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La verità 1° seminario: Una mappa del problema e delle soluzioni

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La verità 1° seminario: Una mappa del problema e delle soluzioni
Collegio Superiore dell’Università di Bologna
febbraio 2014
La verità
Paolo Leonardi
1.
2.
Una mappa del problema e delle soluzioni disponibili.
La teoria della verità di Tarski (alla Quine) e l’abbozzo di una teoria della verità di Kripke.
Paradossi e illusioni.
Minimalismo e teoria modestaVerità relativa.
La sostanza della verità.
3.
4.
1° seminario: Una mappa del problema e delle soluzioni disponibili.
«Che cos’è la verità?» disse Pilato e non attese risposta.1 Così si apre “On
Truth” di Francis Bacon, primo saggio della terza edizione della raccolta
Essayes or Counsels, Civill and Morall, del 1625. John L. Austin nel 1950 cita
Bacon senza nominarlo e apre allo stesso modo il proprio saggio “Truth”,
parte di un simposio a due con Peter F. Strawson come opponent. Né Bacon
né Austin precisano che Pilato si rivolgeva a Cristo, e naturalmente non
ricordano che Cristo, secondo Luca, aveva detto di sé di essere la verità (la
via, la verità e la vita – Vangelo di Luca, 14, 6), cosa che Agostino
riecheggia scrivendo che Dio è la verità.
La verità – come il buono, il bello, il giusto, la conoscenza, le passioni, la
ragione, l’esistere, l’essere, ecc – è un tema della filosofia. Distinguo, subito,
verità e realtà. Senza discutere la tesi di Agostino, fatta questa distinzione, gli
farei dire che Dio è la realtà. La verità ha a che fare con un doppio, una
rappresentazione, una rappresentazione parziale, che se è adeguata alla
realtà, se la rappresenta com’è, è adeguata. (Una rappresentazione parziale
non è una rappresentazione parzialmente adeguata.) Questi termini
sembrano carichi di una concezione realista della verità, e in parte lo sono.
Vorrei usarli però senza compromettermi né sulla natura del reale né sul
modo di valutare l’adeguatezza di un suo doppio. L’adeguatezza. Un quadro
che ci mostra una strada sotto la pioggia, rappresenta un evento che s’è
effettivamente dato, così come il pittore ce lo mostra, o è una pioggia
immaginata? Nel primo caso possiamo chiederci se pioveva proprio così, a
quell’ora in quella strada; nel secondo no. Il primo caso discute
l’adeguatezza della rappresentazione. Nel secondo caso, come si può
immaginare la pioggia? Quasi le stesse cose possiamo chiedercele di fronte
a un testo che reciti: «Ieri, in via Tasso pioveva forte e il vento, soffiando da
nord-est, rovesciava l’acqua sulle facciate opposte ai giardini.» L’acqua era
rovesciata sulle facciate dei palazzi, o sui giardini sul lato opposto? O il
1
L’inglese recita: «What is truth? said jesting Pilate, and would not stay for an answer.»
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racconto è una storia inventata e la domanda non ha lo stesso senso?
Come si può inventare un racconto sulla pioggia? L’adeguatezza, molti
hanno sostenuto, potrebbe risiedere nella coerenza – il dipinto deve
illustrare una situazione possibile – ci sono disegni di Hogarth o di Escher
che mostrano vedute impossibili, come la scala di Penrose che sale o scende
sempre. Così come ci sono racconti impossibili. «Giro sempre con in tasca
un amuleto – un quadrato rotondo. Se non lo trovo, vado nel panico.» O,
cosa più facile, il disegno, o il racconto, non devono contraddire disegni e
racconti che prendiamo per buoni, che accettiamo. Non so se riuscirò ad
arrivarci, ma credo che la coerenza di un’immagine o di un testo dipendano
dall’adeguatezza circa come stanno le cose, e quindi non sia un’alternativa
vera. La natura del reale. La sedia è un oggetto materiale o una costruzione a
partire da sensazioni? Io sono una costruzione narrativa o un essere in
carne ed ossa? Un derivato di un prodotto accidentale della fisica o una
creatura di Dio? Come queste ultime domande mostrano, anche chi avesse
un’inclinazione realistica, o un’inclinazione opposta, avrebbe ancora tante
cose da decidere prima di cogliere la natura delle cose.
Ci sono molti usi del termine rappresentazione. Lo uso con un vincolo.
Una rappresentazione è un oggetto, ed è accessibile a più soggetti, è una
rappresentazione per più soggetti. Un testo è una cosa del genere, un video
è un’altra cosa del genere. Un’immagine mentale, no. Una brain-image è
un’immagine per ciascuno di noi, ma non nel senso che è un’immagine
cerebrale che permette a noi di rappresentarci ciò che vede, o sente, o tocca,
pensa, teme, colui il cui cervello l’immagine rappresenta. Tenderei a negare
che una brain-image rappresenti una rappresentazione.
Sosterrò che la verità è una proprietà di rappresentazioni. Come cercherò
di mostrare, diversi autori negano che la verità sia una proprietà o vogliono
ridurla a qualche altra proprietà. Considererò invece la verità una proprietà
primitiva – una proprietà cioè che può essere spiegata solo circolarmente,
ossia usando in ultima analisi la stessa proprietà che si vuole definire. Non
mi limiterò a questo, e aggiungerò che parlando di verità si fanno alcune
assunzioni. Considero le mie assunzioni leggere, seppure compromettano
la verità con la realtà, specificamente con l’esistenza. Senza esistenza nulla,
vorrei dire. Il problema non è se esista qualcosa bensì la natura di ciò che
esiste. Se siamo qui a discutere esiste qualcosa. Che cosa siamo resta però
una cosa da esplorare. Per esempio, siamo animali capaci di pensiero
discorsivo o angeli con un corpo? (Cos’è una discussione è forse una
questione più intricata – una discussione è, nelle categorie di Locke un
modo misto.)
In ogni modo, per ora mi limiterò a difendere la tesi che non si
introducono rappresentazioni di cose senza accettare al contempo qualche
cosa.
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Due punti ancora prima di cominciare. Un’osservazione: la verità non è
una nozione inventata dai filosofi. Tutti i giorni, dovunque, parliamo di
‘vero’, esclamiamo «Davvero!», ecc. «Matteo Renzi non dice la verità
quando afferma di sostenere il governo.» «È tardi, vero?» « Matteo Renzi
sostiene il governo, vero?»
Le prime due definizioni di verità che conosciamo: Platone presenta la
verità così, nel Cratilo: un enunciato vero dice ciò che è e uno falso dice ciò che non è.
(Questa è una riformulazione assertiva di una domanda di Socrate a
Ermogene. Cratilo 385b) Aristotele, in uno dei testi più famosi
sull’argomento, afferma che è falso dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che
è; ed è vero dire di ciò che è che è, o di ciò che non è che non è. (Metafisica 1011b,
7.27)2 Le teorie della verità che i filosofi hanno prodotto possono essere
viste come esplicazioni di queste definizioni.
A.
Ora, per farvi assaporare la complessità del dibattito sulla verità vi
propongo in un colpo solo la flow chart che Wolfgang Künne offre nel
primo capitolo del testo che ho, in parte, messo on line – Conceptions of Truth
(Oxford Clarendon Press 2003). Gli stacchi suggeriscono che più di una
flow chart si tratti di una serie di flow charts.
2
In un secondo testo, Aristotele produce un formulazione diversa: …è nel vero chi crede sia diviso ciò che è diviso
e unito ciò che è unito, ed è nel falso chi formula pensieri diversi dalla realtà delle cose… (Metafisica 1051 b, Θ
10.3).
3
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Q1
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La verità è una proprietà
no
sì*
Nichilismo
Q2
La verità è una proprietà relazionale?
no
sì
Coerentismo
Q3
La relazione implicata è nei confronti di altri portatori di valori di verità?
no
sì
Q4
La relazione implicata è nei confronti di oggetti?
no
sì
Corrispondenza con oggetti
Q5
La relazione implicata è nei confronti di fatti?
no
sì
Corrispondenza con eventi
Q6
Le verità sono identiche ai fatti?
no
sì
Teoria dell’identità
Q7
C’è una correlazione uno-uno fra verità e fatti?
no
sì
Corrispondenza parsimoniosa con fatti
Q8
Corrispondenza prodiga con fatti
La verità è una proprietà di enunciati?
no*
sì
Q9
Si può spiegare il concetto di verità di un enunciato?
no
sì
Primitivismo enunciativo
Q10
Si può spiegare il concetto di verità di un enunciato in una serie finita di passaggi?
no
Decitazionalismo
sì
(Concezione semantica della verità)
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Q11
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5
La verità è una proprietà di proposizioni?
no
sì*
Q12
La verità è una proprietà stabile delle proposizioni?
no
sì*
Temporalismo
Q13
Eternalismo
Si riesce a spiegare il concetto di verità proposizionale?
no
sì*
Primitivismo proposizionale
Q14
Si può spiegare il concetto di verità di una proposizione in una serie finita di passaggi?
no
sì*
Minimalismo
Q15
Teoria modesta
La verità è epistemicamente vincolata?
no
sì
Realismo aletico
Antirealismo aletico
Q16
Il concetto di verità è un concetto epistemico?
no
sì
Antirealismo aletico definizionale
Nichilismo: (Gottlob Frege), (Frank Ramsey), (Arthur R. Priori), (Willard van Orman
Quine), il primo Peter F. Strawson, Chris Williams, Dorothy Grover, Robert
Brandom.
Coerentismo: Gottfried W. Leibniz, Donald Davidson, Robert Brandom.
Corrispondenza con oggetti: gli antichi, i medievali, (Tarski?).
Corrispondenza con eventi: Bertrand Russell 1940.
Teoria dell’identità: George E. Moore e Bertrand Russell circa 1900, (Alexius Meinong),
John McDowell, Julian Dodd, Jennifer Hornsby.
Corrispondenza parsimoniosa con fatti: Bertrand Russell, primo Ludwig Wittgenstein.
Corrispondenza prodiga con fatti: George E. Moore, John R. Searle.
Primitivismo enunciativo: Johann H. Lambert, Donald Davidson.
Decitazionalismo: Willard van Orman Quine, Hartry Field.
Concezione semantica della verità: Alfred Tarski, Saul Kripke, Jan Wolenski
Temporalismo: Aristotele, gli stoici, Tommaso d’Aquino, David Kaplan.
Eternalismo: J. Lukasiewicz, Alan White.
Primitivismo proposizionale: Gottlob Frege, George E. Moore, Bertrand Russell.
Minimalismo: Paul Horwich, secondo Hartry Field.
Teoria modesta: Pascal Engel, Wolfgang Künne.
Realismo aletico: John L. Austin, primo e terzo Hilary Putnam, William Alston, Richard
Kirkham, Tim Williamson, Marion David.
Antirealismo aletico: John Dewey, secondo Hilary Putnam, Michael Dummett, Crispin
Wright.
Antirealismo aletico definizionale: Charles S. Peirce, William James.
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Non illustrerò tutte queste posizioni, che probabilmente non sono
neppure esaustive, e che corrispondono a classificazioni spesso leggermente
forzate. Come si vede dall’elenco dei nomi, ci sono autori che ricorrono
sotto più etichette, talvolta in distinti momenti della vita, talvolta no. Gente
che ha cambiato idea, gente le cui idee sono difficili da far stare sotto
un’etichetta sola.
Mi soffermerò, un po’, su tre sole scelte. Quella di Frege, quella di Tarski
e Kripke, quella di Horwich e Künne stesso – quando indico una coppia di
autori è perché le loro posizioni pur leggermente diverse sono molto vicine.
Il primo illustra la centralità della verità e le difficoltò che si incontrano nel
renderne conto; i secondi due presentano il modo tecnico fondamentale di
spiegare la nozione e un raffinamento di quel modo (con qualche
problema in più e qualche problema in meno); i terzi rappresentano le due
versioni contemporanee più sofisticate. In alternativa a questa ultima scelta
potrei, ma non vorrei trattare il tema della verità relativa, ciò che è vero per
lui, per te, per me.
Frege sulla verità
Frege, nell’Ideografia (1879), che è forse la sua opera più importante e
certamente quella meno controversa, non parla quasi della verità se non
nella prima pagina dell’Introduzione. Qui dice che la verità è l’obiettivo di
ogni ricerca scientifica, e che il suo riconoscimento avviene in due modi:
prima viene forse indovinata, poi viene provata. E subito aggiunge che ci
sono due modi di dimostrare qualcosa, uno puramente logico e uno che
poggia su fatti empirici. Il secondo sembra richiedere che si individuino dei
fatti, e che si stabilisca una relazione fra i fatti e una congettura. Cos’è
invece una verità logica? Ci torneremo, per ora non suggerirò nessuna
risposta.
Nelle diverse riflessioni e presentazioni della logica che si ritrovano nel
Nachlass fregeano e nel saggio “Il pensiero”, del 1918, cioè anni o molti anni
dopo, Frege afferma che la verità è la nozione centrale della logica.
Vediamo nel dettaglio le prime pagine de “Il pensiero”. (La lettura di un
testo e la sua discussione è un modo classico di lavorare in filosofia.)
Come la parola “bello” indica l’indirizzo dell’estetica e “buono” quello dell’etica, così la
parola “vero” indica l’indirizzo della logica. È ben certo che tutte le scienze si prefiggono
la verità, ma la logica se ne occupa in modo diverso. Essa si occupa della verità nello
stesso modo in cui la fisica si occupa della gravità o del calore. Scoprire verità è compito
di tutte le scienze: alla logica spetta scoprire le leggi dell’esser vero. La parola “legge” è
usata in un doppio senso. Se parliamo di leggi morali o di leggi politiche, intendiamo
delle prescrizioni che debbono essere seguite ed alle quali non sempre i fatti si adeguano.
Le leggi naturali invece sono l’universale dei fatti di natura, al quale questi sempre si
conformano. Quando parlo di leggi del vero, uso il termine legge più in questo secondo
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che nel primo. Qui, beninteso, si tratta non di fatti, ma di un essere. Ora, dalle leggi
dell’esser vero promanano prescrizioni per il credere, il pensare, il giudicare, l’inferire: e
così si parla anche di leggi del pensiero. Ma qui c’è il rischio di confondere cose diverse.
Se si dà all’espressione “leggi del pensiero” un senso simile a “leggi della natura” si
intende ciò che vi è di universale nei fatti psichici del pensiero. Una legge del pensiero in
questo senso sarebbe una legge psicologica. Per questa via si può arrivare all’idea che la
logica si occupi del processo psichico del pensiero e delle leggi psicologiche secondo le
quali il pensiero si verifica. Ma in questo modo il compito della logica sarebbe male
inteso: la verità infatti non avrebbe il posto che le spetta. Anche l’errore, la falsa credenza,
hanno le loro proprie cause, al pari della conoscenza corretta. Sia la credenza nel falso
che la credenza nel vero avvengono secondo leggi psicologiche. Una derivazione da
queste leggi ed una spiegazione di un processo psichico che approda ad una credenza,
non può mai sostituire la prova della validità di ciò a cui questa credenza si riferisce. Non
potrebbero aver partecipato a questo processo psichico anche leggi logiche? Non voglio
negarlo; ma quando si tratta della verità, la possibilità non può bastare. È possibile che
anche qualcosa di non logico vi abbia preso parte e che abbia fatto deviare dalla verità.
Soltanto dopo che avremo scoperto le leggi dell’esser vero, potremo deciderlo; ma allora
probabilmente potremo fare a meno della derivazione e della spiegazione del processo
psichico, se quel che ci interessa sapere è se è giustificata la credenza a cui tale processo
approda. Per escludere ogni fraintendimento e per non cancellare i confini fra psicologia
e logica, assegno alla logica il compito di trovare le leggi dell’esser vero e non quelle della
credenza, del pensiero. Nelle leggi dell’esser vero si sviluppa il significato della parola
“vero”.
Innanzitutto, Frege è teso a distinguere logica e psicologia. Studiare come
funzionano i processi di pensiero è proprio della psicologia. Anche se può
aver effetto su di essi, la logica non riguarda i processi psichici, per es le
credenze. La logica riguarda la validità dei contenuti di un processo
psichico – non la validità della credenza, ma di ciò cui essa si riferisce.
Possiamo capire subito la centralità della verità in logica, se descriviamo
questa come la scienza dell’inferenza vera, cioè di come si trasmetta la verità, così che
da enunciati veri si derivino enunciati veri. La restrizione dalla correttezza alla
verità è discutibile, ma la logica assertiva è il cuore della logica, e
storicamente il suo nucleo più importante3 – ed è cosa per altro già
sostenuta da Aristotele nel De interpretatione. La concezione classica della
verità, quella di Platone e Aristotele, è spesso stata considerata
corrispondentista – un enunciato sarebbe vero se corrisponde a come stanno
le cose. Discuteremo meglio della corrispondenza – per ora passatemi
questa presentazione generica. Frege rifiuta la concezione della verità come
corrispondenza. La corrispondenza da una parte vede quelli che
chiamiamo i portatori della (proprietà della) verità (se la verità sia una
proprietà è un’altra cosa dibattutissima). Per ora Frege non mette in
discussione che la verità sia una proprietà, e non sceglie un portatore della
verità, parlando di immagini, rappresentazioni, enunciati e pensieri (ma fra
poco sceglierà gli enunciati in quanto esprimono pensieri). Il problema
della corrispondenza gli sembra essere che una corrispondenza andrebbe
3
Anche se esistono logiche per tutti i tipi di discorso, per es la logica deontica, che copre enunciati imperativi e
commissivi.
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concepita come una perfetta sovrapposizione fra gli elementi che si fanno
corrispondere e qualunque portatore scegliessimo per la verità, non
riusciremmo a sovrapporlo a ciò che rappresenta. Wittgenstein propone
pochi anni dopo una teoria pittografica del significato che concepisce gli
enunciati come immagini di stati di cose. Il Tractatus logico-philosophicus, che
pubblica nel 1921, articola una concezione matematica e non ingenua della
nozione di immagine come corrispondenza stabilita da una funzione che
proietta gli elementi di una rappresentazione sugli elementi di uno stato di
cose. Neppure questo testo, però, riesce a risolvere i problemi della
corrispondenza.
Da un punto di vista linguistico la parola «vero» si presenta come un termine di
proprietà. Da ciò origina il desiderio di delimitare più precisamente l'ambito nel quale
la verità può venir affermata, nel quale la verità possa in genere entrare in linea di
conto. La verità si vede affermata di immagini, rappresentazioni, enunciati e pensieri.
Colpisce il fatto che siano qui raggruppati oggetti che possiamo vedere e sentire assieme
ad altri che non possono venir percepiti con i sensi. Questo fatto tradisce l'intervento
d'uno spostamento di significato. Infatti, possiamo dire in senso proprio che
un'immagine, in quanto mera cosa visibile e tangibile, è qualcosa di vero? e una pietra
o una foglia non lo sarebbero? E ovvio che non diremmo vera l'immagine se non vi
fosse un'intenzione che essa sia vera: l'immagine deve rappresentare qualcosa. Anche la
rappresentazione non viene detta vera in sé ma solo rispetto a un'intenzione di farla
corrispondere a qualcosa. È a partire di qui che si può supporre che la verità consista in
una corrispondenza di un'immagine con quanto viene raffigurato. La corrispondenza è
una relazione. Ma ciò è contraddetto dal modo d'uso della parola «vero», che non è un
termine di relazione e non contiene alcun rimando ad alcunché d'altro con cui qualcosa
dovrebbe concordare. Se non so che una certa immagine deve rappresentare il Duomo
di Colonia non so con che [60] cosa dovrei confrontare l'immagine per decidere della sua
verità. E inoltre la corrispondenza può essere completa solo allorché le cose
corrispondenti coincidano, e non siano pertanto in alcun modo cose distinte. Si
dovrebbe poter controllare l'autenticità di una banconota cercando di farla combaciare
stereoscopicamente con una autentica. Ma sarebbe ridicolo il tentativo di far
combaciare stereoscopicamente una moneta d'oro con un biglietto da venti marchi. Far
combaciare una rappresentazione con una cosa sarebbe possibile solo se la cosa fosse
anch'essa una rappresentazione. Ed esse combacerebbero solo se la prima
corrispondesse completamente con la seconda. Ma non è questo che si intende
quando si definisce la verità come corrispondenza di una rappresentazione con qualche
cosa di reale. È infatti essenziale proprio che ciò che è reale sia distinto dalla
rappresentazione. Ma allora non c'è nessuna concordanza completa, nessuna verità
completa. E quindi non vi sarebbe proprio niente di vero, dal momento che ciò che è
vero a metà è non vero (ist unwahr). La verità non tollera i più o meno. Ma come! Non
si può stabilire che c'è verità quando sussiste una corrispondenza sotto un qualche
aspetto? Ma sotto quale? Cosa dovremmo mai fare per decidere se qualcosa sia vero?
Dovremmo ad esempio indagare se sia vero che una rappresentazione e un che di
reale concordano nell'aspetto stabilito. Ma con questo ci troveremmo nuovamente di
fronte a una questione dello stesso tipo, e il gioco potrebbe ricominciare da capo.
Fallisce quindi questo tentativo di spiegare la verità nei termini della corrispondenza. Ma
con ciò fallisce anche ogni altro tentativo di definire l'«esser vero». Infatti in una
definizione verrebbero fissate alcune caratteristiche e, nell'applicazione a un caso
particolare, si tratterebbe sempre di vedere se sia vero o no che queste caratteristiche
concordano. Così ci si muoverebbe in un circolo. È pertanto probabile che il contenuto
della parola «vero» sia di una specie del tutto singolare e indefinibile.
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Tre cose. (i) Un problema simile è discusso da Socrate e Cratilo, nel
dialogo di cui questi è il personaggio eponimo. Lì il problema era la
correttezza di un nome – e Cratilo sostiene che il nome deve assomigliare al
nominato. Assomigliare quanto? Essere una copia esatta?, incalza Socrate.
Una copia esatta, però, di Giorgio Napolitano non sarebbe il suo nome,
bensì un altro individuo. Qui è la correttezza di un enunciato (una frase
dotata di significato, per Frege una frase che esprime un pensiero, e solo
per questo può essere vera, o non esserlo, come vedremo fra poco
affermare dallo stesso Frege). L’identità è il limite massimo della
somiglianza, e della corrispondenza. Euclide concepisce l’identità come
sovrapponibilità, esattamente come qui Frege concepisce la corrispondenza.
Frege, che conosce la teoria delle funzioni (che aveva studiata a Göttingen
negli anni ’60 dell’Ottocento) e la applica all’analisi delle lingue, avrebbe
potuto concepire la corrispondenza in modi più sofisticati, come fa
Wittgenstein nel Tractatus. L’idea che la verità richieda una corrispondenza
per identità è stata difesa da molti, come ho accennato prima (Moore e
Russell circa 1900, (Meinong), McDowell, Dodd, Hornsby). Il passaggio
per comprendere come ciò possa essere concepito è la discussione fra
Frege e Russell sulla proposizione. Un modo diverso di comprenderla è
l’ontologia platonica che Frege argomenta per i sensi e i pensieri. (Frege
analizza il significare distinguendo espressione, senso e significato. La
terminologia è un po’ così. Frege usa ‘significato’ per l’entità significata
dall’espressione. Il significato di ‘Giorgio Napolitano’ è Giorgio
Napolitano, lui! Il significato di ‘Angela Merkel’ è Angela Merkel, lei! Il
senso di un’espressione è il modo in cui ci fa pensare al suo significato.
Giorgio Napolitano era negli anni ’70 il capogruppo del Partito Comunista
alla Camera dei deputati. Se ne parlo con l’espressione ‘Il capogruppo alla
Camera del PCI negli anni ’70’ penso a Giorgio Napolitano in un modo
particolare, diverso da quando lo penso usando l’espressione ‘L’attuale
Presidente della Repubblica’. Preferiremmo parlare di concetti o modi di
concepire, o di idee, piuttosto che di sensi. L’ontologia dei sensi che Frege
immagina ne “Il pensiero” è una nuova versione dell’Iperuranio di Platone,
del mondo delle idee.)
Ecco come Russell argomenta il significare, rendendo il pensare molto più
vicino a ciò cui si pensa, e dunque avvicinando rappresentazione e
rappresentato, quasi identificandoli.
Concerning sense and meaning, I see nothing but difficulties which I cannot overcome.
I explained the reasons why I cannot accept your view as a whole in the appendix to my
book, and I still agree with what I there wrote. I believe that in spite of all its snowfields
Mont Blanc itself is a component part of what is actually asserted in the proposition
'Mont Blanc is more than 4000 metres high'. We do not assert the thought, for this is a
private psychological matter: we assert the object of the thought, and this is, to my mind,
a certain complex (an objective proposition, one might say) in which Mont Blanc is itself
a component part. If we do not admit this, then we get the conclusion that we know
nothing at all about Mont Blanc. This is why for me the meaning of a proposition is not
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the true, but a certain complex which (in the given case) is true. In the case of a simple
proper name like 'Socrates', I cannot distinguish between sense and meaning; I see only
the idea, which is psychological, and the object. Or better: I do not admit the sense at all,
but only the idea and the meaning. I see the difference between sense and meaning only
in the case of complexes whose meaning is an object, e.g., the values of ordinary
mathematical functions like ξ + 1, ξ2, etc. But I admit that there are certain difficulties in
this view. From what I have said about Mont Blanc you will see that I cannot
accommodate the identity of all true propositions. For Mont Blanc is to my mind a
component part of the proposition discussed above, but not of the proposition that all
men are mortal. This alone proves that the two propositions are distinct from each other.
(Dalla lettera del 12.12.1904 di Russell a Frege. Frege 1980: 169)
La lettera di Russell replica a una lettera di Frege, in cui questi argomenta
che
[t]ruth is not a component part of a thought, just as Mont Blanc with its snowfields is
not itself a component part of the thought that Mont Blanc is more than 4000 metres
high. But I see no connection between this and what you go on to say: 'For me there is
nothing identical about two propositions that are both true or both false'. The sense of
the word 'moon' is a component part of the thought that the moon is smaller than the
earth. The moon itself (i.e., the meaning of the word 'moon') is not part of the sense of
the word 'moon'; for then it would also be a component part of that thought. We can
nevertheless say: 'The moon is identical with the heavenly body closest to the earth'.
What is identical, however, is not a component part but the meaning of the expressions
'the moon' and 'the heavenly body closest to the earth'. We can say that 3 + 4 is identical
with 8 — 1 (Dalla lettera del 13.11.1904 di Frege a Russell. Frege 1980: 163)
Torno su Frege e sul “Pensiero”. Continuiamo a leggere
Quando si afferma di un'immagine che essa è vera non si vuole veramente ascriverle
una proprietà che le spetterebbe in completo isolamento da altre cose, ma si ha in mente
qualcosa di totalmente diverso: si vuole dire che quell'immagine corrisponde in qualche
modo a questa cosa.
«La mia rappresentazione corrisponde al Duomo di Colonia» è un enunciato: si tratta
adesso della verità di questo enunciato. Quella che, in modo del tutto indebito, viene
chiamata la verità di immagini e rappresentazioni viene quindi ricondotta alla verità di
enunciati. Cos'è che viene denominato un enunciato? Una successione di suoni; ma a
condizione che essa abbia un senso, senza voler asserire con ciò che ogni successione
sensata di suoni sia un enunciato. E quando si dice vero un enunciato si pensa in
effetti al suo senso. Sembra quindi che ciò per cui si pone la questione dell'esser vero
sia il senso di un enunciato. Il senso di un enunciato è forse una rappresentazione? A
ogni modo l'esser vero non consiste nella corrispondenza di questo senso con qualcosa
d'altro, perché altrimenti si riproporrebbe all'infinito la questione dell'esser vero.
Senza voler con ciò dare una definizione, chiamo pensiero qualcosa per cui possa in
generale porsi la questione della verità. Annovero quindi tra i pensieri sia ciò che è falso
che ciò che è vero '. In base a ciò [61] posso dire: il pensiero è il senso di un enunciato —
senza voler con questo asserire che il senso di ciascun enunciato sia un pensiero. Il
pensiero, in sé non sensibile, si riveste dell'abito sensibile dell'enunciato e diviene così
afferrabile da parte nostra. Diciamo che l'enunciato esprime un pensiero.
Il pensiero è qualcosa che non può esser percepito con i sensi, e tutte le cose
sensibilmente percepibili sono escluse dall'ambito di ciò per cui possa in generale porsi la
questione della verità. La verità non è una proprietà che corrisponda a un genere
particolare di impressioni sensibili. Essa si distingue quindi nettamente dalle proprietà
che denominiamo con le parole «rosso», «amaro», «dal profumo di lillà». Ma non
vediamo forse che il sole è sorto? e non vediamo al tempo stesso anche che ciò è vero?
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Il fatto che il sole sia sorto non è un oggetto che emetta raggi che giungono ai miei occhi,
non è una cosa visibile come lo è il sole stesso. Sulla base di impressioni sensibili si
riconosce vero che il sole sia sorto. Ciò nonostante l'esser vero non è una proprietà
percepibile sensibilmente. È sempre sulla base di impressioni sensibili che una cosa è
riconosciuta essere magnetica, sebbene a questa proprietà corrisponda tanto poco una
specie particolare di impressioni sensibili quanto ne corrisponda alla verità. Sotto questo
aspetto le due proprietà concordano. Ma per riconoscere che un corpo è magnetico ci
sono indispensabili impressioni sensibili. Se di contro trovo vero che in questo
momento non sento alcun odore non mi baso su impressioni sensibili.
Eppure dà da pensare che non possiamo riconoscere una proprietà in una cosa senza
con ciò stesso trovare vero il pensiero che questa cosa ha questa proprietà. Quindi a
ciascuna proprietà di una cosa è connessa una proprietà di un pensiero, quella della verità.
È anche degno di nota che l'enunciato «sento un profumo di violette» ha né più né
meno lo stesso contenuto dell'enunciato «è vero che sento un profumo di violette».
Pare così che non venga aggiunto niente al pensiero con l'attribuirgli la proprietà della
verità. Ma non è tuttavia un grande successo se dopo lunghi tentennamenti e indagini
faticose il ricercatore può finalmente dire «ciò che avevo supposto è vero?». Il significato
della parola «vero» sembra essere veramente unico nel suo genere. Non potrebbe darsi
che abbiamo qui a che fare con qualcosa che non può esser denominato una proprietà
nel senso ordinario? Nonostante questo dubbio intendo per il momento tenermi ancora
all'uso [62] linguistico comune, ed esprimermi come se la verità fosse una proprietà,
finché non verrà trovato qualcosa di più appropriato.
Al fine di chiarire più precisamente che cosa chiamo pensiero distinguo diversi tipi
di enunciati. Non si vorrà contestare un senso a un enunciato imperativo, ma questo
senso non è di un tipo per cui possa porsi la questione della verità. Non chiamerò quindi
pensiero il senso di un enunciato imperativo; così pure sono da escludere proposizioni
ottative e preghiere. Possono venir presi in considerazione quegli enunciati nei quali
comunichiamo o asseriamo qualcosa. Non considero tuttavia tali le esclamazioni in cui si
dà sfogo ai propri sentimenti, il gemere, il sospirare, il ridere, a meno che essi, tramite un
accordo particolare, non siano destinati a comunicare qualcosa. Ma cosa avviene nel caso
degli enunciati interrogativi? Con un termine interrogativo articoliamo un enunciato
incompleto, che ottiene un senso vero e proprio solo grazie al completamento da noi
richiesto. Non prendiamo quindi in considerazione i termini interrogativi. Diverso è il
caso degli enunciati interrogativi, ci aspettiamo di sentire un «sì» o un.«no». La risposta
«sì» dice la stessa cosa che un enunciato assertorio; perché per il suo tramite viene posto
come vero il pensiero che è già interamente contenuto nell'enunciato interrogativo. Si
può quindi formare un enunciato interrogativo a partire da qualsiasi enunciato assertorio.
Un'esclamazione non è pertanto da considerare come una comunicazione, poiché non
può venir costruito nessun enunciato interrogativo che le corrisponda. L'enunciato
interrogativo e quello assertorio contengono lo stesso pensiero; ma quello assertorio
contiene ancora qualcosa d'altro, cioè l'asserzione. Anche l'enunciato interrogativo
contiene qualcosa d'altro, vale a dire una richiesta. In un enunciato assertorio occorre
perciò distinguere due elementi: il contenuto, che esso ha in comune con il
corrispondente enunciato interrogativo, e l'asserzione. Il primo è il pensiero, o
perlomeno contiene il pensiero. E quindi possibile esprimere un pensiero senza
presentarlo come vero. In un enunciato assertorio le due cose sono talmente legate
che è facile lasciarsene sfuggire la scomponibilità. Distinguiamo quindi:
1. l'afferrare il pensiero — il pensare;
2. il riconoscimento della verità di un pensiero — il giudicare;
3. la manifestazione di questo giudizio — l'asserire.
…
Il riconoscimento della verità lo [63] esprimiamo nella forma dell'enunciato assertorio;
non abbiamo bisogno a questo fine della parola «vero». E, se pure la utilizziamo,
l'autentica forza assertoria non sta in essa ma nella forma dell'enunciato assertorio, e
nel caso che questa perda la sua forza assertoria la parola «vero» non può ricostituirla.
Collegio Superiore dell’Università di Bologna
P. Leonardi La verità
febbraio 2014
12
Non leggerò oltre. Qui Frege sceglie i portatori della verità, i pensieri, cioè
il senso espresso fa una frase assertiva, o interrogativa. Le altre frasi non
sono “adatte alla verità” (truth-apt). E, come avevo anticipato, mantiene
l’idea che la verità sia una proprietà. Non una proprietà sensibile, Né una
proprietà che si attribuisce sulla base di esperienze sensibili (se trascuriamo
che cogliamo i pensieri solo quando sono espressi sensibilmente, a voce,
per iscritto, a gesti – ma questo a Frege, come al cartesiano Geraud De
Cordemoy, sembra una cosa non necessaria – la lingua dà voce al pensiero
ma non sarebbe uno strumento del pensiero, una tecnologia del pensiero,
un modo di pensare).
Ci sono altri due punti molto interessanti in questo pezzo. Il primo punto
oggi è quasi standard. Non ci sarebbe differenza di contenuto (prendo
l’esempio da Aristotele) fra ‘La neve è bianca’ ed ‘È vero che la neve è
bianca’ (o, “ ‘La neve è bianca’ è vero”), cosa da cui Frege ricava che ‘vero’
non aggiunge nulla al pensiero che si esprime, anche se riuscire a dire vera
una congettura, aggiunge subito dopo, è un gran risultato (Frege, dunque,
nel 1918, su questo punto, pensa quanto pensava circa 40 anni prima,
nell’Introduzione all’Ideografia). ‘Vero’, dunque, non sarebbe un’espressione
insensata, ma a senso nullo ovvero privo di senso, come avrebbe potuto
dire Wittgenstein nel Tractatus. Il secondo punto è che ‘vero’ (o ‘è vero’
ecc) non sarebbe un indicatore di forza assertiva. Frege parla qui di forza
come di un terzo livello del significare. Trenta-quaranta anni dopo Austin
riprenderà questa terminologia e svilupperà una teoria di questo terzo
livello del significare nella propria dottrina degli atti linguistici, se il senso
appartiene al livello degli atti locutori, degli atti di dire qualcosa, la forza
appartiene al livello illocutorio, degli atti che si compiono nel dire qualcosa.
Posso dire qualcosa dotata di senso per fare un’asserzione, per esprimere
un giudizio, per esercitare la mia autorità (“Lei prende 30”, un tipico atto di
questo genere per un docente), per prendere un impegno, ecc. Ora ‘vero’
non sarebbe, secondo Frege, un indicatore di forza, qualcosa che dice che
sto compiendo un’asserzione, perché può ricorrere in enunciati secondari,
proferendo i quali non si compie un’asserzione, tipo ‘Se è vero che mio
cognato ha acquistato lui l’appartamento, mi dimetto subito’. Considerate
infatti questi tre proferimenti diversi:
È vero che la neve è bianca.
È vero che la neve è bianca?
È vero che la neve è bianca!
In tutti ricorre ‘è vero’, ma immaginando intonazioni diverse, che ho reso
con la punteggiatura finale, il primo è proferimento è un’asserzione, il
secondo una domanda, il terzo un’esclamazione (un’espressione di sorpresa,
di stupore).
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