1 ter, c.p.p.
(36) Cfr. ad esempio Cass., Sez. IV, 16 aprile 2015, n.
18452, secondo cui, in caso di inosservanza degli obblighi derivanti dagli arresti domiciliari, il canone della lesività opererebbe solo “sul piano dell’an della trasgressione”, precludendo al
giudice di rivalutare l’intensità delle esigenze cautelari.
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Confisca
Considerazioni minime
sulla Dir. 2014/42/UE relativa al
congelamento e alla confisca
dei beni strumentali e dei
proventi da reato fra gli Stati
dell’UE
di Antonella Marandola
Pacificamente individuati quali mezzi privilegiati di aggressione dei patrimoni illeciti, il sequestro
e la confisca dei beni strumentali e dei proventi derivanti da attività illecita, anche transnazionale, sono da tempo oggetto privilegiato dei provvedimenti europei adottati per una politica di
cooperazione giudiziaria comune contro il crimine economico. Fra questi si segnala la Direttiva
2014/42/UE che, pur nel rispetto di alcune fondamentali garanzie, si prefigge di stabilire delle
“norme minime” rivolte agli Stati membri dell’Unione. L’Autrice analizza il testo, di prossima attuazione da parte dell’Italia, che amplia e modifica gli atti anteriori, sottolineandone gli aspetti
più rilevanti e tratteggiando, sinteticamente, un confronto con la disciplina nazionale e con gli
orientamenti giurisprudenziali che interessano una materia in amplissima estensione.
La nuova collaborazione europea per
congelare, confiscare e gestire i proventi
economici da reato a livello europeo
Con la L. n. 154 del 7 ottobre 2014 (1), il Governo è stato delegato dal Parlamento all’adozione di
molteplici direttive europee, fra cui si segnala, in
materia penale, la Direttiva 2014/42/UE, varata in
data 3 aprile 2014, relativa al congelamento e alla
confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea. La Direttiva 2014/42/UE
costituisce il provvedimento finale di una serie di
atti volti a reprimere quello che rappresenta il motore principale della criminalità organizzata transfrontaliera, comprese le organizzazioni criminali di
stampo mafioso, qual è il profitto economico (2): è
noto da tempo, infatti, che il sequestro e la confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato (3),
si configurano come mezzi particolarmente efficaci
per combattere quel fenomeno (4), come hanno
confermano, in ambito interno, le Sezioni Unite (5) e la Consulta (6).
(1) Pubblicata in Gazzetta Ufficiale, 28 ottobre 2014, n. 251.
(2) Così, M. Antinucci, Osservazioni a prima lettura sulla Direttiva 2014/42/UE del Parlmento europeo e del Consiglio relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei
proventi da reato nell’U.E., in Arch. pen., 2014, n. 2, 1 ss.
(3) Cfr., per tutti, A.M. Maugeri, Le sanzioni patrimoniali come moderno strumento di lotta contro il crimine. Reciproco riconoscimento e prospettive di armonizzazione, Milano, 2008.
(4) Cfr., in progressione, Corte EDU 22 febbraio 1994, Raimondo c. Italia; Corte EDU 5 luglio 2001, Arcuri c. Italia; Corte
EDU 4settembre 2001, Riela c. Italia; Corte EDU 5 gennaio
2010, Bongiorno c. Italia; Corte EDU 17 maggio 2011,Capitani
e Campanella c. Italia Corte EDU 6 luglio 2011, Pozzi c. Italia,
in www.echr.coe.int, sito istituzionale della Corte Europea.
(5) V., nell’affermare la natura preventiva della confisca di
prevenzione, distinguendola da quella penale, Cass., SS.UU., 2
febbraio 2015, n. 4480, Spinelli e altro, in questa Rivista,
2014,con nota di V. Maiello, La confisca di prevenzione dinanzi
alle Sezioni Unite: natura e garanzie in cui si è affermato che
“la precipua finalità della confisca di prevenzione è, dunque,
Diritto penale e processo 1/2016
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Le finalità della Direttiva
La reale finalità della Direttiva si deduce, invero,
non solo dalla lettura dei considerando iniziali del
testo in cui si specifica che il suo scopo è quello di
perseguire “l’adozione di norme minime” per ravvicinare “i regimi degli Stati membri in materia di
congelamento e confisca dei beni, favorendo così
la fiducia reciproca e un’efficace cooperazione transfrontaliera” (considerando n. 5), ma altresì dal fatto che essa trova fondamento negli artt. 82, § 2,
lett. b) e 83, § 1, del Trattato sul funzionamento
dell’Unione per cui ben si può affermare che essa
tende, fra l’altro, ad avviare il reciproco riconoscimento dei provvedimenti di confisca pacificamente
identificato in diversi ambiti della materia penale
(v. mandato di arresto o ordine di protezione europeo, nonché, per il futuro, fra gli altri, l’ordine di
indagine europeo, di blocco dei beni o di sequestro
probatorio, di riconoscimento delle sanzioni pecuniarie) come moderno e indispensabile strumento
per l’integrazione e collaborazione fra gli Stati dell’Unione europea.
Le fonti europee (quadro sintetico)
Invero, gli organismi europei da tempo si sono dimostrati sensibili alla cooperazione giudiziaria, anche in materia di esecuzione dei provvedimenti di
confisca. Diversi sono gli atti adottati (7). Così, il
rinvio va, fra l’altro, alla Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata con L. n. 848/55, cui sono seguiti numerosi protocolli aggiuntivi, e, fra questi,
particolare attenzione merita l’art. 1 del protocollo
addizionale n. 1 adottato a Parigi il 20 marzo 1952
(ratificato con la citata L. n. 848/55) volto a tutelare la proprietà privata e a disciplinarne le limitazioni; alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il
traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope
quella di sottrarre i patrimoni illecitamente accumulati alla disponibilità di determinati soggetti, che non possono dimostrarne la legittima provenienza”, nonché Cass., SS.UU., 29 maggio 2014, Repaci e altri, n. 3345, Rv 260244. In dottrina, v., fra
gli altri, V. Maiello, Confisca, CEDU e Diritto dell’Unione tra
questioni risolte ed altre ancora aperte, in Dir. pen., Cont. Rivista
trimestrale, 2012, ¾, 43; A.M. Maugeri, La resa dei conti: alle
Sezioni Unite la questione sulla natura della confisca antimafia e
sull’applicazione del principio di irretroattività, in Dirittopenalecontemporaneo.it, 7 febbraio 2014; Ead., Una parola definitiva
sulla natura della confisca di prevenzione ? Dalle Sezioni Unite
Spinelli alla sentenza Gogitidze della Corte EDU sul civil forfeiture, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, 942 ss., nonché le riflessioni di F. Mazzacuva, Le Sezioni Unite sulla natura della confisca
di prevenzione: un’altra occasione persa per un chiarimento sul-
122
adottata a Vienna il 20 dicembre 1988 e ratificata
con L. n. 328/90, che, nel prevedere l’adozione dei
“provvedimenti che si rivelano necessari per consentire la confisca dei proventi ricavati da reati […]
o di beni il cui valore corrisponde a quello di tali
proventi”, incalza all’introduzione di meccanismi di
inversione dell’onere della prova circa l’origine illecita dei profitti da confiscare, al fine di rendere più
sollecita la loro apprensione”. Attenzione merita,
poi, la Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato conclusa a Strasburgo l’8 novembre
1990 e ratificata con L. n. 328/93, la quale prevede
l’adozione di “misure legislative o di altra natura
eventualmente necessarie per consentirle di procedere alla confisca di strumenti e di proventi, o di
valori patrimoniali il cui valore corrisponde a tali
proventi” e la più recente Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transazionale
siglata a Palermo nel 2000. Ad ogni buon conto, la
consapevolezza che la possibilità di applicare il sequestro e la confisca dei beni è resa difficoltosa dalla
mancanza di omogeneità della normativa giuridica
dei diversi Stati ha condotto, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, all’adozione dell’azione comune 98/699/GAI a cui sono seguite le decisioni quadro 2001/500/GAI e 2003/577/GAI, fino
alle più recenti 2005/212/GAI e 2006/783/GAI.
In particolare, se la decisione quadro 2005/212/GAI
contiene delle misure funzionali alla armonizzazione
(o ravvicinamento) delle leggi nazionali che contemplano la fattispecie della confisca europea ed introduce ampi o estesi poteri di confisca dei proventi
di reato, fornendo una regolamentazione generale
che precede quella della Direttiva 2014/42/UE (8),
la decisione quadro 2006/783/GAI, a cui l’Italia si è
adeguata con il D.Lgs. n. 137/2015, regola l’ordine
europeo (o eurordinanza) relativo alle decisioni di
confisca adottate nell’ambito di un procedimento
penale e attua il mutuo riconoscimento alla coopele reali finalità della misura, ivi, 15 luglio 2015; F. Menditto, Le
Sezioni Unite verso lo “statuto” della confisca di prevenzione: la
natura giuridica, la retroattività e la correzione temporanea, ivi,
26 maggio 2014.
(6) Cfr., Corte cost., 9 giugno 2015, n. 106, in www.cortecostituzionale.it.
(7) V., amplius, A. Balsamo, Il sistema delle misure patrimoniali antimafia tra dimensione internazionale e normativa interna,
in AA. VV., Le misure patrimoniali contro la criminalità organizzata, a cura di A. Balsamo - V. Contrafatto - G. Nicastro, Milano, 2010, 1 ss.
(8) G. Iuzzolino, L’armonizzazione della confisca, in AA.VV.,
Diritto penale europeo e ordinamento italiano, Milano, 2006,
355.
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razione tra gli Stati membri. Infine, si ricorda la decisione quadro 2007/845/GAI del 6 dicembre 2007,
contenente delle misure organizzative e di trasmissione, con punti di contatto degli Stati membri, delle informazioni relative ai proventi di reato e ai beni che possono essere oggetto di sequestro o confisca nell’ambito di un procedimento penale (9).
Atteso che l’armonizzazione riguarda solo gli “elementi minimi” delle fattispecie penali, lasciando
spazio allo Stato membro di estendersi al di là dello
standard europeo, tale possibilità ha aperto la strada all’adozione di soluzioni non omogenee fra i diversi Stati: è, anche, sulla scorta di tale divergenza
che, in accoglimento di varie sollecitazioni avanzate in sede sovranazionale (programma di Stoccolma; conclusioni del Consiglio Giustizia e affari interni in materia di confisca e recupero dei beni del
giugno 2010; Risoluzione del Parlamento Europeo
dell’ottobre 2011) nel 2012 è stata elaborata una
Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio in materia di confisca e congelamento
dei beni (10) [COM(2012)0085 - C7-0075/2012 2012/0036(COD)] (11) scaturita nella Direttiva
qui sommariamente esaminata, la quale si prefigge
l’adozione di norme minime per ravvicinare il regime degli Stati membri sul tema, facilitando la fiducia reciproca alla collaborazione trasfrontaliera.
Prima di esaminare qualche aspetto del provvedimento va tuttavia segnalato come il considerando
n. 38 prescrive che la Direttiva “rispetta i diritti
fondamentali e osserva i principi riconosciuti dalla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
e dalla CEDU, come interpretate nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”.
Non sembra, quindi, irrilevante tratteggiare alcune
linee-guida ricavabili dalla lettura della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di
cui, anche ai sensi dell’art. 117 Cost., la legislazione
attuativa dovrà necessariamente tener conto. Orbene, in estrema sintesi, deve dirsi che in tema di con-
fisca, la Corte di Strasburgo, in conformità alla qualità tipica del suo vaglio - casistico e fondato su caratteri di ordine sostanziale (qualità, forme, procedimento seguito e, soprattutto, grado di severità) e
non formale - adotta da tempo una nozione ampia
di confisca e tendenzialmente la riconduce alla materia penale, in ragione del suo carattere afflittivo,
tanto nel caso in cui persegua finalità di prevenzione generale quanto speciale. Da tempo, infatti, sono
stati individuati i criteri identificativi della penalty e
della materia penale (12) che riposa essenzialmente
sulle finalità tipicamente repressive. Il rinvio va,
sotto tale aspetto, a quanto ha affermato il giudice
sovranazionale nel caso Sud Fondi e nel cd. caso
Varvara, relative alla confisca urbanistica.
Atteso che la misura ablativa della confisca importa una compromissione dell’esercizio del diritto di
proprietà (art. 1 del Protocollo n. 1), ferme restando le distinzioni, di volta in volta, necessarie, in
ragione della natura e del carattere conferitole in
ambito interno , indipendentemente, dalla qualificazione giuridica (o formale) assegnatale dai legislatori nazionali, per non contrastare con la disciplina CEDU, le norme interne che importando
una compromissione del diritto di proprietà devono, dunque, assicurare essenzialmente il rispetto
del principio di legalità (art. 7 CEDU) (13) - e, segnatamente, di tassatività e di responsabilità personale, che da quello discendendo, - nonché il principio di non colpevolezza (art. 6 CEDU) e di proporzione, che, al fine di evitare di trasformare la
confisca del profitto in una mera pena pecuniaria e
di violare l’art. 1 del I Protocollo CEDU, pretende
che il sacrificio del diritto di proprietà sia equo,
cioè bilanciato ai mezzi utilizzati e agli scopi perseguiti dallo Stato (14). È chiaro che l’ablazione di
beni di ritenuta natura illecita può considerarsi legittima, siccome espressione di corretto esercizio
del potere discrezionale del legislatore, solo all’indeclinabile condizione della corretta ricorrenza di
(9) Per maggiori approfondimenti, v., in particolare, G. Iuzzolino, L’esecuzione degli ordini di confisca. Armonizzazione
normativa e mutuo riconoscimento, in AA.VV., “Spazio europeo
di giustizia” e procedimento penale italiano, a cura di L. Kalb,
Torino, 2012, 639 ss., F. Vergine, Le moderne sanzioni patrimoniali tra fonti di natura internazionale e legislazione interna, in
AA. VV., La giustizia patrimoniale penale, a cui di A. Bargi - A.
Cisterna, Torino, 2011, t. I, 347 ss.
(10) V., al riguardo, A. Balsamo, Il “Codice antimafia” e la
proposta di direttiva europea sulla confisca: quali prospettive per
le misure patrimoniali nel contesto europeo?, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 20 luglio 2012; A. M. Maugeri, La proposta di direttiva UE in materia di congelamento e confisca dei
proventi del reato: prime riflessioni, in Dir. pen. cont., Rivista trimestrale, 2012, 2, 180 ss.; A. Mangiaracina, Cooperazione giudiziaria e forme di confisca, in questa Rivista, 2013, 369; D. Pi-
va, La proteiforme natura della confisca antimafia dalla dimensione interna a quella sovranazionale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 13 novembre 2012.
(11) F. Mazzacuva, La posizione della Commissione LIBE del
Parlamento europeo alla proposta di direttiva relativa al congelamento e alla confisca dei proventi di reato, www.dirittopenalecontemporaneo.it, 16 luglio 2013.
(12) Per il leading case v. Corte EDU 8 giugno 1976, Engel
c. Paesi Bassi. V., successivamente, Corte EDU 9 gennaio
1995, Weich c. Regno Unito; Corte EDU 30 agosto 2007, Sud
Fondi c. Italia ed altre, in www.echr.coe.int.
(13) V., Corte EDU, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, 20 maggio 2014, Nykanen c. Finlandia; Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens, in www.echr.coe.int.
(14) Ancora, A. A. Maugeri, La Direttiva 2014/42/UE relativa
alla confisca degli strumenti e dei proventi da reato, cit., 16.
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L’assunzione in sede europea della Direttiva
2014/42/UE importa che gli Stati membri dovranno adottare entro il 4 ottobre 2016 (originariamen-
te, 4 ottobre 2015) "le misure necessarie per poter
procedere alla confisca, totale o parziale, di beni
strumentali e proventi da reato, o di beni di valore
corrispondente a detti beni strumentali o proventi,
in base a una condanna penale definitiva, che può
anche essere pronunciata a seguito di un procedimento in contumacia”.
L’atto sovranazionale è rivolto ad alcuni, specifici
e gravi, reati (terrorismo, corruzione nel settore
privato, traffico di stupefacenti, tratta di esseri
umani, pornografia minorile) previsti in una serie
di strumenti (decisioni quadro e direttive) (19). Esso subentra all’azione comune 98/699/GAI e modifica ed amplia le disposizioni delle decisioni quadro2001/500/GAI e 2005/212/GAI che, tuttavia, si
badi rimangono in vigore - al fine di mantenere un
certo livello di armonizzazione (20) - per quei settori criminali non contemplati dalla Direttiva
2014/42/UE: la parziale sostituzione e la sovrapposizione dei testi, che pur mantengono le proprie
sfere di autonomia, appare inopportuna e compromette, invero, la tassatività e la dovuta riconoscibilità del dettato legislativo da parte dei destinatari (21).
Peraltro, l’ambito di applicazione della Direttiva risulta più ampio, considerato il rinvio operato ai
reati di “criminalità organizzata” - qui intesa secondo la definizione contenuta nella decisione quadro
2008/841/GAI - idoneo ad estenderne l’applicazione ad una vasta gamma di illeciti, mentre l’art. 3
ne consente pro-futuro l’applicazione ad ogni illecito penale previsto “da altri strumenti giuridici se
(15) Cfr., per maggiori approfondimenti, S. Fùrfaro, La compatibilità delle varie forme di confisca con i principi garantistici di
rango costituzionale e con lo statuto delle garanzie europee, in
AA. VV., La giustizia patrimoniale penale, cit., t. I, 665 ss.
(16) In numerose pronunce la Corte EDU ha escluso l’operatività dei principi dettati in materia penale con riferimento alla confisca di prevenzione, fra cui l’art. 7 della Convenzione o
in altre, nel censurare la difformità della procedura di prevenzione italiana rispetto alla regola dell’udienza pubblica, si è
puntualizzato che la regola è violata ex art. 6 CEDU, solo per
quanto attiene alla parte della disciplina del “giusto processo”
che non è riservata alla materia penale (v., fra le molte, Corte
EDU 17 maggio 2011, Capitani e Campanella c. Italia; Corte
EDU 2 febbraio 2010, Leone c. Italia; Corte EDU 5 gennaio
2010, Buongiorno c. Italia, rinvenibili in www.echr.coe.int.
(17) V., per tutti, V. Maiello, La confisca di prevenzione dinanzi alle Sezioni Unite, cit., 725 ss.; F. Vergine, Il “contrasto”
all’illegalità economica, Padova, 2012, passim.
(18) A. M. Maugeri, voce Confisca (dir. pen.), in Enc. dir.,
Annali, VIII, 2015, 190-191.
(19) La direttiva si applica ai reati contemplati: a) dalla convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati
membri dell’Unione europea; b) dalla decisione quadro
2000/383/GAI contro la falsificazione di monete in relazione all’introduzione dell’euro; c) dalla decisione quadro
2001/413/GAI, relativa alla lotta contro le frodi e le falsificazioni
di mezzi di pagamento diversi dai contanti; d) dalla decisione
quadro 2001/500/GAI concernente il riciclaggio di denaro, il
congelamento o sequestro e la confisca degli strumenti e dei
proventi di reato; e) dalla decisione quadro 2002/475/GAI sulla
lotta contro il terrorismo; f) dalla decisione quadro
2003/568/GAI relativa alla lotta contro la corruzione nel settore
privato; g) dalla decisione quadro 2004/757/GAI in materia di
traffico illecito di stupefacenti; h) dalla decisione quadro
2008/841/GAI relativa alla lotta contro la criminalità organizzata; i) dalla direttiva 2011/36/UE, concernente la tratta di esseri
u m a n i e l a p r o t e z i o n e d e l l e v it t i m e ; j ) d a l l a d i r e t t i v a
2011/93/UE relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento
sessuale dei minori e la pornografia minorile; k) dalla direttiva
2013/40/UE, relativa agli attacchi contro i sistemi di informazione, nonché da altri strumenti giuridici se questi ultimi prevedono specificamente che la presente direttiva si applichi ai
reati in essi armonizzati.
(20) E. Calvanese, L’esecuzione delle decisioni di confisca, in
AA.VV., Manuale di procedura penale europea, II ed., a cura di
R. Kostoris, Milano, 2015, 456.
(21) Prospetta l’opportunità d’introdurre uno strumento interamente nuovo come richiesto dall’art. 9 del Protocollo n. 36
d e l T r a t t a t o d i L i s b o n a , A . M . M a u g e r i , L a D i re t t i v a
2014/42/UE relativa alla confisca degli strumenti e dei proventi
da reato nell’Unione Europea tra garanzie e efficienza: un “work
in progress”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 19 settembre 2012.
tale rapporto identificabile, in sede domestica, quale rapporto fra la misura adottata - volta si badi al
riequilibrio economico rispetto all’illecito arricchimento provocato dal reato - e l’interesse generale e
collettivo alla repressione. È sin troppo ovvio che
la funzione sociale della proprietà privata può essere assolta solo quando i beni e strumenti siano acquistati in maniera conforme alle regole dell’ordinamento giuridico: è in virtù di tale articolato garantistico che la misura ablativa presuppone necessariamente una condanna (come ha confermato,
da ultimo, la Corte nel caso Varvara) (15).
Un tale assetto di tutela, non pare incrociare, invece, i casi di confisca cd. allargata (si pensi al caso
Prisco c. Italia): in tali ipotesi sembrerebbe che anche il giudice europeo sembra far prevalere l’interesse alla repressione rispetto al sacrificio della proprietà. Un tale scopo è perseguito anche attraverso
l’adozione di regole procedurali non del tutto in linea con quanto pretende un “giusto processo”, parallelamente a quanto accade in sede europea (16)
e nazionale per le misure di prevenzione patrimoniali, con grave dissenso della dottrina (17). che ritiene quel valore incapace di cedere rispetto alle
istanze di opportunità politica (18).
La Dir. 2014/42/UE: oggetto e ambito
applicativo
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questi ultimi prevedono specificamente che la presente direttiva si applichi ai reati in essi armonizzati”.
Il testo europeo contempla differenti forme di confisca e il congelamento.
Se per congelamento s’intende il divieto temporaneo di trasferire, distruggere, convertire, eliminare
o far circolare un bene o di assumerne temporaneamente la custodia o il controllo (art. 2, comma 1,
lett. 5), la confisca costituisce la privazione definitiva di un bene ordinata da un’autorità giudiziaria
in relazione ad un reato” (art. 2, comma 1, lett. 4):
trattasi, ad ogni modo, di due concetti autonomi,
come conferma il considerando n. 27, che pur evidenziando lo stretto legame tra congelamento e
confisca (“Poiché i beni sono spesso custoditi a fini
di confisca, il congelamento e la confisca sono
strettamente connessi”), riconosce, nel contempo,
che “in taluni sistemi giuridici, il congelamento a
fini di confisca è considerato un provvedimento
procedurale separato di natura provvisoria, al quale
può seguire un ordine di confisca”. Dunque, fatti
salvi i diversi sistemi giuridici nazionali e la decisione quadro 2003/577/GAI, la presente Direttiva
dovrebbe ravvicinare anche taluni aspetti dei sistemi nazionali in materia di congelamento a fini di
confisca.
Le diverse forme di confisca
La confisca (totale o parziale) diretta, tanto dei
proventi che degli strumenti del reato, quanto dell’equivalente (22), in conformità ai già delineati
principi di legalità, colpevolezza e proporzionalità
pretende, in via generale, una condanna penale definitiva, anche se pronunciata in contumacia.
Invero, se scopo della Direttiva 2014/42/UE è
quello di consentire una migliore efficacia ed efficienza nell’individuazione, neutralizzazione, gestione e confisca dei proventi illeciti, in linea con la
sua qualità, essa fornisce un “modello europeo di
confisca” che non assume necessariamente caratte(22) V., fra gli altri, per il sistema interno, S. Ardituro- F.
Cioffi, La confisca ordinaria, per sproporzione e per equivalente
nel processo di cognizione ed esecuzione, in AA. VV., La giustizia patrimoniale penale, a cui di A. Bargi - A. Cisterna, Torino,
2011, t. II, 683 ss.
(23) Cfr., sempre, Corte EDU 8 giugno 1976, Engel c. Paesi
Bassi, cit.
(24) Per più ampie considerazioni, F. Vergine, Il “contrasto”
all’illegalità economica, cit., 337 ss.
(25) V., Cass., SS.UU., 27 marzo 2008, Fisia Impianti, in
questa Rivista, 2008, 1263 con nota di T. E. Epidendio, La nozione di profitto oggetto di confisca a carico degli enti e di A.
Rossetti.
(26) Cfr. Cass., SS.UU., 30 gennaio 2014, Gubert, in Arch.
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re sanzionatorio: lo schema prospettato è, infatti,
ibrido e polivalente e lascia gli Stati membri liberi
di assegnarle la natura (sanzionatoria o preventiva)
più opportuna e di configurare ulteriori forme di
confisca, al di là dello “standard minimo” previsto
nel testo (23).
Volutamente, in ossequio al considerando n. 11
(“Occorre chiarire l’attuale concetto di proventi da
reato al fine di includervi i proventi diretti delle
attività criminali e tutti i vantaggi indiretti, compresi il reinvestimento o la trasformazione successivi di proventi diretti”), l’art. 2 dell’atto europeo offre una nozione di provento estremamente ampia.
Essa include ogni vantaggio economico, diretto o
indiretto, del reato, ma anche qualsiasi bene, materiale o immateriale, mobile o immobile. Essa si
estende, poi, ai documenti o gli strumenti legali
comprovanti il diritto di proprietà o altri diritti su
tali beni” inclusi gli strumenti finanziari o documenti che possono far sorgere diritti di credito che di norma si trovano in possesso della persona
interessata dalle procedure in questione (nei limiti,
si pensa, in cui tale misura è proporzionata) - e i
vantaggi indiretti, compreso il reinvestimento o la
trasformazione dei proventi diretti e ogni altro
vantaggio economicamente valutabile. Chiaro appare il rinvio alle querelles interpretative sorte, in
ambito nazionale (24), quanto alla possibilità di
confiscare i crediti, i risparmi d’imposta o i minori
costi sopportati nella mancata predisposizione dei
sistemi di sicurezza sul lavoro. Le questioni, che
per lungo tempo hanno impegnato la giurisprudenza, sembrano oggi essersi dipanate per cui legittimamente si può procedere alla confisca del credito,
purché certo, liquido ed esigibile (25), e dell’imposta dovuta (26), nonostante l’assenza del necessario
rapporto di pertinenzialità con il reato, posto che il
risparmio si sostanzia - comunque - in danaro soggetto ad ablazione.
Benché non si manchi di criticare l’ampio raggio
del concetto di strumento e di provento da reato
pen. online, 2014, n. 1, con commento di F. Vitale, Le Sezioni
unite sulla confisca per equivalente. Reati tributari e 231: una
questione ancora irrisolta; F. Mucciarelli - C.E. Paliero, Le Sezioni Unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 20
aprile 2015. Anteriormente, Cass., SS.UU., 31 gennaio 2013,
Adami, RV 255036 che, in tema di reati tributari, ha ammesso
che il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente,
è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque
consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento di un tributo, interessi o sanzioni tributarie.
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delineato dal legislatore europeo (27) -ma, si osservi, dallo stesso mitigato secondo quanto dispone il
considerando n. 17 (28) del testo in esame- la sua
estrema latitudine consente, in verità, di farvi rientrare in maniera del tutto agevole quanto attualmente viene ricompreso dalla giurisprudenza nazionale. Tuttavia, proprio la magmaticità e flessibilità
che talvolta assume la nozione de qua nella disciplina italiana, vale a dire nelle diverse norme che
la contemplano, spesso contenute in disposizioni
disparate e non sempre omogenee, potrebbe rappresentare, all’atto dell’attuazione del testo in esame, l’occasione per una risistemazione della materia resa agevole, peraltro, dai differenti contributi
offerti in questi anni dalle Commissioni di studio
istituite presso il Ministero della Giustizia (29). È
lampante, infatti, la necessità che il legislatore faccia maggiore chiarezza sul punto, posto che come
lascia emergere la prassi (30) ogni eventuale smagliatura normativa potrebbe rappresentare campo
elettivo di gestione della propria discrezionalità da
parte dell’autorità giudiziaria che, trovandosi ad affrontare la concreta vicenda giudiziaria e il difficile
compito di valutare l’opportunità di disporre l’atto
reale rispetto alla perpetrazione di fatti illeciti, potrebbe, inevitabilmente, “piegare” il contenuto della norma penale (o processuale) (31), solitamente
“riallineata” poi dalle Sezioni Unite della Suprema
Corte di Cassazione (32).
Sotto tale aspetto, come ha ben evidenziato la più
attenta dottrina (33), se “non si pongono problemi
nei casi in cui il bene confiscato, per intero e nel
suo complesso, ab origine risulti acquisito al patrimonio del soggetto per effetto diretto o mediato di
provenienza da attività illecite; esiste invece la necessità di stabilire i limiti di operatività dell’effetto
ablativo nelle ipotesi in cui il reimpiego del denaro, proveniente da fonte sospetta di illiceità penale, avvenga mediante addizioni, trasformazioni o
miglioramenti di beni già nella lecita disponibilità
(“già nella disponibilità del soggetto medesimo, in
virtù di pregresso acquisto del tutto giustificato dal
titolo dimostrato lecito”). Esigenze di rispetto del
menzionato principio di proporzione e del diritto
di proprietà, ex art. 42 Cost., imporrebbero di restringere l’ambito di applicazione della confisca in
esame alla quota ideale del bene, rapportata al
maggiore valore assunto per effetto del reimpiego
dei profitti illeciti, e valutata al momento della
confisca” (34).
Per non suscitare alcun contrasto con l’art. 42
Cost. e - aggiungiamo - con la tutela dell’iniziativa
economica di cui all’art. 41 Cost., l’ablazione, infatti, non dovrebbe coinvolgere il bene nel suo
(27) Per il rilievo A. M. Maugeri, La proposta di direttiva UE
in materia di congelamento e confisca dei proventi del reato,
cit., 9.
(28) Si specifica infatti che “nell’attuazione della presente
direttiva con riguardo alla confisca di beni di valore e di beni
strumentali al reato, le pertinenti disposizioni potrebbero essere applicare se, alla luce delle circostanze particolari del caso
di specie, tale misura è proporzionata, considerato, in particolare il valore dei beni strumentali interessati”. Tuttavia, si badi
che in tale parte del provvedimento si indica che “gli Stati
membri possono anche considerare se, e in che misura, il condannato sia responsabile di rendere impossibile la confisca di
beni strumentali”.
(29) V., ad esempio, quanto prevede l’art. 112, del Progetto
di riforma del codice penale elaborato dalla Commissione
Grosso nel 2000 e lo “Schema per la redazione di principi e criteri direttivi di delega legislativa in materia di riforma del sistema sanzionatorio penale” (dicembre 2013), redatto dalla Commissione ministeriale presieduta dal Prof. Palazzo (p. 9) che supera la tradizionale distinzione fra prezzo, prodotto e profitto.
(30) V., fra gli altri, V. Mongillo, I mobili confini del profitto
confiscabile nella giurisprudenza di legittimità, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 28 settembre 2012; A. Pierini, La nozione di “profitto del reato” quale oggetto della confisca per equivalente, in AA. VV., La giustizia patrimoniale penale, cit., t. II,
909 ss.
(31) Il rinvio, va, ancora, a Cass., SS.UU., 31 gennaio 2013,
Adami, cit., o alla sentenza Gubert, cit., in cui è stata recepita
una nozione estesa di profitto funzionale alla confisca, capace
di accogliere non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed
immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa
(…) la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia
subito di beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Infatti, il concetto
di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi
nelle indagini preliminari, ai sensi dell’art. 321, comma 2,
c.p.p., il suddetto sequestro deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla
sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito,
ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa. Confermata da Cass., SS.UU., 24 aprile 2014, n. 38343, RV
261117 , una tale impostazione è stata sconfessata dalla condivisibile e più recente decisione Lucci (Cass., SS.UU., 26 giugno 2015, n. 31617, Lucci, cit.; nonché in Arch. Pen. on line,
2015, n. 2 con commento di G. Civello, Le Sezioni unite “Lucci”
sulla confisca del prezzo e del profitto di reato prescritto: l’inedito istituto della “condanna in senso sostanziale”), che pur facendo riferimento al cd. profitto accrescitivo, ha, in ossequio al
principio di pertinenza e di legalità, confermato, in tema di
confisca diretta, la necessità di una relazione diretta, attuale e
strumentale tra il bene sequestrato e il reato. Le Sezioni Unite
hanno, infatti, ribadito che la confisca di somme di denaro costituenti prezzo o profitto (accrescitivo) del reato deve essere
qualificata come confisca diretta.
(32) V., oltre alla nota che precede, Cass., SS.UU., 27 marzo 2008, Impregilo, in questa Rivista, 2007, 1643. Per la ricostruzione del concetto, si rinvia a A. Perini, La nozione di “profitto del reato” cit., t. II, 910 ss. e alla bibliografia ivi richiamata.
(33) A. M. Maugeri, La Direttiva 2014/42/UE relativa alla
confisca degli strumenti e dei proventi da reato, cit., 18.
(34) Testualmente, A. M. Maugeri, La proposta di direttiva
UE in materia di congelamento e confisca dei proventi del reato,
cit., 9.
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complesso, ma, nell’indispensabile contemperamento delle generali esigenze di prevenzione e difesa sociale con quelle di garanzia della proprietà
privata, deve essere limitato al valore del bene,
proporzionato all’incremento patrimoniale ingiustificato per il reimpiego in esso effettuato di profitti
illeciti: il che si realizza mediante la confisca della
quota ideale del bene”. Si evidenzia, infatti, che
poiché il reimpiego avviene mediante addizioni,
accrescimenti, trasformazioni o miglioramenti dei
beni già nella legittima disponibilità del soggetto,
l’effetto ablativo deve essere limitato al valore del
bene acquisito in conseguenza del reimpiego e,
cioè, all’incremento patrimoniale ingiustificato (35), per cui vanno ripudiate quelle letture giurisprudenziali domestiche e estensive che importano un (illegittimo) allargamento della nozione de
qua (36).
Nella Direttiva la confisca in assenza di una condanna definitiva è ammessa solo a fronte di circostanze del tutto particolari quali la malattia (intesa
come impedimento a comparire nel procedimento
penale per un periodo prolungato, per cui il procedimento non può proseguire nelle condizioni normali) o la fuga dell’indagato (o dell’imputato) (37).
In tal caso, la misura può avere ad oggetto esclusivamente beni strumentali e proventi da reato, ma
si richiede l’avvio di un procedimento penale che
“potrebbe concludersi con una condanna penale se
l’indagato o imputato avesse potuto essere processato”, e, si ritiene, che debba essere proporzionata,
considerato, in particolare, il valore dei beni strumentali interessati: è, indubbiamente questo il dato
che, nella prospettiva interna, pare assumere asso-
luta rilevanza in quanto espressione del già menzionato principio di proporzione (art. 49 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea) e di
colpevolezza, il cui rispetto, come si è più volte sottolineato, è imposto ogniqualvolta si verta attorno
a mezzi di ablazione definitiva di natura afflittiva,
secondo l’insegnamento del giudice europeo nella
nota decisione Sud Fondi (38), prima, e Varvara,
poi (39).
Ad ogni modo, il testo europeo non esclude la possibilità che uno Stato membro possa introdurre ulteriori forme di confisca senza condanna (40): v’è
da chiedersi, allora, se possa rientrare entro questo
spazio la possibilità di disporre la confisca anche a
fronte di una sentenza di proscioglimento, in presenza di un reato prescritto, secondo quanto sostenuto recentemente dalla Corte Costituzionale (41),
in particolare nella sentenza n. 49 del 2015 (42), e
dalla giurisprudenza di legittimità (43) secondo cui
il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per
intervenuta prescrizione, può disporre, ai sensi degli artt. 240, comma 2, n. 1 e 322 ter c.p. la confisca diretta del prezzo o profitto a condizione che vi
sia stata una precedente pronuncia di condanna e
che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla
qualificazione del bene da confiscare come prezzo o
profitto. Una soluzione di segno assolutamente negativo pare offerta dalla Corte EDU che pretende
un “grado di responsabilità penale registrato” (artt.
7 e 6, comma 2, CEDU) (44), pena altrimenti
un’ingerenza statale arbitraria e priva di base legale: è questa l’apprezzabile direttrice sulla quale devono muoversi le future opzioni legislative nazio-
(35) V. per l’attuazione di tale forma di confisca del profitto
è contemplata all’art. 114, n. 3, del Progetto di riforma del codice penale elaborato dalla Commissione Grosso nel 2000.
(36) Per una completa e lucida sintesi fino al 2014, v. P. Silvestri - G. Fidelbo, Relazione orientamento di giurisprudenza,
Ufficio del Massimario, Rel. n. 41/14, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 27 giugno 2014.
(37) Il testo originariamente predisposto dalla Commissione
prevedeva l’estensione di tale forma di confisca.
(38) Corte EDU 20 gennaio 2009, Sud Fondi c. Italia, in
questa Rivista, 2009, 1540, con nota di Mazzacuva, Un
“hard case” davanti alla Corte europea: argomenti e principi nella sentenza Punta Perotti, che, peraltro, manifesta una forte
sensibilità circa la valutazione della proporzionalità; v., anche,
A. Balsamo - C. Parasporo, La Corte europea e la confisca contro la lottizzazione abusiva, nuovi scenari e problemi aperti, in
Cass. pen., 2009, 3138 ss.
(39) Corte EDU, 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, in questa
Rivista, 2014, 243. V., altresì, F. Galluzzo, Lottizzazione abusiva:
la declaratoria della prescrizione preclude l’irrogazione della confisca, in Dir. pen. e proc., Supplemento, Speciale CEDU e ordinamento interno, a cura di M. Gialuz-A. Marandola, 2014, 12.
(40) Auspica un tale incremento, A. Balsamo, Il “Codice antimafia” e la proposta di direttiva europea sulla confisca, cit., 29.
(41) Corte cost., 23 luglio 2015, n. 187, in www.cortecostituzionale.it, in cui la Consulta sottolinea l’erroneità del presupposto interpretativo secondo cui la sentenza Varvara sarebbe
univocamente interpretabile nel senso che la confisca urbanistica può essere disposta solo unitamente ad una sentenza di
condanna da parte del giudice per il reato di lottizzazione abusiva in quanto la decisione europea esige solo un pieno accertamento della responsabilità personale di chi è soggetto alla
misura ablativa.
(42) C. cost. 26 marzo 2015, n. 49, in Arch. pen. on line
2015, n. 1 con commento di G. Civiello La sentenza Varvara c.
Italia “non vincola ” il giudice italiano: dialogo fra Corti o monologo di Corti ? e A. Dello Russo, Prescrizione e confisca. La Corte costituzionale stacca un nuovo biglietto per Strasburgo. Per
maggiori riflessioni, v., per tutti, D. Pulitanò, Due approcci opposti sui rapporti fra Costituzione e CEDU in materia penale.
Questioni lasciate aperte da Corte. cost. n. 49 del 2015, in
www.dirittopenalecontemporaneo.it, 22 giugno 2015.
(43) Cass., SS.UU., 26 giugno 2015, n. 31617, Lucci, cit.
(44) Sul punto, V. Manes, La “confisca senza condanna” al
crocevia tra Roma e Strasburgo:il nodo della presunzione di innocenza, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 13 aprile
2015.
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nali che, al contrario, manifestano una forte tensione a ricomprendere diversi illeciti all’interno
della confisca di prevenzione (45), anche al fine di
sottrarle alle menzionate garanzie penalistiche (46).
(Segue). La confisca allargata o estesa
Unica è la regolamentazione della confisca allargata o estesa (art. 5), motivata dalla lotta contro l’accumulazione di beni illeciti. In tal caso, in senso
garantistico, il testo si riferisce al valore dei “beni”
sproporzionato rispetto al reddito legittimo della
persona condannata e non - come impropriamente
dispone la nostra legislazione - anche alle attività
economiche del soggetto (47).
Ristretta in ogni caso (“almeno”) ad alcuni specifici illeciti (corruzione attiva e passiva nel settore
privato o con funzionari delle istituzioni dell’Unione, distribuzione, diffusione e trasmissione di materiale pedopornografico) e a tutti i reati (al di là di
quelli già individuati ai sensi dell’art. 3 o, se lo
strumento in questione non precisa una soglia di
punibilità, ai sensi del diritto nazionale in materia)
punibili con una pena detentiva pari, nel massimo,
ad almeno quattro anni [art. 5 lett. e)], essa riposa
sulla regola probatoria di tipo civilistico “rafforzata” della ponderazione delle probabilità o del cd.
più probabile che non [l’autorità giudiziaria (…)sia
convinta], formulata in virtù di specifici elementi
di prova (48) o presunzioni (49), peraltro, si badi,
in maniera del tutto apprezzabile, temporalmente
delimitate, come si ricava dal considerando n. 21.
Sotto tale aspetto, sul versante nazionale, come
hanno indicato le Sezioni Unite (50) la metodica
di acquisto della proprietà da parte dello Stato,
fondata su presunzione di illecita acquisizione da
parte del privato, è pacificamente ammessa in ambito nazionale e il ricorso a presunzioni, ai fini del(45) V., sempre, Cass., SS.UU., 26 giugno 2014, Spinelli,
cit.
(46) Il rinvio va, al tema della confisca. Sul punto, v., più di
recente, per quanto riguarda i reati tributari A. Marcheselli,
Tecniche di aggressione dei profitti dell’economia fiscalmente infedele: la confisca “penale” tra efficacia preventiva e tutela dei
diritti fondamentali, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 24
dicembre 2015; F. Menditto, Le confische nella prevenzione e
nel contrasto alla criminalità “da profitto” (mafie, corruzione,
evasione fiscale). Appunti a margine di alcune proposte di modifica normativa, in www.dirittopenalecontemporaneo, 2 febbraio
2015) e alle modifiche introdotte al cd. codice antimafia e all’estensione della confisca allargata ad un numero più ampio di
illeciti. Cfr., anche, F. Menditto, Verso la riforma del D.Lgs. n.
159 (cd. Codice antimafia) e della confisca allargata, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 22 dicembre 2015.
(47) Per ulteriori riflessioni si rinvia a F. Vergine, Il “contrasto” all’illegalità economica, cit., 155.
128
l’individuazione dell’origine illecita dei beni - osservano le Sezioni Unite - è ripetutamente riconosciuto legittimo dalla Corte EDU (51). D’altro canto, si afferma, si ritiene che ciò che assicura la tenuta del sistema e la sua conformità alla Costituzione ed ai principi dell’ordinamento sovranazionale, è il riconoscimento al soggetto della facoltà di
prova contraria, senza che rilievo alcuno possa avere la pretesa difficoltà dell’assolvimento di un tale
onere (52). Non si tratta di una probatio diabolica,
posto che per il suo assolvimento è sufficiente la
mera allegazione di fatti e situazioni o eventi atti
ad indicare la lecita provenienza dei beni.
La previsione che certamente deve adattarsi ai
molteplici regimi probatori dei diversi Stati membri, crea un qualche disagio se confrontata (tendenzialmente) con quanto previsto nel nostro ordinamento, tanto che non si manca di sottolineare (53) come la nostra disciplina si dovrebbe articolare, soprattutto in sede di sequestro, imponendo
a carico dell’accusa l’onere - gravoso - di dimostrare, di volta, in volta, la “sproporzione” e il carattere “illecito” di ogni “singolo” bene: tale regime,
lungamente disatteso dalla nostra giurisprudenza,
solo di recente e isolatamente è stato, invece, osservato.
Nonostante i molteplici dubbi di conformità al sistema tanto europeo, quanto nazionale, che una tale forma d’ablazione solleva è certo che il sempre
difficile equilibrio tra l’efficienza e le garanzie, in
ogni caso, pare dare assoluta prevalenza alla prima
necessità.
Il congelamento e la confisca “europea”
nei confronti dei terzi
All’interno di tale vasto impianto, la Direttiva
contempla la confisca dei proventi di reato o altri
beni di valore corrispondente trasferiti dall’indaga(48) In sede europea si esclude che la misura ablativa allarga possa riposare su meri sospetti ( Corte EDU, 13 novembre
2007, Bocellari e Rizza c. Italia; Corte EDU, 25 marzo 2003,
Madonia c. Italia; Corte EDU, 4 settembre 2001, Riela c. Italia;
Corte EDU, 5 luglio 2001, Arcuri e tre altri c. Italia, in
www.echr.coe.int).
(49) Ancora, Cass., SS.UU., 2 febbraio 2015, n. 4480, Spinelli e altro, cit., 718.
(50) V., sempre, Cass., SS.UU., 2 febbraio 2015, n. 4480,
Spinelli e altro, cit., 718.
(51) Più di recente, Corte EDU 17 giugno 2014, Cacucci c.
Italia, www.echr.coe.int.
(52) In merito alla ripartizione degli oneri probatori, ferma
restando la peculiarità del caso, da ultimo, R. Cappitelli, Di alcune questioni in tema di appello avverso sequestro preventivo
finalizzato alla “confisca allargata”, in Cass. pen., 2015, 4533 ss.
(53) Ancora, A. M. Maugeri, voce Confisca, cit., 220.
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to o dall’imputato ai terzi (artt. 6 e 7). Sembrano
esclusi gli “strumenti” del reato.
Premesso che quello prospettato all’art. 6 (il quale
recita anche in questo caso “almeno”) è uno statuto
“minimo” e che per “terzo” s’intende tanto colui
che è estraneo al reato, quanto colui che non ne abbia tratto vantaggio, al pari di quanto sostenuto in
ambito interno dalle Sezioni Unite Focarelli (54),
in sede europea si prescrive che le attività ablative
verso i terzi sono ammesse quando i beni siano stati
trasferiti o alienati per eludere la confisca.
In conformità al carattere personale della responsabilità penale, l’ablazione dei proventi di reato o di
beni di valore equivalente a carico dei terzi è, anche in sede interna, condizionata alla dimostrazione da parte dell’accusa della gravità, precisione e
concordanza delle situazioni che importano il permanere della disponibilità dei beni in capo al proposto (55) e alla dimostrazione alla conoscenza (o
avrebbero dovuto sapere) in capo al terzo che lo
scopo del trasferimento o dell’acquisto era di impedire la confisca in base a fatti concreti e circostanze. La Direttiva sembra imporre, dunque, una dovuta diligenza negli affari, valorizzando anche i
comportamenti colposi del terzo.
Analoga possibilità è configurata nel caso di avvenuto trasferimento o acquisto gratuito o di ammontare significativamente inferiore al valore di mercato. Al pari della legislazione nazionale, si prescrive
che le delineate circostanze devono essere accertate sulla base di fatti e situazioni concrete.
Nulla viene detto, invece, sul versante delle presunzioni, applicate, invece, com’è noto in ambito
domestico.
Il considerando n. 24 estende, inoltre, la possibilità
di disporre la confisca del profitto pervenuto ai ter-
zi, tanto persone fisiche che giuridiche, quando il
reato è stato commesso per loro conto o a loro
vantaggio (si pensi all’intero impianto del D.Lgs.
231/2001), mentre l’art. 7 prevede, alle medesime
condizioni, la possibilità di procedere al congelamento, ergo, al sequestro dei beni.
Rimangono fermi i diritti dei terzi in buona fede
che, come insegnano i giudici di Strasburgo, merita
particolare rilevanza (56).
Sotto tale aspetto, la nostra disciplina prevede l’inconsapevole affidamento (57) e la buona fede (58)
che, come ha recentemente indicato la Cassazione (59) in tema di misure patrimoniali antimafia,
va verificata con riguardo al momento in cui il
contratto è stato stipulato e può essere ravvisata
solo nel caso in cui risulti dimostrata: a) l’estraneità a qualsiasi collusione o compartecipazione all’attività criminosa; b) l’inconsapevolezza credibile in
ordine alle attività svolte dal prevenuto; c) un errore scusabile sulla situazione apparente del prevenuto. Tale indagine deve compiersi, caso per caso,
con riferimento alla ragionevolezza dell’affidamento, che non potrà essere invocato da chi versi in
una situazione di negligenza, ovvero da chi non ha
osservato le comuni norme di prudenza attraverso
cui accertarsi della realtà delle cose, anziché affidarsi alla mera apparenza dei fatti. L’onere di dimostrazione della buona fede ricade sul terzo: l’inversione de qua - chiara espressione dell’abbandono
della presunzione di buona fede - ammessa, in sede
interna, dal giudice delle leggi (60), suscita certamente i maggiori dubbi di conformità ai principi
europei e costituzionali (61), considerato che si fa
gravare su un soggetto, estraneo al fatto illecito, un
impegno processualmente gravoso (62).
(54) Cass., SS.UU., 24 maggio 2004, n. 29951, Curatela fallimentare in proc. Focarelli, in Il fisco, 2004, 7355.
(55) V., più recente, Cass., Sez. V, 23 settembre 2015, n.
42605, T e altri, in D&G, 2015, f., 39, 4, con osservazioni di A.
Foti, Confisca di beni di proprietà di terzi: quale confine tra le
esigenze di prevenzione e la tutela dei diritti dei terzi?
(56) Corte EDU 20 gennaio 2009, Sud Fondi c. Italia, cit.
(57) Cass., Sez. V, 16 gennaio 2015, n. 6449, Monte dei Paschi di Siena s.p.a.
(58) V., oltre a Corte cost., 5 giugno 2015, n. 97, in questa
Rivista, 2015, 825. In sede di legittimità, fra le molte, pur nelle
diversificate evenienze, Cass., Sez. VI, 17 settembre 2015, Intesa San Paolo, in D&G, 21 dicembre 2015, con osservazioni di
A. Ferretti, No alla buona fede dell’istituto bancario nella concessione del mutuo in un quadro di entrate illecite; Cass., Sez.
II, 1° luglio 2015, n. 38821, Italfondiario S. p. A.; Cass., Sez. VI,
30 giugno 2015, n. 36690, Banca Monti Paschi Siena; Cass.,
Sez. II, 11 giugno 2015, n. 41353. Al riguardo, v. D. La Muscatella, La Suprema Corte precisa le regole per ammettere il credito del terzo nei confronti del destinatario di confisca di prevenzione, in D&G, 2015, 32, 85.
(59) Per tutte, Cass., Sez. VI, 17 settembre 2015, cit. Per l’estensione della condizione della buona fede al terzo cessionario del credito v. Cass., Sez. VI, 16 giugno 2015, n. 35602, Sagrantino Italy, in D&G, 26 agosto 2015, per un commento A.
Foti, Quali sono le condizioni richieste per la tutela del credito
del terzo in caso di bene sottoposto a confisca di prevenzione ?,
in D&G, 2015, 31, 70.
(60) C. cost., 20 novembre 1995, n. 487, in questa Rivista,
1995, 32. Sul punto, v. F. Mazzacuva, L’evoluzione nazionale
ed internazionale della confisca tra diritto penale “classico” e diritto penale “moderno”, in AA. VV., La giustizia patrimoniale penale, cit., t. I, 249.
(61) V., C. cost., 29 gennaio 1987, n. 2, in Cass. pen., 1987,
867.
(62) A. Furgiuele, La disciplina della prova nel procedimento
applicativo delle misure patrimoniali di prevenzione, in AA.VV.,
La giustizia patrimoniale penale, a cui di A. Bargi - A. Cisterna,
Torino, 2011, t. I, 401 ss.; M. Montagna, Procedimento applicativo delle misure ablative di prevenzione e garanzie del giusto
processo, ivi, 441 ss.
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Ulteriori censure ricadono sull’oggetto dell’ablazione che, investendo i proventi illeciti, appare eccessivamente ampio e dubbi circondano il momento a
cui riferire l’appartenenza ed estraneità del bene (63): se per una parte della dottrina (64) sembra
necessario che l’autorità verifichi l’effettiva proprietà del bene da parte dell’indagato al momento
del giudizio, la giurisprudenza, come si è visto, rinvia al momento della commissione dell’illecito o
del trasferimento del bene. Altrettante perplessità
circondano l’inibizione al godimento dei diritti che
questi possono vantare sul bene, i quali, si ritiene,
ben potrebbero essere esercitati anche a fronte dell’avvenuta apprensione da parte dello Stato (65).
Analoga tutela è prevista in tema di sequestro al fine della successiva eventuale confisca (art. 7 “congelamento”). In tal caso, sono ammesse azioni urgenti da intraprendere, se necessario, al fine di
conservare i beni.
Interessante è, invece, il considerando n. 31 che
sollecita una continua verifica delle esigenze che
giustificano il congelamento (sequestro), oltreché
la delimitazione della sua durata per il tempo necessario a conservare i beni in vista di un’eventuale
successiva confisca: trattasi di un’importante previsione in termini di garanzie che esprime una ragionevole opzione di politica criminale consentendo
di bilanciare correttamente l’esigenza, sottesa ai
provvedimenti di congelamento, di garantire l’effettività della confisca e l’esigenza di garantire i diritti dei titolari dei beni di esercitare il loro diritto
di proprietà convenzionalmente riconosciuto (art.
1 del I Protocollo CEDU) e, laddove si tratti di beni aziendali, di esercitare la loro libertà di iniziativa economica, posto che il congelamento dei beni
comunque comporta un notevole sacrificio economico e, talora, finisce per compromettere la capacità e la tenuta economica di un’azienda, a parte la
considerazione che anche la gestione dei beni comporta dei costi per lo Stato.
Com’è noto, la regola trova soddisfacimento nell’ambito della legislazione italiana, anche attraverso forme indirette di controllo temporale - revoca
e mezzi d’impugnazioni garantiscono il requisito de
quo -, anche se il problema che rimane è che, al di
là delle affermazioni di principio, le indagini patrimoniali sono spesso complesse e lente e i tempi dei
procedimenti piuttosto lunghi.
(63)
(64)
(65)
(66)
130
Così, F. Mazzacuva, L’evoluzione nazionale, cit., 248.
V., A. M. Maugeri, voce Confisca, cit., 207.
Sempre, A. M. Maugeri, op. e loc. ult. cit.
Cfr. quanto dispongono gli artt. 119 e 120 del Progetto
Le garanzie
Fatto salvo quanto dispongono le Direttive
2012/13/UE e 2013/48/UE, la nuova Direttiva stabilisce un protocollo di tutele e garanzie rispetto al
quale la nostra disciplina interna appare ampiamente conforme.
In estrema sintesi: il provvedimento di sequestro
dovrà essere comunicato quanto prima agli interessati con tutti i dati identificativi del procedimento
e, in ogni caso, mantenuto giusto il tempo necessario a conservare i beni in vista dell’eventuale successivo provvedimento ablativo definitivo. L’effettività del diritto al ricorso contro il sequestro dinnanzi ad un giudice può accompagnarsi alla possibilità che l’iniziale provvedimento, emesso da
un’autorità non giurisdizionale, sia convalidato da
un giudice e quindi impugnato dinnanzi ad un organo diverso, sempre a carattere giurisdizionale. Le
persone interessate da un provvedimento di confisca, che deve essere motivato, hanno diritto ad un
avvocato, diritto di cui devono essere informate.
Non v’è dubbio che il legislatore non avrà alcuna
difficoltà ad assicurare tale diritto. I beni sequestrati che non sono confiscati dovranno essere immediatamente restituiti all’interessato, secondo le
condizioni o le norme procedurali nazionali.
Certamente merita una valorizzazione, di cui il legislatore nazionale dovrebbe debitamente tener
conto, la tutela dei diritti della persona danneggiata dal reato alle restituzioni e al risarcimento del
danno, che lo Stato membro dovrebbe disciplinare
in maniera tale da assicurare prontamente e pienamente (66).
In ogni caso, gli Stati dovranno assicurare la possibilità di un’impugnazione effettiva, estesa al merito
dei presupposti del relativo provvedimento, anche
in caso di misura di sicurezza patrimoniale, tutela
che nel nostro sistema ordinario e di prevenzione
appare, sotto ogni aspetto, più che adeguato (v.
art. 324 e ss. c.p.p. (67) e art. 27 D.Lgs. 159/2011
che rinvia all’art. 10 dello stesso testo).
La particolare (ma opportuna) clausola di
c.d. onerosità.
Un particolare apprezzamento all’interno del protocollo delle garanzie (intese in senso lato) va assegnata per la “sensibilità” dimostrata dall’organo sovranazionale alla previsione della c.d. clausola di
di riforma del codice penale elaborato dalla Commissione
Grosso nel 2000.
(67) G. Spangher, Le impugnazioni, in AA. VV., La giustizia
patrimoniale penale, cit., t. I, 550 ss.
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Il testo termina occupandosi della gestione di tali
beni, auspicando l’attivazione di uffici nazionali
centralizzati e di altri specializzati a cui affidare la
cura dei beni sequestrati, in vista della futura confisca. Fermo restando l’impiego sociale o pubblico
del bene, si prevede, ad ogni buon conto, che l’attivazione non esclude il potere di vendita o trasferimento dei beni da parte dello Stato membro, ove
necessario.
Se questo è, in sintesi, il contenuto del nuovo testo
europeo, che non dipana certo la questione legata
alla multiforme natura della confisca, né, in termini generali, sembra innalzare in maniera peculiare
le forme, i limiti, i controlli e le garanzie previste
dalla disciplina italiana per l’accesso alle misure de
quibus, esso, tuttavia, contiene alcune interessanti
previsioni a cui occorre dedicare attenzione.
La Direttiva, infatti, se correttamente eseguita, realizzerà una maggiore armonizzazione delle discipline nazionali e una semplificazione dell’attuale quadro normativo dell’Unione. Tuttavia, come si è recentemente auspicato (69), è necessario che l’Italia
provveda tempestivamente, affinché, fra l’altro,
non ci trovi impreparati, quando, entro il prossimo
biennio (4 ottobre 2018), la Commissione dovrà
presentare al Parlamento europeo e al Consiglio
una relazione in cui valuterà gli effetti delle norme
nazionali vigenti in materia di confisca e recupero
dei beni.
(68) V. lo “Schema per la redazione di principi e criteri direttivi di delega legislativa in materia di riforma del sistema sanzionatorio penale”(dicembre 2013), redatto dalla Commissione
ministeriale presieduta dal Prof. Palazzo (p. 10).
(69) Il rinvio va a N. Selvaggi, Le conclusioni del Consultive
Forum dei pubblici ministeri degli Stati membri UE in materia di
confisca dei proventi e traffico di esseri umani, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 31 luglio 2015.
onerosità indicata al considerando n. 18. Gli Stati
membri possono prevedere, infatti, che, in circostanze eccezionali, la privazione del bene non sia
ordinata quando, conformemente al diritto nazionale , risulti eccessiva per l’interessato, sulla base
di specifiche e determinanti circostanze del singolo
caso. Se è certo che, al fine di non depauperare le
finalità e i scopi sottesi alla confisca, è opportuno
che gli Stati membri facciano un ricorso molto limitato, da disporre solo quando essa determinerebbe per l’interessato una reale situazione critica di
sussistenza, è altrettanto indubbia la necessità che
gli Stati membri, fra cui l’Italia, facciano propria
questa clausola è giustamente prospettata in alcuni
progetti di riforma (68).
È questo, dunque, un criterio dalla valenza metagiuridica che, date le particolari condizioni economiche in cui versa la nostra collettività, potrebbe,
entro i segnalati limiti, rappresentare un possibile
disincentivo all’uso talvolta “disinvolto” che nella
prassi viene compiuta delle misure in esame.
Ulteriori considerazioni
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Osservatorio
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Osservatorio Corte europea dei
diritti dell’uomo
a cura di Carlotta Conti
DIRITTO A UN PROCESSO EQUO
DIRITTO A INTERROGARE E A FARE INTERROGARE I
TESTIMONI A CARICO
Corte europea dei diritti umani, Grande Camera, 15 dicembre 2015 - Pres. Spielmann - Schatschaschwili c.
Germania
La Grande Camera precisa quanto affermato nel caso
Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito.
Il caso
Il ricorrente veniva condannato per due episodi di rapina
aggravata, commessi a danno di giovani donne dedite all’esercizio della prostituzione, l’uno, in data 14 ottobre
2006, a Kassel contro L. e I., l’altro il 3 febbraio 2007 a Göttingen contro O. e P., provenienti dalla Lettonia. Queste ultime raccontarono i fatti ai vicini di casa, nonché all’amica
L., la quale aveva subìto l’episodio simile commesso a Kassel. La stessa ne informava la polizia, che procedeva a interrogare, in ripetute occasioni, O. e P. Poiché le due avevano dichiarato la propria intenzione di tornare in Lettonia
a breve, il 19 febbraio furono sentite dal giudice per le indagini “in modo da ottenere una dichiarazione che fosse
utilizzabile in dibattimento”. All’epoca, tuttavia, il ricorrente
non era ancora stato informato dell’esistenza di un procedimento incardinato a suo carico e, pertanto, non poté assistere all’escussione delle vittime - le quali si mostravano
fortemente provate dall’accaduto - per il rischio che le stesse potessero temere di dire la verità in sua presenza.
Il ricorrente veniva arrestato il 6 marzo 2007.
Il tribunale regionale di Göttingen citò le persone offese O.
e P. per l’udienza del 24 agosto 2007, ma entrambe rifiutarono di comparire, inviando certificati medici attestanti un
disturbo post traumatico. Il tribunale inviò una nuova comunicazione alle vittime, indicando loro l’intenzione di sentirle come testimoni e assicurando che avrebbero ricevuto
protezione in Germania e che sarebbero stati rimborsati i
costi della trasferta. Dal momento che anche questa richiesta era rimasta improduttiva di effetti, la Corte decise di
chiedere assistenza giudiziaria alla Lettonia, in virtù della
Convenzione europea di mutua assistenza del 20 aprile
1959, modificata il 29 maggio 2000, strumento che avrebbe obbligato le testimoni a comparire davanti all’autorità
giudiziaria lettone. Tuttavia, l’udienza in questione venne
cancellata perché le testimoni producevano certificazioni
mediche attestanti disturbi post traumatici e indicanti che il
ricordare i fatti avrebbe aggravato la loro condizione. A
quel punto il tribunale regionale scrisse alla controparte
straniera per significarle che, in base alla legge tedesca, le
testi non avevano motivato in modo sufficiente il loro rifiuto
di testimoniare. Dinanzi alla mancata risposta delle autorità
lettoni, il tribunale stabilì che venisse data lettura dei verbali degli interrogatori condotti dalla polizia e dal giudice per
132
le indagini nei confronti di O. e P., ai sensi dell’art. 251 del
codice di procedura penale tedesco, poiché vi erano ostacoli insormontabili che impedivano l’esame delle testimoni.
All’esito del procedimento l’imputato veniva condannato ad
anni 9, mesi 6 di reclusione. Per quanto concerneva l’episodio di Göttingen, la condanna si basava sulle dichiarazioni
rese durante le indagini dalle vittime, le quali avevano descritto i fatti accaduti in modo dettagliato e coerente. Inoltre
vi erano ulteriori elementi: le testimonianze indirette dei vicini di casa, dell’amica L., dei poliziotti e del giudice per le indagini che avevano sentito le donne; i risultati delle intercettazioni telefoniche e dei tabulati dei cellulari degli imputati e
del controllo GPS, nonché le similitudini tra i due episodi.
Avverso tale pronuncia, aveva fatto ricorso per motivi di legittimità l’imputato. Tuttavia la Corte Federale aveva rigettato l’impugnazione proposta per manifesta infondatezza.
Il ricorrente si rivolgeva dunque alla Cedu, lamentando la violazione dell’art. 6 §§ 1 e 3, lett. d), Conv. eur. dir. umani, per
violazione del principio di parità delle armi, in quanto né lui
né il proprio difensore avevano avuto la possibilità, in alcuna
fase del procedimento, di interrogare o fare interrogare O. e
P. le uniche testimoni dirette e vittime del reato a lui ascritto,
asseritamente commesso a Göttingen nel febbraio 2007.
La Sezione V della Corte europea, applicando i criteri indicati nel caso Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito, ritenne
che vi fosse stato un buon motivo che giustificasse la non
comparizione delle testimoni, con ciò negando la violazione del diritto a un processo equo. Il 15 luglio 2014 il ricorrente chiedeva che la causa fosse rinviata alla Grande Camera, come previsto dall’art. 43 Conv. eur. dir. umani.
La decisione: violazione dell’art. 6 §§ 1 e 3, lett.
d).
La Grande Camera ha esordito ricordando che le garanzie
di cui al § 3 lett. d) dell’art. 6 non sono altro che aspetti
specifici del diritto ad un processo equo di cui al § 1: pertanto, ha deciso di esaminare il ricorso alla luce di entrambe le disposizioni congiuntamente.
Tanto precisato, la Corte ha altresì ricordato che la prima
considerazione che si pone ex art. 6 Conv. eur. dir. umani è
quella di stabilire se il procedimento, valutato secondo un
approccio olistico, possa essere considerato giusto. Con
specifico riferimento ad un caso nel quale il testimone a
carico non era comparso nel giudizio ed erano, di conseguenza, state lette le dichiarazioni rilasciate da questi durante le indagini, veniva richiamato il precedente pronunciato dalla Grande Camera il 15 dicembre 2011 nel caso
Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito. In tale decisione, la
Corte aveva ribadito che ai sensi dell’art. 6 § 3 lett. d) ai fini
della pronuncia di una sentenza di condanna, di norma tutte le prove devono essere formate davanti all’imputato, in
pubblica udienza, nel contraddittorio delle parti. Poiché l’equità del giudizio viene seriamente compromessa in caso
di violazioni commesse nella fase investigativa, l’art. 6 deve
trovare applicazione anche alle indagini.
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Tuttavia, l’uso di dichiarazioni rese nella fase investigativa
davanti alla polizia o al giudice di quella fase non comporta
di per sé una violazione dell’art. 6, purché siano stati rispettati i diritti difensivi. Con la pronuncia Al-Khawaja e Tahery
la Grande Camera aveva ritenuto applicabile il principio da
ultimo citato persino nel caso in cui la dichiarazione del testimone assente dal giudizio aveva costituito l’unica prova
a carico (“sole or decisive rule”). Tuttavia, dati i rischi connessi all’ammissione di detta prova per l’equità del processo, la Corte aveva affermato la necessità di un controllo
sulla compatibilità con l’art. 6 Conv. eur. dir. umani, da effettuare in 3 passaggi (steps): a) riconoscere l’esistenza di
una giusta causa che giustifichi l’assenza del testimone al
dibattimento; b) stabilire se la prova fornita dal testimone
assente era stata “sole or decisive” per la condanna dell’imputato; c) infine, accertare se nel processo vi fossero stati
dei fattori di bilanciamento, incluse forti garanzie procedurali, in grado di compensare le menomazioni al diritto della
difesa e di rendere il processo complessivamente equo.
L’applicazione dei criteri “Al-Khawaja e Tahery” nelle successive pronunce della Corte ha reso necessari, secondo la
Grande Camera, alcuni chiarimenti in ordine al rapporti tra
i 3 steps soprarichiamati. È chiaro, in primo luogo, che deve effettuarsi anche il terzo passaggio nel caso di risposta
affermativa ai quesiti di cui sub a) e b). Vero ciò, la Corte
doveva verificare se tale conclusione fosse dovuta anche
nel caso di risposta negativa a uno dei quesiti precedenti.
In primo luogo la Grande Camera, dopo aver passato in
rassegna le diverse pronunce nelle quali erano stati applicati i criteri “Al-Khawaja e Tahery” da parte della stessa
Corte europea, ha escluso che la mancanza di un buon
motivo che giustificasse l’assenza della vittima comportasse automaticamente l’iniquità del processo, pur rimanendo
un fattore molto importante nel valutare complessivamente
il rispetto dell’art. 6 nell’intero procedimento.
In secondo luogo, si è passati a considerare se fossero necessari i “fattori di bilanciamento” nel caso in cui la prova fornita dal teste assente non fosse né “sole” né “decisive”. Poiché alla Corte spetta, come è noto, di valutare l’equità complessiva del processo, la stessa è tenuta a considerare se vi
sono stati sufficienti fattori volti a bilanciare le menomazioni
del diritto di difesa anche nel caso in cui la dichiarazione del
testimone assente non fosse risultata decisiva, ma comunque rilevante ai fini della condanna. Ciò detto era chiaro che
tali fattori dipendono dall’importanza della prova: maggiore il
peso della dichiarazione resa dal testimone assente, maggiori
devono essere le salvaguardie volte a tutelare la difesa.
La Corte europea si è poi occupata dell’ordine in cui deve essere condotta l’indagine sui criteri menzionati. Pur affermando che questi ultimi sono correlati tra loro e che di norma si
segue l’ordine temporale indicato dalla Grande Camera, si è
riconosciuto che in alcuni casi potrebbe essere seguito un ordine diverso, specie se uno di essi appare concludente al fine
di stabilire se il processo sia stato o meno equo.
Fatte le precisazioni in ordine ai propri precedenti, la Corte
si è quindi rivolta all’applicazione degli insegnamenti che
ne derivano al caso di specie.
Quanto all’assenza delle testimoni O. e P., la Corte ha puntualizzato che il Tribunale nazionale non aveva accettato i
motivi di salute certificati, né la paura di ritorsioni, come cause che ne giustificassero la mancata comparizione: infatti,
aveva richiesto l’assistenza dell’autorità giudiziaria lettone.
Falliti i tentativi ricordati, il giudice nazionale ha ritenuto che
vi fossero ostacoli insormontabili in virtù dei quali era consentita la lettura delle dichiarazioni rese nelle fasi precedenti.
Diritto penale e processo 1/2016
Di conseguenza, essendo l’assenza dovuta a impossibilità di
raggiungere i testimoni e non a malattia o a paura di ritorsioni, la Corte doveva esaminare se il giudice nazionale avesse
compiuto ogni sforzo possibile per assicurare la presenza del
testimone. A tale riguardo, la Corte ha notato che il giudice
nazionale aveva contattato personalmente le vittime, proponendo loro possibili soluzioni alternative; aveva richiesto l’assistenza giudiziaria internazionale; per di più aveva fatto presente al giudice controparte che le certificazioni prodotte dalle testimoni non erano conformi allo standard richiesto dalla
legislazione tedesca. Alla luce di tali elementi la Grande Camera ha ritenuto che fosse stato compiuto, da parte del giudice tedesco, ogni sforzo necessario per ottenere la presenza
delle persone offese al dibattimento, non avendo altri strumenti per raggiungere lo scopo all’interno della propria giurisdizione. Dunque, ha concluso che, alla luce del principio impossibilium nulla est obligatio, l’assenza delle testimoni O. e P.
non fosse imputabile al giudice nazionale e che, pertanto, vi
fosse un buon motivo per ammettere i verbali delle dichiarazioni precedentemente rese come prova.
In ordine al secondo criterio, lo stesso Tribunale regionale
aveva affermato in sentenza che le vittime erano state testimoni chiave, pur potendo contare su ulteriori prove. Secondo
la Corte europea, il giudice nazionale, nel negare che le dichiarazioni in esame fossero state le uniche prove sulle quali
si era basata la condanna, nulla aveva detto quanto alla decisività delle stesse, ovvero se queste erano state determinanti
ai fini dell’esito del procedimento. A tale riguardo viene in rilievo il peso delle altre prove a carico: nel caso in esame, tra
le altre, le testimonianze indirette della vicina di casa e dell’amica; le intercettazioni telefoniche, i tabulati e i dati GPS.
Stante la natura di queste prove, la Corte non ha potuto esimersi dal notare che le uniche testimoni oculari dei fatti erano
state O. e P., mentre gli altri elementi erano o de relato o dati
tecnici non concludenti ai fini di accertare i reati ascritti. Per
queste ragioni la Corte ha ritenuto decisive, ovvero determinanti, le dichiarazioni rese da O. e P. nella fase investigativa.
Con riguardo ai “fattori di bilanciamento”, è stato innanzitutto valutato il modo in cui il giudice nazionale aveva trattato gli elementi di prova. Quest’ultimo, a parere della Corte, era stato molto prudente e aveva dato conto a più riprese nella motivazione della sentenza della necessità di usare
particolare diligenza nel valutare l’attendibilità delle testimoni, non avendone potuto osservare il contegno durante
l’esame (non essendo stata disponibile la videoregistrazione dell’interrogatorio).
Infine, venendo alle garanzie volte a bilanciare lo svantaggio
derivante alla difesa dal non poter interrogare le uniche testimoni dirette, la Corte ha osservato che l’imputato aveva avuto sì l’occasione di fornire la sua versione dei fatti e di mettere in discussione la credibilità delle stesse, ma non aveva
mai potuto rivolgere loro domande, neppure per iscritto, e
né lui né il suo difensore avevano avuto l’opportunità di interrogarle durante la fase investigativa. Secondo la Corte è
significativo, sul punto, rilevare che gli inquirenti avrebbero
potuto nominare un difensore che avrebbe avuto il diritto di
partecipare all’escussione delle testimoni condotta dal giudice della fase investigativa. Tuttavia, tali garanzie previste dal
codice di rito tedesco non erano state rispettate nel caso in
esame. L’interrogatorio dei testimoni condotto in indagini ha
notevole importanza, dal momento che può pregiudicare l’equità del successivo processo qualora gli elementi raccolti in
quella fase vengano poi ammessi come prova. Per tale motivo, è fondamentale sapere se, al momento dell’interrogatorio, le autorità procedenti presumessero che le testimoni sa-
133
Osservatorio
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Giustizia sovranazionale
rebbero rimaste assenti dalle fasi successive, perché in tale
caso avrebbero dovuto porre la difesa in condizione di interrogarle. Secondo la Corte, tali opportunità (nonostante gli inquirenti conoscessero l’intenzione delle donne di ritornare in
Lettonia) era stata negata all’imputato, al quale di contro,
avrebbe potuto essere nominato un difensore, secondo
quanto previsto dal codice di procedura penale. Così facendo, l’autorità nazionale è incorsa nel rischio prevedibile, poi
effettivamente materializzatosi, che né l’imputato, né il difensore avrebbe potuto interrogare le vittime in qualunque fase
del procedimento. Quest’ultimo elemento, secondo la Corte,
ha notevole peso nel valutare se l’intero procedimento possa
considerarsi equo, pur riconoscendo che la Corte aveva valutato l’attendibilità delle testimoni dirette con cura.
In conclusione, la Corte ha ritenuto (con una maggioranza
di 9 voti su 17) che l’impossibilità per il ricorrente di interrogare o fare interrogare O. e P. durante tutte le fasi del procedimento aveva reso quest’ultimo nel complesso iniquo,
riconoscendo la violazione dell’art. 6 §§ 1 e 3, lett. d).
I precedenti
Sul diritto a interrogare o fare interrogare il testimone a carico, cfr. Cedu, Sez. I, 18 luglio 2013, Vronchenko c. Estonia,
ivi; Cedu, Grande Camera, 15 dicembre 2011, Al-Khawaja e
Tahery c. Regno Unito, ivi; Cedu, Sez. II, 18 maggio 2010,
Ogaristi c. Italia, ivi; Cedu, Sez. IV, 10 maggio 2007, A.H. c.
Finlandia, ivi; Cedu, Sez. III, 8 febbraio 2007, Kollcaku c. Italia, ibidem; Cedu, Sez. I, 19 ottobre 2006, Majadallah c. Italia, ivi; Cedu, Sez. I, 13 aprile 2006, Vaturi c. Francia, ibidem;
Cedu, Sez. III, 13 ottobre 2005, Bracci c. Italia, ivi; Cedu,
Sez. III, 13 novembre 2003, Rachdad c. Francia, ivi; Cedu,
Sez. III, 20 dicembre 2001, P.S. c. Germania, ivi; Cedu, Sez.
I, 27 febbraio 2001, Lucà c. Italia, ibidem; Cedu, Sez. II, 14
dicembre 1999, A.M. c. Italia, ivi; Cedu, 15 giugno 1992, Lüdi c. Svizzera, ivi; Cedu, 19 febbraio 1991, Isgrò c. Italia, ivi;
Cedu, 24 novembre 1986, Unterpertinger c. Austria, ivi.
DIRITTO ALLA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE
LIBERTÀ DI ESPRESSIONE DEGLI AVVOCATI
Corte europea dei diritti umani, Sez. V, 15 dicembre
2015 - Pres. Nußberger - Bono c. Francia
L’imposizione di una sanzione disciplinare al difensore
che tutela i diritti del proprio cliente, senza nuocere alla
reputazione della magistratura davanti all’opinione
pubblica, viola il diritto alla libertà di espressione.
Il caso
Il ricorrente è un avvocato francese, difensore di S.A., arrestato a Damasco nel 2003 sulla base di indagini condotte
in Francia in ordine alla sua partecipazione nel progettare
attentati terroristici. L’assistito era stato estradato e processato davanti al tribunale penale di Parigi. Prima di allora, gli inquirenti francesi avevano chiesto alle autorità militari siriane di interrogare S.A.
Il legale era riuscito a ottenere l’espunzione dal fascicolo
processuale delle dichiarazioni ottenute dai servizi segreti
siriani tramite la tortura del proprio assistito, affermando in
tale occasione che l’autorità giudiziaria francese era stata
complice della tortura subìta da S.A.
Quest’ultimo, all’esito del procedimento, era stato condannato a 9 anni di reclusione, aumentati a 10 anni dalla Corte
d’Appello.
134
La Procura aveva inoltre richiesto alla competente autorità
disciplinare di procedere contro l’avvocato Bono, il quale
avrebbe agito in violazione dei principi di onore, discrezione e moderazione alla base della professione forense. La
sezione disciplinare dell’Ordine degli Avvocati di Parigi aveva ritenuto il professionista non responsabile, poiché le affermazioni fatte non erano state attacchi personali rivolti ai
magistrati. In seguito alla impugnazione della procura, la
Corte d’Appello di Parigi riformò la decisione della sezione
disciplinare dell’ordine forense, comminando la sanzione
(prononēa à l’encontre du requérant un blāme assorti d’une
inéligibilité aux instances professionnelles pendant une durée
de cinq ans). La Corte d’Appello, ricordando che la libertà
di espressione dell’avvocato non è assoluta, aveva ritenuto
che le dichiarazioni del ricorrente avessero messo in discussione l’integrità morale dei giudici. Inoltre, secondo la
Corte nazionale, l’affermazione del difensore era stata inutile, dal momento che lo stesso aveva già ottenuto l’esclusione delle dichiarazioni inutilizzabili dal fascicolo: di conseguenza quanto affermato era stato ritenuto sproporzionato
rispetto alla finalità perseguita e lesivo dei principi basilari
di condotta di chi esercita la professione forense.
La decisione: violazione dell’art. 10.
La sanzione disciplinare irrogata al ricorrente può essere vista come una interferenza con la sua libertà di espressione;
tuttavia la stessa è prevista dalla legge (e, in particolare,
dalla legge forense) in vista del fine legittimo di tutelare la
reputazione e i diritti di altri, nonché l’autorità del potere
giudiziario.
La Corte ha notato che i commenti in questione, essendo
molto duri, erano significativi di disprezzo serbato nei confronti dei giudici inquirenti. Inoltre non erano necessari, come evidenziato dalla Corte d’Appello, a ottenere il fine perseguito, essendo già state ritenute inutilizzabili le dichiarazioni fatte da S.A. sotto tortura.
Tuttavia, a parere della Corte, le accuse dell’avvocato non
erano state rivolte personalmente contro i giudici, bensì contro il modo in cui erano state condotte le indagini. Lo stesso
aveva criticato, nello specifico, la scelta di chiedere alle autorità siriane di condurre l’interrogatorio, nonostante fossero note
le modalità con cui procedono i servizi segreti di quel paese.
Secondo la Corte, poiché le dichiarazioni rese durante la tortura erano state dichiarate inutilizzabili, si aveva la conferma
che le richieste del legale avevano contribuito direttamente
alla difesa del suo assistito. Inoltre le sue critiche, basate su
elementi fattuali, non avevano prodotto echi fuori dall’aula
d’udienza, essendo contenute in un atto scritto; pertanto, le
stesse non erano suscettibili di nuocere alla reputazione della magistratura agli occhi dell’opinione pubblica.
Per tali motivi, la Corte europea ha ritenuto sproporzionate
le sanzioni disciplinari imposte al ricorrente, soprattutto in
ragione del fatto che la richiesta di inizio della procedura
disciplinare era stata fatta dalla procura mesi dopo la decisione della Corte d’Appello.
La Francia è stata condannata a risarcire al ricorrente €
5.000.
I precedenti
Circa la libertà di espressione dell’avvocato, dentro e fuori
dal processo, Cedu, Sez. IV, 30 giugno 2015, Peruzzi c. Italia, in www.echr.coe.int; Cedu, Grande Camera, 15 dicembre 2005, Kyprianou c. Cipro, ivi; Cedu, 20 maggio 1998,
Schöpfer c. Svizzera, ivi.
Diritto penale e processo 1/2016
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Indici
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Diritto penale e processo
INDICE DEGLI AUTORI
Annunziata Luigi
Prime criticità applicative in tema di sospensione del
processo per la messa alla prova........................
101
Anselmi Elisa
Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico e competenza territoriale ........................
85
Conti Carlotta
Osservatorio Corte europea dei diritti dell’uomo .....
132
Corbetta Stefano
Osservatorio Corte di cassazione - Diritto penale ....
47
Daniele Marcello
I vizi degli automatismi cautelari persistenti nell’art.
275, comma 3, c.p.p. .. ...................................
114
Di Chiara Giuseppe
Osservatorio Corte costituzionale .......................
Traffico di migranti via mare, poteri di polizia nelle
azioni di contrasto e tutela della dignità della persona .............................................................
37
5
Garuti Giulio
Osservatorio Corte di cassazione - Sezioni Unite .....
40
92
Marandola Antonella
Osservatorio Corte di cassazione - Processo penale.
Considerazioni minime sulla Dir. 2014/42/UE relativa
al congelamento e alla confisca dei beni strumentali
e dei proventi da reato fra gli Stati dell’UE.............
53
121
Perini Andrea
La riforma dei reati tributari...............................
49
53
47
47
51
56
50
50
53
Corte di cassazione (Sezioni Unite)
24 aprile 2015 (26 marzo 2015), n. 17325 .............
29 ottobre 2015 (24 novembre 2015), n. 46624 ......
24 novembre 2015 (29 ottobre 2015), n. 46625 ......
25 novembre 2015 (26 giugno 2015), n. 46653 ......
3 dicembre 2015 (26 giugno 2015), n. 47766 .........
80
43
45
40
42
Corte europea dei diritti dell’uomo
15 dicembre 2015, Pres. Spielmann - Schatschaschwili c. Germania ............................................
15 dicembre 2015, Pres. Nußberger - Bono c. Francia ............................................................
132
134
Legislazione
Madeo Antonella
La rilevanza penale del mobbing del primario nei
confronti del medico sottoposto.........................
2 dicembre 2015 (u.p. 30 aprile 2015), n. 47590 .....
3 dicembre 2015 (u.p. 9 novembre 2015), n. 47795.
3 dicembre 2015 (u.p. 16 aprile 2015), n. 48007 .....
17 dicembre 2015 (u.p. 18 settembre 2015), n.
49850 ........................................................
21 dicembre 2015 (u.p. 7 luglio 2015), n. 50098 .....
21 dicembre 2015 (ud. 22 settembre 2015), n.
50102 ........................................................
21 dicembre 2015 (u.p. 13 ottobre 2015), n. 50140 .
22 dicembre 2015 (u.p. 28 aprile 2015), n. 50201....
22 dicembre 2015 (ud. 28 ottobre 2015), n. 50317 ..
14
Decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 ‘‘Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n.
23’’, con commento Andrea Perini .....................
Decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212 ‘‘Attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che
istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI’’ .........
11
10
Scordamaglia Irene
Osservatorio Contrasti giurisprudenziali ................
59
Vallini Antonio
Gli ultimi fantasmi della legge ’40: incostituzionale il
(supposto) reato di selezione preimpianto .............
Diritto penale
64
Corte costituzionale
62
37
Corte di cassazione (Sezioni semplici)
136
62
Delitti contro la persona
Giurisprudenza
7 ottobre 2015 (ud. 23 giugno 2015), n. 40320 .......
29 ottobre 2015 (ud. 11 giugno 2015), n. 43722 .....
6 novembre 2015 (p.u. 8 ottobre 2015), n. 44657....
2 dicembre 20154 (p.u. 24 settembre 2015), n.
44746 ........................................................
Bioetica
Gli ultimi fantasmi della legge ’40: incostituzionale il
supposto reato di selezione preimpianto (Corte Cost.
21 ottobre 2015 (ud. 6 ottobre 2015), n. 229) con
commento di Antonio Vallini .............................
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
21 ottobre 2015 (6 ottobre 2015), n. 229 ..............
26 novembre 2015 (7 ottobre 2015), n. 240...........
INDICE ANALITICO
89
54
60
59
Contesa violenta scaturita da un’aggressione: è rissa? (Cass. pen., Sez. V, 3 dicembre 2015 (u.p. 16
aprile 2015), n. 48007) ....................................
Omicidio doloso con dolo eventuale e omicidio preterintenzionale: quale differenza? (Cass. pen., Sez. I,
17 dicembre 2015 (u.p. 18 settembre 2015), n.
49850) .......................................................
47
47
Diritto d’autore
Abusiva fotocopiatura di testi universitari (Cass.
Pen., Sez. III, 2 dicembre 2015 (u.p. 30 aprile 2015),
n. 47590 .....................................................
49
Diritto penale e processo 1/2016
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Indici
Diritto penale e processo
Guida in stato di ebrezza
Rifiuto di sottoporsi all’accertamento dello stato di
ebbrezza e sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida (Cass. pen., SS.UU., 29 ottobre 2015 (24 novembre 2015), n. 46624)............
Rifiuto di sottoporsi all’accertamento dello stato di
ebbrezza e circostanza aggravante di aver procurato
un incidente stradale (Cass. Pen., SS.UU., 24 novembre 2015 (29 ottobre 2015), n. 46625)
aprile 2015 (ud. 26 marzo 2015), n. 17325) commento di Elisa Anselmi .........................................
Confisca
43
45
89
Reati contro il patrimonio
Estorsione (Cass. pen., Sez. II, 6 novembre 2015 (p.u.
8 ottobre 2015), n. 44657) .................................
60
Reati in materia di stupefacenti
Ricorso inammissibile e applicazione d’ufficio della
legge più favorevole (Cass. pen., SS.UU., 25 novembre 2015 (26 giugno 2015), n. 46653) ..................
Considerazioni minime sulla Dir. 2014/42/UE relativa
al congelamento e alla confisca dei beni strumentali
e dei proventi da reato fra gli Stati dell’UE di Antonella Marandola ............................................
40
Illegalità della pena, giudizio di legittimità e poteri
del giudice dell’esecuzione (Cass. pen., SS.UU., 3
dicembre 2015 (26 giugno 2015), n. 47766) ..........
Omessa tenuta di scritture contabili: bancarotta
semplice o fraudolenta? (Cass. pen., Sez. V, 21 dicembre 2015 (u.p. 7 luglio 2015), n. 50098)...........
Prime criticità applicative in tema di sospensione del
processo per la messa alla prova di Luigi Annunziata
Presentazione di dichiarazione infedele: quali le responsabilità degli amministratori di una S.n.c. (Cass.
pen., Sez. III, 22 dicembre 2015 (u.p. 28 aprile
2015), n. 50201) ............................................
Notificazione all’imputato in caso d’irreperibilità
(Cass. pen., Sez. IV, 2 dicembre 2015 (p.u. 24 settembre 2015), n. 47746) ..................................
11
Patteggiamento e espulsione dello straniero (Cass.
pen., Sez. II, 22 dicembre 2015 (ud. 28 ottobre
2015), n. 50317)............................................
Procedimenti speciali
Diritto a un processo equo
Messa alla prova per adulti e assenza della disciplina
transitoria (Corte cost. sent. 26 novembre 2015 (7
ottobre 2015), n. 240) .....................................
132
Diritto alla libertà di espressione
Libertà di espressione degli avvocati (C. eur. dei dir.
umani, Sez. V, 15 dicembre 2015) ......................
134
Responsabilità amministrative
Competenza territoriale
Incompatibilità del legale rappresentante indagato
(Cass. pen., Sez. V, 21 dicembre 2015 (ud. 22 settembre 2015), n. 50102) ..................................
Diritto penale e processo 1/2016
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Prova
Valutazione ai fini della condanna (Cass. pen., Sez.
II, 3 dicembre 2015 (ud. 9 novembre 2015), n.
47795) .......................................................
Processo penale
Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico e competenza territoriale (Cass. pen., SS.UU., 24
114
Patteggiamento
50
Giustizia sovranazionale
Diritto a interrogare e a fare interrogare i testimoni a
carico (C. eur. dei dir. umani, Grande camera, 15 dicembre 2015) ...............................................
101
Notificazioni
50
Reati tributari
La riforma dei reati tributari di Andrea Perini ..........
42
Misure cautelari
I vizi degli automatismi cautelari persistenti nell’art.
275, comma 3, c.p.p di Marcello Daniele..............
Reati informatici
Ricarica telefonica tramite accesso abusivo al conto
corrente on line: quale reato? (Cass. pen., Sez. II, 21
dicembre 2015 (u.p. 13 ottobre 2015), n. 50140).....
5
Impugnazioni
Messa alla prova
Reati fiscali
54
Immigrazione
Traffico di migranti via mare, poteri di polizia nelle
azioni di contrasto e tutela della dignità della persona di Giuseppe Di Chiara .................................
Reati fallimentari
51
121
Esecuzione
Rimedi risarcitori e attualità del pregiudizio (Cass.
pen., Sez. I, 29 ottobre 2015 (ud. 11 giugno 2015),
n. 43722) ....................................................
Mobbing
La rilevanza penale del mobbing del primario nei
confronti del medico sottoposto (Cass. pen., Sez.
VI, 7 ottobre 2015 (ud. 23 giugno 2015), n. 40320)
con commento di Antonella Madeo ....................
80
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56
137
Indici
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Diritto penale e processo
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Diritto penale e processo 1/2016
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