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Divina Commedia. Purgatorio
LECTURA DANTIS dedicata a Mons. Giovanni Mesini “il prete di Dante” Divina Commedia. Purgatorio letto e commentato da Padre ALBERTO CASALBONI dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna Canto III Antipurgatorio: le anime di coloro che sono morti ancora colpiti da scomunica. Re Manfredi. Alle parole di Catone le anime testè giunte si affrettano in “subitana fuga”. Verso dove?. Nel canto precedente si erano rivolte ai nostri pellegrini: ”se voi sapete,/ mostratene la via di gire al monte”; ma ecco l’indicazione del Poeta: la stessa fuga comporta la risposta, ”al monte ove ragion ne fruga”: la ragione che fruga è la giustizia divina che assegna e dispone a ciascuno il suo percorso è insita nell’anima, così come l’istinto guida l’animale al suo scopo. Dante invece qui è pellegrino e forestiero, e allora “i’ mi ristrinsi a la fida compagna:/ e come sare’ io sanza lui corso?”. Chi altro avrebbe potuto indicargli la strada, pur essendo anch’egli ospite? Virgilio conserva ancora e sempre i caratteri di umana sensibilità, sia che si rivolga ad altri, com’è il caso di Pier de la Vigna, per aver permesso a Dante di strappargli un lacerto, come quando si smarrisce davanti ai diavoli, e come poco fa, per essersi anch’egli attardato alle note d’amore di Casella. Questo vuol significare Dante quando dice: “El mi parea da sé stesso rimorso:/ o dignitosa coscïenza e netta,/ come t’è picciol fallo amaro morso!”; un rimorso tale fargli “fretta,/ che l’onestade ad ogn’atto dismaga”; occorrono qui alla mente le note caratteristiche della gravitas, dignitas, auctoritas, distintive del comportamento di ogni persona nobile, per un istante disattese. Ma come si riprende presto Virgilio, così di riflesso Dante, ancora una volta entrambi pronti per il nuovo cammino: il sole è già alto e proietta in avanti l’ombra di Dante; e quella di Virgilio? Dov’è? Di nuovo la paura dell’abbandono. Già, erano insieme da oltre 36 ore, ma nel buio della valle dell’inferno Dante non aveva avuto modo di percepire che Virgilio, con il corpo, ha perduto anche l’ombra. Ancora una volta il Maestro con pazienza lo incoraggia e lo erudisce. In verità più che a Dante le parole di Virgilio sono rivolte a noi, a ricordarci la sua condizione, e parafrasa il noto epitaffio sulla sua tomba “Mantova mi generò, mi rapirono i Calabri, mi tiene ora Partenope”. Non ti meravigliare quindi se non vedi la mia ombra, come non ti deve meravigliare che dei cieli “l’uno a l’altro raggio non ingombra”, che cioè un cielo non impedisca il trapassare dei raggi dell’altro, essendo corpi diafani o trasparenti; di qualcosa di analogo sono composte le anime separate dai corpi, sì che la Potenza divina le rende capaci di soffrire tormenti, di sentire il caldo e il freddo, ma come questo avvenga non ci è dato sapere. E non è certo l’unico mistero, solo che si pensi alla realtà trinitaria, “una sostanza in tre persone”, aggiunge ancora Virgilio. In effetti il discorso si allarga fino a divenire una di quelle lezioni che la scolastica ben conosceva, un misto di filosofia e di teologia per i contenuti, come l’essenza dei corpi celesti e, più ancora, l’unità della sostanza e al trinità delle persone in Dio; di più ancora, direi, stupisce il linguaggio “State contenti, umana gente, al quia;/ che se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria”; accontentatevi di credere al dato rivelato a noi da Gesù, il quia, senza pretendere di conoscere il come; se così non fosse, già prima di noi, Aristotele e Platone, e non solo, avrebbero compreso tutta intera la verità: e invece non la conosceranno mai più, “etternalmente è dato lor per lutto”. Tutto questo dice Virgilio con una sfumatura di turbamento e di rimpianto, propria di chi di questo “lutto” è consorte. Così parlando e così rassicurato Dante, pervengono “a piè del monte”; ma subito la prima difficoltà “qui trovammo la roccia sì erta,/ che ‘ndarno vi sarien le gambe pronte”; e solo per dare un’idea di quanto erta fosse, pensa al cammino che da Lerice porta a Turbìa, in Liguria; ma, avverte, quello al paragone di questo dell’antipurgatorio, “è una scala”. Ancora un’incertezza in Virgilio “Or chi sa da qual man la costa cala”, pensando a Dante che certo ha il corpo ma non possiede ali. Mentre Virgilio nella propria mente cerca una via d’uscita, Dante guarda fuori; e proprio lui si avvede che “apparì una gente/ d’anime, che movìeno i piè ver’ noi”, ma così lentamente che parevano ferme. Sollecitato a guardare, Virgilio riprende la sua sicurezza “e tu ferma la spene, dolce figlio”, e con decisione si avviano verso quelli che “vegnon piano”, a dire della necessità di riguadagnare il tempo perduto “ché perder tempo a chi più sa più spiace”, a detta dello stesso Virgilio. Ma le incertezze non sono terminate; giunti a un tiro di sasso da quelle anime, ecco la richiesta “O ben finiti, o già spiriti eletti... ditene dove la montagna giace”, sempre pensando alla difficoltà di Dante. Ma quelle anime sono più prese dal prodigio alla vista di un vivo - l’ombra di Dante - che dalle parole di Virgilio, e si fermano stupite, fino ad indietreggiare. E qui la capacità di rendere la realtà con le immagini raggiunge il suo vertice: a dire dell’uniformità del comportamento di queste anime, colte da stupore e meraviglia, Dante si serve del più proverbiale degli esempi, quello di un gregge: “Come le pecorelle escon del chiuso/ a una, a due, a tre, e l’altre stanno/ timidette atterrando l’occhio e ‘l muso;/ e ciò che fa la prima e l’altre fanno, addossandosi a lei, s’ella s’arresta,/ semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno/ sì vid’io....”. A questo gregge di anime Virgilio spiega quello che noi da tempo sappiamo “questo è corpo uman”, anche a premessa della richiesta di un cammino più agevole. Finalmente le anime si riprendono dallo stupore e rispondono “Tornate... intrate innanzi dunque”, e fanno segno anche con il gesto della mano, a dire che il tragitto è quello che loro stessi stanno compiendo, benché in maniera molto più lenta. Prima di procedere, occorre sottolineare alcune espressioni che contraddistinguono la condizione delle anime del Purgatorio; rivolgendosi direttamente a loro, Virgilio dice “o ben finiti, o già spiriti eletti”, e, poco oltre, “quella gente degna”, a dire con certezza della salvezza già conseguita, anche se deve essere preceduta dalla espiazione di scorie di peccato non ancora eliminate: questo sarà pertanto il tema del Purgatorio, espiazione della pena, sofferta fino in fondo o abbreviata per le preghiere o i meriti dei vivi. Ne avremo subito la conferma. “E un di loro incominciò”; è persona che non conosce Dante, né Dante la riconosce, ma l’urgenza del suffragio lo fa parlare; con gesti, mostrandogli le ferite, e con parole, si presenta “Io son Manfredi,/ nepote di Costanza imperadrice”, e prima ancora di narrare le vicenda che l’ha condotto a morte si raccomanda a Dante e lo prega che al suo ritorno vada dalla figlia Costanza a dirle che, contrariamente a quanto si pensa, è salvo, ma dovrà espiare la colpa per molto, troppo tempo se lei non lo soccorre. Ciò premesso, con maggior serenità racconta le salienti circostanze della sua vicenda terrena, in particolare della morte. Dopo Casella, in qualche modo ancora legato alla vita terrena, ecco la prima anima incontrata nell’antipurgatorio. Vediamo il significato di questa figura. Significato teologico. “Orribil furon li peccati miei”, al punto da far pensare che una persona pubblica, oberata da peccati orribili, e scomunicata, non possa che essere dannata; ma, dice, “la bontà infinita ha sì gran braccia,/ che prende ciò che si rivolge a lei”; nessuno quindi può azzardare di dichiarare dannata una persona. E, ancora, il valore della “comunione dei santi”, il collegamento cioè fra la chiesa trionfante, purgante e militante: “ché qui per quei di là molto s’avanza”. Strutturale. Manfredi, re di Napoli e di Sicilia, è figlio di Federico II imperatore; era stato scomunicato dal papa quale usurpatore del regno; a ragione o a torto, la scomunica del successore di Pietro ha comunque un suo effetto, “quale in contumacia more/ di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,/ star li convien da questa ripa in fore,/ per ognun tempo ch’elli è stato, trenta” ossia, chi è stato scomunicato deve rimanere nell’antipurgatorio trenta volte il tempo che in terra è vissuto sotto scomunica, a meno di “buoni prieghi” che possono abbreviare questo tempo. Politico. A parte la presentazione, “biondo era e bello e di gentile aspetto”, che denota in Dante simpatia verso l’ultimo rappresentante dell’Impero, significata anche da quell’avverbio “quand’io mi fui umilmente disdetto/ d’averlo mai visto”; ci colpisce la condanna di un gesto, quanto meno sconsiderato, sia da parte del papa Clemente IV che del vescovo di Cosenza che azzardano la sentenza di eterna condanna ordinando, senza alcun rispetto per i morti, di dissepellire le ossa di Manfredi, e di trasferirle, da sotto il ponte presso Benevento, sotto un mucchio di sassi e senz’altro ornamento, fuori del Regno; “Or le bagna la pioggia e move il vento/ di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde”, estromettendo anche da morto il re dal suo regno. Che questo abbia significato esclusivamente politico ne è indice il fatto che la precedente non era sepoltura in luogo consacrato, un cimitero; poi, paradosso, dal suo Regno di Sicilia fu sepolto nel territorio dello Stato pontificio. E qui terminano il discorso di Manfredi e il canto.