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Per un miglior rapporto tra medico e malato: un traguardo possibile

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Per un miglior rapporto tra medico e malato: un traguardo possibile
Vol. 97, N. 10, Ottobre 2006
Pagg. 548-555
Per un miglior rapporto tra medico e malato:
un traguardo possibile
Giorgio Bert
Riassunto. Il rapporto tra medico e paziente tende oggi, per molteplici ragioni, a diventare difficile o francamente conflittuale. Ciò ostacola la cooperazione e la costruzione di
una alleanza terapeutica. La principale difesa nei confronti di una situazione che produce rabbia e frustrazione sia nel paziente che nel medico è l’apprendimento da parte di quest’ultimo di abilità comunicative specifiche (counselling skills): la comunicazione professionale non può infatti essere spontanea. Tali tecniche permettono di evitare le cosiddette “modalità barriera”: interventi che suscitano nel paziente atteggiamenti di rifiuto nei
confronti del cambiamento. Di notevole interesse è, in questo contesto, uno stato motivazionale noto come reattanza psicologica, di cui da poco è stata messa in luce l’importanza in ambito medico. Vengono prese in esame e discusse alcune modalità comunicative in
grado di facilitare la costruzione (o ricostruzione) di un valido rapporto tra medico e paziente: un traguardo non solo auspicabile, ma possibile.
Parole chiave. Comunicazione, counselling, reattanza psicologica.
Summary. Rebuilding the relationship between doctor and patient.
The doctor-patient relationship is inclined nowadays, for many reasons, to become difficult or even conflictual: this prevent the cooperation and the building of a therapeutic alliance. To forestall a situation which can produce anger and frustration in the patient as
well as in the doctor, it is important and usefull, for the latter, to learn communication techniques and counselling skills: the professional communication cannot in fact be spontaneous. Such techniques allow to avoid the so called communication barriers: doctor’s interventions which can cause in the patient noncompliance and hostile attitudes towards
changes; in this context it is particularly interesting a motivational state known as psychological reactance, the importance of which has been recently stressed in medical setting. Some communicative modalities, which may facilitate the building (or rebuilding) of
an effective relationship between doctors and patients, are here examined and debated:
good communication and partnership are goals not only desirable, but also possible.
Key words. Communication, counselling, psychological reactance.
Una storia tormentata
La storia del rapporto tra medico e paziente è
lunga, complessa e, come rileva Shorter1 in un saggio ormai classico, «tormentata». Il “tormento” si è
acuito in modo particolare negli ultimi decenni a
causa di molteplici motivi, tra i quali vanno ricordati in particolare:
• il rapido, tumultuoso progresso delle biotecnologie e della farmacoterapia, con annesse speranze e paure non necessariamente fondate.
• La sempre più ampia diffusione, anche mediatica, del concetto di prevenzione.
• La conseguente maggior attenzione ai segnali che provengono dall’organismo (sintomi fisici ed
emotivi).
• Una diffusa concezione della salute, intesa come benessere, forma fisica e perfino look, concezione che la identifica come “merce”: qualcosa, cioè,
che si può vendere e comprare; di qui un atteggiamento di tipo “consumistico” da parte del paziente.
• La vasta disponibilità al pubblico di conoscenze tecniche attraverso i mezzi di comunicazione;
speciale importanza in questo contesto assume la
possibilità di consultare siti Internet. I pazienti
hanno gli strumenti per accedere a quelle conoscenze, ma non possiedono quelli che permettono di
valutarne la validità e il rigore scientifico.
• Le leggi sul consenso informato, che prevedono
che il paziente non solo sia al corrente di quanto gli
viene proposto dal medico in termini di interventi
diagnostici e terapeutici, ma anche che ne abbia compreso esattamente il senso e le possibili conseguenze.
Coordinatore, Dipartimento Comunicazione Counselling Salute, Istituto di Counselling Sistemico Change, Torino.
Pervenuto il 9 giugno 2006.
G. Bert: Per un miglior rapporto tra medico e malato: un traguardo possibile
• La possibilità di inoltrare denunce per “malasanità”, facilitata dall’esistenza di associazioni di
malati e di giuristi specializzati.
Tutti questi elementi e altri ancora hanno trasformato, per usare le parole di Shorter, la visita medica in uno «scontro rabbioso», così che troppo spesso «i contatti tra medico e paziente si concludono con
la rabbia e la frustrazione di entrambe le parti»i.
Si può a questo punto rimpiangere i bei tempi
(ammesso che siano mai esistiti) in cui la parola
del medico era vangelo e quella che è d’uso definire “compliance” era considerata ovvia e fuori discussione… Si può, certo, ma sognare aiuta poco
nella pratica quotidiana e, in più, rende depressi.
È certo possibile analizzare e approfondire la
cause di questo mutamento in termini sociologici e
psicologici: la bibliografia sul tema è amplissima. Il
problema che si pone tuttavia al medico è di altro
genere: il passato è passato e non si può farlo tornare, ma cosa si può fare ora e concretamente per
evitare che la relazione col paziente si trasformi in
uno “scontro rabbioso” o in un conflitto permanente?
Gli effetti di questo clima conflittuale sulla salute e sul benessere del medico sono devastanti; lo
scriveva Smith, già nel 1981, in un editoriale in cui
commentava le risposte a un questionario proposto
ai medici dal BMJ, editoriale il cui titolo era estremamente significativo: «Perché i medici sono così
infelici?»2
In occasione di momenti formativi dedicati alla
comunicazione professionale e al counselling organizzati in questi ultimi anni dall’Istituto Change
di Torino, è stato chiesto ai medici coinvolti (circa
un migliaio fino ad oggi: MMG, specialisti e ospedalieri) quali siano le caratteristiche dei soggetti “difficili” (cioè potenzialmente o di fatto
conflittuali) che a loro avviso rappresentano una
elevata percentuale dei loro pazienti; le risposte al
questionario sono riportate nella tabella 1.
Tabella 1. - Caratteristiche dei pazienti “difficili”.
28%: Prepotenti, aggressivi, arroganti (pretendono tutto e subito, non capiscono che agiamo per il loro
bene)
25%: Saccenti, polemici (pretendono di saperne di
più)
14%: Maleducati
12%: Non collaborano, non si fidano (non ascoltano,
non danno informazioni, non condividono…)
7%: Ignoranti (non capiscono o fingono di non capire)
5%: Troppo acculturati (criticano le decisioni dei
professionisti)
4%: Falsi, non dicono quello che pensano
4%: Chiusi, ostili (non si esprimono neanche con la
mimica, assumono atteggiamenti di rifiuto)
4%: Ipocondriaci, ansiosi (fanno troppe domande,
non ascoltano le risposte)
2%: Negano le difficoltà; hanno pretese eccessive;
non capiscono quello che facciamo; non si coinvolgono; sono negativi
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Con i pazienti in genere risulta comunque difficile:
– 35%: farsi ascoltare senza essere interrotti;
– 22%: dare indicazioni di comportamento (ai
malati e ai familiari);costruire alleanza; fare accettare il progetto terapeutico; fare accettare le regole;
– 18%: dare cattive notizie;
– 15%: ottenere collaborazione.
Se questi sono i presupposti, non è sorprendente che la relazione medico-paziente possa assumere l’aspetto di “scontro rabbioso” e lasci scontenti e
frustrati sia il medico che il malato.
Le barriere della comunicazione
Di fatto, le risposte al questionario non parlano
di una relazione, ma rappresentano soltanto, una
descrizione che il medico dà di alcuni dei suoi pazienti: essi infatti “sono” aggressivi, maleducati, saccenti e così via. In altri termini, il comportamento
che il medico descrive con quegli aggettivi viene considerato una caratteristica intrinseca dei pazienti in
questione: come la statura o il colore degli occhi.
Ebbene, esistono certo persone più inclini di altre ad assumere determinati atteggiamenti, ma è
altrettanto certo che questi si manifestano e si rendono evidenti all’interno di una specifica relazione.
In termini comunicativi sarebbe più corretto dire
che quel determinato paziente si comporta in quel
dato modo nella relazione con quel determinato
medico in quello specifico contesto.
Il non tenere conto degli aspetti relazionali dell’incontro medico-paziente,
oltre a provocare nell’uno e nell’altro
malessere e disagio, sta alla base di quella
grave epidemia (così è definita da molti studiosi) che va sotto il nome di “noncompliance”: la scarsa o mancata disponibilità del paziente ad accettare le indicazioni del medico.
Se anche la noncompliance viene attribuita
al paziente come una sua caratteristica intrinseca immutabile, la comunicazione tende a diventare rigida e conflittuale o ad
estinguersi; e la relazione si perde.
Non è detto, anzi è altamente improbabile, che
un paziente si comporti sempre sistematicamente
allo stesso modo 24 ore su 24 e in tutte le situazioni relazionali: è infatti evidente che le persone si
comportano in modo molto variabile nell’ambito di
interazioni diverse (con amici, parenti, conoscenti,
sconosciuti) e in contesti differenti (a casa, al bar,
in treno, nella sala d’aspetto dell’ambulatorio). I
comportamenti hanno specifiche motivazioni e non
costituiscono quindi caratteristiche fisse e immutabili delle persone; le motivazioni a loro volta sono collegate a emozioni (paura, ansia, irritazione),
alla storia personale del paziente, alle sue aspettative, a ciò che sa o crede di sapere, al contesto sociale e culturale, alla situazione specifica e così via.
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Recenti Progressi in Medicina, 97, 10, 2006
Le indicazioni del medico in ambito diagnostico
e terapeutico richiedono di frequente, da parte del
paziente, cambiamenti di comportamento rilevanti e spesso spiacevoli. Ne consegue che il paziente
tende in genere a resistere o ad opporsi alle prescrizioni, tanto più quando ne vede con chiarezza
gli effetti sgradevoli ma non altrettanto chiaramente i vantaggi. Ciò è molto frequente nelle patologie croniche silenti o ben tollerate (esempio tipico è l’ipertensione arteriosa) e nel caso di interventi di prevenzione. Osserva Christensen che
«l’estensione e l’importanza delle restrizioni della
libertà e della perdita di controllo che un paziente
tipico deve subire ha ben pochi parallelismi nell’intera esperienza umana»3.
Se, d’altra parte, le reazioni del paziente non dipendono da aspetti caratteriali specifici e immutabili, ma si verificano nell’ambito della relazione col
medico, diviene importante analizzare le modalità
comunicative del medico stesso, in quanto possibili cause o concause del comportamento “difficile”
del paziente. Oltre tutto, è (relativamente) più facile per il medico apprendere a diventare consapevole dei propri atteggiamenti e quindi mettersi in condizione di controllarli, piuttosto che sforzarsi di modificare quelli di un paziente, di cui conosce poco o
nulla.
Gli effetti pragmatici di determinati atteggiamenti comunicativi sul comportamento sono stati
messi in luce da Thomas Gordon4, studiando in
particolare la relazione tra insegnante e alunno.
Questo Autore ha identificato un certo numero di
modalità comunicative spontanee che peggiorano
la comunicazione con l’altro ed ottengono effetti
opposti a quelli desiderati. Gordon parla a questo
proposito di «barriere della comunicazione».
Nell’ambito dell’attività formativa che l’Istituto
Change svolge nei confronti dei medici, abbiamo
cercato di individuare possibili analoghe “modalità
barriera”, che ostacolano o rendono conflittuale la
comunicazione col paziente. Le principali modalità
barriera da noi identificate sono riportate nella tabella 2 e risultano molto simili ad alcune delle
“barriere” individuate da Gordon in altri contesti.
Tabella 2. - Modalità-barriera nella comunicazione5.
• Ingiungere, predicare (Bisogna che… Dovete… Dovreste…)
• Minacciare, ammonire, profetizzare eventi negativi
(Altrimenti succederà che…)
• Fare appello alla ragionevolezza (Dovreste capire
che… Sappiate che…)
• Sostituirsi (Provate a fare… Perché non fate…)
• Esprimere esplicitamente o implicitamente giudizi
(Non è bene… Non bisogna essere egoisti… Questo
è un comportamento inaccettabile…)
• Interpretare (Voi siete… Voi fate così perché…)
• Investigare (Siete proprio sicuri che … Ma non avevate detto invece che…)
• Argomentare (Quanto lei dice sugli effetti di questo
farmaco non trova riscontro nei più recenti trial…)
• Minimizzare (Insomma, non è difficile…)
La costruzione dell’intervento del medico
Appare evidente che si tratta di modalità che
tutti utilizziamo spontaneamente allorché ci troviamo davanti a soggetti che ci appaiono “irragionevoli”: siano essi pazienti, alunni o figli.
Nel caso del rapporto medico-paziente, tuttavia,
la spontaneità non rappresenta in termini comunicativi un elemento positivo. Il medico, infatti, non è e non può essere spontaneo nel proprio
contesto professionale, in quanto ha precisi obiettivi da raggiungere: ogni suo intervento dovrebbe risultare strategicamente e consapevolmente indirizzato al raggiungimento di quegli obiettivi.
In altri termini, ogni intervento non solo
non può essere spontaneo, ma deve essere
accuratamente costruito e mirato: non è
possibile infatti considerare come obiettivo professionale un concetto generico come “la salute
del paziente”. La salute, si sa, è multifattoriale,
e il medico deve decidere caso per caso quali tra
i molti obiettivi di salute possibili sono a suo avviso prioritari e quali risultano comprensibili,
accettabili, condivisibili, concretamente realizzabili da parte del paziente.
Le modalità-barriera sopra descritte non sono
necessariamente tutte e sempre negative o sbagliate: alcune di esse possono di fatto venire impiegate, qualora siano state scelte strategicamente in funzione dell’obiettivo e siano coerenti
con lo stile comunicativo del medico all’interno
della relazione con quel determinato paziente.
Va comunque considerato che esse costituiscono ostacoli potenziali a una buona comunicazione, tanto più se, come avviene spesso, vengono
utilizzate tutte quante “a cascata”. In quest’ultimo caso l’insuccesso è assicurato e l’atteggiamento del paziente tende a diventare aggressivo e
ostile. In particolare, suscitano reazioni di questo
tipo i giudizi di valore e ogni tentativo di interpretazione: percepiti in genere, dal paziente, come una indebita lettura del pensiero.
Ma perché interventi come quelli citati, apparentemente del tutto ragionevoli, si rivelano così
spesso barriere alla comunicazione?
A un esame più attento, si osserva che si tratta di interventi tesi a contrastare ciò che l’altro fa
e pensa: il medico, cioè, si contrappone al paziente, nel tentativo di sostituire alle convinzioni di
quest’ultimo, ritenute erronee o dannose per la
salute, quelle razionali proprie della medicina
scientifica.
Il fatto è che le convinzioni del paziente, per
quanto stravaganti o sbagliate possano apparire,
hanno radici profonde, in gran parte nemmeno coscienti, radici che hanno a che fare con la sua storia familiare e personale, con le sue osservazioni,
le correlazioni tra cause ed effetti che gli pare di
avere individuato, con le sue credenze.
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La reattanza psicologica
Se poi, come spesso avviene, queste prescrizioni prevedono una riduzione del controllo che l’altro
– il paziente – esercita sulla sua propria vita o l’eliminazione di comportamenti percepiti come diritti acquisiti, entra in azione un meccanismo importante, che è stato definito «reattanza psicologica» (RP).
La RP è stata descritta qualche decennio fa da
Jack Brehm e collaboratori6,7. Si parte dalla constatazione che ogni individuo dispone di un certo
numero di “comportamenti liberi” («freedoms» nelle parole di Brehm), comportamenti che sa di potere esercitare in ogni momento, sia nel presente
che nel futuro. L’eliminazione, o anche solo la minaccia di eliminazione di qualcuna di queste libertà, suscitano, nella persona, uno stato motivazionale definito – appunto – reattanza psicologica.
Bonifacio de’ Pitati: La visita del medico (Milano: Museo
Poldi Pezzoli).
Il mondo del paziente, come del resto quello di
ogni individuo, è una complessa intricata rete di simboli e di significati, una vera e propria “cultura” che
definisce la sua identità: pensare che le informazioni del medico, per quanto razionali e sensate, possano essere accettate e sostituite alle proprie senza difficoltà è ingenuo; tanto più se esse si contrappongono frontalmente a quelle che l’altro ritiene vere.
Certo, il medico può limitarsi a svolgere un intervento puramente informativo, del tipo: «Io le
posso dire che le cose stanno così… Per il resto si
regoli lei come preferisce». Un intervento del genere, che scarica tutta la responsabilità decisionale
sulle spalle del paziente, non è tuttavia né corretto né etico: il medico ha, sì, un doveroso ruolo informativo ma ha anche, e soprattutto, una funzione
terapeutica: l’ampliamento delle conoscenze del
paziente non è fine a se stesso, ma è in funzione del
maggior benessere possibile per lui, ed è compito
non secondario del medico affiancare il malato in
questo difficile percorso.
Una efficace applicazione degli interventi diagnostici e terapeutici richiede necessariamente la
collaborazione da parte del paziente: collaborazione che l’informazione, per quanto corretta ed esaustiva, non è sufficiente di per sé a garantire.
La contrapposizione implicita nelle “modalità
barriera” non favorisce ovviamente la cooperazione: al contrario, essa facilita un clima di scontro, di
contesa, clima che va nella direzione opposta: il paziente non solo non sarà indotto a seguire le prescrizioni del medico, ma tenderà ad opporvisi.
La reattanza psicologica tende a ripristinare o a difendere la libertà eliminata o
minacciata; non solo: se il comportamento libero
in questione era in precedenza percepito più o
meno alla pari rispetto ad altre libertà, nel momento in cui viene eliminato, tale comportamento è avvertito come prioritario, fondamentale, insostituibile.
Il fatto che le difficoltà rendano un oggetto (o
una persona) più desiderabile è noto fin dai tempi
di Romeo e Giulietta e viene constatato quotidianamente da molti genitori di bambini e di adolescenti. In effetti, sulla base di numerose ricerche,
risulta che l’infanzia e l’adolescenza sono due fasce
di età in cui la RP è particolarmente elevata.
Quel che la teoria della RP, che poggia ormai su
solide basi sperimentali, mette in evidenza è che
essa non è una reazione dovuta a puro spirito di
contraddizione o a programmatico rifiuto, bensì un
fenomeno motivazionale specifico; il tentativo di
ripristinare con ogni mezzo la libertà limitata o il
comportamento vietato non è frutto di capriccio,
né di una ordinata scelta razionale che definisce
percorsi e obiettivi; tutte le più recenti ricerche
sembrano confermare l’ipotesi che la RP sia una risposta diretta: cioè una risposta non mediata tramite un processo cognitivo.
Gli individui adulti, che hanno necessità di conferire senso e coerenza alle loro azioni, tendono a
fornire spiegazioni razionali al loro comportamento, ma si tratta di spiegazioni costruite a posteriori. Di fatto, la RP entra automaticamente in azione anche quando accettare il cambiamento, sia pur
rinunciando ad una particolare libertà, risulterebbe per l’individuo utile e vantaggioso: questa è per
il medico una informazione di notevole importanza pratica. Ricerche sperimentali dimostrano che
tanto maggiore è la difficoltà di ripristinare la libertà minacciata o eliminata, tanto più elevata è
l’intensità della reattanza, almeno fino ad un certo
limite.
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Quando l’individuo si rende conto che il ripristino di quel comportamento è troppo difficile, subentra quella che è stata definita «helplessness»,
letteralmente “difficoltà di difendersi, impotenza”,
e la persona tende ad assumere comportamenti negativi o di tipo depressivo. Nella relazione medicopaziente reazioni del genere sono messe in evidenza da atteggiamenti fatalisti o disfattisti, del genere: «Tanto non serve a niente… Quando è
destino è destino… Lasciamo che le cose vadano
come devono andare… Se devo morire, tanto vale
che continui a fare quel che ho sempre fatto…».
Non è escluso che tali espressioni denotino serena
saggezza, ma è necessario che, prima di accettarle
(e ammesso che lo possa fare), il medico valuti la
eventualità (non rara) che esse abbiano piuttosto a
che fare con la «helplessness».
In ultima analisi, ciò che scatena la RP è la percezione da parte del soggetto di perdere il controllo
nei confronti di aspetti della propria esistenza che
egli considera acquisiti e garantiti; e, infatti, un altro modo di definire la RP è: «perdita delle aspettative di controllo». Come affermano Miron e
Brehm:«Le libertà (a cui ci riferiamo) sono specifiche
convinzioni a proposito di ciò che una persona può o
non può fare. La gente sviluppa queste attese sulla
base di situazioni specifiche e le libertà sono legate
a quel che l’individuo percepisce come in grado di fare o di tenere sotto controllo. Poco si conosce su come tali convinzioni si sviluppino. Esistono tuttavia
prove che esse siano legate al contesto sociale.»8
È interessante notare che molti studiosi considerano indicatori tipici di reattanza psicologica gli
atteggiamenti di sfida, di non cooperazione, di aggressività, di rabbia, di ostilità: proprio i medesimi
atteggiamenti che, come abbiamo rilevato, spesso i
medici attribuiscono ai pazienti “irragionevoli” e definiscono “immotivati”; al contrario, la RP è proprio
una risposta motivazionale, intendendo per motivazione qualsiasi movente – conscio o inconscio – di un
comportamento. Da quanto detto, risulta chiaro il
senso di quello che Brehm ha definito «effetto boomerang»: tanto maggiore è la pressione esercitata
sulla persona affinché compia (o non compia) determinate azioni, tanto maggiore sarà la reattanza psicologica e, quindi, in termini pragmatici, l’insuccesso. La cosa vietata diventerà quella più desiderabile e vi sarà una intensa motivazione a ripristinare
la propria libertà di ottenerla. Se la pressione diventerà eccessiva, subentreranno frustrazione, senso di impotenza, depressione, negatività, disfattismo. Sia la reattanza che il senso di impotenza sono seri ostacoli alla cooperazione e alla alleanza
terapeutica tra medico e paziente.
Per quanto la RP sia nota e studiata da tempo,
la sua importanza in ambito sanitario è stata posta in evidenza soltanto di recente9,10. Eppure, conoscere questo fenomeno e tenerne conto è, per il
medico, fondamentale. Se infatti, come sottolineato da Brehm, si tratta di uno stato motivazionale,
esso non può essere ridotto o eliminato da una
contrapposizione frontale, che metterebbe in gioco
le modalità che abbiamo definito “barriera”.
Una motivazione a mantenere un dato comportamento può essere sostituita solo da un’altra motivazione altrettanto forte a modificarlo; il rimprovero, lo
scontro, il conflitto non vanno in questa direzione.
Dalla reattanza alla disponibilità
Cambiare il proprio comportamento implica un
aumento della capacità di decidere, di scegliere, e
il primo passo in questa direzione è la valutazione
da parte del medico della disponibilità del paziente a cambiare. Essa è diversa per ogni paziente e
per lo stesso paziente varia da momento a momento. È utile ricordare in questo contesto il modello proposto da Prochaska e Di Clemente8.
È
Questo modello prevede che il percorso verso il
cambiamento passi attraverso 5 stadi che gli
Autori definiscono nell’itinerario seguente:
I: Precontemplazione: non si pensa di cambiare.
II: Contemplazione: si contempla la possibilità
di cambiare.
III: Determinazione: ci si prepara a cambiare.
IV: Azione: si cambia.
V: Mantenimento: si mantiene il cambiamento.
Per ogni stadio va presa in considerazione la
possibilità di una ricaduta; essa non va tuttavia
percepita come un fallimento: il possibile insuccesso è da mettere in conto in ogni progetto e va utilizzato come momento di apprendimento, non di
sconfitta. In ambito scientifico si apprende, come è
noto, per prove ed errori.
Ciò che in questo modello è importante – dal
punto di vista del medico – è la necessità di trovarsi in sintonia col paziente riguardo alla sua disponibilità a cambiare. Il medico, come ogni operatore,
è per natura sintonizzato sul fare, sull’agire; se il paziente si colloca nell’area della contemplazione o addirittura della precontemplazione, la distanza comunicativa sarà eccessiva: il rapporto medico-paziente ne risulterà impedito o seriamente ostacolato
e si manifesterà facilmente la reattanza psicologica.
Per adeguare il modello di Prochaska alla pratica quotidiana, Rollnick & coll.9 propongono il seguente schema:
Disponibilità al cambiamento
Pronto
Incerto
Non pronto
–––––––X ––––––––––––X ––––––––––––X ––––––
A
B
C
Esso permette, secondo gli Autori, di «pensare
alla disponibilità di un paziente come a un continuum, tenendo a mente che non è il paziente come
persona a essere più o meno disponibile; ciò che varia è il suo essere disponibile a effettuare uno specifico cambiamento comportamentale».
G. Bert: Per un miglior rapporto tra medico e malato: un traguardo possibile
Per ridurre al massimo la reattanza psicologica è quindi opportuno che il medico
si collochi, in termini comunicativi, il più vicino possibile alla fase di disponibilità a cambiare del paziente; tenendo conto che la percentuale di pazienti disposti ad agire per il cambiamento, collocati cioè nella fase del fare, non
supera, secondo la maggior parte degli studiosi, il 20%.
Va sottolineato che facilitare al paziente in fase
di precontemplazione il passaggio allo stadio seguente, quello cioè che ammette la possibilità di
cambiare, costituisce di per sé un risultato di grande importanza in termini di capacità decisionale. I
pazienti precontemplativi non sono necessariamente impermeabili al cambiamento.
Dalla disponibilità all’adesione
Il momento comunicativo fondamentale è l’esplorazione del mondo del paziente. Come sottolinea un oncologo francese che ha studiato a fondo l’argomento, «spetta al medico determinare i
riferimenti del malato, precisare insieme a lui ciò
che crede e ciò che immagina, ciò che vuole sapere, ciò che può comprendere, ciò che influenzerà
le sue decisioni e da cui potrà trarre vantaggio».10
Si tratta di competenze che non possono più
essere lasciate alla sola spontaneità del professionista, per quanto ricca di buone intenzioni: le
conoscenze in tema di comunicazione si sono negli ultimi decenni enormemente accresciute e richiedono l’acquisizione di abilità professionali
specifiche. Il medico di oggi si trova quindi nella
necessità di apprendere alcune tecniche comunicative di base che facilitino l’esplorazione del
mondo del paziente e incrementino l’autonomia
decisionale da parte di quest’ultimo, favorendo un
rapporto di collaborazione e di condivisione delle
scelte.
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Tra gli strumenti tecnici che il medico di oggi si
trova nella necessità di apprendere, alcuni risultano di particolare efficacia in termini relazionali
e comunicativi.
■ Le abilità di counselling(*) permettono al
medico di instaurare e di mantenere una relazione proficua sul piano comunicativo; di evitare gli
errori più frequenti come, ad esempio, le modalità
barriera; di migliorare l’ascolto e di esplorare il
mondo del paziente; di ridurre le occasioni di conflitto o di uscirne in modo tale da non danneggiare o perdere la relazione. Esse facilitano la costruzione di uno spazio di fiducia reciproca e di
coooperazione.
■ La medicina narrativa11,12 si colloca tra la
irripetibile singolarità dell’esperienza di malattia da parte del paziente e le conoscenze generali della patologia e della clinica. La necessità
di conciliare soggettività e obiettività o, come
spesso si dice, “illness” e “disease”, fa della narrazione uno strumento indispensabile, sottolineato da un ventennio di ricerche a partire dai
lavori pionieristici di Kleinman14. In assenza di
narrazioni, il mondo del paziente resta completamente inconoscibile e la possibilità di sintonizzarsi con la sua disponibilità al cambiamento scompare.
Appare chiaro quindi il passaggio dal vecchio concetto di compliance (disponibilità), che implicava sottomissione e obbedienza, a quello di adherence (adesione), che
sottolinea la libera scelta da parte del paziente,
in un contesto che viene spesso definito di partnership: un contesto in cui ciascuno porta le proprie competenze e le confronta con quelle dell’altro, senza esclusioni a priori e senza clima di
contesa.
■ L’educazione terapeutica del paziente, nata nell’ambito della diabetologia, si va oggi diffondendo in tutti i campi della medicina ed
è stata accolta e consigliata dall’OMS.
In Italia è da anni attivo presso l’Università di Padova il Laboratorio di Educazione Terapeutica del Malato coordinato da
Marcolongo e Bonadiman14,15, che descrivono questo intervento come «un insieme definito di competenze professionali grazie al quale ogni curante può efficacemente trasferire ai suoi malati le
conoscenze e le abilità necessarie ad autogestire
la malattia, con lo scopo di limitarne l’evoluzione,
prevenirne le complicanze e utilizzare i farmaci
in maniera efficace e sicura». Secondo questi Autori, «l’educazione terapeutica implica un vero e
proprio trasferimento pianificato ed organizzato
di competenze terapeutiche dai curanti ai malati
grazie al quale, nel rapporto tra i due, la dipendenza lascia progressivamente il posto alla responsabilizzazione ed alla collaborazione». Anche
in questo caso, l’obiettivo è il coinvolgimento attivo del paziente nella gestione della propria malattia e, di conseguenza, un incremento della sua
autonomia. Il malato diventa di fatto un collaboratore, un partner del medico in un percorso che
richiede scelte e cambiamenti difficili.
È ovvio che l’interazione tra medico e paziente
sarà guidata dal medico, il quale si assumerà il
compito di accompagnare il malato nelle scelte e
nelle decisioni; ma accompagnare non significa
spingere o costringere.
(*) L’Istituto Change di Counselling Sistemico di Torino
(www.counselling.it) organizza da molti anni corsi di counselling per medici e ha messo a punto modalità di valutazione degli interventi che, in accordo con i dati della letteratura, risultano positivi.
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Recenti Progressi in Medicina, 97, 10, 2006
Conclusioni e prospettive
La relazione tra medico e paziente, uno tra i più
antichi rapporti professionali, va incontro a importanti cambiamenti.
La formazione del medico di domani si
basa anche sul cambiamento di attitudine
che le appropriate tecniche comunicative professionali fin qui descritte (tecniche solo in apparenza semplici) suggeriscono: esse portano infatti il
medico a ridurre le modalità comunicative “in uscita” (dire, spiegare, consigliare, rimproverare…) a
vantaggio di quelle “in entrata”; sono queste ultime
che gli consentono di raccogliere informazioni utili
su quello che abbiamo definito il mondo dell’altro.
Il paziente può oggi agevolmente acquisire conoscenze su salute e malattia che erano un tempo
proprie del medico; è inoltre consapevole di avere
precisi diritti e dispone degli strumenti per farli
valere. Tutto ciò non è però di per sé sufficiente a
Interventi di questo tipo – guidati da abilità di
renderlo più autonomo nelle scelte e nelle decisioni; al contrario, può facilmente portarlo a una sicounselling e quindi non spontanei – valorizzano
la medicina narrativa e
tuazione di disorientapermettono di valutare lo
mento che rischia di porlo
stato motivazionale del
nelle mani di pseudoteraIn situazioni complesse, la comunicapaziente nei confronti del
peuti con pochi scrupoli o
zione col paziente non può più essere
cambiamento (modello di
di ciarlatani in grado di
lasciata alla spontaneità del medico:
Prochaska: vedi supra).
elargire false certezze.
la comunicazione, infatti, è oggi una vera e
In essi risiedono le
Il medico, a sua volta, si
propria disciplina che richiede competenze
prospettive di un miglior
trova a dover gestire una
specifiche, rigore, conoscenze tecniche, carapporto tra medico e mamole di conoscenze sempre
pacità di valutazione degli strumenti usati.
lato.
crescente; in quanto scienSenza comunicazione non esiste relazione e
ziato non può, però, fornire
senza relazione non si struttura quel rapporLe conoscenze clinicertezze né verità assolute
to di cooperazione che è necessario perché
che
sono, è ovvio, assolue tuttavia sa che la medicisi stabilisca una alleanza terapeutica.
tamente necessarie, ma
na scientifica costituisce la
non sono di per sé suffimiglior risorsa possibile
cienti a costruire fiducia
per la salute e il benessere
e di conseguenza speranza; senza fiducia e senza
del paziente.
speranza il paziente si trova solo e può divenire
La possibilità di orientare correttamente il mafacile preda di falsi terapeuti.
lato attraverso la giungla di informazioni più o meno attendibili e di accompagnarlo nel difficile siLa fiducia nasce all’interno di una relazione, e ciò
nuoso percorso attraverso la malattia passa attrache il medico deve apprendere (o riapprendere) in un
verso una corretta comunicazione professionale.
mondo che cambia è la capacità di costruire e di
Il medico si trova così nell’obbligo di integrare il
mantenere col paziente una relazione terapeutica efcontinuo aggiornamento scientifico con l’apprendificace.
mento di tecniche comunicative professionali, che
trovano le proprie radici nell’antropologia, nella peCambia il mondo, cambiano gli strumenti e le codagogia, nelle medical humanities, nella conoscenza
noscenze, ma non cambia il concetto di relazione tedei sistemi umani e delle interazioni tra gli elementi
rapeutica, che è e resta la più antica radice della meche li compongono. Occorre tenere presente alcuni
dicina.
atteggiamenti comunicativi senza i quali il mondo
dell’altro, la sua percezione
di salute e malattia, le sue
convinzioni in tema di beTabella 3. - Dal tentativo di convincere al rendere possibile.
nessere sono destinate a rimanere ignote; in tal caso,
la possibilità di individuare
la disponibilità del paziente
NON È UTILE
È UTILE
al cambiamento e la fiducia
che esso ha nelle proprie
Aggiungere o ripetere informazioni.
Chiedere al paziente quali informazioni
ha già raccolto o ricevuto.
forze per raggiungerlo si riduce o scompare. L’incontro
Aggiungere consigli, indicazioni di com- Chiedere al paziente cosa ha già provatra medico e malato si trato a fare.
portamento, rimproveri.
sforma facilmente in conSottolineare o criticare i comportamen- Valorizzare qualsiasi (anche minimo)
flitto e compare la reattanaspetto positivo nelle scelte e nei comporti che non condividiamo.
za psicologica con tutte le
tamenti del paziente.
sue conseguenze negative.
Minimizzare
o
sottovalutare
Chiedere al paziente cosa trova più difPer evitare lo “scontro
le
difficoltà.
ficile fare, cosa ostacola i suoi tentativi,
rabbioso” proponiamo alcucosa teme.
ne linee guida (tabella 3)16.
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Prof. Giorgio Bert
Via Cambiano, 10
10020 Pecetto Torinese (Torino)
E mail: [email protected]
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