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Corte costituzionale e riforma della Costituzione

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Corte costituzionale e riforma della Costituzione
ASSOCIAZIONE “GRUPPO DI PISA”
Seminario di discussione
Corte costituzionale e riforma della Costituzione
23 ottobre 2015
Firenze, Università degli Studi di Firenze
REPORT a cura di Lucrezia Lorenzini, Giuseppe Mobilio, Benedetta Vimercati
Presidente Andrea SIMONCINI
Il Gruppo di Pisa ha dedicato un’attenzione particolare al tema della riforma costituzionale.
Questo seminario è il secondo dopo quello svoltosi lo scorso anno a Roma e intende accendere i
riflettori, in particolare, sull’impatto potenziale ed effettivo che la riforma in itinere avrà sulla Corte
costituzionale. Questa attenzione è naturale ma non scontata visto che, come si avrà modo di
constatare, esiste molto materiale per una riflessione di tipo scientifico rispetto al quale è necessario
avere occasioni in cui confrontarsi.
Proponendo qualche riflessione per aprire la discussione, occorre partire da una constatazione:
la Corte costituzionale è tra gli oggetti della riforma. Il che vale a dire che il sistema delle garanzie
costituzionali è ormai stabilmente parte dell’area di temi coinvolta nel dibattito sulla riforma. Questo,
come si diceva, non è scontato perché, almeno nella prima fase del dibattito sulle riforme
costituzionali, sembrava operante una sorta di convenzione tacita – dovuta alla natura delle riforme –
per cui il tema dei diritti, dei principi fondamentali e delle garanzie fosse escluso. Quello che si è
registrato è stata, però, una forte attrazione del tema dei sistemi e delle procedure di garanzia
all’interno del dibattito della riforma.
Ma quali sono le modifiche introdotte dalla proposta Renzi-Boschi che interferiscono con la
Corte Costituzionale? Possono essere suddivise in due aree: le modifiche “dirette”, ovvero quelle
proposte che direttamente modificano la disciplina costituzionale della Corte, e quelle “indirette”,
che pur non alterando espressamente la disciplina costituzionale della corte, ne influenzano
concretamente il funzionamento.
Tre le prime possiamo annoverare: l’art 13 della proposta che intendere modificare l’art. 73
Cost. introducendo una procedura preventiva del giudizio di costituzionalità sulle leggi elettorali;
l’art. 39 che introduce in via eccezionale, in via di prima applicazione della legge, un giudizio
successivo diretto dalle minoranze parlamentari contro le leggi elettorali; l’art. 37 che modifica l’art.
135 Cost. sulla composizione della Corte ripartendo la nomina dei 5 giudici di origine parlamentare
tra Camera (nomina di 3 giudici costituzionali) e Senato (nomina di 2 giudici costituzionali).
Vi sono poi le cd. modifiche indirette, ovverosia gli impatti che la modifica può avere sul
funzionamento completo della Corte ma che non derivano da modifiche che si indirizzano
espressamente alla Corte medesima. Essendo la Costituzione un tutto organico, ogni modifica di una
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parte finisce per influenzare le altre e dunque le interferenze potenziali potrebbero essere moltissime;
nel pensare questo seminario si è pensato di soffermarci sulle due modifiche che piu
macroscopicamente avranno un influsso sulla Corte: la nuova procedura legislativa e la nuova
ripartizione delle competenze del Titolo V.
E’ evidente che questa è una scelta, vi sono molte altre riflessioni che potrebbero essere
avviate. Si pensi, ad esempio, al fatto che questa riforma si muove su due gambe: da una parte, la
riforma costituzionale e, dall’altra, la riforma elettorale già approvata (legge n. 52 del 2015).
Proviamo ad immaginare il “combinato disposto” della nuova legge elettorale che comporrà la
Camera in maniera diversa con il nuovo potere di nomina di 3 giudici costituzionali affidati alla
Camera dei deputati.
Ma si pensi, come ha già sottolineato in diverse occasioni il Prof. De Siervo, al prevedibile
impatto della nuova composizione del Senato sulle nuove funzioni a questo attribuite a riguardo della
Corte dovendo eleggerne due giudici. Sono state pubblicate alcune simulazioni della futura
composizione del Senato anche sulla base dell’applicazione – così come dice la proposta
costituzionale – di leggi proporzionali. Un sistema proporzionale, là dove si debbono eleggere due
senatori, produce un risultato sostanzialmente maggioritario e, quindi, la composizione finale del
Senato rischia di restare fortemente maggioritaria.
Il dibattito sulla riforma, che aveva come obiettivi dichiarati quelli di aumentare il pluralismo
ed evitare maggioranze che prendessero tutto (catch all), può portare ad avere – se queste simulazioni
sono vere – una composizione ipermaggioritaria non solo alla Camera ma anche al Senato. Da questo
punto di vista, aver attribuito la composizione di 1/3 della Corte nella maniera prefigurata dalla
riforma, apre tutta una serie di questioni; ma lo stesso si può dire della nuova procedura legislativa.
Se c’era un punto fermo nella discussione dei saggi del Governo Letta era che il criterio della
materie dovesse essere superato perché aveva generato la gran parte dei problemi del contenzioso
costituzionale. In realtà, questa proposta – dal punto di vista delle materie – comporta un
aggravamento perché, accanto al problema della definizione delle materie del Titolo V, si aggiungerà
il potenziale conflitto di tipo procedurale sulla scelta delle procedure legislative.
Concludendo, si potrebbe svolgere una riflessione più generale: direttamente o indirettamente,
in maniera esplicita o surrettizia, assistiamo ad una progressiva e crescente attrazione dei sistemi di
garanzia costituzionale all’interno del dibattito sulla riforma. Questo è un passaggio che non può
essere indolore poiché, in linea puramente teorica, di fronte ad una riforma che accentua fortemente
il ruolo dell’esecutivo nella forma di governo, una revisione parallela dei sistemi di garanzia avrebbe
avuto senso. Non ci troviamo però di fronte ad un intervento sulla Corte che segue ad una riflessione
complessiva e razionale sul ruolo e sul funzionamento della Corte.
Nella prima fase del dibattito sulle riforme (nell’ultimo quarantennio), si assiste ad una sorta
di accordo tacito per cui il tema delle garanzie è stato volutamente escluso perché oggetto delle
riforme doveva essere la parte organizzativa. È indubbio però che la distinzione tra parte
organizzativa e non organizzativa è una distinzione che non tiene. Come convenzione narrativa della
politica si cercava di evitare questo tema dicendo che, fino alla riforma del 2001, resisteva un
consenso diffuso sul fatto che la Corte avesse dato buona prova di sé. Le proposte di modifica
presentate sulla parte non organizzativa erano considerate di secondo livello, derivanti da modifiche
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sostanziali che servivano a riallineare la Corte rispetto a modifiche concernenti la forma di governo
o di Stato.
Con il 2005, con la riforma poi fallita a causa del referendum, comincia un cambiamento
sempre più esplicito, volto a mettere mano anche agli istituti di garanzia. La proposta (fallita) di
riforma del 2005 prevedeva la modifica della composizione della Corte; si riducevano a 4 i membri
designati dal Presidente e dalla magistratura e si portavano a 7 quelli parlamentari (4 nominati dal
Senato federale e 3 dalla Camera). Questa modifica, che era una modifica di primo livello, aveva una
intenzione chiara; facendo trasparire un giudizio di valore sulla attività della Corte, la riforma cercava
di ridefinire l’equilibrio interno della Corte stessa.
La riforma attuale è abbastanza in continuità: da un lato, c’è una riforma della composizione
di cui solo in futuro potremo verificarne la neutralità (al di là della discussione che sembra enfatizzare
il ruolo di rappresentanza delle minoranza) e, dall’altro, c’è una modifica che non ha come ratio il
riallineamento al bicameralismo, che è quella dell’introduzione del giudizio preventivo sulle leggi
elettorali. Quest’ultima tocca il delicato meccanismo dell’accesso alla Corte e difficilmente si può
ascrivere al tema del riallineamento, essendo piuttosto una reazione alla sentenza n. 1 del 2014 della
Corte, che ha prodotto – tra i suoi tanti effetti – anche quello di delegittimare una istituzione
parlamentare eletta sulla base di una legge incostituzionale.
Quello che ci si può domandare è: “Ha senso introdurre una modifica strutturale cosí rilevante,
limitandola al solo caso delle leggi elettorali?”. Si poteva forse cogliere l’occasione per una riflessione
più articolata, dal momento che, di per sé, il giudizio preventivo meriterebbe maggior attenzione; la
difficoltà strutturale del nostro sistema a sindacare i vizi procedurali delle leggi – laddove la Corte è
posta di fronte all’alternativa tra annullamento di tutto l’impianto normativo, per un motivo
procedurale, ovvero al suo mantenimento in vita qualora non sussistono anche vizi sostanziali – è
sotto gli occhi di tutti. Tanto è vero che fino ad oggi, il giudizio di costituzionalità su vizi procedurali
ha riguardato sostanzialmente solo le leggi di conversione di decreti legge. Con questa proposta, come
vedremo, ci gtroveremo di fronte ad un potenziale aumento del contenzioso sui vizi di procedura;
prevedere, dunque, una forma di accesso preventivo alla giustizia costituzionale avrebbe potuto avere
un senso.
Una ultima riflessione è su un altro grande tema, già da tempo attratto nell’area della riforma
è quello della revisione della Costituzione, ovverosia il sistema di garanzia procedurale della
Costituzione previsto dall’art. 138 Cost.. La proposta di legge su cui oggi riflettiamo, in apparenza
non tocca l’art. 138 Cost. Ciononostante, se osserviamo la realtà dei fatti, possiamo notare una sorta
di modifica tacita. Il Presidente del Consiglio ha ribadito in moltissime occasioni che il referendum
eventuale, ci sarà, invece, in ogni caso. Qualcuno ha però obiettato che in caso di raggiungimento dei
2/3 dei voti in seconda deliberazione, la Costituzione vieta tale referendum. Questo dibattito oggi
sembra aver perso senso, visto che la modificazione dell’equilibrio delle forze che sostengono questa
proposta costituzionale non sembra piu garantire la maggioranza dei 2/3; ma ai tempi del cd. “Patto
del Nazareno”, vi era la fondata possibilità di una tale maggioranza in seconda lettura. Dinanzi a
questa eventualità, con una dichiarazione alquanto surreale, il premier aveva affermato che avrebbe
chiesto alla propria maggioranza di non votare la riforma in modo da far scendere la maggioranza a
quella - solo - assoluta. Nei fatti, dunque, la natura del referendum previsto dall’art.138 è cambiata.
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E’ diventato un referendum “governativo”, di “supporto popolare” alla riforma; uno strumento che
con la ratio della procedura di revisione costituzionale non ha nulla a che vedere. Un referendum che
serve come “plebiscito popolare” per il Governo proponente e non certo come strumento delle
minoranze che cosí cercano di garantirsi una più ampia discussione parlamentare.
I Sessione
La composizione della Corte costituzionale, tra riforme dirette e riforme indirette
Andrea CARDONE - Introduzione
In una prospettiva di analisi della composizione della Corte costituzionale tra riforme dirette
e riforme indirette, è utile mettere in evidenza come lo stesso titolo usato per definire l’oggetto di
questa introduzione ci indichi di guardare al tema della riforma dell’art. 135 Cost. non come se fosse
un singolo atto quanto piuttosto un atto inserito in un processo; un processo che affonda le radici in
un passato ormai non più recentissimo e che con ogni probabilità è destinato ad andare anche oltre il
testo oggi è in discussione, il quale non esaurisce il novero delle questioni già in passato sollevate in
tema di composizione della Corte costituzionale.
Se, dunque, si guarda alla riforma della composizione della Corte come atto inserito in un
processo che si sviluppa da decenni, ci si accorge che è utile prendere in considerazione i precedenti
di questa riforma costituzionale. Esperendo tale tentativo, ci si avvede in questo modo che si sono
almeno due significativi precedenti. Il primo è il testo approvato dalla Commissione bicamerale
presieduta dall’On. D’Alema che alzava il numero dei componenti della Corte da 15 a 20, dei quali 5
nominati dal Presidente della Repubblica, 5 dalle Supreme magistrature, 5 dal Senato della
Repubblica e 5 da un Collegio di rappresentanti territoriali, destinato ad integrare una speciale
sessione dei lavori dello stesso Senato. Il tema della composizione della Corte è stato affrontato anche
dal disegno di legge di revisione costituzionale proposto dal Governo Berlusconi che, lasciando
inalterato il numero dei giudici, incideva però sulla loro derivazione prevedendo la seguente
ripartizione nella nomina dei 15 giudici: 4 fossero nominati dal Presidente della Repubblica, 4 dalle
Supreme magistrature ordinarie e amministrativa, 3 dalla Camera dei deputati e 4 dal Senato federale
della Repubblica.
Richiamare questi precedenti può avere un senso perché la riforma costituzionale in itinere
condivide con questi precedenti tre elementi qualificanti: in primo luogo, l’attenzione alla riforma del
potere di nomina (la composizione della Corte viene riformata centrando l’attenzione sul potere di
nomina); in secondo luogo, il potere di nomina che è oggetto di revisione è quello del Parlamento (la
riforma della composizione si pone in correlazione alla riforma del bicameralismo e, quindi,
all’abbandono del bicameralismo perfetto e paritario); terzo punto in comune è che non vengono
alterate le norme sull’elettorato passivo, così come non vengono dettate nuove norme per risolvere
alcuni dei problemi circa la composizione della Corte che già ai tempi della Bicamerale D’Alema la
dottrina non aveva mancato di sottolineare.
In questo quadro, se si tiene conto della linea di continuità che unisce i tre tentativi di riforma
della composizione della Corte, ci si avvede come vengano in luce tre gruppi di questioni: un primo
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gruppo di questioni è quello relativo al testo attuale dell’art. 135 Cost., ovverosia le cd. riforme dirette;
un secondo gruppo è quello delle riforme indirette che, pur riguardando altri aspetti - come il
bicameralismo e il Titolo V - al contempo incidono sulla composizione della Corte. Un terzo gruppo
di questioni è quello relativo alle riforme che potremmo definire mancate, ovverosia quello che nel
testo non è previsto in tema di composizione e che invece avrebbe potuto essere presente.
Per quel che concerne le riforme dirette, l’elemento principe è il superamento del monopolio
del Parlamento in seduta comune nella nomina dei 5 giudici costituzionali. La riforma prevede, infatti,
che i 5 giudici di origine parlamentare vengano nominati 3 dalla Camera e 2 dal Senato. Questa
previsione era contenuta nel testo originario che era stato proposto dal Governo, che era stato
approvato in prima lettura dal Senato e che, invece, era stato soppresso in prima lettura alla Camera,
per tal via determinando il ritorno alla composizione che troviamo nel testo vigente dell’art. 135 Cost.
In seconda lettura, il 13 ottobre scorso, la previsione è stata infine reinserita nel testo dal Senato.
Emerge, pertanto, come questo sia stato un punto molto discusso nei lavori parlamentari, in
relazione al quale si evince la conflittualità tra Camera e Senato che si spiega ragionevolmente
tenendo conto del tentativo del Senato di mantenere una centralità nel panorama istituzionale a fronte
di un disegno di legge di revisione complessivo che sembra volerne ridimensionare il ruolo.
Tale iter di revisione così complesso, combattuto e articolato non è sfuggito alla dottrina che
ha commentato variamente questa previsione.
Le posizioni espresse dalla dottrina possono essere ricondotte all’interno di due grandi aree.
Vi è una prima area a cui si possono ascrivere i contributi di coloro che hanno manifestato perplessità
sul potere di nomina al Senato; perplessità che sono state avanzate su diversi piani: il piano
dell’imparzialità dei giudici dei giudici costituzionali - e quindi dell’imparzialità della Corte -, il piano
della compatibilità tra la rappresentanza di interessi e la logica sottesa al funzionamento della giustizia
costituzionale e, infine, il piano dell’opportunità di riformare le regole sulla composizione della Corte
che, alla luce dell’esperienza ormai quasi sessantennale di attività, hanno dato un’ottima prova di sé.
Vi è però anche altra parte della dottrina che ha sottolineato le ragioni per cui sarebbe
opportuno - se non necessario - riformare il potere parlamentare di nomina. È stato infatti rilevato
come questa riforma sia necessaria al fine di garantire che il Senato della Repubblica possa continuare
ad avere un peso nel procedimento di nomina dal momento che una nomina effettuata da un
Parlamento in seduta comune con un Senato così sottorappresentato finirebbe - di fatto - per ridurre
a lumicino la possibilità dei Senatori di incidere sulla nomina da parte del Parlamento in seduta
comune. In termini più generali, il potere di nomina riconosciuto al Senato servirebbe come misura
compensatoria dell’impianto sostanzialmente centralistico della riforma. Ancora si è detto che la
misura è opportuna dal momento che consente di diversificare le fonti di legittimazione della giustizia
costituzionale. Inoltre, consentire ad un Senato espressione delle autonomie territoriali di nominare
due giudici può essere utile per evitare che la Corte costituzionale, in sede di prima attuazione della
riforma, mostri una tendenza alla deriva centralistica nella propria giurisprudenza, soprattutto nei
giudizi in via principale. All’interno di questa area si può ricondurre la posizione di chi, come Nicola
Lupo, ha proposto che tutti e 5 i giudici di estrazione parlamentare vengano nominati dal Senato.
In questo dibattito vi è però un aspetto rimasto in ombra ovverosia la natura della particolare
legittimazione di cui i due giudici nominati dal Senato dovrebbero godere proprio per effetto di essere
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nominati dal Senato. Occorre infatti porsi l’interrogativo di cosa si debba intendere per giudici
regionali. La norma si presta - in questo senso - ad essere interpretata secondo due concezioni
alternative e sarà in definitiva solo la prassi del potere di nomina a dire quale delle due prevarrà.
Una prima concezione è quella del giudice regionale come portatore di interessi regionali e
cioè quale soggetto che, nonostante non sia titolare di una funzione di rappresentanza in senso
pubblicistico, è comunque titolare di un ufficio di rappresentazione degli interessi pubblici all’interno
dei giudizi di competenza della Corte; vi è poi un’altra concezione alternativa che vede nel giudice
di nomina del Senato come un giudice particolarmente esperto della materia regionalistica.
È appena il caso di sottolineare che entrambe le concezioni presentano punti di forza e, al
contempo, punti di debolezza.
La prima concezione (giudice regionale come giudice portatore di interessi) ha il pregio di
realizzare un collegamento territoriale più stretto; d’altro canto, essa presta il fianco ad alcune
possibili censure che si riferiscono alla compatibilità di questa rappresentanza di interessi con la
funzione propria della giustizia costituzionale.
Per converso, la seconda concezione, che vede nel giudice regionale un giudice specializzato,
presenta problematiche di diversa natura che erano già state sollevate al tempo della Commissione
bicamerale D’Alema. Il Prof. Romboli mise allora in evidenza il rischio della fondazione di una
giurisprudenza dei giudici. I giudici regionali, in quanto relatori stabili rispetto alle questioni
regionali, potrebbero diventare fattore di sclerotizzazione della giurisprudenza costituzionale. Lo
stesso Passaglia ha dimostrato quanto forte sia questo rischio non solo nell’esperienza costituzionale
italiana, ma anche in quella di altri ordinamenti costituzionali quali quello francese e belga.
Se si affronta la questione in linea teorica ed astratta, alcune osservazioni consentono di
ridimensionare talune di queste perplessità che attengono ad entrambe le figure di giudice
costituzionale regionale evocate.
Così, se si guarda al giudice regionale come portatore di interessi, un’indicazione significativa
proviene dal diritto comparato; se si guarda al diritto comparato ci si accorge che in alcuni Stati
federali o propriamente regionali (Germania, Austria, Italia, Spagna) esiste un collegamento tra
composizione della Corte e autonomie territoriali, pur tenendo conto degli opportuni distinguo. È
peraltro significativo che qualcosa di analogo esiste anche nell’esperienza dell’Unione europea,
benché esperienza non del tutto assimilabile allo Stato costituzionale. La Corte di Giustizia è
dominata dal principio di collegamento territoriale: i giudici, nominati dagli Stati membri, esprimono,
infatti, il territorio nell’Unione.
Sempre guardando al diritto comparato, in tutte queste esperienze - sempre in linea astratta e
teorica - non si dubita della imparzialità di questi giudici costituzionali. Questa viene garantita dalle
norme in tema di durata in carica, di elettorato passivo, ma soprattutto dalle norme in tema di
procedimento e di maggioranze richieste per la nomina.
D’altro canto, anche in relazione alla figura del giudice regionale quale esperto di diritto
regionale, già in passato la dottrina non ha mancato di rivelare come lo stesso Parlamento in seduta
comune, quando ha esercitato il potere di nomina, lo ha fatto avendo riguardo anche alla competenza
tecnica - anche in materia di diritto regionale - dei giudici che nominava. Questo non deve destare
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particolari perplessità perché è insito, a titolo esemplificativo, nell’elettorato passivo della componete
accademica.
Rimanendo in questa prospettiva, di ridimensionamento in astratto dei dubbi che tale nomina
solleva, entrambe le concezioni di giudice regionale rispondono ad altrettanti modelli di giustizia
costituzionale e possono trovare cittadinanza nell’ambito della teoria della giustizia costituzionale. .
L’idea di un giudice regionale quale portatore di interessi regionali rimanda all’idea della
giustizia costituzionale quale direzionamento arbitrale delle contrapposte sfere di azione dei pubblici
poteri. È una lettura che giova dal punto di vista teorico nell’inquadramento del giudizio in via
principale del conflitto tra enti ma è anche una lettura che la scienza costituzionalista italiana ormai
accredita come chiave di interpretazione del giudizio in via incidentale, rappresentato come un
direzionamento arbitrale delle contrapposte pretese dei giudici, portatori dei principi, e dei legislatori,
portatori delle politiche di maggioranza.
Ma l’ascendenza teorica può vantarla anche la concezione del giudice regionale come giudice
particolarmente esperto della materia regionalistica. Qui si tratta di una ascendenza un po’ più datata.
Si può infatti evidenziare che questa idea rimanda alla dimensione originale della giustizia
costituzionale come controllo di costituzionalità che si traduce in un giudizio astratto di conformità
logica.
La nostra esperienza di giustizia costituzionale si è molto allontanata da questo modello per
effetto non solo dell’accesso incidentale, ma anche della pervasività sul principio di ragionevolezza.
Ciò non toglie che quell’anima continua ad esprimere un aspetto forse insopprimibile della giustizia
costituzionale, ovverosia il controllo di costituzionalità quale sindacato non solo di volontà ma anche
di scienza e coscienza.
Tutto ciò permette di affermare che, da punto di vista astratto, questa nomina non crea
problemi insormontabili. Fermo resta che occorrerà poi verificare se eventuali problematiche si
pongano nel concreto contesto derivante dalla riforma.
Per quel che concerne le riforme indirette, con le quali intendiamo le riforme sul
bicameralismo e sul Titolo V, che però indirettamente incidono sulla composizione della Corte
costituzionale, si possono proporre tre rilievi. Innanzitutto, il Senato, per come configurato e per come
reagisce con il sistema politico-partitico, può dar luogo ad una esperienza costituzionale in cui le
maggioranze non si aggregano per interessi territoriali ma sulla base di indirizzi politici generali
analogamente a quanto avverrà all’interno della Camera dei Deputati. Ciò può determinare problemi
di imparzialità dei giudici costituzionali che, invece, non si porrebbero in una valutazione della
riforma in astratto. In un sistema così disegnato, una maggioranza politica tout court potrebbe
individuare i due giudici più graditi.
In secondo luogo, altro effetto indiretto di cui tenere conto è quello che si riferisce agli effetti
che il bicameralismo riformato potrà produrre sulla composizione della Corte alla luce dell’Italicum
che è una legge elettorale fortemente majority assuring. Questo fa sì che anche nella Camera dei
Deputati si dia la possibilità astratta che una maggioranza, magari sfruttando l’intervallo temporale
di più di una legislatura (in base alla scadenza dei giudici costituzionali), sia in grado di nominare 3
di questi 5 giudici secondo il proprio gradimento politico generale. La qual cosa andrebbe ad
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aggravare le problematiche in punto di imparzialità del Collegio, dal momento che, così facendo, non
sarebbero solo 2 ma tutti e 5 i giudici espressione del gradimento politico della maggioranza.
Volendo spendere una parola in difesa della riforma, si può affermare che questo scenario non
rappresenta un arretramento rispetto al grado di parzialità che conosciamo oggi nella giustizia
costituzionale. Esiste infatti una prassi che lega i partiti politici e le coalizioni di maggioranza e di
minoranza, in virtù della quale si consente che, nel numero complessivo di 5 giudici, la maggioranza
sia in grado di indicarne per lo meno 3.
A questo tentativo di difesa si può controbattere che nello scenario prefigurato i giudici scelti
dalla maggioranza non sarebbero solo alcuni dei giudici ma potrebbero essere tutti e 5. Non si
dimentichi, inoltre, che ciò che i partiti politici riescono ad ottenere attraverso la propria condotta in
Parlamento o attraverso accordi informali di cui si può denunciare la scarsa sintonia con i principi
costituzionali è cosa diversa dall’avere un meccanismo istituzionalizzato che permetta alla
maggioranza di raggiungere quell’obiettivo.
In punto di imparzialità, il vero nodo di fondo è l’ambigua natura del Senato il quale, disegnato
come una Camera territoriale, non si esclude possa muoversi secondo una logica politica. I problemi
di imparzialità dei 2 giudici sono pertanto un problema del Senato, sono problemi che la Corte subisce
di riflesso, quale riforma indiretta.
Su questo tema bisogna procedere con una certa cautela perché il grado di imparzialità che il
giudice costituzionale esprime non dipende solo dalle norme sul potere di nomina, ma anche dalla
cultura politico-istituzionale dei partiti. È per la medesima ragione che bisogna usare cautela anche
nel prendere in considerazione le suggestioni che derivano dal diritto comparato perché il diritto
comparato ci pone problemi che sono molto diversi dal nostro punto di vista politico-istituzionale.
La prospettiva più futuribile e meno concreta rimane quella di valutare la prassi che seguirà
alla approvazione della riforma, avuto riguardo agli effetti indiretti che il Titolo V riformato potrà
produrre sulla composizione della Corte, non per il tramite del potere di nomina parlamentare, ma per
il tramite del potere di nomina presidenziale. Occorrerà verificare se un eventuale aumento del
contenzioso Stato-Regioni possa indurre il Capo dello Stato ad esercitare il potere di nomina per
riequilibrare - come tradizionalmente fa - le componenti all’interno della Corte sulla base non solo
della ispirazione politico-culturale dei giudici ma anche della loro competenza tecnica.
Andrea SIMONCINI
Una prima osservazione prende spunto dalla distinzione tra la lettura in astratto e la lettura in
concreto della proposta di revisione. Quello che potremmo valutare dal punto di vista teorico della
riforma, considerando le analogie ovvero le dissimiglianze dal punto di vista comparato o guardando
la necessità che in altri sistemi si è posta di differenziare l’origine dei giudici, ha un contrappunto
nella considerazione propria del nostro studio che non è uno studio unicamente di tipo teorico e che
impone di calare questa innovazione dentro un tipo di equilibrio che concretamente si genererà con
la riforma sul bicameralismo.
Una ulteriore considerazione concerne il problema del giudice portatore di interessi. Uno dei
fattori più forti che ha spiegato il risultato complessivo del lavoro e del funzionamento della Corte in
questo sessantennio di esperienza è il tema della collegialità. La collegialità rimane infatti uno dei
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caratteri identitari della nostra Corte costituzionale, evidenziandone le diversità con altri sistemi dove
la differenziazione interna è molto più marcata. Tutto questo è stato favorito dal tipo di composizione
che abbiamo avuto finora e, in particolare, per una certa debolezza della nomina parlamentare (nel
senso di debolezza di indirizzo) e, quindi, per la nomina di giudici mai così fortemente connotati.
Avere giudici che entrano invece con una sorta di mandato, quanto questo può toccare uno dei fattori
di omogeneizzazione della Corte?
Discussione
Nicola LUPO
Molto interessante e condivisibile appare l’approccio utilizzato da Andrea Cardone per cui è
fondamentale analizzare la riforma costituzionale in esame come frutto di un processo pluridecennale
e non come atto estemporaneo, frutto Governo in carica. Nell’attuale riforma – nonostante alcune
vicende personali enfatizzate dai media – è sicuramente presente una forte continuità rispetto ai lavori
della Commissione Letta-Quagliariello, nonostante alcuni politologi (tra i quali Gianfranco Pasquino,
nel suo ultimo pamphlet) affermino il contrario. C’è una continuità di riflessione anche rispetto alle
proposte precedenti e rispetto alle quali è utile ricostruire i fili rossi della continuità.
Apprezzabile è anche la specifica attenzione alle garanzie fornite al sistema dalla Corte
costituzionale, e non certo da un preteso “Senato delle garanzie”. Il punto più significativo è
rappresentato dall’arricchimento delle vie di accesso alla Corte, limitatamente alle sole leggi
elettorali: seppur dettato da vicende occasionali e specifiche, quale reazione alla sentenza n. 1 del
2014 – come è attestato anche da una accurata disciplina transitoria – questa innovazione si presta
forse a rompere il ghiaccio e ad aprire a forme di ricorso preventivo di tipo più generale. Tra l’altro,
anche rispetto a questo aspetto si notano elementi di continuità con la Commissione LettaQuagliariello, laddove questa – prima della suddetta pronuncia della Corte costituzionale – aveva
prospettato l’inclusione delle leggi elettorali nella categoria delle “leggi organiche”.
Posti questi primi rilievi relativi al contesto, vorrei contribuire alla discussione sulla tematica
trattata dall’introduzione di Andrea Cardone con alcune osservazioni.
Riprendendo la proposta di una nomina solo da parte del “nuovo” Senato dei 5 giudici di
estrazione parlamentare, a cui faceva riferimento Andrea Cardone nella sua introduzione, mi pare
utile sottolineare come quella ipotesi volesse essere in qualche modo provocatoria, soprattutto se
inserita nel contesto di una audizione alla Camera dei Deputati (nel periodo in cui questa si apprestava
a fare marcia indietro su questo aspetto della riforma), specie in una fase in cui i deputati erano reduci
da parecchie votazioni senza successo per l’elezione, nel Parlamento in seduta comune, dei giudici
della Corte costituzionale.
In primo luogo, la previsione di giudici costituzionali eletti dal Senato è volta ad assicurare
giudici culturalmente più sensibili alle esigenze delle autonomie e delle istituzioni territoriali in
generale. Come è noto, le Regioni ordinarie ancora non erano presenti né nel 1948, al momento
dell’entrata in vigore della carta repubblica, né nel 1956, quando entrò in funzione la Corte
costituzionale. Quindi, in un certo senso, l’ingresso delle istituzioni territoriali nel pluralismo delle
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formazioni culturali di cui può avvalersi la Corte costituzionale ha un senso. Per tal via, infatti, la
natura policentrica della Repubblica è rispettata, a maggior ragione visto che la Corte è spesso
chiamata a risolvere controversie relative ai rapporti tra Stato e Regioni, in sede di giudizi in via
principale e di conflitti di attribuzione intersoggettivi.
Una seconda considerazione riguarda il Senato. La riforma costruisce un Senato che però,
concretamente, non sappiamo ancora che cosa sarà. Molto dipenderà dalla legge elettorale, dalle
convenzioni costituzionali e, soprattutto, dal nuovo regolamento: potrebbe essere vicino al Bundesrat,
con la presenza dei Presidenti di Regione, così come è possibile che il Senato assomigli molto ad una
Camera politica. Comunque sia, il Senato sarà una Camera con un cleavage politico meno accentuato
e in cui il Governo sarà in grado di esercitare una minore influenza, vista l’assenza del rapporto
fiduciario. Questo, ai nostri fini, dovrebbe essere un elemento positivo, dal momento che i giudici
costituzionali saranno meno dipendenti dalle dinamiche tra maggioranza e opposizione. Ove invece
l’elezione dei cinque giudici costituzionali fosse rimasta affidata al Parlamento in seduta comune, i
100 senatori, rappresentanti le istituzioni territoriali, sarebbero stati sostanzialmente irrilevanti e
questa sarebbe in sostanza dipesa dalla volontà della maggioranza di governo, eventualmente con
qualche allargamento. In questa medesima logica, per esempio, anche le Commissioni bicamerali
necessiteranno di un ripensamento, non potendo funzionare così come sono definite oggi, con un
numero pari di deputati e di senatori.
Concludendo, occorre essere fermi nel sostenere che i due giudici costituzionali di nomina del
Senato non sono due giudici portatori di interessi regionali. Essi non hanno ovviamente alcun
mandato. Bisogna porre attenzione anche alla terminologia che si utilizza (non si dovrebbe perciò
parlare di giudici regionali o autonomistici), altrimenti la deriva potrebbe diventare preoccupante. La
logica del mandato e della rappresentanza in Corte è, infatti, una logica deviata.
D’altro canto, dobbiamo distinguere il dovere essere dall’essere. Sul primo piano, come si è
appena sostenuto, i giudici costituzionali sono imparziali, si staccano dall’ambiente di provenienza,
non sono più ciò che erano prima. Sul piano dell’essere, però, come ci mostrano anche accurate analisi
comparatistiche (penso, per tutte, a quelle di Ran Hirschl) la provenienza culturale, geografica e
anagrafica, il genere, la sensibilità e la formazione dei giudici sono elementi che non possono essere
completamente trascurati. In questo senso la riforma, arricchendo la sensibilità autonomistica della
Corte costituzionale, e staccando un po’ la sua componente di derivazione parlamentare dalle
dinamiche tra maggioranza e opposizione, può essere considerata sul punto una buona riforma.
Giorgio GRASSO
Questa composizione della Corte costituzionale, che si colloca all’interno di una riforma
fortemente voluta dall’attuale maggioranza di Governo, per quel che riguarda la derivazione
parlamentare (tre giudici di nomina della Camera dei Deputati e due del Senato, un “3 più 2” che,
giocando con le parole, dovrebbe destare qualche preoccupazione, per chi come noi insegna in
Università), potrebbe cambiare il modo in cui fino ad oggi abbiamo inteso l’indipendenza della Corte
costituzionale, sapendo che, quando si ragiona sull’indipendenza della Corte, occorre guardare ad
aspetti funzionali e organizzativi. Tra i profili organizzativi questo è l’unico che è stato modificato.
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Non si è toccato, invece, il tema dei quorum per l’elezione dei giudici, quella maggioranza dei
2/3 dei componenti che poi diventa una maggioranza dei 3/5 dei componenti a partire dal quarto
scrutinio. In questa sede ci siamo soffermati sul problema dei due giudici eletti da un Senato del quale
non è ancora chiara la natura; si pone però, al contempo, il problema dei tre giudici che verranno eletti
dalla Camera che, con il nuovo sistema elettorale, legato strettamente alla riforma, potrà assegnare a
una forza politica di maggioranza il 55% dei seggi (347 deputati). I 3/5 dei componenti della Camera
sono 378 deputati. Non è quindi peregrina la possibilità che la maggioranza quasi da sola, con qualche
soccorso interessato, nomini tutti i tre giudici.
Si ricordi inoltre la norma transitoria che si riferisce alla prima elezione da parte delle Camere
formate dopo la riforma, laddove si dice, con una disposizione introdotta nell’ultima votazione, che
le due nomine sono attribuite alternativamente, nell’ordine, alla Camera e al Senato. Cosa significa
alternativamente? Prima vengono nominati i tre giudici dalla Camera e in un momento successivo i
due dal Senato oppure, come appare più ragionevole, la Camera nomina un giudice, il Senato nomina
un giudice e così via?
Un ultimo rilievo: oggi è politicamente molto difficile eleggere giudici costituzionali di
nomina parlamentare. Con questa riforma sarà più facile riuscirci oppure no?
Per concludere: visto che si è deciso di abbandonare il meccanismo di un’elezione da parte del
Parlamento in seduta comune, è forse preferibile una ripartizione come quella stabilita dalla revisione
in corso piuttosto che un monopolio della nomina da parte della Camera dei deputati, come si era
pure ipotizzato. Pur non sapendo, infatti, che cosa questi due giudici potranno rappresentare dal punto
di vista del nuovo Senato, certo è che con cinque giudici tutti di nomina della Camera, al di là del
rischio di avere una maggioranza capace da sola di eleggere cinque membri della Corte, quella
Camera, magari in presenza di un conflitto con il giudice costituzionale, avrebbe potuto decidere
addirittura di non eleggerli, così “sabotando” in modo incostituzionale i lavori della Corte, che come
è ben noto non può funzionare sotto il numero minimo di undici giudici.
Paolo CARETTI
Dubito che gli estensori del testo della proposta si siano mai posti il problema di ricostruire le
fila precedenti del dibattito sul cambiamento della nostra formula bicamerale e sui problemi collegati
alla composizione della Corte costituzionale. Questo cambiamento dimostra una cosa che si può
verificare facilmente anche guardando ad altre disposizioni della riforma: la loro casualità. La riforma
ha preso le mosse dalla considerazione per cui il Senato aveva poche funzioni che, quindi, si è cercato
di arricchire (tra questi arricchimenti rientra anche la nomina di due giudici della Corte costituzionale)
con il risultato però che il Senato, proprio nell’incertezza di quella che sarà la sua natura, ha ora troppe
funzioni.
Se ci chiedessimo quale è stato l’intento del neo-costituente nell’affidare la nomina di due
giudici al Senato, non saremmo in grado di rispondere. Anche in questa sede ci troviamo quindi a
prendere spunto da un testo e ad ipotizzarne le conseguenze della sua attuazione attraverso previsioni.
Le previsioni più probabili, ad oggi, sono che il Senato si comporterà esattamente secondo una logica
politica; il che, tenendo conto delle regole della sua composizione, è un approdo quasi inevitabile.
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A questo contribuisce anche la previsione dei quorum per la validità della nomina dei giudici
che nella riforma rimangono quelli fissati per Camera e Senato. Le percentuali previste, però, non si
giocano nello stesso modo. Le stesse percentuali, tarate su un numero di 100 o 300 o 630, giocano in
un modo diverso. Ciò potrebbe portare alla nomina di giudici con soli 60 voti favorevoli e giudici che
necessiteranno per la nomina di almeno 380 voti, con una possibile ripercussione nel rapporto tra
giudici, laddove le percentuali giocate su numeri diversi portano effetti diversi. I giudici di nomina
del Senato, essendo stati legittimati con un numero più contenuto di voti, rischierebbero di sentirsi
vincolati a quelli che hanno avuto una quantità di voti maggiormente sostenuta.
Al di là di come è nata questa attribuzione dei due giudici, la cosa migliore sarebbe stata non
toccare la composizione della Corte ma mantenerla come è attualmente perché tutto sommato – con
la triplice derivazione – la Corte ha funzionato bene. Non convincente pare, inoltre, l’affermazione
per cui il mantenimento del Senato così com’è conterebbe poco. Questa obiezione presuppone infatti
che il Senato sia, dal punto di vista istituzionale, una camera realmente territoriale con un
funzionamento distinto da quello della Camera dei Deputati. Questa appare però come l’ipotesi meno
probabile. Se è davvero l’ipotesi meno probabile, mantenere il Parlamento in seduta comune - che il
Senato sia composto da 100 soggetti o da 315 - non cambia nulla perché la logica è una logica di
accordo politico tra i gruppi.
In conclusione, la prassi per cui i partiti si spartiscono i giudici è una prassi fisiologica e non
un elemento di politica deteriore. Essa è necessitata dalla previsione del quorum oggi necessario per
la nomina in seduta comune; è una conseguenza logica di un sistema che prevede maggioranze
qualificate molto alte, tant’è che se il candidato non trova gradimento anche nell’opposizione, il
quorum sarà irraggiungibile.
Non sembra invece realistica la prospettiva di Lupo per cui il Senato potrebbe diventare una
sorta di Bundesrat. Ragionando pertanto su quelle che sono le ipotesi più probabili di come in
concreto si svilupperà la riforma e sulle possibili conseguenze e facendo un calcolo costi-benefici, si
sarebbe potuto mantenere invariata la nomina da parte del Parlamento in seduta comune. Che i
senatori siano 100 o 315 nel Parlamento in seduta comune, in una logica partitico-politica, non cambia
infatti alcunché.
Cristina GRISOLIA
Vorrei fare due osservazioni che mi sono state suggerite dall’intervento introduttivo di Andrea
Simoncini e dalla relazione di Cardone.
Il riferimento che qui vorrei riprendere è quello con il quale Simoncini, aprendo il tema legato
alle modifiche proposte intorno alla Corte costituzionale, ha messo in evidenza come il progetto in
esame, comprendendo parti che interessano il nostro massimo organo di garanzia costituzionale (ma,
in modo non minore, anche il Capo dello Stato), abbia finalmente rotto quella che Simoncini ha
definito una sorta di “convenzione tacita”, che si era venuta instaurando nella prima fase del dibattito
sulle riforme, riaccendendo l’attenzione sul tema – all’inizio trascurato – delle garanzie e dei
contrappesi.
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La questione delle garanzie è senz’altro questione fondamentale: non c’è bisogno di
sottolinearlo e, tuttavia, in questa fase del dibattito, la considererei con molta prudenza e
circospezione.
La proposta di Renzi, lo sappiamo, ha volutamente evitato di entrare nel vivo della troppo
complessa e pericolosa problematica legata al tema della forma di governo, non compiendo alcuna
scelta a riguardo, anche se, ovviamente, influendo inevitabilmente su di essa attraverso le molte
modifiche che investono i due organi - Governo e Parlamento – che sono gli assi portanti l’impianto
istituzionale sul quale essa si sviluppa.
In ragione di ciò e in attesa che si rideterminino, dopo le modifiche introdotte, i nuovi equilibri
posti a fondamento del nostro sistema, sarebbe bene che non ci facessimo prendere dalla tentazione
di anticipare tale problematica, correndo il rischio di concepire meccanismi che potrebbero, alla fine,
squilibrarlo, piuttosto che difenderlo e, comunque, di perderci in teoriche ed astratte argomentazioni,
prive di un reale aggancio con quella che sarà la futura realtà istituzionale.
A mio modesto, avviso, credo, dunque, che ci si debba tenere lontano dall’affrontare questi
temi, evitando di “complicare”, piuttosto che “completare” il disegno finale.
Certo degli organi di garanzia non si poteva non tenere conto alla luce di una proposta che
tocca quelli che rappresentano alcuni dei nodi principali che serviranno a ridefinire l’intero sistema:
la fiducia affidata ad una sola delle Camere, la diversa struttura del Senato, i nuovi poteri normativi
del Governo e, non ultima, la legge elettorale appena approvata.
Così, il riferimento ai poteri del Capo dello Stato all’atto del rinvio della legge di conversione
dei decreti del Governo, opportunamente rivisti proprio al fine di meglio contenere il nuovo peso
assegnato all’Esecutivo nell’esercizio della sua attività normativa.
Così, ancora, la previsione delle nuove maggioranze per l’elezione del Presidente della
Repubblica, inevitabilmente da “rivedere” alla luce del diverso peso e della diversa composizione di
uno degli organi protagonisti di tale elezione.
Così, per quanto ci riguarda oggi, la nuova ipotesi relativa alla elezione dei giudici
costituzionali, che separa i membri eletti dalla Camera da quelli eletti dal Senato.
Così, infine, la previsione di un giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali
(compresa l’ipotesi transitoria di non escluderlo – sia pure esso inevitabilmente successivo – anche
in riferimento alla legge appena approvata).
La relazione di Cardone è stata molto ampia nel trattare alcuni di questi aspetti e non mi pare
necessario aggiungere alcunchè.
Mi preme però sottolineare (e vengo alla seconda osservazione) come i membri eletti dal
Senato non necessariamente rispondano ad esigenze legate alla rappresentanza degli interessi locali,
ovvero alla presenza, in seno alla Corte, di specifiche competenze in materia.
A tali ipotesi mi sembra se ne debba aggiungere una terza, la quale, in maggiore sintonia con
il ruolo assegnato al nuovo Senato, veda i membri da questo eletti quale componente espressiva più
che degli interessi locali o della esigenza di particolari conoscenze in materia, della garanzia di una
loro vigile e costante tutela in seno alla Corte.
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Certo è difficile stabilire, come ha sottolineato anche Paolo Caretti, come si atteggerà il nuovo
Senato. Se cioè esso risponderà alle logiche che lo hanno concepito o se, invece, travisandone il senso,
riprodurrà, per una sorta di inerzia politica, i vecchi meccanismi partitici.
Vero è che, alla luce del nuovo sistema di elezione e delle funzioni che gli sono state attribuite,
esso non è certo stato ideato per di riprodurre, “in piccolo”, logore logiche politiche, ma piuttosto per
svolgere una complessa funzione di prevenzione e composizione dei molti conflitti che hanno
funestato in questi anni i rapporti tra centro e periferia, facendosi tutore di un loro più equilibrato e
positivo sviluppo.
Non sappiamo se ciò si realizzerà a causa dei non pochi problemi che, fin da subito, hanno
accompagnato questa ipotesi. E, tuttavia, mi pare che non si debba rinunciare a sostenere e valorizzare
questo disegno, anche sottolineando i possibili benefici di una elezione senatoriale dei giudici
costituzionali, i quali, in perfetta sintonia con il ruolo assegnato alla seconda Camera, dovrebbero
farsi, come ho già detto, autorevoli “garanti” e non semplici “portavoce” degli interessi locali.
Vedremo come andranno le cose, ma credo meriti difendere questa impostazione,
scommettendo sulla buona riuscita del progetto.
Andrea CARDONE
Vorrei precisare, a seguito dell’intervento del Prof. Caretti che, nell’affermare che alcune
prassi di rapporti politici tra i partiti possono essere censurati dal punto di vista della loro rispondenza
a principi e ai valori costituzionali, non intendevo riferirmi al fatto che le maggioranze così elevate
richieste impongono alla maggioranza di governo di cercare un consenso sul nome, tenendo conto
delle minoranza. Il riferimento era ad un accordo che va al di là di questa dinamica, per cui quella
stessa maggioranza si comporta come una minoranza e vota un giudice indicato dalla minoranza. A
questo punto, la designazione della minoranza diventa indiscutibile, esistendo l’accordo. Se si volesse
risolvere il problema del peso del Senato, bisognerebbe ipotizzare che il Parlamento in seduta comune
sia integrato da una componete che proviene dalle Regioni. Entrerebbe così in circuito una linfa vitale
degli interessi regionali. Occorrerebbe quindi lasciare la nomina al Parlamento in seduta comune
integrato, però, con i rappresentanti delle Regioni.
II Sessione
Corte costituzionale e modifica del Titolo V
Ines CIOLLI - Introduzione
Mi accingo a mettere in primo piano una serie di questioni, premettendo che, a mio avviso,
questo settore è uno dei punti cruciali della riforma e della questione relativa all’aumento del numero
del contenzioso.
Il primo handicap di questo progetto di riforma è che prevede troppe modifiche del Titolo V
e, mi permetto di dire che, non credo ci siano molti profili di continuità con le precedenti riforme.
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Inoltre bisogna dire che questa enorme modifica, quasi rivoluzionaria, è stata sottoposta ad
una serie di rimaneggiamenti nei vari passaggi, dal progetto del Governo alla Commissione Affari
Costituzionali, ai passaggi tra Camera e Senato, tanto che non è più possibile rinvenire facilmente
alla sua originaria ratio.
Ancora, la relazione di accompagnamento al progetto di Governo indicava come una delle
finalità prioritarie di questa riforma del Titolo V quella di contenere il numero di contenziosi e a
questo proposito confidava, come diceva prima la Prof.ssa Grisolia, sulla possibilità che i conflitti
potessero essere mediati dal Senato.
Da parte mia, cercherò di tratteggiare il filo rosso delle linee di tendenza per cui non sono del
tutto convinta di un Senato come sede di mediazione politica dei conflitti insieme alla Camera. Il
metodo che seguirò sarà quello di mettere in evidenza i problemi interpretativi della riforma, che
quasi sicuramente arriveranno prima o poi al vaglio della Corte costituzionale.
Per esempio parlando dell’art. 116 comma 3 della Costituzione, quest’ultimo prevede un
nuovo procedimento per la differenziazione, già esistente nel Titolo V vigente, ma che qui è stato
modificato nell’iter, non essendovi più una legge bicamerale per la quale è richiesta una votazione a
maggioranza assoluta, ma essendo stato introdotto un parere degli enti locali della Regione che chiede
la differenziazione e un’intesa con la Regione stessa. Una prima questione che riguarda questo
procedimento è che non è chiaro se questo parere debba essere eventuale (probabilmente sarà
obbligatorio) e vincolante; a questo riguardo sarà probabile che si sentirà l’esigenza di ricorrere ad
un’interpretazione della Corte costituzionale chiamata a fare chiarezza.
L’altro elemento che rappresenta una novità, e che non si inserisce perfettamente nella ratio
della riforma, è quello per cui a queste forme di differenziazione possono accedere anche Regioni a
statuto speciale. Elemento introdotto, anche in questo caso, non seguendo quella che era stata la
giurisprudenza dell’ultimo periodo della Corte, in cui la specialità se non era stata compressa, di certo
era stata ridimensionata, sembrando che i progetti di riforma volessero colmare il divario tra Regioni
a statuto speciale e Regioni a statuto ordinario.
Invece, questo modello è un modello incongruente poiché in realtà le Regioni a statuto
speciale mantengono le loro prerogative, subendo quindi una sorta di cumulo di funzioni, poiché da
una parte per loro probabilmente potrebbe valere la clausola di maggior favore, d’altra parte potrebbe
applicarsi ad esse il titolo V attualmente vigente, e sotto un altro profilo ancora potrebbero essere
corredate da questa forma ulteriore di differenziazione, che comunque dovrebbe dare uno spazio alla
potestà legislativa maggiore di quella che già conservano grazie agli statuti.
È come se si creasse una terza species di Regioni: anche questo potrebbe essere un punto sul
quale per un’interpretazione più chiara potrebbe farsi ricorso al giudice costituzionale. D’altra parte,
invece, questo stesso punto potrebbe non risultare soggetto ai nuovi contenziosi, perché uno degli
elementi necessari richiesto come condizione per accedere all’art. 116 coma 3, quindi al procedimento
di differenziazione, è quello che le Regioni siano in equilibrio di bilancio. Questo procedimento non
è stato utilizzato nel Titolo V vigente e non è detto che rimanere inutilizzato in futuro.
Fonte di perplessità e di grandi difficoltà interpretative, per il modo in cui è congegnato, è il
rapporto tra riforma del titolo V del progetto di revisione e gli statuti speciali: difficoltà anzitutto
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d’interpretazione per comprendere quali siano le norme che si vanno ad applicare alle Regioni a
statuto speciale.
Nell’ art. 39 comma 13 del progetto licenziato il 13 ottobre scorso dal Senato si legge che “le
disposizioni di cui al capo IV della presente legge costituzionale non si applicano alle Regioni a
statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano fino alla revisione dei rispettivi
statuti”. Questo sembrerebbe significare che fino a quella revisione, anche dopo la probabile entrata
in vigore di questa riforma, le stesse non si dovrebbero applicare alle Regioni a statuto speciale, con
due eccezioni: una quella dell’art. 116 comma 3 e l’altra quella del 120 comma 2.
Nell’art. 39 comma 13 è specificato che, per quanto riguarda i poteri sostitutivi, la Regione a
statuto speciale dovrebbe poter contare sulla disciplina dei propri statuti, anche se a mio avviso,
questo è un altro dei punti sui quali potrebbe esserci contrasto interpretativo, perché l’art. 120 comma
2 del progetto di riforma contiene un procedimento molto più favorevole alle Regioni, corredato da
un intervento del Senato delle autonomie. Quest’ultimo potrebbe essere considerato come clausola di
maggior favore, che perciò potrebbe essere applicata, venendosi a creare intorno alla disciplina delle
Regioni a statuto speciale un “puzzle” talmente complicato da richiedere un intervento del giudice
costituzionale.
Per quanto riguarda la clausola di maggior favore la dottrina non è unanime, quindi sarà uno
dei punti più discussi della riforma: secondo alcuni allo stato del vigente Titolo V della Costituzione
si dovrebbe poter applicare, almeno fino alla revisione degli statuti; revisione che richiede, nel nuovo
testo, un’intesa con la Regione a statuto speciale e che, a mio avviso, potrebbe non arrivare mai,
poiché si andrebbe ad applicare in quel caso un titolo V che depotenzierebbe la Regione stessa, che
di conseguenza non avrebbe alcun particolare interesse ad accedervi. Quand’anche la clausola di
favore si dovesse comunque applicare, come riconosce una parte della dottrina, i dubbi non sarebbero
minori per quanto riguarda le norme da applicare alle Regioni a statuto speciale.
Rispetto al nuovo procedimento di revisione contenuto nella riforma, altro elemento da
osservare è costituito da una strana formula, secondo la quale a quanto previsto dall’ art. 138 dovrebbe
essere aggiunta una precondizione: l’intesa.
Su questo tema, prendo a prestito la riflessione del Prof. Ruggeri, che riteneva che questa fosse
una norma per certi aspetti simile a quella prevista per le intese delle confessioni religiose all’art. 8
della Costituzione, con la differenza che lì il rango era di fonte legislativa mentre qui è di fonte
costituzionale. Si aggiungerebbe così un’altra fonte atipica, anche se a onor del vero va detto che un
procedimento misto, non troppo dissimile, che non richiedeva soltanto l’iter del 138, era già previsto
nella legge costituzionale n. 2 del 2012.
Mi accingo ora a parlare della riforma del catalogo delle materie, che, sia per una serie di
questioni lessicali sia per la concezione che è stata adottata all’interno del catalogo stesso,
probabilmente porterà ad un aumento del contenzioso, non soltanto per quanto riguarda la potestà
legislativa concorrente, che non è stata esplicitata nel testo e non è chiaro se possa essere recuperata
per via interpretativa, ma anche per quanto riguarda il numero di potestà assegnate allo Stato, affatto
neutre nel loro contenuto, e la modifica della potestà legislativa residuale delle Regioni, esplicitata in
parte solo per alcune materie mentre per altre si rinvia (come nel Titolo V attuale) ad un catalogo
residuale.
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Per quanto riguarda la potestà concorrente, semmai questa possa essere in qualche modo
resuscitata,
dovremmo capire qual è l’interpretazione da dare ai nuovi lemmi utilizzati (es. “disposizioni
generali e comuni”): ovvero se potranno essere utilizzati i termini “generali” e “comuni” come
un’endiadi o se dovremo distinguerle in modo tale da intendere per “comuni” come comuni sia allo
Stato che alle Regioni, in modo da recuperare la possibilità di un coordinamento tra le suddette,
facendo così riaffiorare il canone della leale collaborazione. Lemmi che troviamo nel nuovo catalogo
(es. “disposizioni di principio”, “funzioni fondamentali”, “norme generali”, “profili ordinamentali
generali”), che sono tutti termini che richiederanno un intervento del Senato ed un eventuale
intervento delle Regioni (per recuperare, in parte, un potere che è stato esautorato e per fare chiarezza
in merito alla potestà legislativa statale in tema di disposizioni generali e comuni, non essendo chiaro
quale possa essere il suo limite ossia se possa incidere nel dettaglio dell’amministrazione escludendo
le Regioni), le quali da parte loro tenteranno di recuperare uno spazio anche attraverso il giudice
costituzionale.
Altro elemento che suscita ulteriori perplessità, non solo interpretative, è la c.d. clausola di
supremazia. In primis per certi aspetti la clausola si sovrappone all’art. 120 comma 2: l’unità
giuridica, economica e l’interesse nazionale, in qualche modo, sussistono in entrambi, quindi poiché
giurisprudenza consolidata utilizzava il 120 comma 2 per le funzioni legislative, è da vedere se non
vi sia una contrapposizione che può essere sciolta solo dal giudice costituzionale. E ancora, sempre
riguardo al potere sostitutivo dell’art. 120 comma 2, come già preannunciato, occorre capire se possa
essere utilizzato anche per le Regioni a statuto speciale, visto che una discreta giurisprudenza lo ha
utilizzato in precedenza per ricondurre una serie di potestà allo Stato.
In merito all’ art. 118 nessuno sa cosa succederà, visto che anche la lettura della dottrina non
è chiara. Vero è che la modifica del 118 è residuale (semplicemente si aggiunge al primo comma il
fatto che le funzioni amministrative sono esercitate in modo da garantire la semplificazione e la
trasparenza), però è anche vero tutto il contesto intorno al 118 è cambiato: è stato modificato il 117,
quindi come reagirà a questo cambiamento il 118 non sappiamo dirlo.
Sul 119 della Costituzione non credo vi sarà un notevole contenzioso, infatti, a mio avviso,
l’autonomia finanziaria delle Regioni è già stata abbondantemente circoscritta e delimitata dal fatto
che il coordinamento della finanza pubblica è ora una potestà legislativa statale, del resto negli ultimi
anni a partire dal 2010, ben prima della riforma costituzionale n. 1 del 2012, il coordinamento della
finanza pubblica nell’interpretazione della Corte era diventato un modo per riassumere una serie di
decisioni finanziarie e anche legislative in capo allo Stato. Il combinato disposto tra questa modifica
del 119 nel progetto del nuovo Titolo V e la legge costituzionale n. 1 del 2012, che impedisce in
Costituzione l’equilibrio di bilancio, ha già creato condizioni per cui il 119, così com’è nel progetto
licenziato dal Senato, non dovrebbe subire particolari cambiamenti e su di esso l’incidenza della
riforma non dovrebbe essere così forte.
Una delle caratteristiche di questo progetto di riforma che mi convince meno è il fatto che si
usi il metodo di inserire in Costituzione trasformazioni che hanno operato attraverso una legislazione
ordinaria (es. legislazione sui costi standard), ossia se osserviamo bene il progetto di riforma avalla
quelle che erano state scelte operate da leggi ordinarie.
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Da ultimo qualche conclusione finale. È difficile dare un giudizio pienamente positivo sulla
riforma, anche se a me non spetta dare giudizi, quanto piuttosto rilevare quali saranno i punti focali
sui quali si concentrerà l’intervento della Corte.
Certo, è interessante notare che a soli quattordici anni dalla precedente riforma si rivoluziona
il titolo V, non tenendo conto dello sforzo effettuato sino ad oggi dalla dottrina e dalla Corte per
sistemarlo, anzi, sembra quasi che l’idea sia quella di ricominciare da capo, pur con la possibilità che
la Corte, dopo un primo momento, cerchi di recuperare la sua consolidata giurisprudenza sul titolo V
riadattandola al nuovo (penso ad es. al coordinamento finanza pubblica, e a come potrebbe
interpretare una giurisprudenza recuperando una parte della potestà legislativa regionale confidando
nella sua giurisprudenza precedente). Questo potrebbe far sperare in una diminuzione del
contenzioso, che però a mio avviso aumenterà.
Quello che mi preoccupa di più è che questa riforma poteva essere l’occasione per risolvere
quell’oscillazione tra autonomia e uniformità che mai equilibrata in passato. Il regionalismo
cooperativo, che è quello che probabilmente meglio funzionerebbe nel nostro ordinamento, non è
riuscito ad attecchire.
Andrea SIMONCINI
Ringrazio la Prof.ssa Ciolli, che mi pare abbia aperto un’altra grande finestra su questa riforma
e sull’impatto prevedibile che essa potrà avere sul funzionamento della Corte.
L’unico commento che mi permetto di fare, riprendendo le parole del professor Caretti, è che
qui la “casualità” con cui questa riforma è stata redatta, emerge in maniera ancora più evidente.
Assistiamo ad un intervento massiccio e massivo di alterazione complessiva del testo
costituzionale e siamo di fronte al vero problema, evocato sin dall’inizio della nostra discussione:
qual è la ratio di tutto ciò?
Penso che nessuno di noi possa essere così naif da pensare che una riforma costituzionale
nasca nell’attuazione e nel presupposto di un’unica chiara ragione che in maniera un po’ illuminista
uniformi l’azione del Parlamento. È chiaro che tutte le riforme costituzionali nascono dalla
composizione di diversi interessi e di diverse spinte. Però in questo caso il drafting della legge è la
prima cartina tornasole dell’assenza di indirizzo unitario.
Il tema, che mi pare emerga, ruota attorno non tanto alla valutazione in sé di questa riforma
ma all’impatto che questa avrà sul lavoro della Corte. E qui emerge la difficoltà di cogliere la ratio,
perché se c’è un giudizio, sul quale mi sembra ci sia convergenza di politici e studiosi, è quello che
la precedente riforma abbia innescato un contenzioso massiccio, tanto che per la prima volta nella
storia abbiamo avuto più procedimenti derivati in via principale dalle Regioni che procedimenti
incidentali. Sembra chiaro che questa riforma non fa nessun passo verso la riduzione del contenzioso,
semmai compie un passo deciso nell’aprire nuove fonti di esso, ancora più radicali. Il grande buco
nero dell’autonomia speciale, che prosegue nonostante un paio di tentativi di chiarificazione, rimane
uno dei settori in cui si capisce che questo equilibrio centro-periferia è rimasto totalmente irrisolto e
che le norme in materia regionale sembrano essere sempre più vaghe e imprecise.
Molti hanno prefigurato l’idea di una natura sostanzialmente amministrativa delle Regioni,
che escono da queste riforma con un forte ridimensionamento del ruolo, tanto che ci si chiede in
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maniera provocatoria se ci sia davvero bisogno di un Senato che rappresenti questi enti
sostanzialmente amministrativi.
Discussione
Marcello CECCHETTI
Sulla riforma del Titolo V ho apprezzato molto l’ampia relazione della Prof.ssa Ciolli, che ha
ottimamente introdotto tutte le principali questioni problematiche che il nuovo testo solleva, fornendo
numerosi spunti di discussione. Per parte mia, vorrei provare a offrire una chiave di lettura diversa
alle riflessioni che hanno caratterizzato il dibattito sviluppatosi nel corso dell’iter di approvazione
della riforma, provando a far emergere quella che – con una metafora “lunare” – potremmo chiamare
la “faccia nascosta” del nuovo Titolo V ed evidenziando le implicazioni che da ciò possono scaturire
per il ruolo che sarà chiamata a svolgere la Corte costituzionale. In questo tentativo è opportuno
analizzare partitamente le sorti e i potenziali sviluppi del regionalismo di diritto comune, da un lato,
e del regionalismo speciale, dall’altro.
Sul primo versante, è assolutamente innegabile che la riforma del Titolo V che oggi abbiamo
di fronte vada nella direzione di una complessiva riduzione degli spazi di autonomia delle Regioni di
diritto comune, orientandole verso un radicale mutamento del proprio ruolo: da enti principalmente
vocati all’elaborazione politico-legislativa e dunque concepiti – quanto meno potenzialmente – per
essere attori protagonisti della gran parte delle politiche pubbliche, così come erano stati
“immaginati” nell’intervento riformatore del 2001, ad enti prevalentemente vocati
all’amministrazione e al coordinamento delle amministrazioni locali nella dimensione territoriale
della c.d. “area vasta”. In questa direzione militano senz’altro tanto l’intento soggettivo (più o meno
esplicitato) del legislatore di revisione, quanto il tenore letterale dei nuovi enunciati normativi che la
riforma intenderebbe introdurre.
Ciò nondimeno, mi pare che la “sorte” delle autonomie regionali ordinarie non possa ritenersi
inesorabilmente e univocamente segnata. Sono convinto, infatti, che ancora una volta – come già
accaduto per il Titolo V nella versione originaria del 1947 e nella versione riformata nel 2001 – ci
troviamo di fronte a una disciplina costituzionale “a direzione plurima variabile”; in buona sostanza,
un testo a due facce, parimenti in grado tanto di assecondare la tendenza verso il definitivo tramonto
del regionalismo “politico-legislativo”, quanto, al tempo stesso, di supportare la riapertura di una
nuova sfida per lo sviluppo e il consolidamento di autonomie regionali mature, che si configurino
come elemento davvero qualificante e non meramente “accessorio” della nostra forma di stato.
Molte sono le ragioni che sostengono un simile convincimento, se solo si considera che anche
nel nuovo testo costituzionale permangono alcune delle più rilevanti “epifanie” della forte
implementazione del principio autonomistico operata dal legislatore costituzionale del 2001,
ancorché esse siano destinate a convivere con l’indubbia ri-centralizzazione in capo allo Stato di
un’ampia serie di attribuzioni e competenze.
Di questi elementi di “coerenza” con le logiche della riforma del 2001 in questa sede è
possibile dare solo qualche indicazione poco più che schematica.
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In primo luogo, non può sfuggire la conferma del principio di residualità della competenza
legislativa delle Regioni e il notevole significato di ordine sistematico che tale conferma
inevitabilmente assume. Scartata l’opzione per il ritorno ad un modello di riparto della legislazione
analogo a quello adottato dai Padri costituenti nel 1947, la revisione costituzionale in corso ci
riconsegna una ripartizione della potestà legislativa in cui il legislatore generale-residuale è quello
regionale e non quello statale, al quale sono affidate competenze senza dubbio assai ampie (forse,
potenzialmente amplissime) ma pur sempre enumerate e, in tesi, circoscritte.
In secondo luogo, è ormai opinione comune e assolutamente da condividere che la formale
eliminazione dell’antica legislazione concorrente non abbia per nulla l’effetto di sottrarre il riparto
della potestà legislativa alle problematiche e alle dinamiche del concorso di competenze. Nel nuovo
elenco delle materie di legislazione “asseritamente” esclusiva statale compaiono oggi in gran numero
non soltanto le ben note “materie trasversali”, ma anche molteplici titoli di legittimazione della
potestà legislativa espressamente costruiti su una vasta serie di “clausole di co-legislazione”
(“disposizioni generali e comuni”, “disposizioni di principio”, “norme (…) volte ad assicurare
l’uniformità sul territorio nazionale”, “profili ordinamentali generali”, etc.), le quali presuppongono
in re ipsa un concorso di competenze tra i due legislatori e addirittura, in alcuni casi, fronteggiano
specularmente una competenza regionale espressamente “esemplificata” tra le materie affidate al
principio di residualità.
La relatrice che ha introdotto questa sessione ha inoltre correttamente richiamato l’attenzione
sul fatto che l’art. 118 Cost. rimanga sostanzialmente invariato, così mantenendo per buona parte
intatta la sfida del 2001 sull’allocazione delle funzioni amministrative ai livelli di governo più vicini
ai cittadini, secondo i princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Così come dovrebbe
proseguire in termini sostanzialmente identici a quelli attuali la partita dell’autonomia finanziaria, in
verità già profondamente incisa dai poteri unilaterali attribuiti al legislatore statale dalla legge cost.
n. 1 del 2012 e dalla legge “rinforzata” n. 243 del 2012 ma, ciò nondimeno, pur sempre riconosciuta
dall’art. 119, primo comma, come principio costituzionale “autosufficiente” e non interamente
rimesso alle “forme” e ai “limiti” definiti dalla legge dello Stato come avveniva nel testo originario
del 1947.
A questo quadro mi pare debbano aggiungersi necessariamente almeno altri due elementi.
Da un lato, la significativa conferma della prospettiva del regionalismo differenziato di cui
all’art. 116, terzo comma, potenzialmente capace di rompere finalmente il dogma dell’uniformità
necessaria delle Regioni c.d. “di diritto comune”, indirizzando l’autonomia regionale verso le più
mature logiche di una differenziazione tra le attribuzioni affidate ai singoli enti che risulti
effettivamente collegata con le diverse peculiarità delle molteplici realtà regionali e che, al tempo
stesso, sia in grado di incentivare l’esercizio dell’autonomia secondo i meccanismi della
responsabilità e non della mera esecuzione di decisioni e di indirizzi altrui.
Dall’altro, il ruolo che potrà assumere in concreto il nuovo Senato come sede privilegiata per
la tanto “agognata” armonizzazione tra le istanze del centro e quelle delle autonomie. È pur vero,
infatti, che la configurazione del secondo ramo del Parlamento che ci consegna l’attuale testo di
riforma non è in grado di determinarne necessariamente il funzionamento secondo le logiche virtuose
della rappresentanza delle istituzioni territoriali all’interno dei procedimenti legislativi dello Stato,
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ma è altrettanto vero che, in concreto, un funzionamento di questo tipo non può ritenersi né escluso
né impedito, dipendendo da fattori molteplici, in larga parte affidati a scelte poste in capo agli organi
fondamentali delle stesse Regioni.
In definitiva, non mi pare azzardato affermare che gli scenari che il nuovo Titolo V apre al
regionalismo ordinario siano assai più complessi e potenzialmente variegati di quanto a prima
impressione si potrebbe essere portati a credere. Se non è difficile ritenere che la riforma consegni
allo Stato le “chiavi” di tutte le politiche pubbliche, affidandogli molti strumenti in più per limitare
l’autonomia e imbrigliare il regionalismo entro i confini di un ruolo meramente amministrativo, ciò,
tuttavia, non segna in termini indefettibili la direzione che potrà seguire l’evoluzione della nostra
forma di stato.
In un simile contesto, dunque, non potrà che toccare ancora una volta al Giudice costituzionale
– ancorché, come sempre, in via non esclusiva – il compito di dare “corpo” al nuovo disegno
costituzionale dei rapporti tra Stato e autonomie regionali, individuandone il punto di equilibrio e il
concreto orientamento in senso più o meno favorevole all’uno o alle altre, nella risoluzione di un
contenzioso che, quanto a mole e a nodi interpretativi da sciogliere, non pare affatto destinato a
diminuire, quantomeno nel breve/medio periodo. E proprio a tale ultimo proposito, non è affatto da
escludere la possibile incidenza di un ulteriore fattore che l’esperienza già vissuta dovrebbe averci
insegnato a non sottovalutare: infatti, quando una riforma viene consegnata agli operatori, soprattutto
in settori assai complessi e a disciplina fortemente condizionata dalle elaborazioni della
giurisprudenza come accade per i rapporti tra Stato e Regioni, è inevitabile che gli approdi
giurisprudenziali preesistenti costituiscano la “base” di partenza per l’interpretazione e l’applicazione
del nuovo testo, finendo per pesare come una sorta di “fardello della continuità”. Non è un caso che,
dopo la riforma del 2001, la Corte costituzionale abbia fatto ampio uso della propria giurisprudenza
precedente, in molti casi addirittura “acquietandosi” su quegli approdi anche davanti a un testo
normativo costruito su presupposti e istituti radicalmente differenti rispetto al testo costituzionale
originario del 1947.
Quanto alle autonomie speciali, la situazione è, almeno in parte, assai diversa.
Qui il legislatore di revisione ha fatto apparentemente scelte molto più precise e
dichiaratamente rivolte alla massimizzazione dell’autonomia, in primis con l’introduzione, tra le
disposizioni transitorie, della clausola di esclusione: l’art. 39, comma 13, infatti, dopo le modifiche
apportate dall’ultima lettura del Senato, ci dice che alle autonomie speciali la riforma del Titolo V
della Parte II della Costituzione contenuta nel Capo IV della legge costituzionale in esame non si
applica fino alla revisione dei rispettivi statuti; e tale applicazione sembrerebbe espressamente esclusa
anche con riferimento al nuovo art. 120 Cost. – ancorché quest’ultimo venga modificato dall’art. 38,
comma 9 (ossia da una norma ricompresa nel Capo VI e non nel Capo IV), proprio al fine di
estenderne espressamente la portata anche alle autonomie speciali – in forza dell’esplicita previsione
contenuta nel secondo periodo del menzionato art. 39, comma 13, laddove si stabilisce che «A
decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, e sino alla revisione dei
predetti statuti speciali, (…) resta ferma la disciplina vigente prevista dai medesimi statuti e dalle
relative norme di attuazione ai fini di quanto previsto dall’articolo 120 della Costituzione».
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La riforma in esame, dunque, non si applica alle autonomie speciali fino alla revisione dei loro
statuti; e proprio su questo punto il legislatore di revisione introduce un ulteriore elemento di grande
novità, stabilendo che la suddetta revisione dovrà avvenire «sulla base di intese con le medesime
Regioni e Province autonome». Lo Stato, in buona sostanza, perde le chiavi dell’autonomia speciale
o, meglio, sarà costretto a condividerle con quelle stesse Regioni e Province autonome che fino ad
oggi non hanno avuto difficoltà ad ammettere in più di un’occasione il loro timore verso la revisione
costituzionale dei loro statuti.
Si tratta di scelte tutt’altro che condivisibili, anche volendole guardare con gli occhi di
un’autonomia speciale che voglia rilanciarsi e riacquistare la propria ragion d’essere.
Se l’obiettivo era quello di evitare i “disastri” e le vicissitudini applicative della ben nota
clausola di maggior favore contenuta nell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, è difficile sfuggire
alla sensazione che tale obiettivo sia destinato a rimanere frustrato e che, addirittura, si sia introdotto
un rimedio peggiore del male.
Innanzitutto, perché la clausola di maggior favore del 2001 non è stata oggetto di alcun
intervento e – una volta sancita l’inapplicabilità alle autonomie speciali della riforma costituzionale
in corso – resta dunque pienamente operativa nei confronti di tali enti in relazione alle norme della
legge cost. n. 3 del 2001 «per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle
già attribuite [dal sistema degli statuti speciali]»; con l’effetto (a dir poco assurdo) di una vera e
propria “ultrattività”, per le sole autonomie speciali, del testo costituzionale riformato nel 2001. Con
ciò, evidentemente, tutti problemi di applicazione (e scaturenti dalla applicazione) della clausola di
maggior favore per le norme della legge cost. n. 3 del 2001 permangono intatti, prolungando
tendenzialmente ad infinitum l’attuale situazione di caos assoluto che caratterizza gli enti ad
autonomia speciale, i quali, lungi dal disporre di forme e condizioni di autonomia chiaramente ed
esclusivamente individuate negli statuti speciali e nelle relative norme di attuazione, finiscono per
scontare la penalizzazione di un quadro di competenze insuscettibile di qualunque “pre-definizione”
in astratto, ma affidato inesorabilmente al Giudice costituzionale e a una casistica giurisprudenziale
che certo non favorisce l’esercizio e lo sviluppo dell’autonomia.
Ecco dunque il paradosso cui la riforma in esame sembra consegnare lo status delle autonomie
speciali. Queste ultime rimangono fortemente penalizzate dalla perdurante applicabilità della clausola
di maggior favore della legge cost. n. 3 del 2001 (in relazione all’impatto di quella riforma sui sistemi
statutari) e, al tempo stesso, non vengono per nulla avvantaggiate dall’affermata “salvaguardia” di
quegli stessi sistemi statutari che vorrebbe garantire la clausola di esclusione dell’applicabilità ad esse
della riforma in corso. Anche in questo caso, in definitiva, ancor più che per le Regioni di diritto
comune, sarà verosimilmente il Giudice costituzionale a declinare il futuro delle relazioni tra Stato e
autonomia e a sciogliere i nodi di una disciplina normativa a dir poco “strabica”.
In realtà, alla rinascita delle autonomie speciali sarebbe servito l’esatto opposto rispetto allo
strenuo tentativo di isolarle in una condizione di “blindata” separatezza, ossia il loro inequivoco
“innesto” – come, d’altronde, sta facendo da tempo la giurisprudenza costituzionale più recente –
all’interno del sistema costituzionale della Repubblica una e indivisibile, attraverso l’individuazione
di una serie di clausole, di norme e di istituti non differenziabili, che si applichino alle stesse proprio
al fine di consolidare la legittimazione e la garanzia della loro specialità.
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Erik LONGO
Proponendo una prima osservazione di carattere generale, occorre rilevare come sussista il
rischio – bene evidenziato dal Prof. Cardone – del coinvolgimento della Corte costituzionale nel
circuito decisionale che renderebbe difficilmente separabile la funzione di giudizio politico
costituzionale e la funzione di indirizzo politico di maggioranza.
La Corte dovrebbe essere a presidio della funzione di indirizzo politico-costituzionale; qualora
la Corte venisse coinvolta - anche su singoli aspetti - nel conflitto politico, rischierebbe di rimanervi
imbrigliata invece che porsi quale garante e risolutrice di questi conflitti.
Una seconda osservazione, più specifica, muove dal presupposto che in questa riforma si
riscontra una eccessiva fiducia negli strumenti giurisdizionali e, al contempo, si aprono un insieme di
questioni collegate, di effetti conseguenti. Questa riforma può infatti aprire a modifiche di aspetti più
specifici (attraverso modifiche di norme integrative) che potrebbero toccare numerosi profili. Tra
questi si segnalano la discrezionalità del Presidente della Corte nella scelta del giudice istruttore e
relatore; i modelli istruttori utilizzati dalla Corte (il riferimento è alla sentenza n. 10 del 2015 e alla
sentenza n. 70 del 2015, sulle pensioni) e, infine, la dissenting opinion.
Giuseppe MOBILIO
Vorrei spendere qualche breve considerazione sul Titolo V e su una di quelle direttrici che il
legislatore ha dichiarato muovere l’impianto della riforma, cioè l’idea di “razionalizzare” il Titolo V
attraverso il recepimento e la cristallizzazione nel testo costituzionale degli ultimi approdi della
giurisprudenza costituzionale, nella prospettiva di ridurre il contenzioso che potrebbe sorgere in
futuro.
Vorrei in questo senso soffermarmi sulla “metamorfosi” dell’area vasta della riforma
costituzionale, proprio per mettere in luce come questa operazione non sia stata affatto “indolore” ed
efficace.
L’area vasta fa ingresso nel nostro ordinamento con la legge Delrio, la quale espressamente
qualifica enti di area vasta le Città metropolitane, le Province e le funzioni esercitate da queste ultime.
A questo proposito, come accennava prima il Prof. Simoncini, si è verificata quella sorta di trade off
istituzionale tra Città metropolitane e Province, per cui la legge Delrio ha avviato il proprio iter
legislativo assieme a un disegno di riforma costituzionale che mirava ad espungere le Province dal
testo costituzionale e a declassare le Città metropolitane come enti non più costitutivi della
Repubblica, ai sensi dell’art. 114 della Costituzione. Dopodiché quel progetto costituzionale si è
arenato, mentre la legge Delrio ha compiuto passi in avanti, giungendo faticosamente ad
approvazione. Come risultato, la Città metropolitana è rimasta ente costitutivo della Repubblica, al
centro della disciplina legislativa, mentre la Provincia è oggi destinata a scomparire dal testo
costituzionale.
Successivamente la Corte costituzionale si è pronunciata sulla legge Delrio, facendola
sostanzialmente salva. Di questa pronuncia vorrei sottolineare tre punti.
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Primo, il fatto che la Corte abbia disconosciuto la competenza delle Regioni a istituire le Città
metropolitane. Il presupposto è che le Città sono previste dell’art. 114 della Costituzione e lo Stato
ha un corrispondente obbligo di istituzione. Dato il rilievo nazionale e sovranazionale di questi enti,
questo compito spetta allo Stato in via esclusiva, salvo dettare una disciplina uniforme “nei suoi
aspetti essenziali”.
Il secondo profilo riguarda la competenza della regolamentazione della Città metropolitane,
che la Corte riconduce all’art. 117, comma 2, lett. p. Qui le sfugge nella parte motivazionale come
l’art. 117, comma 2, lett. p, legittimi lo Stato a definire l’”ordinamento” degli enti locali, quando
invece il testo dell’art. 117 vigente non parla di “ordinamento”.
Ultimo profilo riguarda la perimetrazione delle Province: la Corte dà una lettura dell’art. 133,
comma 1, dicendo che si applica solo per procedimenti singoli e non per di disegni di riforma
complessivi. A sostegno, la Corte ha osservato che comunque alla legislazione impugnata “potranno
seguire più incisivi interventi di rango costituzionale”.
Mi pare, quindi, che la Corte guardi già al nuovo testo costituzionale e che quest’ultimo
recepisca numerosi profili esplicitati dalla Corte. Il giudizio sulla legge Delrio rappresenta la punta
dell’iceberg di tutta una serie di pronunce ed indirizzi elaborati negli ultimi anni.
Innanzitutto, nel modificare l’art. 117, coma 2, lett. p, si affianca alle funzioni fondamentali,
alla legislazione elettorale e agli organi di governo anche l’ordinamento di Comuni e Città
metropolitane; dopodiché si parla di associazionismo comunale, di cui viene affidato allo Stato la
definizione dei principi in materia.
Una disposizione problematica è stata inserita nel comma 4 dell’art. 40, dove fa il suo ingresso
la nozione di area vasta: “per gli enti di area vasta, tenuto conto anche delle aree montane, fatti salvi
i profili ordinamentali generali relativi agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le
ulteriori disposizioni in materia sono adottate con legge regionale”. Questa previsione era
inizialmente progettata per nuovi enti sovracomunali, su modello delle ex Province, non più previste
in Costituzione. Viene introdotta, inoltre, una forma di pseudo-concorrenza, che in realtà il legislatore
della riforma aveva dichiarato di voler eliminare.
La domanda che sorge è: le Città metropolitane continuano ad essere “enti di area vasta”
oppure no? Perché nel caso in cui continuassero ad esserlo, come stabilito dalla legge Delrio, si
avrebbe una nuova categoria costituzionale, quella degli “enti di area vasta”, disomogenea al suo
interno, perché comprensiva sia di nuovi enti non costitutivi della Repubblica, come le Province, sia
di enti costitutivi, come le Città metropolitane. Con l’aggiunta che in questo caso lo Stato sarebbe
legittimato a dettare solo i profili ordinamentali generali, con una forte limitazione. Questa lettura
sembrerebbe consentita dalla Corte, che richiede una disciplina uniforme “nei suoi aspetti essenziali”.
Tale ipotesi, tuttavia, apre tutta una serie di problemi: qual è il rapporto tra “ordinamento” degli enti
locali all’art. 117, comma 2, lett. p, ed i “profili ordinamentali generali”, all’art. 40 del d.d.l. cost.?
Come distinguere una legislazione ex art. 117 da attuare mediante legge bicamerale da questa dell’art.
40, che fa riferimento ad una legge monocamerale?
Diversamente, se le Città metropolitane smettessero di essere “enti di area vasta”, allora
bisognerebbe trarre le conseguenti conclusioni in punto di legittimità rispetto alla legge Delrio, che
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ha riconosciuto ai nuovi enti metropolitani una “rilevanza” notevole nelle geografia istituzionale,
come osservato dalla Corte.
In conclusione, a qualunque interpretazione si voglia accedere, i problemi che si presentavano
in passato sono rimasti pressoché gli stessi anche con la riforma. Nel caso dell’area vasta e delle Città
metropolitane potrebbero essere posti così: qual è lo spazio residuo per la legislazione regionale? Il
contenzioso si riduce? Che si consideri la legge Delrio come coperta costituzionalmente dall’art. 40,
comma 4, o che non la si consideri tale, ad esempio, sarebbe legittima alla luce del nuovo quadro
costituzionale una legge regionale che, ad esempio, introducesse il parere obbligatorio della
Conferenza dei sindaci metropolitani per l’adozione di un determinato piano programmatico
regionale? Oppure, questa nuova materia concorrente è posta davvero al riparo dalla legislazione di
dettaglio nazionale? Penso al coordinamento della finanza pubblica, che perde la sua connotazione di
principio, facendo venire meno i paletti elaborati dalla giurisprudenza della Corte in passato: cosa
impedirebbe ad una norma sul coordinamento della finanza pubblica di invadere i margini rimessi
alla competenza regionale?
Sebbene si sia cercato nella giurisprudenza della Corte costituzionale la bussola per
“razionalizzare” il Titolo V, i problemi sono rimasti gli stessi del passato. Al riguardo, dunque,
sembra preferibile non attendere un intervento della giurisprudenza costituzionale a correzione di
questo modello o del catalogo delle materie, quanto piuttosto augurarci l’intervento efficace del
Senato, che dovrebbe esprimere il concorso delle Regioni nell’adozione della legislazione statale.
Giusto PUCCINI
Prendendo spunto non solo dalla relazione di Ines Ciolli, ma anche da quella precedente di
Andrea Cardone, vorrei ossevare come le sorti di questa riforma costituzionale non dipendano solo
dal modo in cui questa è congegnata, in sé per sé, ma anche dal modo in cui essa verrà concretamente
attuata e implementata sia sul piano della legislazione, costituzionale e ordinaria, che su quello della
prassi.
Faccio un primo esempio in relazione al tema della composizione della Corte, muovendo dalla
considerazione che il problema dell’eventuale eccessiva politicizzazione dell’elezione dei giudici, da
parte della nuova Camera e del nuovo Senato, potrebbe ritenersi almeno in parte risolto dalla
previsione di adeguate maggioranze qualificate.
Mi chiedo appunto se l’attuale testo della riforma non possa essere ulteriormente modificato,
oppure, ove ciò non risultasse praticamente possibile, se non possa comunque essere successivamente
varata una legge costituzionale modificativa, nel senso della introduzione, separatamente per la
Camera e per il Senato, di maggioranze qualificate munite di una carica garantistica ancor più
accentuata rispetto a quella rivestita dalle maggioranze attualmente contemplate nello stesso testo di
riforma.
Il discorso vale anche per la tematica del ruolo della giurisprudenza costituzionale in ordine
all’attuazione del nuovo titolo V.
Non c’è dubbio che, guardando esclusivamente all’assetto dei rapporti fra potestà legislativa
statale e potestà legislativa regionale risultante dal nuovo titolo V, riesca alquanto difficile intravedere
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significativi elementi di razionalizzazione e di semplificazione di tale assetto, tali da ovviare una volta
per tutte al problema dell’eccesso di contenzioso Stato-regioni dinanzi alla Corte.
Ciò nondimeno, questo tipo di rilievo potrebbe almeno in parte ridimensionarsi qualora
pensassimo alla riforma nel suo complesso, ed in particolare all’istituzione di un Senato
rappresentativo delle istituzioni territoriali, atto a proiettare le regioni all’interno del procedimento
legislativo statale.
Certo, un rilievo del genere si presta immediatamente a due ordini di obiezioni.
La prima obiezione ha a che fare con la posizione di netta inferiorità conferita al nuovo Senato
nell’ambito del procedimento legislativo.
La seconda obiezione attiene al rischio di “politicizzazione” che, comunque, incombe sul
nuovo Senato.
Si tratta, in effetti, di un rischio notevole, anzi di un esito tutt’altro che improbabile, vista
l’esperienza degli altri paesi: è successo un po’ dappertutto, perfino nel Bundesrat tedesco, in cui
componenti componenti, in un periodo piuttosto recente, hanno iniziato ad agire secondo logiche di
appartenenza politico-partitica, anziché di rappresentanza dei rispettivi Laender.
E tuttavia, entrambe queste obiezioni potrebbero essere almeno in parte superate facendo
riferimento al ruolo del sistema delle conferenze: a quello da esse effettivamente svolto in passato, e
a quello che esse potrebbero effettivamente svolgere in futuro.
Per quanto concerne il passato, infatti, vale la pena ricordare come, nell’ambito delle
conferenze, i presidenti delle regioni abbiano di fatto, in più di una circostanza, assunto posizioni
unitarie essenzialmente ispirate all’intento di tutelare gli interessi delle rispettive regioni, nonché,
correlativamente, quelli del sistema delle autonomie regionali complessivamente considerate. E si
ricordi altresì come, in tali circostanze, i pareri delle conferenze abbiano rivestito, di fatto, un
incidenza tutt’altro che trascurabile nella determinazione del contenuto delle leggi di iniziativa
governativa.
Ebbene, sotto questo profilo, a mio avviso, uno dei principali difetti riscontrabili in questo
testo di riforma è proprio la mancata considerazione del sistema delle conferenze.
Nella “Commissione dei saggi”, in effetti, l’ipotesi della costituzionalizzazione del sistema
delle conferenze è stata concepita esclusivamente in correlazione con l’opzione monocamerale, in
alternativa a quella del bicameralismo differenziato.
Secondo me, invece, un consolidamento ed una valorizzazione del ruolo conferenze non
sarebbero stati e non sarebbero affatto incompatibili con la trasformazione del Senato in camera
rappresentativa delle istituzioni territoriali.
Al contrario, credo che, tra il sistema delle conferenze ed il nuovo Senato, possa
concretamente svilupparsi un vero e proprio rapporto sinergico: le conferenze che intervengono sugli
schemi dei disegni governativi, e dunque in un momento prodromico rispetto al procedimento
legislativo, e il Senato chiamato successivamente ad intervenire, in coerenza con il precedente
intervento delle conferenze, nella fase decisoria del procedimento medesimo.
Si pensi del resto, al riguardo, al ruolo di supporto effettivamente giocato, nei riguardi del
Bundesrat effettivamente giocato, nell’esperienza tedesca, dalla Ministerpraesident-Konferenz,
chiamata per l’appunto ad intervenire in sede di predisposizione dei disegni di legge governativi.
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In quest’ottica, d’altro canto, una buona riuscita della riforma costituzionale attualmente in
corso di approvazione potrebbe dipendere da due ordini di circostanze, una di natura schiettamente
giuridica e l’altra di natura più propriamente politica.
Da un lato, infatti, potrebbe risultare quanto mai opportuno un intervento del legislatore
ordinario volto a razionalizzare il sistema delle conferenze, e a rafforzarne ulteriormente il ruolo nella
dinamica dei rapporti fra Stato e autonomie territoriali.
Dall’altro lato, non rimane che auspicare che il ceto politico regionale e locale si muova nel
senso di imprimere nei fatti al nuovo Senato non la fisionomia di una seconda scarsamente incisiva
camera politica, bensì quella di una camera realmente rappresentativa delle istituzioni territoriali,
idonea ad assumere, nella realtà effettuale, un peso sensibilmente maggiore rispetto a quello ad esso
correntemente assegnato dai commentatori del testo di riforma.
Ines CIOLLI
Vorrei riflettere in conclusione su quello che è stato l’elemento di congiunzione delle due
relazioni precedenti, ossia questa natura del Senato che sembra preoccupare tutti.
Non ho nessuna difficoltà ad ammettere la naturale tendenza di questo Senato a trasformarsi
in un Senato politico. Che questi interessi regionali si trasformino in interessi politici sta anche nella
natura delle cose, non credo risieda in questo la preoccupazione in merito al Senato quanto alle
funzioni che gli sono assegnate e soprattutto al suo funzionamento.
L’altro elemento che attiene più alla mia relazione è il fatto che questo Senato delle autonomie
è stato abbinato a delle Regioni di stampo amministrativo, e il problema è quello che esso potrà fare
in un sistema di Regioni depotenziato rispetto al Titolo V in vigore.
Per quanto riguarda il fatto che non venga modificato il 119 comma 1 della Costituzione non
vuol dire che l’autonomia non ne esca in qualche modo ridimensionata, poiché non è tanto l’equilibro
di bilancio inserito nella legge costituzionale del 2012, ma è soprattutto la legge rinforzata n. 243 del
2012, che potenzia fortemente l’autonomia delle Regioni e degli enti locali: la parte in cui si dice che
gli enti locali, all’interno di un Regione, possono utilizzare finanziamenti anche quando non sono in
equilibrio di bilancio purché lo sia in generale la Regione stessa. Ciò vuol dire che qualche altro ente
locale deve sobbarcarsi, pur essendo virtuoso, l’onere di questo investimento.
Per ciò che riguarda l’autonomia finanziaria delle Regioni speciali la recente sentenza n. 155
del 2015 ci ricorda che in tema di unità economica anche queste devono concorrere in maniera
solidale all’equilibrio di bilancio pur essendo Regioni che hanno un’autonomia finanziaria.
Ancora, sulla riflessione di Giuseppe Mobilio vorrei rilevare che quelle che sono competenze
in materia pseudo concorrente, in gran parte attengono alle questioni delle funzioni fondamentali
territoriali, e quella in cui si evidenzia una maggiore vicinanza con la potestà legislativa concorrente
è quella sui profili ordinamentali generali che spettano allo Stato sugli enti di area vasta, a cui si
ricollega la potestà di dettaglio da parte delle Regioni.
Un’ultima osservazione: la legge Delrio rivela un atteggiamento improprio, rinviando ad una
legge costituzionale, come se le leggi ordinarie possano permettersi di pensare che la loro disciplina
verrà ordinata da una legge costituzionale successiva.
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III Sessione
Corte costituzionale e potenziale sviluppo del contenzioso sui vizi formali degli atti
legislativi
Presidente Gaetano AZZARITI
La ragione per la quale il Gruppo di Pisa ha ritenuto necessario svolgere questo seminario di
discussione è legata alla necessità di approfondimento di un tema trattato con grande superficialità
nel dibattito pubblico. La riforma costituzionale – non solo la parte relativa alla giustizia
costituzionale - corre il rischio di trasformarsi in un plebiscito. Approvata dal Parlamento con
forzature regolamentari, senza una vera discussione nel merito, sono prevalsi i toni assertivi, su quelli
discorsivi. Si potrebbe definire una riforma approvata “a colpi di slides”. Mancano ancora alcuni
passaggi parlamentari, un'ulteriore prima lettura “conforme” e poi le “seconde letture”, ma ormai il
testo sembra non dover più cambiare. La conclusione prevedibile è dunque quella che si giunga a
breve ad un referendum dal carattere “confermativo”, piuttosto che “oppositivo”, com'è nello spirito
dell'articolo 138. Rischia cioè di diventare solo la richiesta di un'acclamazione per gli autori di una
riforma costituzionale di cui gli elettori non conosceranno bene i connotati.
Dinanzi ad un'opinione pubblica distratta, si accentua la responsabilità e il compito degli
studiosi, i quali hanno il dovere di prendere la riforma sul serio, dovendo discuterla nel merito e senza
reticenze. Certo, sarà poi difficile far pesare le nostre idee – quali che esse siano – in una situazione
poco propensa all'ascolto. Ciò non toglie che abbiamo il compito di riflettere e confrontare le nostre
posizioni sulla riforma.
Questo è il secondo seminario di discussione organizzato dal Gruppo di Pisa. Il primo ha
riguardato la riforma nel suo complesso e si è tenuto a Roma l’anno scorso. Nel sito del Gruppo di
Pisa c'è il report che dà conto della discussione svolta allora. Ora ci impegniamo a esaminare la parte
della riforma relativa alla Corte costituzionale. Aggiungo che il Gruppo di Pisa è una sede
particolarmente idonea per discutere di temi – qual è la riforma di parti significative della nostra
costituzione – che, storicamente, hanno visto un confronto acceso, spesso mostrando diversità di
approccio e discordanza di valutazioni. Il nostro “gruppo” è, in effetti, molto eterogeneo,
rispecchiando al suo interno praticamente ogni diversa sensibilità del diritto costituzionale. Molti di
noi hanno diverse opinioni ed anche per questo è sembrato opportuno sollecitare una discussione
reale e non unilaterale.
Dopo aver ascoltato i lavori di questa mattina vorrei aggiungere un’osservazione o – se volete
– solo una mia impressione. Mi sembra indicativo costatare come, nonostante il pluralismo delle idee,
le critiche su singoli punti (alcuni sull'intero impianto) siano state assai diffuse. Desidero sottolineare
questo dato non per enfatizzare la funzione critica della dottrina, ma per dolermi dello scarso ascolto
delle ragioni della scienza giuridica nel dibattito politico attuale. La vivace discussione di questa
mattina mi ha ulteriormente convinto che siamo di fronte ad una riforma che non ha registrato – se
non superficialmente - le posizioni degli studiosi.
Sulle relazioni sin qui svolte permettetemi alcune considerazioni. Per quanto riguarda le nuove
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norme sulla composizione della Corte, così puntualmente illustrate dal professor Cardone, vorrei
evidenziare quel che a me pare la maggior criticità. Essa credo si annidi nel rischio di un
affievolimento delle legittimazione dei giudici, venendosi a incrinare il criterio di rappresentatività in
forza del quale i giudici sono, in ultima istanza, nominati. Le vigenti modalità di nomina sono
espressione di un equilibrio che ha molti elementi positivi. Cinque giudici espressione dalle supreme
magistrature con modalità che garantiscono la rappresentazione (non, invece, la rappresentanza) di
tutte le giurisdizioni. La politica “nazionale” che si esprime nell'elezione dei giudici di nomina
parlamentare, garantita da maggioranze qualificate che tendono ad escludere siano questi giudici
espressione di sole maggioranze politiche e di governo. Infine, le nomine presidenziali, effettuate da
un organo che rappresenta l'unità nazionale e costituzionale. Un sistema che comporta dei rischi
(com'è per la non semplice scelta parlamentare), ma che ha nel complesso garantito una forte
legittimazione dei giudici e una loro rappresentatività “della funzione giurisdizione” (di tutte le
giurisdizioni), “della politica nazionale” e “dell'unità costituzionale”.
Il nuovo meccanismo vorrebbe introdurre due giudici eletti dal Senato. Mi chiedo se questa
scelta sia compatibile con la Costituzione intesa come patto unitario. Se, cioè, un organo di
rappresentanza degli interessi territoriali possa esprimere giudici che devono tutelare interessi unitari
d'ordine costituzionale. Si possono distinguere tra giudici che rappresentano lo Stato-Nazione eletti
dalla Camera e giudici che rappresentano gli interessi dei territori eletti dal Senato? È la logica della
rappresentanza degli interessi che mal si attaglia alla Corte. A ben vedere, la Corte costituzionale non
tutela interessi di parte. Il piano della giustizia costituzionale è quello dei principi unitari.
Una battuta anche sulla modifica del Titolo V e sulle questioni trattate questa mattina dalla
professoressa Ciolli. Il nuovo sistema del riparto delle materie sembra prescindere del tutto
dall'esperienza maturata grazie all'opera della giurisprudenza costituzionale. Può dirsi che tanto la
giurisprudenza costituzionale in tema di riparto quanto le critiche della dottrina sono state ininfluenti
in sede di revisione. Il punto più rilevante è però che, in tal modo, il testo finale è espressione di una
scelta conservatrice dei vecchi difetti, cui se ne potrebbero aggiungere di nuovi. Dico questo
pensando a quante difficoltà si sono cumulate in tema di riparto in base al criterio delle materie.
Bisognava avere il coraggio di abbandonare questo criterio, mentre si è preferito seguire la strada
dell'eliminazione della potestà concorrente.
Quanto è stato fatto ci allontana ulteriormente da un modello di federalismo solidale, verso il
quale dovremmo tendere. Ci avvicina invece all'opposto modello di federalismo competitivo. Il primo
infatti non può fare a meno della concorrenza (solidale) tra centro e periferia, anche nell'esercizio
della funzione legislativa, mentre il secondo tende a separare e rendere esclusive le materie dello
Stato centrale e quelle di ciascuna regione.
Anche per questo, la mia impressione è che il contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni,
anziché diminuire, com'è negli auspici dei proponenti la revisione, aumenterà. Non fosse altro perché
la Corte necessariamente dovrà reinterpretare la sua precedente giurisprudenza sia in base ai nuovi
criteri di riparto sia per via della introduzione della clausola dell'interesse nazionale che genererà
maggiore conflittualità politica. A proposito di quest'ultima re-introduzione, non dimentichiamo che
il “vecchio” interesse nazionale fu inizialmente inteso come un limite di merito di natura
sostanzialmente politica; in seguito però la giurisprudenza costituzionale lo ha reso un pervasivo
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limite di legittimità, con tutti i problemi derivanti dall’uso distorto che se ne è fatto come strumento
di profonda limitazione della autonomia regionale. Non so se la storia potrà ripetersi, forse no, visto
che le attuali Regioni sono più deboli rispetto a quelle di ieri. E forse anche questa Corte costituzionale
è più debole, mentre la politica si fa più agguerrita. A maggior ragione, dunque, lo scenario che oggi
si prospetta è veramente incerto.
Massimo CAVINO - Introduzione
Prima di iniziare vorrei spendere alcune parole per individuare certi punti fermi che desumo
dalla lettura del testo di riforma della Costituzione e che mi pare siano condivisi in questa sede. Dal
disegno di legge emerge, infatti, una netta propensione a favore della maggioranza di governo e lo
sviluppo di una logica accentratrice nel rapporto tra Stato e Regioni. All’interno di questo disegno
non credo che la riforma metta in pericolo il costituzionalismo. C'è piuttosto un nuovo equilibrio che
emerge, ma che non rappresenta un pericolo per una democrazia occidentale.
Il titolo della sessione riduce l’oggetto di questa introduzione perché taglia fuori tutti gli
aspetti materiali e competenziali che sono collegati al procedimento legislativo. Mi soffermerò
dunque sul procedimento, su alcuni aspetti della decretazione d’urgenza e sul referendum.
La prima questione che vi sottopongo è la seguente: dopo la revisione costituzionale si potrà
ancora parlare della legge come di un unico atto? Parleremo di due leggi, quella del Parlamento e
quella della Camera? Leggendo l'art. 55 ricaviamo la cognizione che la funzione legislativa è
attribuita alla Camera e che il Senato concorre «nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla
Costituzione». Fate attenzione al fatto che si dice non solo modalità ma anche nei “casi stabiliti”. Dal
momento che l'art. 70 indica quali sono queste ipotesi ed stabilisce che il Senato ha solo potere di
proposta, vale la pena capire se nei commi successivi si apra in realtà la possibilità di intendere che
la funzione legislativa sia esercitata solo della Camera. A dire il vero il testo dice che l'intervento del
Senato è sempre necessario. Difatti, anche nel procedimento monocamerale, dove l’intervento è
potenziale, il Senato deve essere coinvolto nella attività legislativa. La dicotomia prospettata, dunque,
è più apparente che reale.
Ho contato otto procedimenti legislativi, che poi diventano nove se contiamo l’eventualità che
i regolamenti introducano leggi per le quali venga dichiarata l’urgenza. Questi otto sono: bicamerale
generale previsto dall’art. 70 primo comma; procedimento bicamerale speciale per le leggi elettorali;
monocamerale generale, di cui all’art. 70, commi 2 e 3; un procedimento monocamerale speciale
all’art. 70, comma 4; un procedimento monocamerale speciale all’art. 70, comma 5; monocamerale
a iniziativa legislativa esercitata dal Senato; monocamerale per approvazione delle leggi a data certa,
secondo l’art. 72, comma 7; procedimento monocamerale speciale per leggi di conversione dei decreti
legge.
Solo un accenno su quest’ultimo. Sono cosciente di avere una opinione divergente rispetto a
quella espressa da altri autori, secondo i quali la legge di conversione dei decreti-legge può seguire o
il procedimento monocamerale o quello bicamerale.
Il primo tema che affronto riguarda il contenzioso che riguarda la scelta sul procedimento
legislativo. Si può immaginare che si avvii un procedimento bicamerale al Senato riguardante una
legge che tale non sia secondo la Camera. A questo punto si potrebbe pensare ad una dichiarazione
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di irricevibilità della Camera che ritiene esserci un conflitto di competenza. Conflitto che secondo il
sesto comma dell'art. 70 viene composto dall'accordo dei presidenti delle Camere; un accordo che
però non ha una via di uscita nel caso in cui non ci sia intesa tra i due presidenti. Ad esempio non c’è
una commissione paritetica che possa risolvere un conflitto.
Immaginiamo anche un'altra ipotesi, quella in cui la Camera abbia approvato secondo il
procedimento monocamerale una legge che avrebbe dovuto essere invece bicamerale nella
prospettiva del Senato. A quel punto, quando il testo è trasferito al Senato per il parere, potrebbe
sorgere il conflitto. Le due camere sono in una posizione diversa rispetto a questa ipotesi, perché
secondo l’art. 70 la Camera può approvare da sola la legge. Il procedimento avviato in via
monocamerale può concludersi anche se il Senato ritenga di avere titolo per sollevare conflitto. A
quel punto il Presidente della Repubblica diventa un attore fondamentale. Possiamo domandarci se
egli possa rinviare alle camere quando il procedimento è controverso. Poiché è previsto un accordo
tra i presidenti, credo che il rinvio sia possibile solo se l’accordo non ci sia stato.
Sul piano del conflitto, quali strumenti potrebbero esserci? Certamente il conflitto di
attribuzione, che potrebbe essere sollevato dal Senato rispetto all’atto di trasmissione della legge
approvata secondo il procedimento monocamerale, o anche sul rifiuto della Camera rispetto alla
dichiarazione di improcedibilità della legge trasmessa, prima che il procedimento monocamerale sia
concluso. Nell’ipotesi in cui il procedimento monocamerale si concluda, il Senato potrebbe sollevare
conflitto di attribuzioni rispetto alla legge. Questo presuppone che la giurisprudenza costituzionale,
che non offre strade, possa mutare il proprio indirizzo. La possibilità del conflitto di attribuzione è
quella più significativa nella prospettiva del contrasto tra le due Camere.
Le leggi di conversione sono l’argomento più spinoso. Se leggiamo art. 77 Cost. nel nuovo
testo notiamo che si tratta di una disciplina ambigua. I decreti devono essere presentati alla Camera
per la conversione anche in caso di esercizio collettivo della funzione legislativa. Significa che il
procedimento parta davanti alla Camera ma resti monocamerale? Ritengo che il procedimento debba
essere sempre monocamerale. Sono consapevole che l'art. 70 dice espressamente che le leggi
monocamerali possono essere modificate e abrogate solo con lo stesso procedimento. Secondo me la
disciplina dell’art. 77 è una deroga al principio generale. La mancanza di strumenti che possano
evitare le navette e che possano portare alla approvazione sicura della legge mi induce a ritenere che
il decreto debba essere convertito solo dalla Camera, perché solo quel procedimento può garantire la
conversione. Mi pare che solo questa lettura possa fare il paio con l’idea di favorire, nell’equilibrio
dei poteri, il continuum maggioranza-Governo. Faccio presente un altro aspetto che riguarda il rinvio:
se il Presidente della Repubblica vi fa ricorso, il tempo per conversione sale a 90 giorni. Dunque il
Presidente della Repubblica vi può ricorrere più facilmente. Peraltro va detto che nella storia recente
la minaccia del rinvio è stata uno strumento di moral suasion particolarmente forte. Un esempio si
trova nella nota vicenda avvenuta alla fine del 2013 con lo spacchettamento del decreto “salva Roma”.
Altra questione concerne i tempi del procedimento. Oggi abbiamo un sistema in cui la
legislatura stabilisce i tempi di approvazione delle leggi. Si può dare il caso di una legge bicamerale
già approvata dal Senato che viene approvata dalla Camera dopo il suo rinnovo. Questa situazione
potrebbe porre questioni di carattere politico importanti. In Francia c'è stato il caso di una legge
approvata dopo dieci anni dalla sua presentazione. Questa legge, relativa alle vittime della guerra di
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Tunisia, Algeria e Marocco, è stata approvata dalla Assemblea nazionale nel 2002, mentre il Senato
la approvata nel 2012. Nel frattempo l’Assemblea nazionale è cambiata tre volte e questo, secondo i
francesi, incide sulla “sincerità” del dibattito parlamentare. Chiamato a pronunciarsi, il Conseil
Constitutionnel si è limitato a ribadire che siccome la legge è stata approvata nello stesso testo, è
valida. È difficile ipotizzare le ricadute che una vicenda del genere potrebbe avere nel nostro sistema.
Credo che la Corte costituzionale potrebbe valutare questi casi in modo non dissimile dal referendum
abrogativo. Vale a dire, potrebbe domandarsi se il mutamento del quadro politico non sia un elemento
per scrutinare questa legge. Il pensiero va alla sentenza n. 199 del 2012, in cui la Corte ha valutato
l’esistenza del vincolo al legislatore sulla base di un mutamento del quadro politico.
Rispetto al tema trasparenza e chiarezza del dibattito parlamentare, qualche peso lo avrà il
comma 7 dell’art. 72, riguardante il procedimento per le leggi a data certa. Tale procedimento potrà
avere qualche rilievo sulla “sincerità” del dibattito parlamentare perché quello che determina è una
forte compressione dei tempi per l’esame parlamentare. Peraltro, questo articolo stabilisce che il
regolamento della Camera debba disciplinare questa ipotesi. Ci potrebbe essere quindi una duplice
ipotesi di conflitto di attribuzioni. Da una parte potrebbe esserci il conflitto del Governo se il
regolamento della Camera dovesse frenare l’uso del voto a data certa; oppure ci potrebbe essere un
conflitto sollevato dalla Camera. Possiamo ritenere che molto dipenderà da quanto l’obiter dictum
della sentenza n. 120 del 2014 sulla possibilità di sollevare conflitto sui regolamenti parlamentari
avrà un seguito o meno.
Sulla possibilità che il Governo abusi del procedimento giocherà un ruolo significativo il
Presidente della Repubblica, il quale potrebbe rinviare la legge alle Camera. Ma ciò implica che il
Presidente della Repubblica intervenga su una questione strettamente politica. Certo il Presidente
dovrà fare un uso cauto di tale potere.
Non mi soffermerò sulle leggi elettorali, sulle quali non c’è da aggiungere molto rispetto a
quanto detto in precedenza. Senz’altro c'è un cambiamento di sistema, che potrà portare ad
un’apertura verso cambiamenti significativi. Nell’immediato non vi saranno grandi rivoluzioni.
D’altronde si farà così fatica ad approvare leggi elettorali che la Corte non credo sarà sommersa dal
contenzioso. È interessante l’ipotesi transitoria sulla legge ora approvata, ma che fa storia a sé.
Vorrei spendere una considerazione sugli effetti del mancato intervento del Senato nel
procedimento monocamerale. Il Senato ha un ruolo secondario qui, visto che può solo proporre delle
modifiche alla Camera. Nell’intervento di Piccirilli si sostiene qualcosa di diverso, come se il comma
5 determini una vincolatività della proposta del Senato. Non sono d’accordo con questa posizione e
dalla lettura ricavo una idea diversa. Il mancato esame del procedimento monocamerale generale non
impedisce l’approvazione della legge. Lo stesso comma 3 dell’art. 70 dice che, decorso il termine, la
Camera può procedere alla approvazione definitiva. Rispetto ai commi successivi si nota una certa
asimmetria. Il comma 4 tace sul termine entro cui deve avvenire la deliberazione, mentre il comma 5
stabilisce il termine di quindici giorni sulla approvazione ma tace sul termine entro il quale deve
essere disposto l’esame. Tali questioni e lacune credo saranno colmate dal regolamento del Senato.
Alcune parole sull’iniziativa legislativa del Senato. L’art. 71, comma 2, prevede che il Senato
possa, con deliberazione a maggioranza assoluta, sottoporre all’esame della Camera un disegno di
legge. Anche qui è molto interessante la lettura di Piccirilli, il quale dice che è uno strumento per
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accelerare iniziative altrui. Dal punto di vista letterale, l’interpretazione di Piccirilli sta in piedi. Credo
però che sia una iniziativa vera e propria. Tra l'altro il termine di approvazione definitiva è
ordinatorio, perché appunto la ratio della norma è quella di garantire un seguito alla iniziativa del
Senato. Pertanto l’approvazione dovrebbe sanare l’eventuale vizio.
Come conciliare l’iniziativa del Senato con quella del singolo senatore? Credo che la lettura
più utile sia quella che il senatore possieda iniziativa solo per leggi bicamerali e che possa avviarla
solo in questo caso.
Qualche rapida considerazione sul procedimento referendario. La Corte aveva avuto modo di
pronunciarsi su un punto simile nella sent. n. 372 del 2004, relativa allo statuto della Toscana. La
pronuncia è interessante, seppure si riferisca ad un procedimento regionale.
Quanto allo sviluppo del contenzioso costituzionale credo che assisteremo a nuovi scenari. La
numerosità dei procedimenti per approvare le leggi non può che portare, almeno nella prima fase, ad
una intensificazione del contenzioso. Molto dipenderà dalla natura del Senato, perché sono convinto
che il conflitto non sia più l’”ultima”, ma la “prima fortezza”. Sarà interessante capire che tipo di
camera sarà il Senato. L'atteggiamento del Senato renderà il numero dei conflitti più alto o più basso.
Solo uno sguardo al diritto comparato. L’attenzione si è rivolta subito alla Francia, ma non
credo rappresenti un utile termine di paragone, perché la nostra architettura politica e costituzionale
impedisce comparazioni serie. Ci si può chiedere se il Senato sia accostabile al Bundesrat. In questa
fase, però, le osservazioni comparate siano fuorvianti. Al contrario è molto utile cercare le risposte
nella giurisprudenza costituzionale.
Concludo con una osservazione che si riaggancia a quanto detto in avvio. Il fatto che il nuovo
testo costituzionale produca lo sbilanciamento dei poteri a vantaggio del continuum maggioranzaGoverno è un esito che stavamo attendendo da molto tempo. I caratteri di questo sbilanciamento a
favore dell'esecutivo sono già abbastanza avanzati. Forse, da questo punto di vista, siamo di fronte ad
una Costituzione “bilancio”. Lo sbilanciamento a favore del Governo è una presa d’atto che riallinea
il testo costituzionale con la dinamica delle istituzioni. Non necessariamente è un fenomeno positivo,
ma è quello che sta accadendo.
Gaetano AZZARITI
Rimane da sottolineare una questione. Fino ad oggi l'ipotesi di poter far valere in sede di giudizio
costituzionale un vizio del procedimento di formazione delle leggi poteva apparire un caso di scuola,
domani – se la revisione avrà successo - non più. Quanto peserà sull'attività della Corte? Due
considerazioni fanno temere che questa nuova forma di controllo sulle leggi tenderà ad allargarsi.
Innanzitutto a causa dalla natura “trasversale” di molte materie: non sarà sempre facile assegnare ad
uno o ad un altro iter di formazione i disegni o le proposte di legge. Inoltre, la previsione di
composizione previste per dirimere le eventuali divergenze sulla competenza tra Camera e Senato (al
VI comma dell'articolo 70), non sembra possa essere risolutivo e non aiuta a chiarire la questione;
potendo, persino, aumentare la conflittualità. Deve, in secondo luogo, osservarsi che il testo
costituzionale è scritto in modo oscuro e complesso. Basta un dato statistico per rendersi conto della
non linearità dell'art. 70: quello vigente è composto di un solo comma di nove parole. Quello
approvato ora dal Senato è composto di nove commi e da oltre quattrocento parole. Il meno che può
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dirsi e che non si è rispettata l’idea di “chiarezza nella costituzione” come tratto necessario per avere
una “buona costituzione”, secondo l'insegnamento di Pietro Calamandrei.
Dibattito
Giovanni PICCIRILLI
Provando a sintetizzare quanto ho già anticipato nello scritto pubblicato sul sito del Gruppo
di Pisa, vorrei dire alcune cose sul secondo periodo del primo comma dell'art. 70, sul sesto comma
dell'art. 70 e sulla combinazione tra questi due. Sono d’accordo con l’avvio della relazione del prof.
Cavino. Bisogna confrontarsi con una differenziazione dei modi di esercizio della funzione legislativa
e, dunque, con la infungibilità dei procedimenti parlamentari in relazione a contenuti diversi. Ci sono
dei contenuti che seguono il procedimento bicamerale e altri contenuti che non potranno seguirlo. Il
tratto distintivo che mi sembra emerga è quello dell'oggetto proprio, ovvero l’idea che esista un
oggetto proprio solo per le leggi bicamerali, da far valere in giudizio sia per le leggi bicamerali che
contenessero elementi estranei, sia per le leggi monocamerali che violassero la competenza attribuita
al procedimento bicamerale. Questa differenziazione riflette la differente posizione del Senato nei
due procedimenti.
Si pone il problema di eventuali contenuti veicolati in un procedimento sbagliato. Non avrei
molti dubbi a dire che un contenuto bicamerale veicolato in una legge monocamerale sia sbagliato.
Mi pongo il problema rispetto all’ipotesi inversa, cioè di includere contenuti monocamerali in leggi
bicamerali. È vero che ci sarebbe violazione del principio dell’oggetto proprio, ma si porrebbe solo
il problema di sottrarre alla Camera il potere di ritornare sul problema in assenza o contrariamente al
parere del Senato. Forse bisognerebbe ragionarci di più. Una soluzione possibile è quella della
cedevolezza delle leggi bicamerali approvate in casi di procedimento monocamerale.
Passo al sesto comma dell’art. 70, relativo all’intesa sul procedimento. Una cosa è sicura: per
la composizione dei conflitti non bastavano i regolamenti, ma sarebbe stata necessaria un fonte
bicamerale. Tra l’altro questa procedura è identica alla formula usata nella riforma del 2005, la quale
però escludeva esplicitamente il sindacato della Corte costituzionale sul procedimento. Alcune letture
- come quella della Prof.ssa Manetti - ritengono che il raggiungimento dell’intesa riesca a sanare il
vizio del procedimento. Simili letture destano qualche perplessità, perché non vi possono essere zone
d'ombra in assenza di enunciati su cui fondarsi, essendo contrario alla ratio della riforma che invece
cerca di allargare l’ambito della giustiziabilità.
Concludo provando a mettere insieme questi due aspetti. Quale potrebbe essere
l’atteggiamento della Corte costituzionale su questi punti? Credo che nella stessa giurisprudenza della
Corte vi siano segnali di un potere da esercitare su questi aspetti. Penso soprattutto alla sent. n. 32 del
2014, sulla legge di conversione, relativamente alla individuazione di vizi formali rilevabili solo alla
luce del contenuto sostanziale degli atti interessati. Penso inoltre alla sent. n. 10 del 2015 che ha fatto
decorrere gli effetti della decisione dal momento in cui la sentenza è stata pubblicata. Qualora ci fosse
la volontà di sviluppare un simile indirizzo, quello dei vizi formali potrebbe essere un terreno fecondo.
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Paolo PASSAGLIA
Vorrei soffermarmi sul problema dell'accesso alla Corte volto a far valere vizi procedurali
degli atti legislativi. A mio avviso, sono tre le condizioni perché possa aversi un significativo
contenzioso inerente ai vizi procedurali di fronte alla Corte.
Anzitutto, deve sussistere un interesse a farlo valere: in una democrazia consensuale,
probabilmente tale interesse non è presente, mentre in una democrazia maggioritaria, come ormai è
la nostra, l’interesse sussiste certamente, almeno in capo all’opposizione parlamentare.
Secondo, ci devono essere parametri invocabili: norme sul procedimento che possano fungere
la parametro di legittimità costituzionale. Finora, è rimasto fermo l’insegnamento della sent. n. 9 del
1959 sui regolamenti parlamentari, di talché questi ultimi non sono norme interposte. Ciò, in
combinato con l’assenza, in Costituzione, di una disciplina che non sia meramente evocativa del
procedimento legislativo, ha fatto sì che il controllo non abbia mai potuto decollare. In ipotesi, con la
riforma costituzionale, le cose sembrerebbero destinate a cambiare.
Terza condizione è la corrispondenza tra interessati e legittimati. Il vizio procedurale viene
effettivamente sindacato quando l’accesso è aperto a coloro che sono interessati a che il vizio venga
sanato ed a che non si ripeta; soggetti che, tra l’altro, sono proprio quelli maggiormente informati
circa l’esistenza del vizio: nel nostro sistema i giudici non hanno cognizione di quanto accaduto nel
procedimento per sollevare la questione; è l’opposizione parlamentare che coniuga interesse e
conoscenza.
Ci sono poi altre condizioni, quali, ad esempio, il momento in cui viene effettuato il controllo.
È evidente che se la legge è denunciata in via preventiva, lo spazio per l’invalidità procedurale risulta
più significativo, giacché, una volta che la legge entra in vigore, l’attenzione per come si è svolto il
procedimento si sgonfia inevitabilmente.
Quale è la situazione in cui la Corte si trova attualmente? Direi che il problema riguarda
soprattutto la definizione di chi siano i legittimati e gli interessati. Chi fa valere il vizio procedurale?
Per alcuni vizi si può ricorrere al giudizio in via principale: le Regioni potrebbero essere interessate
ai (ed informate sui) vizi procedurali. In certi casi si potrebbe muovere il presidente del Senato per il
tramite del conflitto interorganico. Non altrettanto efficace sembra il ruolo che può svolgere il
Governo: l’esperienza francese ci ha insegnato che quando c’è una saldatura tra Governo e
maggioranza parlamentare si perde l’interesse del primo a far valere l’invalidità, poiché è il Governo
stesso a “dirigere” il procedimento.
In generale, sul conflitto interorganico, credo che esso, in astratto, potrebbe essere l’“ultima
fortezza”, ma rimane pur sempre un giudizio non del tutto idoneo, soprattutto perché molto lento e
gravoso per la Corte.
Queste problematiche non sembra che siano prese in adeguata considerazione nel testo di riforma.
Anzi, il silenzio serbato su come porre la Corte in condizione di sindacare il vizio procedurale
finisce per aggravare il problema che già ora è riscontrabile. L’assenza di soggetti legittimati che
coniugano conoscenza e interesse del vizio ha, infatti, un effetto sull’idea stessa di Costituzione,
perché una parte della Costituzione, quella sul procedimento legislativo, che diviene significativa,
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non ha un giudice o, quantomeno, è presidiata da un giudice molto ipotetico: si rischia, in tal modo,
di affidarla alla gestione dei politici.
Giovanni TARLI BARBIERI
Vorrei fare una premessa e due osservazioni. La premessa è che l'art. 70 è un articolo poco
sostenibile. Oltre a quanto sostenuto da Gaetano Azzariti vorrei aggiungere la difficoltà a trovare un
“filo rosso” in questo articolo. Mi domando perché le leggi indicate siano da qualificare come
bicamerali. Che il Senato rappresenti le autonomie la trovo una risposta molto parziale, perché. per
esempio, le leggi che interessano le autonomie non sono tutte ricomprese. Analogamente, il terreno
dell'attuazione costituzionale riguarda solo alcune leggi: viene da interrogarsi, ad esempio, perché
quella sul referendum viene citata mentre quella attuativa della Corte costituzionale no.
Nella relazione di Massimo Cavino un punto che mi ha lasciato perplesso riguarda la
conversione del decreto-legge. Evidentemente sulle possibili letture divergenti pesa molto la cattiva
scrittura dell’articolo. Per come ho letto, l’art. 77, in combinato disposto con gli artt. 70 e 72, incontra
una deroga nel secondo comma dell’art. 72, in relazione al fatto che il procedimento parte alla
Camera. Al di là delle ipotesi di scuola, è evidente che sarebbe un fattore di eccessiva legittimazione
della decretazione d'urgenza.
Ultimo punto riguarda le cosiddette fonti atipiche rinforzate, come la legge di amnistia e
indulto. Su questo aspetto la riforma non fa chiarezza. Oggi l’art. 79 prevede che queste leggi vengono
approvate con una maggioranza di due terzi. La riforma ne modifica il testo sostituendo
semplicemente “Camere” con “la Camera”. Presumo che la Camera voterà con la maggioranza dei
due terzi, mentre non si sa con quale maggioranza (se a maggioranza semplice o dei due terzi) opererà
il Senato ove proponga modifiche.
Massimo CAVINO
Condivido diverse cose sostenute da Giovanni Piccirilli e Paolo Passaglia. In particolare,
quest’ultimo ha espresso meglio alcuni profili toccati nell’introduzione. Lo sviluppo del contenzioso
è certamente condizionato dallo sviluppo del sistema politico, come d’altronde avviene già in Francia.
Tutto dipende da come si configurerà il Senato. In Francia le questioni di procedura che riguardano
il Senato sono state sollevate dai deputati stessi, evidentemente per ragioni politiche. Il tema è chi
può promuovere il conflitto.
Una battuta rispetto alla decretazione d’urgenza. La ragione per cui propendo per la lettura
proposta sta nel testo stesso dell'art. 77 per come è stato modificato: «L’esame, a norma dell’articolo
70, terzo e quarto comma, dei disegni di legge di conversione dei decreti è disposto dal Senato della
Repubblica entro trenta giorni dalla loro presentazione alla Camera dei deputati». È una disposizione
di carattere generale. Non dice "quando procede all'esame ai sensi del...". Nel fraseggio di questo
comma mi pare di vedere un procedimento generale. Dopodiché, sono consapevole che questo
significa attribuire al Governo un poter enorme, quello di scegliere il procedimento legislativo e di
comprimere lo spazio costituzionale del Senato, ma su questo un peso rilevante lo avrà il potere della
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Corte costituzionale di confinare il decreto-legge dentro i suoi presupposti costituzionali. Sappiamo
che la giurisprudenza sui presupposti di necessità e urgenza non offre elementi rassicuranti. Avevo
trovato un elemento di di rassicurazione nella sent. n. 220 del 2013, ove la Corte ha fornito qualche
termine di oggettivazione della evidente mancanza dei presupposti, laddove si trattava di interventi
sulle Province. La mia idea deriva da una lettura di sistema. Credo che se noi ricollochiamo il decretolegge nella posizione di strumento per interventi improcrastinabili, attribuito al Governo assieme al
voto a data certa, possiamo finalmente pensare a questa come una fonte che davvero serve per
interventi improcrastinabili e non ad un modo per realizzare l’indirizzo politico contingente. In questo
senso si tratterebbe di una procedura diversa dalle altre e con una propria autonomia.
IV Sessione
Corte costituzionale e controllo delle leggi elettorali
Francesco Dal Canto - Introduzione
Volendo anticipare le conclusioni dell’intervento, l’idea di introdurre un giudizio preventivo
sulle leggi elettorali non pare di per sé irragionevole o pericolosa, ma andava coltivata meglio affinché
non risultasse troppo disarmonica rispetto al modello in cui va a collocarsi.
In premessa occorre osservare che non è possibile parlare di questo istituto previsto dall’art.
13 del d.d.l. cost. senza brevemente richiamare l’antefatto, ovvero lo spartiacque rappresentato dalla
sent. n. 1/2014, che ha dichiarato incostituzionale la legge n. 270/2005 e che segna una discontinuità
nel contesto con cui la riforma deve fare i conti. Fino a qualche anno fà si riteneva irrealistica la
possibilità di promuovere questione di legittimità costituzionale sulla legge elettorale in via
incidentale, come già Lavagna sosteneva nel 1952. I motivi sono noti: l’esclusività della competenza
della Camere a conoscere delle questioni in materia elettorale; la strettoia della pregiudizialitàincidentalità; argomenti che sono stati demoliti dal combinato dell’ordinanza di rimessione della
Corte di Cassazione e della sent. n. 1/2014. Non è questa la sede per ripercorrere i contenuti di tale
pronuncia; basti solo osservare come questa zona d’”ombra” rischiasse di diventare una zona “calda”
della giustizia costituzionale, cioè che, a seguito di questa sentenza, sistematicamente su ogni legge
elettorale - che per fortuna non vengono approvate così spesso - si potesse ripercorrere la strada del
controllo successivo, con tutti i problemi che derivano dal dichiarare l’illegittimità costituzionale di
una legge sulla cui base sono stati eletti 3 Parlamenti.
L’istituto del controllo preventivo, quindi, serve non solo a superare una zona franca nel
controllo di costituzionalità, ma anche per affrontare motivi contingenti legati alla necessità di
arginare i rischi del sistematico ricorso e della potenziale dilatazione della materia della giustizia
elettorale. Al giorno d’oggi non si tratta più di valutare questo nuovo istituto in astratto, bensì alla
luce di ciò che già c’è, vale a dire del controllo in via incidentale. Rimane fermo che gli strumenti del
controllo preventivo ed incidentale hanno una vocazione diversa: quello incidentale risulta meno
efficace del sindacato preventivo, ha una maggiore propensione a soddisfare diritti individuali, mentre
il sindacato preventivo ha una maggior attitudine alla tutela oggettiva della legalità costituzionale.
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Il nuovo istituto ha sollevato un intenso dibattito nella dottrina e pregevoli ricostruzioni nei
dossier delle Camere. Sono stati enumerati benefici e costi del controllo preventivo. I benefici sono
tre.
Viene favorita una elaborazione della legge elettorale maggiormente partecipata e condivisa
tra forza politiche per evitare il ricorso di costituzionalità, rendendo la maggioranza più incline a
dialogare e negoziare i contenuti con le minoranze.
Si favorisce un controllo più effettivo, in quanto svolto a monte dell’applicazione della legge,
senza più il rischio di potenziale delegittimazione del Parlamento in carica, evitando il problema della
decorrenza temporale degli effetti e della potenziale illegittimità degli atti parlamentari approvati.
I costi sono diversi.
Vi è il rischio di “politicizzazione” della Corte, la quale è più esposta a pressioni ed incorre
maggiori rischi di delegittimazione; con questo istituto la Corte si allontana dal ruolo di giudice e
scivola nella sfera della politica.
Vi è il rischio speculare di “giuridicizzare” il dibattito politico, inteso come sistematica
minaccia di finire quanto iniziato nell’aule parlamentari dinanzi alla Corte; una lotta politica
intrapresa con strumenti giudiziari.
Vi è il rischio di pregiudicare la coerenza del modello italiano, attribuendo un compito che
snatura la Corte stessa; il Presidente Crisuolo, nel corso della conferenza stampa annuale, ha sostenuto
tranchant come si attribuisca alla Corte un compito che non le spetta.
Un serio ed equilibrato bilanciamento tra costi-benefici deve però essere svolto in concreto,
sulla base delle effettive proposte.
Due cose si possono dire ancora in astratto.
Quanto al problema della “politicizzazione” della Corte, occorre rilevare come il Giudice delle
Leggi non si è certo astenuto dall’affrontare questioni ad alto tasso di politicità; la stessa sent. n.
1/2014 lo conferma. Il controllo in parola è uno strumento diverso, preventivo, ma il problema della
politicizzazione andrebbe sdrammatizzato; tanto più che si tratta di un istituto da attivare
sporadicamente, anche se sistematicamente per tutte le leggi elettorali.
Quanto al problema della disarmonia rispetto a modello, occorre rilevare come sia
effettivamente un istituto eterogeneo, per quanto la Corte non ignori forme di controllo preventivo,
come accadeva per il vecchio art. 127 Cost. e come avviene per gli statuti regionali. In questo caso la
materia è diversa, ma si è di fronte ad una revisione costituzionale così vasta ed incisiva che non può
sorprendere che vi siano ricadute in termini di ridefinizione del modello di giustizia costituzionale,
purché non si tratti di una completa rilettura. Questo istituto di per sé non snatura il modello, ma
dipende in concreto da come verrà disciplinato. Si può citare, come vicenda per certi versi analoga,
il caso del modello francese, ovvero un modello preventivo che nel 2008 ha conosciuto l’introduzione
del controllo successivo. Non deve sorprendere, dunque, l’introduzione di istituti di diverso tipo, ma
anzi potrebbe sorprendere il fatto che sia stato limitato alle leggi elettorali.
In concreto, sul testo della proposta, si possono distinguere tre problematiche: la questione dei
ricorrenti e dei tempi del ricorso; la questione del thema decidendum, cioè dell’oggetto e dei profili
di incostituzionalità da accertare; la decisione, i suoi effetti ed i rapporti col giudizio incidentale
successivo
38
Rispetto ai ricorrenti ed al termine, come noto il giudizio è promosso da 1/4 dei componenti
della Camera ed 1/3 dei componenti del Senato entro 10 giorni dall’approvazione della legge.
Vengono cui in rilievo tre spunti problematici.
Qualcuno, anche in sede di audizione - come nel caso del Prof. Luciani, con proposta accolta
dalla sen. Finocchiaro ma che non ha comportato modifiche testuali -, ha ipotizzato di spoliticizzare
parzialmente il ricorso, sottraendolo alle minoranze e trasformandolo in un automatismo, come quello
del Conseil Constitutionnel sulle leggi organiche. Questa proposta potrebbe sì sortire alcuni effetti,
ma si può dubitare che possa sortire gli effetti desiderati, perché la politicità sta nei tempi e
nell’oggetto del giudizio, mentre il peso delle minoranze non pare eccessivamente rilevante.
L’automatismo, invece, determinerebbe una disarmonia ulteriore rispetto al modello, poiché la Corte,
in quanto giudice, agisce su impulso di parte, in base al principio dispositivo, e segue il principio del
ne procedat iudex ex officio.
Per i soggetti legittimati al ricorso, è diminuita la percentuale dei deputati nel corso dell’iter
legislativo, per assestarsi a 158 deputati e 34 senatori. Ma, se i numeri rimangono ancora distanti, il
problema sta nella diversa rappresentatività e legittimazione di Camera e Senato, così che la ricaduta
della modifica sarà tutta da valutare in concreto. Invece, è piuttosto incomprensibile ed irragionevole
che entrambe le Camere possano impugnare entrambe le leggi, sia per la diversa legittimazione del
Senato, sia per il diverso iter di formazione delle due leggi elettorali - legge della Camera è
monocamerale, legge del Senato è bicamerale - tale che, se ha senso che i deputai possano impugnare
la legge del Senato, ha meno senso il contrario.
Rispetto al thema decidendum, anche qui vi sono diversi profili problematici.
Sull’oggetto del ricorso ed i profili accertabili, si parla di “leggi che disciplinano l’elezione
dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”. Non è chiaro - come richiama
anche il Prof. Tarli Barbieri nel corso della sua audizione - come interpretare tale formula, cioè se sia
comprensiva della legislazione elettorale di contorno o solo le leggi elettorali in senso stretto.
L’intentio probabilmente era quella di un’interpretazione più ristretta, ma la Corte costituzionale,
quando ha utilizzato il parametro dell’art. 122 Cost. sui sistemi di elezione delle Regioni, con la sent.
n. 151/2012, ha affermato che la formula del sistema di elezione va intesa in senso onnicomprensivo.
Sulla motivazione del ricorso, sono state soppresse le disposizioni con cui si chiedeva
l’indicazione degli specifici profili di incostituzionalità. La ratio della soppressione è abbastanza
chiara, ovvero di consentire o favorire un controllo della Corte a 360 gradi, che abbia ad oggetto
l’intera legge e tutti i possibili vizi immaginabili in un controllo preventivo ed astratto. Non è detto
però che questa lettura sia la più ragionevole e che l’argomento “originalista” debba avere tutto questo
peso. Qualora l’obiettivo fosse questo, vi sarebbe da riflettere e comunque non è detto sarebbe una
soluzione praticabile. Risultano forti le suggestioni del modello francese, ma sarebbe un richiamo
impreciso; il modello francese ha una sua coerenza, che non è detto sia esportabile in sistema diverso.
Basti ricordare che il Conseil controlla integralmente l’atto solo in caso di sindacato obbligatorio sui
regolamenti parlamentari e leggi organiche; per le legge ordinarie, invece, è previsto un ricorso, vi
sono dei ricorrenti, ma il Conseil ha solo la facoltà, non l’obbligo di estendere il giudizio a tutto il
thema decidendum. Inoltre, quando il Conseil dichiara la conformità della legge a Costituzione, la
legge non può essere fatta oggetto di sindacato successivo - viene cioè coperto il dedotto ed il
39
deducibile -, con l’eccezione del cambiamento di circostanze di fatto e di diritto. Infine, in caso di
sentenzia parziale, il Presidente della Repubblica francese può procedere alla promulgazione parziale,
cosa da noi non permessa. La possibilità di non indicare i motivi del ricorso crea una disarmonia nel
diritto processuale costituzionale. Nel giudizio sulle leggi, infatti: l’atto di promovimento deve
contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione di oggetto e parametro; vige il principio di
corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Si potrebbe sostenere che il principio della domanda e del
chiesto-pronunciato non riguardano un istituto diverso come il giudizio preventivo: in parte è corretto,
ma, di fatto, fino a quando la legislazione di attuazione non sarà approvata - con legge costituzionale
o ordinaria -, bisognerà guardare alla disciplina della legge n. 87/1953 in quanto applicabile, nella
parte sulle questioni di legittimità costituzionale.
Sulla decisione del ricorso, la Corte costituzionale deve pronunciarsi entro trenta giorni e, fino
ad allora, resta sospeso il termine per la promulgazione della legge. Si è discusso sulla natura di questo
termine: pare convincente la tesi che riconosce la natura di termine ordinatorio e non perentorio, tale
da consumare il potere della Corte, in quanto manca un’espressa previsione al riguardo. Ma occorre
chiedersi cosa succede in caso di pronuncia tardiva. Trenta giorni sono pochi per un giudizio che
dovrebbe essere a tutto tondo. Per evitare una paralisi si potrebbe pensare che dopo trenta giorni non
verrebbe consumato il potere decisionale, ma comunque ricominci a decorrere il termine per la
promulgazione. Dopo gli ulteriori trenta giorni la Corte non potrebbe più pronunciarsi.
Quanto al tipo di decisione con cui può chiudersi il giudizio, occorre sottolineare due aspetti.
In caso di accoglimento parziale, il Presidente della Repubblica non potrebbe procedere a
promulgazione parzialmente, ma dovrebbe verificarsi l’interruzione dell’iter legis. Questo fa riflettere
perché l’effetto di blocco potrebbe conseguire anche dall’illegittimità di un aspetto secondario. Ciò
potrebbe avere senso, perché i parlamentari hanno votato quel determinato testo per intero, ma
potrebbe rappresentare uno strumento di pressione sulla Corte.
In caso di infondatezza, niente impedisce che il sindacato successivo promosso in via
incidentale possa essere attivato. Dinanzi ad un precedente giudizio a tutto tondo, però, gli spazi di
manovra saranno fortemente ridotti, pur rimanendo i vizi configurabili in concreto dall’esperienza
applicativa.
Rimane da trattare la parte sull’art. 39, poi modificata dal Senato. Si tratta di un istituto che
assomiglia a quello dell’art. 13, ma è diverso, poiché è costituito da un sindacato astratto ma
successivo. In questo caso la Corte costituzionale avrà vincoli maggiori, ovvero - come ribadito nella
sent. n. 1/2014 - dovrà garantire l’autosufficienza della normativa di risulta. Sussiste, inoltre, una
disarmonia notata dai funzionari della Camera e ripresa dal Prof. Tarli Barbieri: se si dovessero
sciogliere le Camere prima dell’approvazione della riforma costituzionale, l’Italicum non potrebbe
essere impugnato, perché approvato nel corso della legislatura precedente a quella dell’entrata in
vigore della riforma, mentre l’art. 39 parla di “medesima legislatura”.
Queste luci ed ombre richiederebbero di esser coltivate. Il testo è ancora ambiguo, lascia
spazio a molte possibili attuazioni. E’ indispensabile una legge di attuazione, anche se pare che questo
istituto debba essere attivato fin da subito. In questo caso, però, occorre far fronte con il diritto vigente
della legge n. 87/1987. L’auspicio è che si riesca a combinare l’efficacia del giudizio senza
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stravolgere il modello di giustizia costituzionale, schiacciando la Corte costituzionale sul controllo
politico.
Gaetano AZZARITI
Quest'ultima relazione ha messo in luce l’aspetto della riforma che più incide sulla natura
stessa del processo costituzionale. Dunque, sul piano dei modelli, un forte cambiamento. Eppure,
deve rilevarsi come tale innovazione sia stata sostenuta essenzialmente da ragioni “contingenti”. La
ragione più nobile va rinvenuta nella sent. n. 1/2014: il controllo preventivo sulle leggi elettorali
rappresentano una “risposta” a quella pronuncia. Ma le cronache ci informano che la decisione di
introdurre una nuova forma di sindacato preventivo è stata dettata anche da un’altra ragione
contingente, forse meno nobile: la necessità di raggiungere un accordo su alcuni punti di principio
che stavano lacerando un determinato partito politico. Ciò mostra la forza dei fattori contingenti, cui
corrisponde una scarsa attenzione alle perplessità espresse, in forme radicali, dallo stesso Presidente
della Corte, al quale non è stata dedicata alcuna attenzione.
Come ha evidenziato Dal Canto, in particolare, ritengo si sia poco riflettuto su un punto assai
delicato: l'innesto del sindacato preventivo in un contesto generale di sindacato successivo. A me
sembra evidente che il sindacato preventivo andrà a limitare e a condizionare, ma che non potrà
escludere la possibilità di un sindacato successivo sulla stessa legge. Qualora si dovesse ripetere il
giudizio di costituzionalità sulla stessa legge elettorale dopo la sua promulgazione e dopo un
preventivo giudizio del medesimo organo, ebbene è evidente che questo secondo giudizio verrà
inevitabilmente a depotenziarsi, perché la Corte dovrà fare i conti con un proprio precedente. Difficile
che possa arrivare a contraddire se stessa. È un bene? Non so.
Anche perché, sarà difficile che in prima battuta – in sede di controllo preventivo - si possa
con facilità giungere a dichiarare l’incostituzionalità della legge elettorale: essa è stata appena
approvata dal Parlamento, una legge - quella elettorale - ad alto tasso di politicità, con i rischio che
sia la Corte a dover smentire un accordo politico, magari sofferto, che si è appena definito in sede
parlamentare. Con reali rischi di delegittimazione dell'operato della Corte e di polticizzazione del suo
giudizio. C'è allora la possibilità che il risultato finale di questa modifica puntuale sia il seguente: un
allentamento del controllo di costituzionalità sulle leggi elettorali. Potrebbe riproporsi, cioè, in
reazione ad un sindacato troppo incisivo, come quello verificatosi nella sent. n. 1/2014, una situazione
in cui, alla fine, non sarà facile sindacare funditus i vizi di legittimità costituzionale delle leggi
elettorali. Se la sentenza n. 1 del 2015 era riuscita ad illuminare – sino ad accecare - una “zona
d'ombra” del giudizio di costituzionalità (quella sulle leggi elettorali), ora l'introduzione di questo
nuovo sindacato preventivo può risultare utile al fine di attenuare il bagliore.
Roberto ROMBOLI - Conclusioni
Il testo su cui abbiamo discusso è stato approvato dieci giorni fà e con ogni probabilità entrerà
in vigore fra un anno. Questo invita a riflette sul momento della giustizia costituzionale in cui ci
troviamo. In certi casi si vive una situazione di stagnazione, in altri di svolta. Ora siamo chiaramente
in momento di svolta, per cui è importante valutare l’incidenza della riforma sulla giustizia
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costituzionale. Se guardiamo gli ultimi 2 anni, il pendolo - come scriveva Enzo Cheli - tra l’anima
giurisdizionale e l’anima politica della Corte sta oscillando, pericolosamente, sulla seconda. Solo per
citare alcuni casi: la sent. n. 1/2015 sulla legge elettorale; la sent. n. 1/2014, con due ragioni di
ammissibilità, una fondativa e l’altra, per di più, ad abundantiam; la sent. n. 110/2015, sul sistema
elettorale del Parlamento europeo, che ha cambiato impostazione, perché le due esigenze devono
sussistere entrambe, senza più abundantiam; sent. n. 193/2015 sulla legge elettorale lombarda, per la
quale, tanto la sent. n. 1/2014 era stata astratta, tanto questa è decisa in concreto, senza alcuna
motivazione al riguardo; sent. n. 170/2014 sul “divorzio imposto”, ove si fa finta che nel nostro
ordinamento ci sia possibilità di un controllo sull’omissione del legislatore, ma non è così, a
differenza di altri ordinamenti; sent. n. 10/2015 sulla “Robin tax”, ove per la prima volta una legge
ab origine incostituzionale si dice applicabile nel giudizio a quo; subito dopo, in materia di blocco
degli stipendi, si smentisce la sent. n. 10/2015 e si ritorna su una illegittimità costituzionale
sopravvenuta; comunicati stampa che hanno il compito di indicare l’efficacia delle sentenze della
Corte; i moniti, che tradizionalmente sono contenuti nelle sentenze, vengono invece espressi nella
conferenza stampa, come nel caso del Presidente Gallo, fino alle critiche del Presidente Criscuolo
sulle nuove competenze della Corte previste dalla riforma.
Occorre quindi domandarsi dove spostano il pendolo i quattro punti toccati dalle relazioni, se
verso l’anima politica o l’anima giurisdizionale.
Partiamo dalla composizione, tema essenzialmente collegato alla natura del giudice.
Costantino Mortati scriveva nel 1948: di tutti gli istituti può dirsi che la loro sorte è affidata alla
capacità dei titolari, ma questo vale in particolar modo per i giudici di una Corte costituzionale, perché
essi devono riunire doti non facilmente riunibili, la piena indipendenza dalle parti politiche in
contrasto, ma anche la conoscenza precisa delle posizioni di ogni formazione politica, della loro
ragion d’essere, dei loro programmi, la consapevolezza delle aspirazioni popolari, dei problemi
sociali, la coscienza delle moltitudini. In una parola, una sensibilità politica, ma non una dipendenza
politica o una rappresentanza di interessi. Tre più due - che non ha niente a che fare con la riforma
Berlinguer - è tema non nuovo. Nel Seminario del Gruppo di Pisa svoltosi a Roma nel 2001, uno dei
temi più dibattuti fu l’ipotesi dei “giudici regionali”. Tre motivazioni a favore.
Siccome la Corte decide su controversie in cui sono parti le Regioni o in cui può ridefinire il
loro ruolo, è giusto che vi sia anche una loro partecipazione. Pare però una motivazione superabile,
dal momento che si tratta di una esigenza giustissima, ma da raggiungere attraverso l’ampiamento
del contraddittorio o, eventualmente, delle vie di accesso.
Ancora, la necessità della presenza di una sensibilità regionalistica nella Corte. Anche qui,
oltre a richiamare Mortati, è difficile dire che nella Corte non ci siano stati giudici con sensibilità
regionalistica.
Più accettabile è che, in ragione della riduzione del ruolo delle Regioni nel sistema
costituzionale, si aumenti il loro peso nella scelta dei giudici costituzionali.
Ma la formula “3+2” realizza veramente questa esigenza? Il Senato si dice espressamente
rappresentativo delle autonomie - come ricordava la Prof.ssa Grisolia - e una Camera rappresentativa
della Nazione: quindi due giudici rappresentativi delle autonomie e tre della Nazione. Ma il problema
- come sottolineava Paolo Caretti - sono le maggioranze, che non sono state modificate: possibile non
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riflettere sul fatto che la Corte attualmente funziona con solo 12 giudici, perché il Parlamento non
elegge quelli che gli spettano, con un quorum minimo di 11 giudici? Si aprono due possibilità: tenere
queste maggioranze o addirittura alzarle, in ragione della nuova legge elettorale, con un inevitabile
aumento dei problemi di stallo; oppure diminuire le maggioranze, consentendo la nomina alla sola
maggioranza. Fra le due, sarebbe preferibile la prima ipotesi, cercando di evitare lo stallo. Si può
tornare a ripensare al problema della prorogatio, o anche ad attribuire la scelta dei giudici, dopo 6
mesi di inadempimento, ad altra autorità.
Quanto al Titolo V, basti osservare rapidamente come ci sia stato un aumento altissimo del
contenzioso Stato-Regioni, come testimoniato dalle relazioni dei Presidenti della Corte degli ultimi 8
anni, con continui avvisi dati alla politica di trovare strumenti per porvi rimedio. La riforma dà un pò
l’impressione di non aver tenuto conto della giurisprudenza costituzionale dal 2001 ad oggi,
presupponendo che il testo costituzionale del 2001 sia rimasto lo stesso, senza considerare il ruolo
avuto dalla giurisprudenza. La causa dell’alto conflitto non sono state le materie concorrenti, bensì le
materie esclusive affidate allo Stato ed usate trasversalmente, i cataloghi delle materie scritte male,
l’abrogazione del controllo preventivo ex art. 127. La riforma costituzionale, viceversa: abolisce la
forma di concorrenza precedente e ne istituisce di nuove; mantiene i cataloghi di materie; fa sorgere
nuovi problemi legati alla clausola di supremazia ed al controllo della Corte. Il mutato contesto
costituzionale fa in modo che, se anche la Corte ha già esaminato i rapporti tra “principi fondamentali”
e “norme generali”, o l’”interesse nazionale” e l’”unità giuridica ed economica”, sia necessario
inquadrare da capo questi istituti.
La riforma sarà in grado di diminuire il contenzioso? La Rivista “le Regioni”, nel fascicolo n.
1 del 2015, ha posto questa domanda. Tra coloro chiamati a rispondere, Carlo Fusaro ha negato che
possa esserci un eccesso di contenzioso. Altri autori chiedono un monitoraggio sui ricorsi, altri ancora
sperano che il Senato possa risolvere la conflittualità, chiedendo addirittura - come De Martin - che
siano legittimati al ricorso anche i Comuni. La stragrande maggioranza della dottrina ritiene che si
determinerà un aumento del contenzioso e che sia un errore aver imputato l’aumento verificatosi in
passato alla competenza concorrente. Pare convincente chi - come Gaetano Silvestri, nella sua
relazione in qualità di Presidente della Corte, e Roberto Bin e Lorenza Violini, nel citato volume de
“le Regioni” - ha sottolineato come non sia un problema di tecnica redazionale dei cataloghi, bensì
che si tratti di un problema politico.
La soluzione può essere davvero considerata questo nuovo Senato? Nutro fortissimi dubbi.
Non ritorno sui problemi della composizione, anche in relazione alla rappresentanza comunale e
regionale, o dei senatori a vita. Mi soffermo sui dubbi sollevati da alcune posizioni espresse in
dottrina: le Regioni partecipano attraverso il Senato alla elaborazione della legislazione statale e,
pertanto, gli enti regionali che si sono espressi a favore della legge non potrebbero più impugnarla;
oppure, le Regioni non potrebbero impugnare le leggi bicamerali, in quanto il Senato partecipa alla
loro formazione. In realtà, a smentire queste posizioni basta ricordare che il 75% dei ricorsi alla Corte
costituzionale sono promossi dallo Stato.
Circa la questione dei vizi formali, ritengo che sicuramente aumenteranno. Evidentemente
occorrerà ragionare sugli strumenti con cui farli valere. Secondo Carlo Fusaro la priorità è escludere
un sindacato della Corte costituzionale, con la stessa soluzione adottata nella proposta di riforma del
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2005. A mio parere questa soluzione sarebbe incostituzionale per violazione di un principio
fondamentale.
Giovanni Piccirilli ha ottimamente puntualizzato sul problema dell’oggetto proprio. Fra le
altre problematiche vi sono quelle sulla legge monocamerale - come sottolineato da Gaetano Azzariti,
lo stesso Giovanni Piccirilli -, o sul procedimento a data certa, che creerebbe altri problemi riguardanti
le materie escluse, l’omogeneità del d.d.l., l’abuso, la questione dell’essenzialità rispetto al
programma di governo, il limite al controllo, ecc. Mi limito soltanto all’aspetto delle leggi di
conversione del decreto-legge, ovvero se debbano essere necessariamente monocamerali o se, nelle
rispettive materie, debbano essere bicamerali. La maggioranza della dottrina mi risulta sia a favore
per la soluzione della legge monocamerale anche in materie entro cui debbono essere adottate leggi
bicamerali. Tuttavia, concordando con la posizione di Tarli Barbieri, credo che questo tipo di leggi
debba essere bicamerale, trovando decisivo il rilievo della disposizione del progetto di riforma per la
quale le leggi bicamerali possono essere abrogate solo da leggi bicamerali: quindi, pare da escludere
che una legge di conversione monocamerale possa modificare una legge bicamerale.
La Corte costituzionale - si chiedeva Massimo Cavino - esercita, allo stato attuale, competenze
adeguate per giudicare su questi vizi? Concordo con Paolo Passaglia circa l’opinione che per il vizio
formale sia più adeguata la forma del controllo preventivo, perché è un vizio pervasivo che riguarda
tutta la legge e perché il diritto vivente in questo caso non è rilevante. Quanto al soggetto legittimato
a ricorrere, reputo più adeguate le minoranze parlamentari. Il rischio di politicizzazione sui vizi
formali rimangono abbastanza bassi.
Il ricorso preventivo ritengo sia il profilo più delicato. Svolgo tre osservazioni particolari.
Quanto al riferimento al ricorso motivato e non più agli specifici profili di costituzionalità,
implica che la Corte debba controllare tutta la legge? A mio avviso no. La motivazione ed il ricorso
danno la misura della domanda e di cosa deve rispondere la Corte. Pare eccessivo, però, dire che in
questo caso si applichino regole dell’ordinanza di rimessione analogamente al giudizio in via
incidentale. Si tratta, infatti, di un ricorso politico, che risponde a regole proprie. Se il ricorso censura
per intero una legge elettorale per contrasto con il principio di sovranità popolare o eguaglianza del
voto, non si può dire che esso non sia motivato. Occorrerà attendere la Corte si pronunci per stabilire
se si tratta di una motivazione generica.
Quanto al rapporto tra ricorso preventivo e successivo, la giustizia costituzionale italiana ha
poco a che vedere con la giustizia costituzionale francese. La mera ispirazione ad un altro Paese non
rileva molto. In Francia la giustizia costituzionale nasce come controllo politico e preventivo, mentre
solo nel 2008 si introduce un controllo successivo, assai sui generis, caratterizzato da un doppio filtro,
dalla mancata possibilità di sollevare la questione d’ufficio ma solo su istanza di parte. E’ un sistema,
quindi, non accostabile al giudizio in via incidentale italiano. Il giudizio preventivo in Italia, dunque,
quand’anche fosse di infondatezza, non conferirebbe nessuna patente di legittimità costituzionale, ma
avrebbe solamente valore di precedente.
Quanto alla tipologia delle decisioni occorre distinguere. In caso di decisione processuale di
inammissibilità - ad esempio per motivazione insufficiente, o perché viene impugnata la legislazione
di contorno - quali dovrebbero essere gli effetti? Il Presidente della Repubblica potrebbe promulgare,
oppure esercitare il potere di rinvio. In caso di infondatezza, il Presidente della Repubblica potrebbe
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promulgare. Ma in caso di sentenze interpretative di rigetto? Il Presidente della Repubblica potrebbe
esercitare il potere di rinvio? In caso di illegittimità costituzionale, il Presidente della Repubblica non
promulga e l’iter comincia di nuovo. Le sentenze c.d. manipolative, però, non sarebbero praticabili,
perché l’unico effetto dell’incostituzionalità è bloccare l’entrata in vigore della legge. L’illegittimità
parziale dovrebbe impedire la promulgazione, perché difficilmente la legge parzialmente dichiarata
incostituzionale potrebbe essere imputata al Parlamento.
Volendo svolgere un’osservazione a carattere generale, occorre chiedersi se con questa nuova
competenza si snaturi il modello di giustizia costituzionale. La risposta pare essere negativa. Dire che
già in passato conoscevamo modelli di controllo preventivo pare però eccessivo, perché quello sulla
legge elettorale è un controllo completamente diverso, perché esperito dalle minoranze parlamentari,
di tipo politico, differente da quello sugli statuti regionali o ex art. 127 Cost. In definitiva, è una
competenza che non snatura, ma che sposta il pendolo dalla parte politica.
Risulta indispensabile una legge di attuazione, meglio di natura costituzionale, mentre non
basterebbe affatto intervenire solamente sulle sole norme integrative.
Ultimo aspetto da affrontare è quello della prima applicazione. L’art. 39, c. 10 del testo
approvato dal Senato stabilisce: «in sede di prima applicazione». Non si comprende, però, a cosa
faccia riferimento. Si tratta, infatti, di un controllo di costituzionalità ad hoc, introdotto
eccezionalmente solo per una legge elettorale, per il quale, salvo i soggetti legittimati, non si
comprende quali regole processuali debbano essere applicate. Si pensi, ad esempio, agli effetti,
essendo la legge già entrata in vigore, alla possibilità di adottare sentenze manipolative, o alla
necessità di mantenere in vigore una normativa di risulta autoapplicativa.
Ultimo problema, di cui faccio solamente cenno, riguarda il rapporto fra ricorsi preventivi e
rinvio dal Capo dello Stato.
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