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A. A. 2013-2014
SP 2014
Prof. ord. Uberto MOTTA
Storia letteraria moderna:
La letteratura dell’Italia Unita (1861-1968)
martedí 17-19h, MIS 3026
Calendario delle lezioni
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
8)
9)
18 febbraio
25 febbraio
4 marzo
11 marzo
18 marzo
25 marzo
1° aprile
8 aprile
15 aprile
22 aprile: vacanze di Pasqua
10) 29 aprile
11) 6 maggio
12) 13 maggio
13) 20 maggio
14) 27 maggio
Bibliografia (1)
1. Manuale di riferimento
G. Contini, La letteratura dell’Italia unita 1861-1968,
Firenze, Sansoni, 1968 (e successive ristampe, fino a:
Milano, BUR, 2012).
2. Letture domestiche (una, a scelta, delle opere seguenti)
F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana;
G. Verga, I Malavoglia oppure Mastro-don Gesualdo;
G. D'Annunzio, Il Piacere;
L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal oppure Uno,
nessuno e centomila;
I. Svevo, La coscienza di Zeno.
Bibliografia (2)
3. Ulteriore bibliografia
G. Contini, La letteratura italiana. Otto-Novecento, Milano, Accademia, 1974.
Letteratura italiana. Le opere, diretta da A. Asor Rosa, vol. 3 (Dall’Ottocento al
Novecento) e 4/I-II (Il Novecento), Torino, Einaudi, 1995-1996.
Testi nella storia, a cura di C. Segre e C. Martignoni, voll. 3 e 4, Milano, Bruno
Mondadori, 1996.
Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F.
Brioschi e C. Di Girolamo, vol. 4, Dall’unità d’Italia alla fine del Novecento,
Torino, Bollati Boringhieri, 1996.
Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. 8 (Tra l’Otto e il
Novecento) e 9 (Il Novecento), Roma, Salerno, 1999-2000.
Storia della letteratura italiana, 5, L’Ottocento, a cura di R. Bonavita, Bologna,
Il Mulino, 2005.
Storia della letteratura italiana, 6, Il Novecento, a cura di A. Casadei, Bologna,
Il Mulino, 2005.
Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto e G. Pedullà, vol. 3, Dal
Romanticismo a oggi, Torino, Einaudi, 2012.
1861-1968
• l'età postunitaria (1861-1903), tra verismo e
simbolismo, estetismo e decadentismo;
• l'età ‘giolittiana’ o delle avanguardie
primonovecentesche (1903-1918);
• l'epoca tra le due guerre (1918-1945), con le
diverse forme di 'rilettura' della tradizione
coeve all'avvento della dittatura fascista;
• l'età del secondo dopoguerra (1945-1968), tra
nuovo realismo e nuova avanguardia.
l'età postunitaria (1861-1903)
• F. De Sanctis (n. 1817)
• G. Pascoli (n. 1855)
1870-71: Storia della letteratura italiana
• G. Carducci (n. 1835)
1891 prima edizione di Myricae, 1903
Canti di Castelvecchio
1875-1898: Giambi ed epodi (1882), Rime
nuove (1889), Odi barbare (1893), Rime e
ritmi (1898)
• G. D’Annunzio (n. 1863)
• G. Verga (n. 1840)
1889-1896 i grandi romanzi, da Il Piacere
a Le vergini delle rocce; 1903 Alcyone
1880 Vita dei campi, 1881 I Malavoglia,
1883 Novelle rusticane, 1889 Mastro-don
Gesualdo
• I. Svevo (n. 1861)
• A. Fogazzaro (n. 1842)
1896, Piccolo mondo antico
• La Scapigliatura (1860-70)
C. Dossi (1849), Vita di Alberto Pisani, 1870;
G. Faldella (1846); V. Imbriani (1840)
1892-98 Una vita e Senilità
• L. Pirandello (n. 1867)
l'età giolittiana (1903-1918)
Luigi Pirandello
• Crepuscolari
1904 Il fu Mattia Pascal
1921 Sei personaggi in cerca d’autore
1922 Enrico IV
1926 Uno, nessuno e centomila
Gozzano (La via del rifugio, 1907; I
colloqui, 1911), Govoni (Le fiale e
Armonia in grigio et silenzio, 1903),
Moretti (Poesie scritte col lapis, 1911)
Italo Svevo
1923 La coscienza di Zeno
Benedetto Croce
1902 Estetica; 1909 Logica come
scienza del concetto puro; 1913 La
letteratura della nuova Italia
• Futurismo
1912, Manifesto tecnico della letteratura
futurista
• Vociani
(G. Papini, R. Serra, P. Jahier, S. Slataper)
Clemente Rebora, Frammenti lirici (1913)
Dino Campana, Canti orfici (1914)
Camillo Sbarbaro, Pianissimo (1914)
Tra le due guerre (1918-1945)
• “La Ronda” (1919- • Cardarelli (Poesie: 1936), Cecchi (Pesci rossi:
1920), Bacchelli (Il mulino del Po: 1938-40)
23)
• “Solaria” (192636)
Tre grandi poeti
Saba (1883)
Ungaretti (1888)
Montale (1896)
• E. Vittorini (Conversazione in Sicilia: 1941)
• Gadda, classe
1893
• L’Adalgisa (1940-1944), La cognizione del
dolore (1936-1963), Quer pasticciaccio brutto
de via Merulana (1945-1957)
• Il Canzoniere (1921-1961)
• L’Allegria (1931), Sentimento del tempo (1936)
• Ossi di seppia (1925), Le occasioni (1939)
Gli anni Trenta: la poesia (l’ermetismo)
1930, S. Quasimodo, Acque e terre
1932, S. Quasimodo, Oboe sommerso; A. Gatto, Isola; C. Betocchi,
Realtà vince il sogno
1933, G. Ungaretti, Sentimento del Tempo; S. Solmi, Fine di stagione; L.
De Libero, Solstizio La violetta notturna, a c. di R. Poggioli
1934, A. Bertolucci, Fuochi in novembre; V. Cardarelli, Giorni di piena
N. Lisi, Paese dell’anima
1935, M. Luzi, La barca L. Fallacara, Confidenza
1936, L. Sinisgalli, 18 poesie; V. Cardarelli, Poesie; C. Pavese, Lavorare
stanca
1937, A. Gatto, Morto ai paesi; L. De Libero, Proverbi
1938, S. Quasimodo, Poesie
1939, E. Montale, Occasioni; L. Sinisgalli, Campi Elisi; S. Penna, Poesie
1941, V. Sereni, Frontiera
1942, P. Bigongiari, La figlia di Babilonia
Il secondo dopoguerra (1945-1968)
LA POESIA/ I POETI
L’ermetismo e la sua eredità
Salvatore Quasimodo (1901)
Leonardo Sinisgalli (1908)
Alfonso Gatto (1909)
Vittorio Sereni (1913)
Mario Luzi (1914)
LA PROSA/I NARRATORI
Il neorealismo/Forme di realismo:
tra Gli indifferenti del 1929 e Una
vita violenta del 1959
Carlo Levi (1902)
Mario Soldati (1906)
Moravia (1907)
Landolfi (1908)
Vittorini (1908)
Pavese (1908)
Bilenchi (1909)
Cassola (1917)
Fenoglio (1922)
Pasolini (1922)
Calvino (1923)
1947-1963 La narrativa
1945 Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi
1947 Se questo è un uomo di Primo Levi
1947 Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino
1947 Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini
1948 Menzogna e sortilegio di Elsa Morante
1950 Le terre del Sacramento di Francesco Jovine
1952 I ventitre giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio
1954 Racconti romani di Moravia
1955 Ragazzi di vita di P.P. Pasolini
1958 Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa
1959 Il calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi
1959 La Gilda del MacMahon di Giovanni Testori
1960 La ragazza di Bube di Carlo Cassola
1961 Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia
1962 Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani
1962 Memoriale di Paolo Volponi
1963 Libera nos a Malo di Luigi Meneghello
Poesia 1945-1968: le voci ‘nuove’
Attilio Bertolucci (1911): La capanna indiana (1951)
Giorgio Caproni (1912): Il passaggio d’Enea (1956), Congedo
del viaggiatore cerimonioso (1965)
Franco Fortini (1917): Poesia e errore (1959), Una volta per
sempre (1963)
Andrea Zanzotto (1921): Dietro il paesaggio (1951), Vocativo
(1957), La Beltà (1968)
Giorgio Orelli (1921): L’ora del tempo (1962)
P.P. Pasolini (1922): Le ceneri di Gramsci (1957)
Giovanni Giudici (1924): La vita in versi (1965)
Elio Pagliarani (1927): La ragazza Carla (1960)
Amelia Rosselli (1930): Variazioni belliche (1964)
E. Sanguineti (1930): Laborintus (1956)
l'età postunitaria (1861-1903): la poesia
• G. Carducci (n. 1835)
• G. Pascoli (n. 1855)
1875-1898: Giambi ed epodi (1882),
Rime nuove (1889), Odi barbare (1893),
Rime e ritmi (1898)
1891 prima edizione di Myricae, 1903
Canti di Castelvecchio
• G. D’Annunzio (n. 1863)
1889-1896 i grandi romanzi, da Il
Piacere a Le vergini delle rocce; 1903
Alcyone
Primamente intravidi il suo piè stretto
scorrere su per gli aghi arsi dei pini
ove estuava l'aere con grande
tremito, quasi bianca vampa effusa.
Le cicale si tacquero. Più rochi
si fecero i ruscelli. Copiosa
la résina gemette giù pe' fusti.
Riconobbi il colùbro dal sentore.
4
Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.
Scorsi l'ombre cerulee dei rami
su la schiena falcata, e i capei fulvi
nell'argento pallàdio trasvolare
senza suono. Più lungi, nella stoppia,
l'allodola balzò dal solco raso,
la chiamò, la chiamò per nome in cielo.
Allora anch'io per nome la chiamai.
12
Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea mèsse nel falasco
entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si torse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l'acque.
Il ponente schiumò ne' suoi capegli.
Immensa apparve, immensa nudità.
20
8
16
24
Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna,
e il colle sopra bianco di neve ride.
2
È l'ora soave che il sol morituro saluta
le torri e 'l tempio, divo Petronio, tuo;
4
le torri i cui merli tant'ala di secolo lambe,
e del solenne tempio la solitaria cima.
6
Il cielo in freddo fulgore adamàntino brilla;
e l'aer come velo d'argento giace
8
su 'l fòro, lieve sfumando a torno le moli
che levò cupe il braccio clipeato de gli avi.
10
Su gli alti fastigi s'indugia il sole guardando
con un sorriso languido di vïola,
12
che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone
par che risvegli l'anima de i secoli,
14
e un desio mesto pe 'l rigido aere sveglia
di rossi maggi, di calde aulenti sere,
16
quando le donne gentili danzavano in piazza
e co' i re vinti i consoli tornavano.
18
Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
un desiderio vano de la bellezza antica.
20
Dov'era la luna? ché il cielo
notava in un'alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù,
veniva una voce dai campi:
chiù...
4
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com'eco d'un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù...
12
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento;
squassavano le cavallette
finissimi sistri d'argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s'aprono più?...);
e c'era quel pianto di morte...
chiù...
20
8
16
24
l'età postunitaria (1861-1903)
F. De Sanctis (n. 1817) Storia della letteratura italiana (1870-71)
«La mia vita ha due pagine, una letteraria e l’altra politica, e non penso a
lacerare nessuna delle due: sono due doveri che continuerò fino all’ultimo».
«La questione critica fondamentale è questa: posti tali tempi, tali dottrine e
tali passioni, in che modo questa materia è stata lavorata dal poeta? In che
modo quella realtà egli l’ha fatta poesia?».
«La parola è potentissima, quando viene dall’anima, e mette in moto tutte
le facoltà dell’anima ne’ suoi lettori; ma quando il di dentro è vuoto, e la
parola non esprime che se stessa, riesce insipida e noiosa».
«La famiglia, la patria, la natura, l’amore sono per il poeta, com’era Dante,
cose reali, che riempiono la vita e le dànno uno scopo. Per il Petrarca sono
principalmente materia di rappresentazione: l’immagine per lui vale la
cosa»; «Gli è che a quest’uomo [Petrarca] mancava quella fede seria e
profonda nel proprio mondo, che fece di Caterina una santa e di Dante un
poeta. [...] È in abbozzo l’immagine de’ secoli seguenti, di cui fu idolo».
F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana
(Machiavelli)
• «Talora ti pare un romano avvolto nel pallio in quella sua gravità,
ma guardalo bene e ci troverai il borghese del Risorgimento [...].
Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno,
sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla
naturale»;
• «Quando Machiavelli scrivea queste cose, l’Italia si trastullava ne’
romanzi e nelle novelle, con lo straniero a casa. Era il popolo meno
serio del mondo e meno disciplinato. [...] Senza tempra, moralità,
religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario, quando la tempra si
rifà, si rifà tutto l’altro»;
• «Siamo dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui, quando
crolla alcuna parte dell’antico edificio. E gloria a lui, quando si
fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento che scrivo, le
campane suonano a distesa, e annunziano l’entrata degl’italiani a
Roma [20 settembre 1870]. Il potere temporale crolla. E si grida il
viva all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli».
Gli scrittori siciliani: da Verga a Camilleri
l'età postunitaria (1861-1903)
• G. Verga (n. 1840)
1880 Vita dei campi, 1881 I Malavoglia, 1883 Novelle rusticane,
1889 Mastro-don Gesualdo
«Lo scrittore grande è il celebratore della plebe del suo paese, la
campagna attorno a Catania. […] Verga ha tanti linguaggi quanti
sono gli strati ch’egli indaga, e li gestisce in parallelo. Dalla
‘simpatia’ verso i cosiddetti umili del Verga, che personalmente
era conservatore come i ‘galantuomini’ alla cui classe
apparteneva, non è lecita alcuna illazione di carattere politico: il
Verga rusticano è il frutto più meraviglioso dell’oggettività e
della sperimentazione veristica. […] La narrazione si fa di suo,
come è stata detta, epica e favolosa, autorevolmente remota nel
referto d’un eterno presente» (Contini).
G. Verga, I Malavoglia, Prefazione (1)
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come
probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni
le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba
arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la
vaga bramosìa dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si
potrebbe star meglio.
Il movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso
è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e
materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle
basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior
precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e
il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di
cui l'uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e
segue il suo moto ascendente nelle classi sociali.
G. Verga, I Malavoglia, Prefazione (2)
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue
l'umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel
suo risultato, visto nell'insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che
l'accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le
passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che
aiutano l'immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi
la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c'è di meschino
negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come
mezzi necessari a stimolare l'attività dell'individuo cooperante
inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo
universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate
ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a
raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce
dove vada questa immensa corrente dell'attività umana, non si domanda
al certo come ci va. Solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana,
guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano
per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più
presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il
piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi,
avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani.
G. Verga, I Malavoglia, cap. I (1)
Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada
vecchia di Trezza; ce n'erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti
buona e brava gente di mare, proprio all'opposto di quel che sembrava
dal nomignolo, come dev'essere. Veramente nel libro della parrocchia si
chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il
mondo era mondo, all'Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano
sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre
avuto delle barche sull'acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non
rimanevano che i Malavoglia di padron ‘Ntoni, quelli della casa del
nespolo, e della Provvidenza ch'era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio,
accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato
Cipolla.
Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia,
erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca
ammarrata sotto il lavatoio; e padron ‘Ntoni, per spiegare il miracolo,
soleva dire, mostrando il pugno chiuso – un pugno che sembrava fatto di
legno di noce - «Per menare il remo bisogna che le cinque dita s'aiutino
l'un l'altro».
Diceva pure, «Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso
deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo».
G. Verga, I Malavoglia, cap. I (2)
E la famigliuola di padron ‘Ntoni era realmente disposta come le dita della mano.
Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant'ore; poi suo
figlio Bastiano, Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo
che c'era dipinto sotto l'arco della pescheria della città; e così grande e grosso
com'era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso
se suo padre non gli avesse detto «sòffiati il naso» tanto che s'era tolta in moglie
la Longa quando gli avevano detto «pìgliatela». Poi veniva la Longa, una piccina
che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i
nipoti, in ordine di anzianità: ‘Ntoni, il maggiore, un bighellone di vent'anni, che
si buscava tutt'ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per
rimettere l'equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che
aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena)
soprannominata «Sant'Agata» perché stava sempre al telaio, e si suol dire
«donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un
moccioso tutto suo nonno colui! ; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. – Alla
domenica, quando entravano in chiesa, l'uno dietro l'altro, pareva una
processione.
Padron ‘Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli
antichi, «perché il motto degli antichi mai mentì»: – «Senza pilota barca non
cammina» – «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» – oppure – «Fa il
mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» – «Contentati di quel che t'ha
fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose.
1860-1903: la narrativa
• la linea verista: G. Verga (1881, I Malavoglia), L. Capuana, F.
De Roberto (I Viceré, 1894)
• la linea scapigliata: Milano, post 1860 (Carlo Alberto Pisani
Dossi, La vita di Alberto Pisani scritta da Carlo Dossi, 1870)
• la linea antipositivista e spiritualista di Emilio De Marchi
(Demetrio Pianelli, 1890) e soprattutto Antonio Fogazzaro
(Piccolo mondo antico, 1895).
• la linea degli scrittori per l’infanzia: Le avventure di Pinocchio
di Collodi (1883); Cuore di Edmondo De Amicis (1886)
• Gabriele D’Annunzio: tra estetismo (Il piacere, 1889) e
superomismo (Le Vergini delle Rocce, 1895)
Carlo Dossi, Vita di Alberto Pisani, 1870
Cap. IV
Degno di paracelso! È lo studio degli studi. Sente il tabacco, l'inchiostro e la
citazione latina. È a tramontana, a terreno; è a volta da cui die' in fuori
l'umidità. Tien le pareti, tutte a scaffali, con su spaventosi volumi in ramatina
come il sospiro dei gatti. Ecco i dieci schienali arabescati di oro della rarìssima
òpera "de nùmero atomorum"; presso, è la completa voluminosa sèrie delle
gramàtiche (gramàtica, cioè a dire, il modo con cui si apprende a piedi il
montare a cavallo); poi, raccolta delle più massiccie disputazioni... e quella sulla
parola culex, e l'altra intorno alla lèttera e considerata siccome còpula, e la
arcifiera "sulla natura dell'aurèola del Monte Tàbor". Ed ecco, in un tratto
dell'ùltimo palco, il famoso trattato "de nuce beneventana" quaranta tomi inoctavo, vestiti di pergamena, i quali, per il manco di uno, sèmbran dentiera
priva di un dente occhiale; ecco - tagliando corto - una infinita turba di
libraccioni, e nelle scansìe e fuori... spècula, theatra, convìa, thesàuri... di
astrologìa, teologìa, etimologìa, ed altre scienze in ìa - tutta marròca.
Carlo Dossi, Vita di Alberto Pisani, 1870
Cap. I
Un dopo-pranzo di estate; il sole fà da trìpoli ancora alle gronde, e
stelleggia i vetri a Praverde. Praverde è una brigata di case attorno di
un campanile su 'n monticello isolato.
Sotto di lui, la pianura. L'occhio, dall'alto, non si lascia mai di còrrere
lungo le viti a festone ed i filari di gelsi dalle seguaci ombrettine; di
attraversare i verdi pratelli solcati di rivoletti e i campi dalle ande quasi
a riga e compasso; nè di girare e le cascine e i tuguri, così puliti, così di
pace... in distanza, saltando e risaltando canali, siepi, sentieri. E, come
si avesse innanzi una gran planimetrìa a colori.
Ma, da lontano, un rintrono. Che vi ha? Niun contadino astròloga il
cielo. Vi ha un temporale, ma è copia; quello dell'uomo; cattivo mille
volte di più; mille di meno, maestoso.
Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, 1890
Verso mezzodí Cesarino Pianelli, cassiere aggiunto, vide entrare nell’ufficio il
cassiere Martini piú pallido del solito, col viso stravolto, con un telegramma in
mano. «Ebbene?» gli domandò, «che notizie mi dà?» «Bisogna che io parta
immediatamente. È moribonda!» rispose il Martini, con un groppo alla gola che
gli mozzò le parole. Povero diavolo! L’aveva sposata da poco piú di un anno e
dopo un anno di tribolazioni, e quasi di agonia continua la poverina moriva
consunta a Nervi, dove il medico l’aveva mandata a passare l’inverno. «Vada,
vada, Martini, resto io. Si faccia coraggio, vedrà. La gioventú si aiuta sempre.»
«Dovrei avvertire il commendatore, ma la corsa parte alle dodici e
quarantacinque e non ho tempo. Gli scriverò appena potrò. Guardi, Pianelli,
chiudo in questa cassa i valori principali e lascio a lei la chiave di quest’altra
cassa. Vuole che gliene faccia la consegna? Saranno dieci o dodici mila lire in
tutto.» «Se lei si fida di me, per conto mio non ho bisogno di consegna»
soggiunse il cassiere aggiunto, tutto commosso e premuroso. «Mi fa una carità.
Tenga conto del movimento di cassa e basta.» «Si fidi di me: vada, non perda
tempo» disse premurosamente il Pianelli, confrontando il suo orologio con
quello elettrico del cortile. «Se c’è bisogno, mi telegrafi.» «Si faccia animo; fin
che c’è vita, c’è speranza.» «Grazie» balbettò il Martini. Strinse la mano al
Pianelli, sforzandosi di ingoiare le sue lagrime e se ne andò. «Povero diavolo!»
mormorò l’altro, tornando al suo posto. «Se c’è un galantuomo, gli càpitano
tutte.»
Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, 1890
Verso mezzodí Cesarino Pianelli, cassiere aggiunto, vide entrare nell’ufficio il
cassiere Martini piú pallido del solito, col viso stravolto, con un telegramma in
mano. «Ebbene?» gli domandò, «che notizie mi dà?» «Bisogna che io parta
immediatamente. È moribonda!» rispose il Martini, con un groppo alla gola che
gli mozzò le parole. Povero diavolo! L’aveva sposata da poco piú di un anno e
dopo un anno di tribolazioni, e quasi di agonia continua la poverina moriva
consunta a Nervi, dove il medico l’aveva mandata a passare l’inverno. «Vada,
vada, Martini, resto io. Si faccia coraggio, vedrà. La gioventú si aiuta sempre.»
«Dovrei avvertire il commendatore, ma la corsa parte alle dodici e
quarantacinque e non ho tempo. Gli scriverò appena potrò. Guardi, Pianelli,
chiudo in questa cassa i valori principali e lascio a lei la chiave di quest’altra
cassa. Vuole che gliene faccia la consegna? Saranno dieci o dodici mila lire in
tutto.» «Se lei si fida di me, per conto mio non ho bisogno di consegna»
soggiunse il cassiere aggiunto, tutto commosso e premuroso. «Mi fa una carità.
Tenga conto del movimento di cassa e basta.» «Si fidi di me: vada, non perda
tempo» disse premurosamente il Pianelli, confrontando il suo orologio con
quello elettrico del cortile. «Se c’è bisogno, mi telegrafi.» «Si faccia animo; fin
che c’è vita, c’è speranza.» «Grazie» balbettò il Martini. Strinse la mano al
Pianelli, sforzandosi di ingoiare le sue lagrime e se ne andò. «Povero diavolo!»
mormorò l’altro, tornando al suo posto. «Se c’è un galantuomo, gli càpitano
tutte.»
Antonio Fogazzaro, Piccolo mondo antico, 1895
Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di voler cacciar le nubi
grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri delle montagne. Infatti, quando i
Pasotti, scendendo da Albogasio Superiore, arrivarono a Casarico, non
pioveva ancora. Le onde stramazzavano tuonando sulla riva,
sconquassavan le barche incatenate, mostravano qua e là, sino
all'opposta sponda austera del Doi, un lingueggiar di spume bianche.
Ma giù a ponente, in fondo al lago, si vedeva un chiaro, un principio di
calma, una stanchezza della breva; e dietro al cupo monte di Caprino
usciva il primo fumo di pioggia. Pasotti, in soprabito nero di cerimonia,
col cappello a staio in testa e la grossa mazza di bambù in mano,
camminava nervoso per la riva, guardava di qua, guardava di là, si
fermava a picchiar forte la mazza a terra, chiamando quell'asino di
barcaiuolo che non compariva.
Il piccolo battello nero con i cuscini rossi, la tenda bianca e rossa, il
sedile posticcio di parata piantato a traverso, i remi pronti e incrociati a
poppa, si dibatteva, percosso dalle onde, fra due barconi carichi di
carbone che oscillavano appena.
Antonio Fogazzaro, Piccolo mondo antico, 1895
Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di voler cacciar le nubi
grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri delle montagne. Infatti, quando i
Pasotti, scendendo da Albogasio Superiore, arrivarono a Casarico, non
pioveva ancora. Le onde stramazzavano tuonando sulla riva,
sconquassavan le barche incatenate, mostravano qua e là, sino
all'opposta sponda austera del Doi, un lingueggiar di spume bianche.
Ma giù a ponente, in fondo al lago, si vedeva un chiaro, un principio di
calma, una stanchezza della breva; e dietro al cupo monte di Caprino
usciva il primo fumo di pioggia. Pasotti, in soprabito nero di cerimonia,
col cappello a staio in testa e la grossa mazza di bambù in mano,
camminava nervoso per la riva, guardava di qua, guardava di là, si
fermava a picchiar forte la mazza a terra, chiamando quell'asino di
barcaiuolo che non compariva.
Il piccolo battello nero con i cuscini rossi, la tenda bianca e rossa, il
sedile posticcio di parata piantato a traverso, i remi pronti e incrociati
a poppa, si dibatteva, percosso dalle onde, fra due barconi carichi di
carbone che oscillavano appena.
Gabriele D’Annunzio, Il piacere, 1889
L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che
tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie
erano popolose come nelle domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini, su la
piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle
due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de' Monti, alla via
Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan ne' vasi i
fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che
si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un giglio
adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di
Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in
eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi
e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno
rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel
caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica
di Castel Durante ornate d'istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme
d'inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara
nera esametri d'Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso
a melagrane d'argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i
vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe
di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo
dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a
similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel
tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese.
Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal
forma: i fiori entro quella prigione diafana paion
quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una
religiosa o amorosa offerta.
1904-1926 La narrativa
1904, Il fu Mattia Pascal di L. Pirandello
1912, Il mio Carso di S. Slataper
1913, Canne al vento di G. Deledda; Un
uomo finito di G. Papini [I vecchi e i
giovani di L. Pirandello]
1919, Con me e con gli alpini di P. Jahier
1920, Pesci rossi di O. Cecchi
1921 Il podere di F. Tozzi
1923, La coscienza di Zeno di I. Svevo
1926, Uno, nessuno e centomila di L.
Pirandello
E. Montale, da Ossi di seppia, 1925
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
(datato 10 luglio 1923)
Il mondo di Ossi di seppia è un mondo negativo: secondo
luoghi diventati proverbiali, il poeta si sofferma a
descrivere il «male di vivere» che ha incontrato, e non è
in grado di dire al suo lettore che «ciò che non siamo, ciò
che non vogliamo». […] Non è remunerato da quel
minimo di vitalità che inerisce anche all’operazione
poetica, come appare luminosamente (e da lui pure
asserito in modo esplicito) nel maggiore dei poeti
«negativi», Giacomo Leopardi. Si aggiunga che la
radicalità della poesia negativa è sottolineata dalla
mancanza di qualsiasi ostentazione rivoluzionaria tanto
nel linguaggio, di cui è facilmente dimostrabile la
continuità con la tradizione fino al Pascoli e al Gozzano,
quanto nella metrica, che, sia pure in forme non
vincolate, libera frequentemente misure tradizionali e
rime.
(G. Contini)
1904-1926 La narrativa
1904, Il fu Mattia Pascal di L. Pirandello
1912, Il mio Carso di S. Slataper
1913, Canne al vento di G. Deledda; Un
uomo finito di G. Papini [I vecchi e i
giovani di L. Pirandello]
1919, Con me e con gli alpini di P. Jahier
1920, Pesci rossi di O. Cecchi
1921 Il podere di F. Tozzi
1923, La coscienza di Zeno di I. Svevo
1926, Uno, nessuno e centomila di L.
Pirandello
L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, 1904
Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi
chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici
o conoscenti dimostrava d'aver perduto il senno fino al punto di venire da me per
qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli
rispondevo: Io mi chiamo Mattia Pascal.
Grazie caro. Questo lo so.
- E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse
dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima,
all'occorrenza: - Io mi chiamo Mattia Pascal.
Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l'atroce cordoglio
d'un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt'a un tratto che... sì, niente, insomma:
né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa
anche meno) della corruzione dei costumi, e de' vizii, e della tristezza dei tempi, che di
tanto male possono esser cagione a un povero innocente.
Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di
questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l'origine e la discendenza
della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e
mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non
tutte veramente lodevoli.
E allora? Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi
faccio a narrarlo.
L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 1926
– Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente
indugiare davanti allo specchio.
– Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice.
Premendo, avverto un certo dolorino.
Mia moglie sorrise e disse:
– Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
– Mi pende? A me? Il naso?
E mia moglie, placidamente:
– Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.
Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non
proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti
della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel
che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto
la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire
per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto
perciò mi stizzí come un immeritato castigo.
Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Prefazione 1923
Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole
poco lusinghiere. Chi di psicoanalisi s'intende, sa dove piazzare
l'antipatia che il paziente mi dedica.
Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a
sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la
sua autobiografia; gli studiosi di psicoanalisi arriccerranno il naso a tanta
novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo
passato si rinverdisse, che l'autobiografia fosse un buon preludio alla
psicoanalisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato
dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più
bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia
lunga paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch'io sono
pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa
pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se
stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento
delle tante verità e bugie ch'egli ha qui accumulate!... DOTTOR S.
1904-1926 La narrativa
1904, Il fu Mattia Pascal di L. Pirandello
1912, Il mio Carso di S. Slataper
1913, Canne al vento di G. Deledda; Un
uomo finito di G. Papini [I vecchi e i
giovani di L. Pirandello]
1919, Con me e con gli alpini di P. Jahier
1920, Pesci rossi di O. Cecchi
1921 Il podere di F. Tozzi
1923, La coscienza di Zeno di I. Svevo
1926, Uno, nessuno e centomila di L.
Pirandello
G. Contini, Introduzione a
C.E. Gadda, La cognizione del dolore, 1963
Verga gestisce i suoi esperimenti in vitro con ineccepibile
obbiettività positivistica, un’obbiettività talmente geniale da
farsi prendere (oggi) per carità. Ma partecipazione e
corresponsabilità bisogna cercarle all’altezza del neoverismo,
o piuttosto di Pavese; che nell’invenzione narrativa gioca
qualcosa di assai vicino alla salute della sua anima. […] E’
ovvio destino degli iniziatori che il loro impulso, coniugato a
moventi allotri, si specializzi secondo finalità non coincidenti
con le loro. […] Come il primo, così il secondo verismo ebbe
rapidamente i suoi illustratori paesano, d’una qualità che
anche per i tempi moderni si vorrebbe sempre comparabile
alla sostenutezza benpensante dei Fogazzaro, dei De Marchi,
delle Deledda.
Grazia Deledda, Canne al vento, 1913
Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a
rinforzare l'argine primitivo da lui stesso costruito un po' per
volta a furia d'anni e di fatica, giú in fondo al poderetto lungo il
fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall'alto,
seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a
mezza costa sulla bianca collina dei Colombi. Eccolo tutto ai
suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d'acque nel
crepuscolo, il poderetto che Efix considerava piú suo che delle
sue padrone: trent'anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben
suo, e le siepi di fichi d'India che lo chiudono dall'alto in basso
come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla
collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo.
Il servo non guardava al di là del poderetto anche perché i
terreni da una parte e dall'altra erano un tempo appartenuti
alle sue padrone: perché ricordare il passato? Rimpianto
inutile. Meglio pensare all'avvenire e sperare nell'aiuto di Dio.
Federigo Tozzi: una vita ‘esemplare’
• 1883, nasce a Siena, ultimo di otto figli e unico a sopravvivere, da
una coppia di contadini trasferitisi in città. Il padre, violento volgare
e autoritario, gestisce una trattoria; la madre, malata di epilessia,
muore nel 1895
• Espulso dal Seminario Arcivescovile e dall’Istituto di Belle Arti per
cattiva condotta, studia alle scuole tecniche
• 1901, si iscrive al Partito socialista; inizia l’inquieta relazione con la
contadina Isola, che nel 1902 lascia per Emma
• 1904, una malattia infettiva agli occhi lo costringe a rimanere al
buio per mesi
• 1908, viene assunto dalle Ferrovie dello Stato, come impiegato alla
stazione di Pontedera; muore il padre; sposa Emma e si stabilisce
nel podere di famiglia dove si dedica alla lettura e alla scrittura
• 1914, si trasferisce a Roma
• 1917, pubblica la raccolta di prose Bestie
• 1918, scrive di getto Il podere e tre croci
• 1919, pubblica il romanzo Con gli occhi chiusi
• 1920, muore a Roma di polmonite
Federigo Tozzi, Il podere, 1921
Nel millenovecento, Remigio Selmi aveva venti anni; ed era aiuto applicato
alla stazione di Campiglia. Da parecchio tempo stava in discordia con il padre
e non sapeva che al suo piede bucato da una bulletta delle scarpe era ormai
venuta anche la cancrena. Invece credeva che stesse meglio; senza sospettare
che, se non gliene facevano sapere niente, volevano tenerlo lontano da casa
più che fosse possibile. Ma una sera ricevette una cartolina dal chirurgo che lo
curava; nella quale era scritto che la malattia non dava più da sperare. La fece
leggere al capostazione; ed ebbe il permesso di partire subito, con il diretto
che era per passare. Arrivò alla Casuccia la notte: tre miglia da Siena, fuor di
Porta Romana; e, trovato l’uscio aperto, entrò nella camera del padre senza
che prima nessuno lo vedesse.
Giacomo era desto e appoggiato a quattro guanciali; mentre due delle
assalariate, Gegia e Dinda, gli sostenevano le braccia lungo la coperta, attente
a mettergliele in un altro modo quando non poteva stare più nella stessa
positura. Sopra il canterano, una lucernina di ottone; con tutti e quattro i
beccucci accesi.
Remigio salì in ginocchio sul letto. Ma Giacomo, che aveva la testa ciondoloni
sul petto e gli occhi chiusi, non se ne accorse né meno. Allora, gli chiese:
«Non mi riconosci?»
S. Freud, Al di là del principio di piacere, 1921
«Empedocle di Agrigento, nato all'incirca
nel 495 a.C., si presenta come una figura fra
le più eminenti e singolari della storia della
civiltà greca. [...] Il nostro interesse si
accentra su quella dottrina di Empedocle
che si avvicina talmente alla dottrina
psicoanalitica delle pulsioni, da indurci
nella tentazione di affermare che le due
dottrine sarebbero identiche se non fosse
per un'unica differenza: quella del filosofo
greco è una fantasia cosmica, la nostra
aspira più modestamente a una validità
biologica. [...] I due principi fondamentali di
Empedocle – philìa (amore, amicizia) e
neikos (discordia, odio) – sia per il nome
che per la funzione che assolvono, sono la
stessa cosa delle nostre due pulsioni
originarie Eros e Distruzione».
S. Slataper, Il mio Carso (1912)
Vorrei dirvi: Sono nato in carso, in una casupola col tetto di paglia annerita
dalle piove e dal fumo. C'era un cane spelacchiato e rauco, due oche
infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio quasi
senza strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro.
Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri. D'inverno
tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la
notte sentivo urlare i lupi. Mamma m'infagottava con cenci le mani gonfie e
rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo.
Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i
lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra,
sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi son venuto qui, ho
tentato di addomesticarmi, ho imparato l'italiano, ho scelto gli amici fra i
giovani piú colti; ma presto devo tornare in patria perché qui sto molto male.
Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi
capireste subito che sono un povero italiano che cerca d'imbarbarire le sue
solitarie preoccupazioni. È meglio ch'io confessi d'esservi fratello, anche se
talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra
coltura e ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di voi. Le vostre obiezioni
mi chiudono a poco a poco in gabbia, mentre v'ascolto disinteressato e
contento, e non m'accorgo che voi state gustando la vostra intelligente
bravura. E allora divento rosso e zitto, nell'angolo del tavolino; e penso alla
consolazione dei grandi alberi aperti al vento.
G. Papini, Un uomo finito (1913)
Io non son mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza.
Calde e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell'innocenza;
sorprese della scoperta quotidiana dell'universo: che son mai? Non le conosco o
non le rammento. L'ho sapute dai libri, dopo; le indovino, ora, nei ragazzi che vedo;
l’ho sentite e provate per la .prima volta in me, passati i vent'anni, in qualche attimo
felice di armistizio o di abbandono. Fanciullezza è amore, è letizia, è spensieratezza
ed io mi vedo nel passato, sempre, separato, triste, meditante.
Fin da ragazzo mi son sentito tremendamente solo e diverso — né so il perchè.
Forse perchè i miei eran poveri o perchè non ero nato come gli altri ? Non so :
ricordo soltanto che una zia giovane mi dette il soprannome di vecchio a sei o
sett'anni e che tutti i parenti l'accettarono. E difatti me ne stavo il più del tempo
serio e accigliato: discorrevo pochissimo, anche cogli altri ragazzi ; i complimenti mi
davan noia ; i gestri mi facevan dispetto ; e al chiasso sfrenato dei compagni dell'età
più bella preferivo la solitudine dei cantucci più riparati della nostra casa piccina,
povera e buia. Ero, insomma, quel che le signore col cappello chiamano un
«bambino scontroso» e le donne in capelli «un rospo».
Avevan ragione : dovevo essere, ed ero, tremendamente antipatico a tutti. E mi
ricordo che sentivo benissimo intorno a me questa antipatia la quale mi faceva più
timido, più malinconico, più imbronciato che mai.
Benedetto Croce 1866-1952
1902, Estetica ; 1908, L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte;
1918, Carattere di totalità dell’espressione artistica; 1936, La poesia
I.
arte = (1) intuizione pura, (2) attività dello spirito anteriore a
ogni logica o ragione o giudizio, (3) forma di conoscenza
primitiva e aurorale,(4) espressione e compendio del cuore
dell’uomo
II. identità e simultaneità di intuizione ed espressione (o forma) =
sintesi a priori
III. autonomia dell’arte >< eteronomia dell’arte (che fa dipendere il
valore dell’arte da valori estrinseci come l’edificazione morale, la
conoscenza logica, il piacere estetizzante)
IV. distinzione di poesia e non poesia (la prima come folgorazione
istantanea, come espressione dell’universale che è in noi; la
seconda come costume oratorio).
Benedetto Croce
• Filosofia: La logica come scienza del concetto
puro, ed. definitiva 1909
• Storiografia: Storia dell’età barocca in Italia
del 1920; Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928
• Filologia: Lirici marinisti, 1910
• Critica letteraria: Ariosto, 1920
• Autobiografia: Contributo alla critica di me
stesso, 1918 (con una finale postilla del 1950)
B. Croce, Contributo alla critica di
me stesso, 1918
1903-1925 La poesia
1903 Govoni, Armonia in grigio et in silenzio
1907 Gozzano, La via del rifugio
1910 Moretti, Poesie scritte col lapis; [Palazzeschi, L’incendiario]
1911 Gozzano, I colloqui; Moretti, Poesie di tutti i giorni; Sbarbaro,
Resine; Saba, Poesie
1912 [Fòlgore, Il canto dei motori]
1913 Rebora, Frammenti lirici
1914 Campana, Canti orfici; Sbarbaro, Pianissimo; Bacchelli, Poemi
lirici; [Marinetti, Zang Tumb Tumb]
1915 [Govoni, Rarefazioni e parole in libertà]
1916 Cardarelli, Prologhi; Ungaretti, Il porto sepolto
1918 Boine, Frantumi
1919 Ungaretti, Allegria di naufragi
1920 Cardarelli, Viaggi nel tempo
1921 Saba, Canzoniere
1922 Rebora, Canti anonimi
1925 Montale, Ossi di seppia
I poeti del Novecento: le generazioni
(O. Macrì, Le generazioni nella poesia italiana del Novecento, 1953)
• I generazione: autori nati tra il 1883 e il 1890
G. Gozzano e gli altri poeti crepuscolari
D. Campana (CO 14), C. Rebora (FL 13), C. Sbarbaro (P 14),
U. Saba (C 21), V. Cardarelli (P 16), G. Ungaretti (PS 16), A. Palazzeschi
• II generazione: autori nati tra il 1894 e il 1901
E. Montale (OS 25), S. Quasimodo (AT 30), C. Betocchi (RVS 32), S. Solmi
• III generazione: autori nati tra il 1906 e il 1914
S. Penna, C. Pavese (LS 36), L. Sinisgalli (CE 39), A. Gatto, A. Bertolucci, G. Caproni,
V. Sereni (F 41), M. Luzi (B 35), P. Bigongiari
• [IV generazione: autori nati tra il 1921 e il 1928]
A. Zanzotto (DP 51), G. Orelli, P.P. Pasolini (MG 54), G. Giudici, L. Erba, B. Cattafi
• [V generazione: autori nati tra il 1930 e il 1935]
A. Rosselli (VB 64), E. Saguineti (L 56), G. Raboni (CV 66), A. Porta
Guido Gozzano, 1883-1916
Il suo verso, e in particolare l’endecasillabo, in cui fa le sue prove
migliori, applica una sonorità dannunziana e una dilatazione pascoliana
(nel senso che fu definito dal Serra) a una materia prosaica che non
esclude affatto, nel suo caso, la partecipazione al canto. Con questo, va
tuttavia ridotto il credito fatto un po’ troppo corrivamente alla tecnica
del Gozzano […]: il suo lassismo nel computo delle sillabe,
nell’esattezza delle rime, nell’obbedienza agli schemi formali indica che
con questo poeta d’innegabile dono si è avuta, rispetto ai maestri, e
soprattutto rispetto al Pascoli, una netta discesa culturale; che fu una
componente non trascurabile, se pur preterintenzionale, della fortuna
del verso libero in Italia. […] Ma dov’è lo stimolo poetico del Gozzano?
Egli rappresenta, con molta compiacenza verso se stesso, la sua parte
di morituro, costretto a viaggi esotici per scansare il viaggio definitivo,
fissato nel suo ruolo, se non d’infante come il Corazzini, di goliardico
adolescente, di eterno amatore di «cameriste», sartine e anche
(cinicamente) «signorine»; ma lo schermo, non tragico bensì elegiaco e
non privo di voluttà, della morte intercala una certa distanza rispetto al
presente e gli contente di fruirlo solo come deposito di passato o come
aggancio a «ipotesi» future o immaginarie.
(da G. Contini)
G. Gozzano, La signorina Felicita ovvero la felicità
(in I Colloqui, 1911), vv. 1-24
10 luglio: santa Felicita
Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.
Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l’orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa…
Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè,
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.
Vill’Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.
vv. 1-2, V. Sereni, Concerto in giardino, in
Frontiera 1941: «A quest’ora / innaffiano i
giardini in tutta Europa»
v. 5, G. Carducci, Piemonte, in Rime e ritmi
1899: «Ivrea la bella che le rosse torri /
specchia sognando a la cerulea Dora»
v. 6, dolce paese in Carducci e Pascoli
vv. 17-18, E. Montale, Meriggiare pallido e assorto,
in OS 1925: «in questo seguitare una muraglia /
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia»
v. 22, E. Montale, I limoni, in OS 1925: «soltanto a
pezzi, in alto, tra le cimase» (in rima con case).
O carro vuoto sul binario morto,
ecco per te la merce rude d’urti
e tonfi. Gravido ora pesi
sui telai tesi;
ma nei rantoli gonfi
si crolla fumida e viene
annusando con fascino orribile
la macchina ad aggiogarti.
Via dal tuo spazio assorto
all’aspro rullare d’acciaio
al trabalzante stridere dei freni,
incatenato nel gregge
per l’immutabile legge
del continuo aperto cammino:
C. Rebora, da Frammenti lirici, 1913
e trascinato tramandi
e irrigidito rattieni
le chiuse forze inespresse
su ruote vicine e rotaie
incongiungibili e oppresse,
sotto il ciel che balzàno
nel labirinto dei giorni
nel bivio delle stagioni
contro la noia sguinzaglia l’eterno,
verso l’amore pertugia l’esteso,
e non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe,
mentre la terra gli chiede il suo verbo
e appassionata nel volere acerbo
paga col sangue, sola, la sua fede.
Mario Sironi, Periferia, 1922, Collezione privata
Padre che muori tutti i giorni un poco,
e ti scema la mente e più non vedi
con allargati occhi che i tuoi figli,
e di te non t'accorgi e non rimpiangi,
se penso la fortezza colla quale
hai vissuto, il disprezzo ch'hai portato
a tutto ciò che è piccolo e meschino,
sotto la rude scorza
l'istintiva poesia della tua anima,
il bene ch'hai voluto alla tua madre,
a tua sorella ingrata, a nostra madre
morta,
tutta la vita tua sacrificata,
e poi ti guardo così come sei
io mi torco in silenzio le mie mani.
Contro l'indifferenza della vita
vedo inutile anch'essa la virtù,
e provo forte come non ho mai
il senso della nostra solitudine.
Io voglio confessarmi a tutti, padre
che ridi se mi vedi e tremi quando
d'una qualche attenzion ti faccio segno,
di quanto fui vigliacco verso te.
Benché il rimorso mi si alleggerisca
che più giusto sarebbe mi pesasse
inconfessato sempre sopra il cuore.
Io giovinetto imberbe, t’ho guardato
con ira, padre, per la tua vecchiezza.
Stizza contro te vecchio mi prendeva.
Padre che ci hai tenuto sui ginocchi
nella stanza che si oscurava, in faccia
alla finestra, e contavamo i lumi
di cui si punteggiava la collina
facendo a gara a chi vedeva primo,
perdono non ti chiedo con le lacrime
che mi sarebbe troppo dolce piangere,
ma con quelle più amare te lo chiedo
che non vogliono uscirmi dai miei occhi.
Un pensiero soltanto mi conforta
di poterti guardar con gli occhi asciutti,
il ricordo che piccolo, pensando
che come gli altri uomini dovevi
morire pure tu, il nostro padre,
solo e zitto nel mio letto la notte
io di sbigottimento lagrimavo.
Di quello che i miei occhi ora non piangono
quell'infantile pianto mi consola,
padre, perché mi par d'aver lasciata
tutta la fanciullezza in quelle lacrime.
Se potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei.
Di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te
povero padre, per la fiera gioja
di finir tristemente come te. Camillo Sbarbaro, da Pianissimo, 1914
1903-1925 La poesia
1903 Govoni, Armonia in grigio et in silenzio
1907 Gozzano, La via del rifugio
1910 Moretti, Poesie scritte col lapis; [Palazzeschi, L’incendiario]
1911 Gozzano, I colloqui; Moretti, Poesie di tutti i giorni; Sbarbaro,
Resine; Saba, Poesie
1912 [Fòlgore, Il canto dei motori]
1913 Rebora, Frammenti lirici
1914 Campana, Canti orfici; Sbarbaro, Pianissimo; Bacchelli, Poemi
lirici; [Marinetti, Zang Tumb Tumb]
1915 [Govoni, Rarefazioni e parole in libertà]
1916 Cardarelli, Prologhi; Ungaretti, Il porto sepolto
1918 Boine, Frantumi
1919 Ungaretti, Allegria di naufragi
1920 Cardarelli, Viaggi nel tempo
1921 Saba, Canzoniere
1922 Rebora, Canti anonimi
1925 Montale, Ossi di seppia
La luce del crepuscolo si attenua:
Inquieti spiriti sia dolce la tenebra
Al cuore che non ama più!
Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,
Sorgenti, sorgenti che sanno
Sorgenti che sanno che spiriti stanno
Che spiriti stanno a ascoltare…
Ascolta: la luce del crepuscolo attenua
Ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:
Ascolta: ti ha vinto la Sorte:
Ma per i cuori leggeri un'altra vita è alle porte:
Non c'è di dolcezza che possa uguagliare la Morte
Più Più Più
Intendi chi ancora ti culla:
Intendi la dolce fanciulla
Che dice all'orecchio: Più Più
Ed ecco si leva e scompare
D. Campana, Il canto della
Il vento: ecco torna dal mare
Ed ecco sentiamo ansimare
tenebra, in Canti orfici, 1914
Il cuore che ci amò di più!
Guardiamo: di già il paesaggio
Degli alberi e l'acque è notturno
Il fiume va via taciturno…
Pùm! Mamma quell'omo lassù!
Il «cubismo orfico» (G. Apollinaire)
F. Léger, Nudi nella foresta, 1909-10,
Otterlo, Rijksmuseum
F. Léger, Donna in blu, 1912,
Basel, Kunstmuseum
V. Cardarelli, Saluto di stagione, in Prologhi, 1916
Benvenuta estate.
Alla tua decisa maturità
m'affido.
Mi poserò ai tuoi soli,
ricambierò alla terra
in tanto sudore caldo
delle mie adempiute nutrizioni
i suoi veleni vitali.
Lascio la primavera
dietro di me
come un amore insano
d'adolescente.
Lascio i languori e le ottusità,
i sonni impossibili,
le faticose inerzie animali,
il tempo neutro e vuoto
in cui l'uomo è stagione.
Io che non spunto a febbraio coi mandorli,
non mi compiaccio all'arido sapore
di sasso che acuisce
il gusto dolce dell'acqua dei rivi,
alle gocciole chete
di nuvola randagia
che vanno in punta di piedi
in compagnia dei pensieri,
non colgo il biancospino;
che amo i tempi fermi e le superfici chiare,
e ad ogni transizione di meriggio,
rotta l'astrale identità del mattino,
avverto gli spazi irritarsi,
e sento il limite e il male
che incrinano ogni cambio d'ora,
saluto nel sol d'estate
la forza dei giorni più eguali.
Ai punti estremi, alle stagioni violente,
come sotto il frantoio dei pericoli
dove ogni inquietudine si schianta
prendo le sole decisioni buone,
la mia fuggiasca fecondità
ritrovo.
Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un' erta,
popolosa in principio, in là deserta,
U. Saba, La capra e Trieste,
chiusa da un muricciolo:
da Canzoniere, 1921
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Ho parlato a una capra.
Trieste ha una scontrosa
Era sola sul prato, era legata.
grazia. Se piace,
Sazia d’erba, bagnata
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
dalla pioggia, belava.
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
Quell’uguale belato era fraterno
con gelosia.
al mio dolore. Ed io risposi, prima
Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via
per celia, poi perché il dolore è eterno, scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
ha una voce e non varia.
cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.
Questa voce sentiva
Intorno
gemere in una capra solitaria.
circola ad ogni cosa
un' aria strana, un' aria tormentosa,
l'aria natia.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
La mia città che in ogni parte è viva,
ogni altra vita.
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
PROGRAMMA D’ESAME
1. Manuale di riferimento (G. Contini, La letteratura dell’Italia unita 1861-1968)
Autori da preparare: Francesco De Sanctis, Graziadio Isaia Ascoli, Giosue
Carducci, Giovanni Verga, Antonio Fogazzaro, Emilio De Marchi, Carlo Dossi,
Carlo Collodi, Giovanni Pascoli, Gabriele D’Annunzio, Benedetto Croce, Carlo
Levi, Italo Svevo, Luigi Pirandello, Guido Gozzano, Giovanni Papini, Piero Jahier,
Clemente Rebora, Dino Campana, Scipio Slataper, Camillo Sbarbaro, Vincenzo
Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Umberto Saba, Anna Banti,
Elio Vittorini, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Salvatore Quasimodo, Mario Luzi,
Vittorio Sereni, Federigo Tozzi, Alberto Moravia, Cesare Pavese, Italo Calvino,
Beppe Fenoglio, Vasco Pratolini, Pier Paolo Pasolini, Carlo Emilio Gadda
2. Letture domestiche (una, a scelta, delle opere seguenti)
• F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana;
• G. Verga, I Malavoglia oppure Mastro-don Gesualdo;
• G. D'Annunzio, Il Piacere;
• L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal oppure Uno, nessuno e centomila;
• I. Svevo, La coscienza di Zeno.
3. Testi e documenti utilizzati a lezione (Gestens)
Tindari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull’acque
delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima.
A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
S. Quasimodo, Vento a Tindari,
da Acque e terre, 1930
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.
Tindari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull’acque
delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima.
A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
S. Quasimodo, Vento a Tindari,
da Acque e terre, 1930
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.
Mario Luzi, Patio, da Avvento notturno, 1940
Forse è un’ombra del cuore l’orrore che disarma
e raggela sui vetri lo stupore
delle grida chimeriche negli atri.
Arrossano le mele sulle fioche erbe di Parma
e il tuo sguardo in altrui sguardi succede.
Il colore dei cedri sul marmo ti precede.
Ma il vento soffermato sulle oscure lanterne,
sul tuo viso riflesso nei miraggi
vitrei delle città dimenticate!
Si fondono irraggiate dalle bianche lucerne
della sera le tue immagini strane
mentre uguagli nitente le mutevoli diane.
Nulla più che un chiarore s’avvicina agli spalti,
alle corna spettrali dei palazzi,
il vuoto s’avvicenda nelle cave
specchiere, nella febbre viola dei basalti.
La tua forma nell’aria si ripete
lungo un prisma ammaliato e una pallida rete.
E. Montale, da Le occasioni, II ed. 1940
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l’alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.
Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole
freddoloso; e l’altre ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.
V. Sereni, Saba, in Gli strumenti umani, 1965
Berretto pipa bastone, gli spenti
oggetti di un ricordo.
Ma io li vidi animati indosso a uno
ramingo in un'Italia di macerie e polvere.
Sempre di sè parlava ma come lui nessuno
ho conosciuto che di sè parlando
e ad altri vita chiedendo nel parlare
altrettanta e tanta più ne desse
a chi stava ad ascoltarlo.
E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile
lo vidi errare da una piazza all'altra
dall'uno all'altro caffè di Milano
inseguito dalla radio.
"Porca - vociferando - porca". Lo guardava
stupefatta la gente.
Lo diceva all'Italia. Di schianto, come a una donna
che ignara o no a morte ci ha ferito.
La narrativa: anni ’40 e ’50
• 1941, Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini (n. 1908)
• 1945, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (n. 1902)
• 1947, Artemisia di Anna Banti (n. 1895), Cronache di poveri
amanti di V. Pratolini (n. 1913) e Il sentiero dei nidi di ragno
di I. Calvino (n. 1923)
• 1952, I ventitre giorni della città di Alba di B. Fenoglio (n.
1922)
• 1953, Novelle dal ducato in fiamme di C.E. Gadda (n. 1893)
• 1954, Racconti romani di Alberto Moravia (n. 1907)
• 1955, Ragazzi di vita di P.P. Pasolini (n. 1922)
• 1957, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di C. E.
Gadda
• 1958, Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa (n. 1896)
La cultura italiana ed europea: ’40 e ’50
• 1923, Istituto per la ricerca sociale dell’Università di
Francoforte (1947, Dialettica dell’illuminismo di AdornoHorkeimer)
• 1945, «Les temps modernes» di J.P. Sartre e S. de Beauvoir
• 1945, «Il Politecnico» di E. Vittorini
Cinematografia:
1945, Rossellini Roma città aperta
1948, De Sica Ladri di biciclette
1948, Visconti La terra trema
[1941, M. Alicata e G. De Sanctis, Verità e poesia: Verga e il
cinema italiano, «Cinema»]
1948, Lettera a «Rinascita» a firma di numerosi artisti
1950, ed. it. dei Saggi sul realismo di György Lukàcs (1948)
Lettera a «Rinascita» (1948), a firma di R.
Guttuso, G. Turcato, Mario Mafai e altri artisti
Noi sappiamo bene che dobbiamo liberarci delle posizioni
intellettualistiche di un’arte senza contenuto, di un’arte
sfiduciata e solitaria, staccata dai problemi del mondo e della
realtà in movimento, obiettivamente al servizio della classe
dominante. […] La lotta dunque contro l’arte contemporanea
formalistica (e soprattutto contro quelle ideologie di
decomposizione, di assenza e di sfiducia che hanno presieduto
e presiedono quell’arte) va condotta a fondo. È una lotta
quindi contro quelle forme fini a se stesse di negazione della
realtà come materialmente esistente fuori di noi, di negazione
dell’uomo come protagonista della storia, di negazione di quei
contenuti che rispecchiano le aspirazioni e le speranze di tutta
l’umanità.
György Lukàcs, Saggi sul realismo,
ed. it. 1950, Introduzione
La categoria centrale, il criterio
fondamentale della concezione
letteraria realistica è il tipo, ossia
quella particolare sintesi che, tanto
nel campo dei caratteri che in
quello delle situazioni, unisce
organicamente il generico e
l’individuale. Il tipo diventa tipo […]
per il fatto che in esso confluiscono
e si fondono tutti i momenti
determinanti, umanamente e
socialmente essenziali, d’un
periodo storico.
La narrativa: anni ’40 e ’50
• 1941, Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini (n. 1908)
• 1945, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (n. 1902)
• 1947, Artemisia di Anna Banti (n. 1895), Cronache di poveri
amanti di V. Pratolini (n. 1913) e Il sentiero dei nidi di ragno
di I. Calvino (n. 1923)
• 1952, I ventitre giorni della città di Alba di B. Fenoglio (n.
1922)
• 1953, Novelle dal ducato in fiamme di C.E. Gadda (n. 1893)
• 1954, Racconti romani di Alberto Moravia (n. 1907)
• 1955, Ragazzi di vita di P.P. Pasolini (n. 1922)
• 1957, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di C. E.
Gadda
• 1958, Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa (n. 1896)
I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947: Prefazione alla II ed. 1964
(1)
Questo romanzo è il primo che ho scritto […]. Che impressione mi fa, a riprenderlo in
mano adesso? Più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente
dal clima generale d’un’epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era
quello in cui la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale. L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte,
un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. […] Questo ci tocca oggi, soprattutto: la
voce anonima dell’epoca, più forte delle nostre inflessioni individuali ancora incerte.
[…] La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei
treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni
d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano
occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle «mense del popolo», ogni donna nelle
code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci
muovevamo in un multicolore universo di storie. Chi cominciò a scrivere allora si
trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale: alle storie che
avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s’aggiungevano quelle
che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un’espressione
mimica. […] La carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era
tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere.
Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora
allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse in quel momento
sapevamo ed eravamo. […] Il «neorealismo» per noi che cominciammo di lì, fu quello.
[…] Il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria
quel mondo che per noi era il mondo.
I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947: Prefazione alla II ed. 1964
(2)
Il «neorealismo» non fu una scuola (Cerchiamo di dire le cose con esattezza).
Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle
diverse Italie, anche - o specialmente - delle Italie fino allora più inedite per la
letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l'una all'altra - o che si
supponevano sconosciute -, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far
lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato
«neorealismo». Ma non fu paesano nel senso del verismo regionale
ottocentesco. La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità a una
rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la
provincia americana in quegli scrittori degli Anni Trenta di cui tanti critici ci
rimproveravano d'essere gli allievi diretti o indiretti. Perciò il linguaggio, lo
stile, il ritmo avevano tanta importanza per noi, per questo nostro realismo
che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo. Ci eravamo fatta
una linea, ossia una specie di triangolo: I Malavoglia, Conversazione in Sicilia,
Paesi tuoi, da cui partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e del
proprio paesaggio
E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, cap. 1
Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son
messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in
qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col
capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici,
per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo
una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche
con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le
scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo:
pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti
amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.
Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano
perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad
esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non
avevo voglia di nulla. Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse;
raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso; e uscire e vedere gli
amici, gli altri, o restare in casa era per me lo stesso. Ero quieto; ero come se non
avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa esser felici, come
se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e
nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i
miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a
letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi
tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia
e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo entro di me per astratti furori, e pensavo il
genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici,
e l’acqua mi entrava nelle scarpe.
Raccontare la magia di un mondo primitivo:
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli
Erich Hartmann, 1946
Catlo Levi, La strada delle grotte, 1935
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli
Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra
parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I
contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna
ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la
propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che
curva le loro schiene sotto i mali della natura. […]
Quando, nei primi giorni, mi capitava d’incontrare sul sentiero, fuori del paese, qualche
vecchio contadino che non mi conosceva ancora, egli si fermava, sul suo asino, per salutarmi,
e mi chiedeva: ― Chi sei? Addò vades? (Chi sei? Dove vai?) ― Passeggio, ― rispondevo, ―
sono un confinato. ― Un esiliato? (I contadini di qui non dicono confinato, ma esiliato). ― Un
esiliato? Peccato! Qualcuno a Roma ti ha voluto male ―. E non aggiungeva altro, ma
rimetteva in moto la sua cavalcatura, guardandomi con un sorriso di compassione fraterna.
Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare
pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale.
Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono,
in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dei dello Stato e della città non possono
aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa
il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili
dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera coscienza individuale,
dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce
insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico. Essi
vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l’uomo non si
distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria: dove non possono esistere la felicità,
vagheggiata dai letterati paganeggianti, né la speranza, che sono pur sempre dei sentimenti
individuali, ma la cupa passività di una natura dolorosa. Ma in essi è vivo il senso umano di un
comune destino, e di una comune accettazione. È un senso, non un atto di coscienza; non si
esprime in discorsi o in parole, ma si porta con sé in tutti i momenti, in tutti i gesti della vita,
in tutti i giorni uguali che si stendono su questi deserti.
La Firenze popolana del dopoguerra:
Vasco Pratolini, Cronache di poveri
amanti, 1947
V. Pratolini, Cronache di poveri amanti
Via del Corno è finalmente tutta per i gatti che banchettano a un cumulo più
grosso d’immondizia: dai Bellini, al secondo piano del n. 3, c’è stato pranzo
nuziale. Milena s’è sposata con il figlio del pizzicagnolo di via dei Neri. Milena
ha diciotto anni, è bionda, con gli occhi chiari di colomba: via del Corno ha
perduto il secondo dei suoi Angeli Custodi. Dopo il viaggio di nozze Milena
andrà ad abitare in un appartamentino delle Cure.
Le sveglie sono fatte per suonare. Ce ne sono cinque in via del Corno che
suonano nello spazio di un’ora. La più mattiniera è quella di Osvaldo. È la
sveglia di un rappresentante di commercio “che batte la provincia”: è piccola,
di precisione, ha un trillo di giovinetta e anticipa di un quarto d’ora il fragore
della sveglia di casa Cecchi che ha il suono della campanella di un tranvai, ma
è quello che ci vuole per rimuovere uno spazzino dal suo sonno di tartaruga.
La sveglia di Ugo è della stessa razza urlante: il contrario del suo proprietario
che gira tutto il giorno col barroccino di frutta e verdura ed ha una voce di
baritono nell’offrire la mercanzia. Ugo occupa una stanza in subaffitto, al n. 2
terzo piano, ed è per questo che la sveglia dei coniugi Carresi non si fa mai
sentire. Maria si desta quasi sempre “quando esplode il macinino del suo
dozzinante”, allunga una mano per portare sul silence la chiavetta della
propria sveglia. Così, Beppino che le dorme accanto, non si desterà. Le
proibirebbe di lasciare il letto finché Ugo non fosse uscito.
Anna Banti nel 1934
Raccontare una donna del passato:
Artemisia di Anna Banti (1947)
A. Banti,
Artemisia,
1947
La resistenza e l’etica langarola
I ventitre giorni della città di
Alba di Beppe Fenoglio (1952)
B. Fenoglio, I ventitre giorni della città di Alba:
dal racconto Il trucco
Moro cercò René e lo vide sul margine dell'aia, appartato con due che
parevano i più importanti dopo di lui. S'avvicinò: i tre dovevano aver
discusso fino a quel momento sul posto della fucilazione.
Uno finiva di dire: - ...ma io avrei preferito a Sant'Adriano.
René rispondeva: - Ce n'è già quattro e questo farebbe cinque. Invece
è meglio che siano sparpagliati. Va bene il rittano sotto il Caffa.
Cerchiamo li un pezzo di terra selvaggio che sia senza padrone.
Moro entrò nel gruppo e disse: - C'è bisogno di far degli studi così per
un posto? Tanto è tutta terra, e buttarci un morto è come buttare una
pietra nell'acqua.
René disse: - Non parli bene, Moro. Tu sei col Capitano e si può dire
che non sei mai fermo in nessun posto e così non hai obblighi con la
gente. Ma noi qui ci abbiamo le radici e dobbiamo tener conto della
gente. Credi che faccia piacere a uno sapere che c'è un repubblicano
sotterrato nella sua campagna e che questo scherzo gliel'han fatto i
partigiani del suo paese?
Raccontare Roma:
Racconti romani di A. Moravia (1954)
Quer pasticciaccio brutto
de via Merulana di C.E. Gadda (1957)
Ragazzi di vita di P.P Pasolini (1955)
Alberto Moravia, Racconti romani: Mario
Fu così. Di mattina presto, mi alzai che Filomena ancora dormiva, presi la borsa dei
ferri, uscii di soppiatto di casa e andai a Monte Parioli, in via Granisci, dove c'era uno
scaldabagno che buttava. Quanto tempo ci avrò messo per fare la riparazione? Certo
un paio d'ore perché dovetti smontare e rimontare il tubo. Finito il lavoro, con
l'autobus e con il tram tornai a via dei Coronari, dove ho casa e bottega. Notate il
tempo: due ore a Monte Parioli, mezz'ora per andarci, mezz'ora per tornare: tre ore
in tutto. Che sono tre ore? molto e poco, dico io, secondo i casi. Io ci avevo messo tre
ore per rimettere a posto un tubo di piombo; qualcun altro, invece...
Ma andiamo per ordine. Alla imboccatura di via dei Coronari, mentre camminavo
svelto lungo i muri, mi sentii chiamare per nome. Mi voltai: era Fede, la vecchia
affittacamere che sta di casa di fronte a noi. Questa Fede, poveretta, ha due gambe
cosi grosse, per via della podagra, che manco un elefante. Mi disse, tutta affannosa:
- Che scirocco, oggi... vai in su? mi dai una mano per la sporta?
Risposi che l'avrei fatto volentieri. Mi passai la borsa dei ferri sull'altra spalla e afferrai
la sporta. Lei prese a camminarmi accanto, trascinando quelle due colonne di gambe
sotto la palandrana. Dopo un poco, domandò: - E Filomena dov'è?
Risposi: - Dov'ha da essere? A casa.
- Già, a casa - disse lei a testa china - si capisce.
Domandai, tanto per parlare: - Perché si capisce?
E lei: - Si capisce... eh, povero figlio mio.
Insospettito, lasciai passare un momento e poi insistetti: - Perché povero figlio mio?
- Perché mi fai compassione - disse quella befana senza guardarmi.
- E cioè?
- E cioè non sono più i tempi di una volta... le donne oggi non sono più come al tempo
mio.
P. P. Pasolini, Ragazzi di vita, 1955, cap. IV
Amerigo stava disteso sul letto col vestito blu nuovo, la camicia bianca e le
scarpe nere. Gli avevano incrociato le braccia sul petto, anzi sul doppiopetto di
cui da un par di domeniche era tanto orgoglioso, andandosene per Pietralata
con la camminata cattiva. I soldi se l’era procurati facendo una rapina in via dei
Prati Fiscali: aveva scucito al micco una trentina di mila lire, e per levarsi una
soddisfazione lo aveva pestato a sangue: e così s’era fatto il vestito blu, e andava
in giro con quello con un umore più da bestia del solito. C’era da far bene
attenzione a come lo si guardava, e gli amici suoi della borgata, vigliacchi e falsi
con lui, sapevano ungerlo senza mostrarlo troppo, ma altri giovani che non lo
conoscevano, incontrati nelle sale da ballo del Partito Comunista, o a qualche
biliardo, erano tornati a casa con l’occhi gonfi e le gengive sanguinanti: e fortuna
per loro che Amerigo era stato diffidato a andare in giro col coltello. Era un
vestito coi calzoni a tubo, la giacca corta con le spalle larghe e rotonde: teneva il
colletto della camicia bianca sbottonato e i capelli pettinati alla ghigo. Adesso lì,
s’era lasciato mettere pazientemente, come una vittima, le mani in croce sul
doppiopetto: ma il colletto gli stava ancora sbottonato alla malandrina
incorniciandogli il volto che era stato da morto anche quand’era vivo. Tanto che
pareva si fosse appena addormito, e faceva ancora paura. Finita la pennichella,
quello avrebbe certamente finito di pazientare e avrebbe spaccato il grugno a
quelli che s’erano permessi di conciarlo a quel modo. Se ne stava lì cupo e zitto,
sul letto ch’era troppo piccolo per lui, con un cesto di capelli ricci, ancora
luccicanti di brillantina sul guanciale grigiastro.
C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, 1957, cap. X
Raccontare la Sicilia:
Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa (1958)
G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo
Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il
fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a
vivere andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente, come i granellini si affollano
e sfilano ad uno ad uno senza fretta e senza soste dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a
sabbia. In alcuni momenti d'intensa attività, di grande attenzione questo sentimento di
continuo abbandono scompariva per ripresentarsi impassibile alla più breve occasione di
silenzio o di introspezione: come un ronzio continuo all'orecchio, come il battito di una
pendola s'impongono quando tutto il resto tace; e allora ci rendono sicuri che essi sono
sempre stati lì, vigili, anche quando non li udivamo.
In tutti gli altri momenti gli bastava sempre un minimo di attenzione per avvertire il fruscio
dei granelli di sabbia che sgusciavano via lievi, degli attimi di tempo che evadevano dalla sua
mente e lo lasciavano per sempre. La sensazione del resto non era, prima, legata ad alcun
malessere. Anzi questa impercettibile perdita di vitalità era la prova, la condizione per così
dire, della sensazione di vita; e per lui, avvezzo a scrutare spazi esteriori illimitati, a indagare
vastissimi abissi interni, essa non era per nulla sgradevole: era quella di un continuo,
minutissimo sgretolamento della personalità congiunto al presagio vago del riedificarsi
altrove di una personalità (grazie a Dio) meno cosciente ma più larga. Quei granellini di
sabbia non andavano perduti, scomparivano ma si accumulavano chissà dove, per
cementare una mole più duratura.
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