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Storia della letteratura italiana
Université de Fribourg Faculté des Lettres Domaine d’Italien Semestre Autunnale 2012-2013 Corso di storia letteraria moderna Fondamenti e sviluppi di una tradizione Prof. Uberto Motta MIS 3026, martedì 17-19h 1 Calendario delle lezioni Martedì 18 settembre 17:15 – 19:00 MIS 3026 Martedì 25 settembre 17:15 – 19:00 MIS 3026 > 26 settembre MIS 3028 Martedì 2 ottobre 17:15 – 19:00 MIS 3026 Martedì 9 ottobre 17:15 – 19:00 MIS 3026 Mercoledì 10 ottobre 17:15 – 19:00 MIS 3026 SOSPESA Martedì 16 ottobre 17:15 – 19:00 MIS 3026 Martedì 23 ottobre: Giornata di studi italiani Martedì 30 ottobre 17:15 – 19:00 MIS 3026 Martedì 6 novembre 17:15 – 19:00 MIS 3026 Martedì 13 novembre 17:15 – 19:00 MIS 3026 Martedì 20 novembre: lezione sospesa Martedì 27 novembre 17:15 – 19:00 MIS 3026 MERCOLEDI’ 28 NOVEMBRE 17:15 – 19:00 MIS 3028 Martedì 4 dicembre 17:15 – 19:00 MIS 3026 Martedì 11 dicembre 17:15 – 19:00 MIS 3026 Martedì 18 dicembre 17:15 – 19:00 MIS 3026 2 Bibliografia (1) • Manuale di riferimento G. Tellini, Letteratura italiana. Un metodo di studio, Firenze, Le Monnier, 2011 3 Bibliografia (2) • Opere di consultazione G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Firenze, Molini Landi, 1805-1813. F. De Sanctis, Opere, a cura di G. Contini, 2 voll., Torno, UTET, 1968-1969. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N.Gallo, Torino, EinaudiGallimard, 1996. G. Getto, Storia delle storie letterarie, Firenze, Sansoni, 1969. C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torno, Einaudi, 1971. A. Battistini – E. Raimondi, Le figure della retorica: una storia letteraria italiana, Torino, Einaudi, 1984. E. Irace, Itale glorie, Bologna, Il Mulino, 2003. Storia della letteratura italiana, a cura di A. Battistini, 6 voll., Bologna, Il Mulino, 2005. S. Jossa, L’Italia letteraria, Bologna, Il Mulino, 2006. C. Vecce, Piccola storia della letteratura italiana, Napoli, Liguori, 2009. Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto e G. Pedullà, 2 voll., Torino, Einaudi, 2010-2011. F. Bruni, Italia. Vita e avventure di un’idea, Bologna, Il Mulino, 2010. 4 Prima di Dante • La tradizione umbra: da San Francesco (m. 1226) a Iacopone da Todi (m. 1306) • Dai siciliani agli stilnovisti: da Iacopo da Lentini (m. 1260) a Guinizelli (m. 1276) • La letteratura settentrionale: Bonvesin de la Riva (m. 1315ca.) 5 San Francesco, Cantico, 1224 ca. • • • • • • v. 1: «Altissimu, onnipotente, bon Signore» v. 4: «et nullu homo ène dignu te mentovare» v. 5: «Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le tue creature» v. 10: «Laudato si’, mi Signore, per sora Luna e le stelle» v. 20: «Laudato si’, mi Signore, per sora nostra madre Terra» vv. 23-24: «Laudato si’, mi Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore / et sostengono infirmitate et tribulatione» • vv. 27-31: «Laudato si’, mi Signore, per sora nostra morte corporale, / da la quale nullu homo vivente pò skappare: / guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; / beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, / ka la morte secunda no ’l farrà male» • vv. 32-33: «Laudate et bendicete mi’ Signore et rengratiate / et serviateli cum grande humilitate» 6 Giacomo da Lentini Madonna à ’n sé vertute con valore più che nul’altra gemma prezïosa, che isguardando mi tolse lo core, cotant’è di natura vertudiosa. Più luce sua beltate e dà splendore che non fa ’l sole né null’autra cosa, de tutte l’autre ell’è sovran’e frore, che nulla aparegiare a lei non osa. Di nulla cosa non à mancamento, né fu ned è né non serà sua pare né ’n cui si trovi tanto complimento. E credo ben, se Dio l’avesse a fare, non vi metrebbe sì su’ ’ntendimento che la potesse simile formare. 7 Italia, 1250 ca. 8 Guido Guinizelli Io voglio del ver la mia donna laudare ed asembrarli la rosa e lo giglio: più che stella dïana splende e pare, e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio. Verde river’ a lei rasembro e l’âre, tutti color’ di fior’, giano e vermiglio, oro ed azzurro e ricche gioi per dare: medesmo Amor per lei rafina meglio. Passa per via adorna, et sì gentile ch’abassa orgoglio a cui dona salute, e fa ’l de nostra fé se non la crede; e no lle pò apressare om che sia vile; ancor ve dirò c’ha maggior vertute: null’om pò mal pensar fin che la vede. 9 L’esilio di Dante: 1302-21 10 Cronologia e diffusione della Comemdia Le date • Inferno: 1304-08 o 1307-09 con revisioni fino al 14 • Purgatorio: 1308-12 con revisioni fino al 15 • Paradiso: 1316-21 I primi lettori • • • • • • Cino da Pistoia, giurista Andrea da Barberino, notaio Anastasio, frate Andrea Lancia, giurista Giovanni Quirini, poeta Tieri degli Useppi, notaio 11 La circolazione della Commedia nel XIV s.: antica vulgata: ante 1355 nuova vulgata: post 1355 12 Convivio, IV iv 3-4 Con ciò sia cosa che l’animo umano in terminata possessione di terra non si queti, ma sempre desideri gloria d’acquistare, sì come per esperienza vedemo, discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali sono tribulazioni delle cittadi, e per le cittadi de le vicinanze, e per le vicinanze de le case, e per le case de l’uomo; e così s’impedisce la felicitade. Il perché, a queste guerre e a le loro cagioni torre via, conviene di necessitade tutta la terra, e quanto a l’umana generazione a possedere è dato, essere Monarchia cioè uno solo principato, e uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tenga contenti ne li termini de li regni, sì che pace intra loro sia, ne la quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s’amino, in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l’uomo viva felicemente; che è quello per che esso è nato. 13 G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, 1951 Dunque Petrarca, rispetto alla propria tradizione, nega, o almeno limita. Ma per il nostro punto di partenza, dico l’italiano letterario, bisogna piuttosto ragionare a rovescio: non che sia lecito valutare un’esperienza dalla sua ‘continuabilità’, pragmaticamente dal suo successo; ma ogni successo (istituzione, tradizione) risale a un’iniziativa firmata. La scuola siciliana, ossia l’italiano come lingua letteraria nazionale, ha una firma probabile, quella del Notaio da Lentini, e perfino una data probabile, quella medesima dei documenti che lo mostrano attivo nel decennio fra il 1230 e il ’40. Allo stesso modo la vigente tradizione si richiama proprio all’iniziativa petrarchesca, e sarà per definizione un’iniziativa linguistica di tonalità media, di escursione modesta. Allora il nostro punto di partenza non sarà il genio più ricco e più inventivo, e con tutto ciò anche il più propriamente intelligente della nostra letteratura, non è Dante, o almeno non è di sicuro il Dante della Commedia, è il Petrarca volgare, quanto dire il Petrarca del Canzoniere. Per qualificare tale esperienza, unitaria, esauriente, perciò stesso autolimitata entro stabili confini, nulla giova meglio d’una rapida e massiccia opposizione di queste due, come le chiamerebbe Roberto Longhi, ‘persone prime’ del nostro linguaggio poetico. 14 F. Petrarca, R.v.f. 189 Passa la nave mia colma d’oblio per aspro mare, a mezza notte il verno, enfra Scilla et Caribdi; et al governo siede ’l signore, anzi ’l nemico mio. A ciascun remo un penser pronto et rio che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno; la vela rompe un vento humido eterno di sospir’, di speranze et di desio. Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni bagna et rallenta le già stanche sarte, che son d’error con ignorantia attorto. 5 10 Celansi i duo mei dolci usati segni; morta è fra l’onde la ragione et l’arte, tal ch’incomincio a desperar del porto. 15 F. Petrarca, R.v.f. 189: schede linguistiche verno (al v. 2) è utilizzato ancora dal primissimo Montale, in una delle “disperse” della sua fase crepuscolare precedente gli Ossi; rio (al v. 5) ricorre in Gozzano e in Cardarelli; scherno (al v. 6) vanta occorrenze da Corazzini a Rebora e Pavese, più fitte nei dintorni di Gozzano, Moretti, Palazzeschi; desio (al v. 8) è in Corazzini (4 volte), Moretti (9 volte), Rebora e Cardarelli (1 volta), Saba (3 volte); lagrimar (v. 9) è tipico di Corazzini e Palazzeschi; sàrte (al v. 10) è in Gozzano e Moretti (notevole, specialmente, l’uso gozzaniano, in Paolo e Virginia dei Colloqui: vv. 120-121, «sovra coperta già fremono i flutti,/ spezza il vento governi alberi sàrte»); attorto (al v. 11) si legge in Gozzano e Campana, Sbarbaro e Ungaretti 16 G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, 1951 «L’innovazione riduttiva per pacata rinuncia agli estremi è consentita a Petrarca dalla sua introversione. Usiamo termini grossolani, e diciamo: è il suo romanticismo che è condizione del suo classicismo». 17 F. Petrarca, R.v.f. 189: storia interna Forma Chigi (1359-62) in vita Forma Vaticana (1373-74) in vita A: Voi ch’ascoltate, RVF 1 s A: Voi ch’ascoltate, RVF 1 s B: Passa la nave mia, RVF 189 s B: Arbor victoriosa, RVF 263 s in morte C: I’vo pensando, RVF 264 c D: Mentre che ’l cor, RVF 304 s in morte C: I’vo pensando, RVF 264 c D: Vergine bella, RVF 366 c 18 F. Petrarca, R.v.f. 189 Passa la nave mia colma d’oblio per aspro mare, a mezza notte il verno, enfra Scilla et Caribdi; et al governo siede ’l signore, anzi ’l nemico mio. Cfr. Inf. XXVI 100, « ma misi me per l’alto mare aperto » 19 Intertestualità interna (a) v. 1, situazioni e immagini molto simili in son. 132, S’amor non è, vv. 10-12: Fra sì contrari venti in frale barca / mi trovo in alto mar senza governo,/ sì lieve di saver, d’error sì carca; son. 235, Lasso, Amor mi trasporta ov’io non voglio, sptt. ai vv. 9-11, Ma lagrimosa pioggia et fieri venti/ d’infiniti sospiri or l’ànno spinta,/ ch’è nel mio mare horribil notte et verno; son. 272, La vita fugge, et non s’arresta una hora, sptt. v. 11-14, veggio al mio navigar turbati i venti; / veggio fortuna in porto, et stanco omai / il mio nocchier, et rotte arbore et sarte, / e i lumi bei che mirar soglio, spenti. Ma cfr. anche Sap. V 10: … tamquam navicula qui pertransit fluctuantem aquam v. 4, cfr. son. 202, D’un bel chiaro…, v. 13, quella dolce mia nemica et donna, e son. 261, Qual donna attende…, vv. 3-4, quella mia/nemica, che mia donna il mondo chiama. 20 Intertestualità interna (b) vv. 7-8, cfr. son. 17, vv. 1-2, Piovonmi amare lagrime dal viso/ con un vento angoscioso di sospiri. v. 12, cfr. canz. 73, Poi che per mio destino, ai vv. 46-51, Come a forza di venti / stanco nocchier di notte alza la testa / a’ duo lumi ch’à sempre il nostro polo, / così ne la tempesta / ch’i’ sostengo d’Amor, gli occhi lucenti / sono il mio segno e ‘l mio conforto solo . v. 13, cfr. ancora canz. 73, ai vv. 24-25: sì possente è ’l voler che mi trasporta;/ et la ragione è morta; e inoltre son. 211, Voglia mi sprona, Amor mi guida et scorge, v. 7: regnano i sensi, et la ragione è morta. v. 14, l’immagine del porto, già in son. 272 vv. 11-14. 21 La vela rompe un vento humido eterno / di sospir’, di speranze et di desio. / Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni Inf. V vv. 28-30, Io venni in loco d’ogne luce muto, / che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto. v. 75, e paion sì al vento esser leggieri v. 82, Quali colombe dal disio chiamate v. 113, quanti dolci pensier, quanto disio vv. 117-118, a lagrimar mi fanno tristo e pio. / Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri Purg. II v. 130, or le bagna la pioggia et move il vento 22 Petrarca Due navigazioni a confronto Dante Passa la nave mia colma d’oblio per aspro mare, a mezza notte il verno, enfra Scilla et Caribdi; et al governo siede ’l signore, anzi ’l nemico mio. Guido, i’ vorrei che tu e Lapo e io Fossimo presi per incantamento, E messi in un vasel ch’ad ogni vento Per mare andasse al voler vostro e mio, A ciascun remo un penser pronto et rio che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno; la vela rompe un vento humido eterno di sospir’, di speranze et di desio. Sì che fortuna od altro tempo rio Non ci potesse dare impedimento, Anzi, vivendo sempre in un talento, Di stare insieme crescesse ’l disio. 23 Intertestualità esterna v. 2, per aspro mare, a mezza notte il verno: cfr. Verg. Aen. VI 351-55, con maria aspera e con hibernas immensa per aeqora noctes (luogo di grande tensione emotiva: dove il nocchiero Palinuro, che Enea aveva perduto e ora ritrova agli inferi, rievoca la sua morte durante la navigazione). v. 3, enfra Scilla et Caribdi: cfr. Verg. Aen. III 420-25 v.6, la vela rompe un vento traduce Aen. I 102-3, “procella velum adversa ferit” vv. 3-4, l’immagine di Amore quale nocchiero è assai rara, e prima di Petr. si trova solo in un sonetto di Noffo di Bonaguida, che comincia così: “Io veggio star sul canto de la nave/ Amor...”. 24 F. Petrarca, R.v.f. 1, vv. 1-4 Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io nudriva ’l core in sul mio primo giovenile errore quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono. F. Petrarca, R.v.f. 364, vv. 5-8 Omai son stanco, et mia vita reprendo di tanto error che di vertute il seme à quasi spento, et le mie parti extreme, alto Dio, a te devotamente rendo. 25 Cic. Tusc. disp. III 1 «Nella nostra indole è innato il seme della virtù, e se esso potesse crescere, la natura stessa ci guiderebbe alla felicità. Orbene, non appena noi veniamo alla luce e siamo accolti e riconosciuti, ecco che ci troviamo subito in mezzo a ogni sorta di storture e al più grande pervertimento ideologico, sicché sembrerebbe che, assieme al latte della nutrice, noi avessimo succhiato anche l’attitudine all’errore. [...] Ci rimpinziamo di errori così svariati, che sulla verità ha la meglio l’inganno e un preconcetto consolidato prevale sulla natura stessa». 26 La letteratura volgare del Trecento La poesia La prosa (primato assoluto della Toscana) • TOSCANA • Volgarizzamenti • Scritture religiose e mistiche Poesia allegorico-didattica (Fazio degli Uberti, Dittamondo, 1345-67) Poesia lirica (tra epigoni dello Stilnovo e emuli di Petrarca) Tradizione canterina (i cantari di Antonio Pucci: 1310-1388) • VENETO Poesia lirica (Niccolò de Rossi, ms. Barb. Lat. 3953) Letteratura franco-veneta (1320 ca., Entrée d’Espagne) Giordano da Pisa, Domenico Cavalca, Iacopo Passavanti e S. Caterina da Siena • Storiografia La Cronica di Giovanni Villani • Novellistica Il Trecentonovelle di Francesco Sacchetti (1392-97) 27 L. B. Alberti, I libri della famiglia, Proemio Repetendo a memoria quanto per le antique istorie e per ricordanza de’ nostri vecchi insieme, e quanto potemmo a’ nostri giorni come altrove così in Italia vedere, non poche famiglie solere felicissime essere e gloriosissime, le quali ora sono mancate e spente, solea spesso fra me maravigliarmi e dolermi se tanto valesse contro agli uomini la fortuna essere iniqua e maligna, e se così a lei fosse con volubilità e temerità sua licito famiglie ben copiose d’uomini virtuosissimi, abundante delle preziose e care cose e desiderate da’ mortali, ornate di molta dignità, fama, laude, autoritate e grazia, dismetterle d’ogni felicità, porle in povertà, solitudine e miseria, e da molto numero de’ padri ridurle a pochissimi nepoti, e da ismisurate ricchezze in summa necessità, e da chiarissimo splendore di gloria somergerle in tanta calamità, averle abiette, gittate in tenebre e tempestose avversità. Ah! quante si veggono oggi famiglie cadute e ruinate! Né sarebbe da annumerare o racontare quali e quante siano simili a’ Fabii, Decii, Drusii, Gracchi e Marcelli, e agli altri nobilissimi apo gli antichi, così nella nostra terra assai state per lo ben publico a mantener la libertà, a conservare l’autorità e dignità della patria in pace e in guerra, modestissime, prudentissime, fortissime famiglie, e tali che dagl’inimici erano 28 temute, e dagli amici sentiano sé essere amate e reverite. Delle quali tutte famiglie non solo la magnificenza e amplitudine, ma gli uomini, né solo gli uomini sono scemati e disminuiti, ma più el nome stesso, la memoria di loro, ogni ricordo quasi in tutto si truova casso e anullato. Onde non sanza cagione a me sempre parse da voler conoscere se mai tanto nelle cose umane possa la fortuna, e se a lei sia questa superchia licenza concessa, con sua instabilità e inconstanza porre in ruina le grandissime e prestantissime famiglie. Alla qual cosa ove io sanza pendere in alcuna altra affezione, sciolto e libero d’ogni passion d’animo penso, e ove fra me stessi, o giovani Alberti, rimiro la nostra famiglia Alberta a quante avversità già tanto tempo con fortissimo animo abbia ostato, e con quanta interissima ragione e consiglio abbino e’ nostri Alberti saputo discacciare e con ferma constanza sostenere i nostri acerbi casi e’ furiosi impeti de’ nostri iniqui fati, da molti veggo la fortuna più volte essere sanza vera cagione inculpata, e scorgo molti per loro stultizia scorsi ne’ casi sinistri, biasimarsi della fortuna e dolersi d’essere agitati da quelle fluttuosissime sue unde, nelle quali stolti sé stessi precipitorono. E così molti inetti de’ suoi errati dicono altrui forza furne cagione. 29 Trovare i classici nel XV sec. (I) 30 Trovare i classici nel XV sec. (II) 31 Poggio Bracciolini a Guarino Veronese, 15 dic. 1416 È solo il discorso quello per cui perveniamo ad esprimere le virtù dell’animo, distinguendoci dagli altri animali. Bisogna quindi essere sommamente grati sia agli inventori delle altre arti liberali, sia soprattutto a colore che, con le loro ricerche e con la loro cura, ci tramandarono i precetti del dire e una norma per esprimerci con perfezione. […] Fra tutti illustre ed eccellente fu M. Fabio Quintiliano […]. Ma egli presso di noi italiani era così lacerato, così mutilato, per colpa, io credo, dei tempi, che in lui non si riconosceva più aspetto alcuno, abito alcuno d’uomo. […] Era penoso e a mala pena sopportabile, che noi avessimo, nella mutilazione di un uomo così grande, tanta rovina dell’arte oratoria. […] Un caso fortunato per lui, e soprattutto per noi, volle che, mentre ero ozioso a Costanza, mi venisse il desiderio di andar a visitare il luogo dove egli era tenuto recluso. V’è infatti, vicino a quella città, il monastero di S. Gallo, a circa venti miglia. Perciò mi recai là per distrarmi, e insieme per vedere i libri di cui si diceva vi fosse un gran numero. Ivi, in mezzo a una gran massa di codici che sarebbe lungo enumerare, ho trovato Quintiliano ancor salvo ed incolume, ancorché tutto pieno di muffa e di polvere. 32 C. Dionisotti, Discorso sull’Umanesimo italiano (1956) «Fin dal Trecento la rivoluzione umanistica si sviluppò nell’Italia divisa e discorde come un moto nazionale e unitario, atto a superare, sulla base della nuova latinità, differenze e contrasti regionali e municipali, che la sola tradizione toscana, dantesca, non era in grado di superare a quella data». 33 La letteratura del secondo Quattrocento • Firenze (Medici): Lorenzo il Magnifico (1449-1492), Angelo Poliziano (1454-1494: Stanze per la giostra), Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494: Oratio de hominis dignitate, 1486), Marsilio Ficino (1433-1499), Cristoforo Landino (1424-1498: Disputationes Camaldulenses, 1480), Luigi Pulci (1432-1484). • Ferrara (Este): Matteo Maria Boiardo (1441-1494: Amorum libri tres, 1476; Inamoramento de Orlando, 148394). • Napoli (Aragonesi): Giovanni Pontano (1429-1503: De prudentia, De fortuna, De principe, De sermone) e Jacopo Sannazaro (1458-1530: Arcadia, 1484-94; De partu Virginis, 1526). 34 Poliziano, Stanze per la giostra, I 99-101 Nel tempestoso Egeo in grembo a Teti si vede il frusto genitale accolto, sotto diverso volger di pianeti errar per l'onde in bianca schiuma avolto; e drento nata in atti vaghi e lieti una donzella non con uman volto, da’ zefiri lascivi spinta a proda, gir sovra un nicchio, e par che 'l cel ne goda. Vera la schiuma e vero il mar diresti, e vero il nicchio e ver soffiar di venti; la dea negli occhi folgorar vedresti, e 'l cel riderli a torno e gli elementi; l'Ore premer l'arena in bianche vesti, l'aura incresparle e crin’ distesi e lenti; non una, non diversa esser lor faccia, come par ch'a sorelle ben confaccia. Giurar potresti che dell'onde uscissi la dea premendo colla destra il crino, coll'altra il dolce pome ricoprissi; e, stampata dal piè sacro e divino, d'erbe e di fior’ l'arena si vestissi; poi, con sembiante lieto e peregrino, dalle tre ninfe in grembo fussi accolta, e di stellato vestimento involta. 35 Inni omerici, II, Ad Afrodite, vv. 1-13 La dea augusta dalla corona d’oro io canterò, la bella Afrodite che ha in suo dominio le mura di tutta Cipro circondata dal mare, dove la forza di Zefiro che umido soffia la portò sull’onda del mare risonante tra la soffice spuma: e le Ore dall’aureo diadema l’accolsero lietamente; la vestirono con vesti divine, sul capo immortale posero una ben lavorata corona, bella, d’oro, ed ai lobi traforati fiori di oricalco e di oro prezioso; intorno al delicato collo e al petto fulgente l’adornarono coi monili d’oro di cui anch’esse, le Ore dall’aureo diadema, si adornano quando vanno all’amabile danza degli dèi, e alla dimora del padre. 36 Poliziano, Stanze, I 43-45 Candida è ella, e candida la vesta, ma pur di rose e fior dipinta e d'erba; lo inanellato crin dall'aurea testa scende in la fronte umilmente superba. Rideli a torno tutta la foresta, e quanto può suo cure disacerba; nell'atto regalmente è mansueta, e pur col ciglio le tempeste acqueta. Folgoron gli occhi d'un dolce sereno, ove sue face tien Cupido ascose; l'aier d'intorno si fa tutto ameno ovunque gira le luce amorose. Di celeste letizia il volto ha pieno, dolce dipinto di ligustri e rose; ogni aura tace al suo parlar divino, e canta ogni augelletto in suo latino. Sembra Talia, se in man prende la cetra, sembra Minerva se in man prende l'asta; se l'arco ha in mano, al fianco la faretra, giurar potrai che sia Diana casta. Ira dal volto suo trista s'arretra, e poco, avanti a lei, Superbia basta; ogni dolce virtù l'è in compagnia, Biltà la mostra a dito e Leggiadria. 37 Poliziano, Stanze, I 46-47 Con lei sen va Onestate umile e piana che d'ogni chiuso cor volge la chiave; con lei va Gentilezza in vista umana, e da lei impara il dolce andar soave. Non può mirarli il viso alma villana, se pria di suo fallir doglia non have; tanti cori Amor piglia fere o ancide, quanto ella o dolce parla o dolce ride. Ell'era, assisa sovra la verdura, allegra, e ghirlandetta avea contesta, di quanti fior creassi mai natura, de' quai tutta dipinta era sua vesta. E come prima al gioven puose cura, alquanto paurosa alzò la testa; poi colla bianca man ripreso il lembo, levossi in piè con di fior pieno un grembo. 38 39 P. Bembo, Prose della volgar lingua, 1525 Tre conseguenze (1) fine immediata della polivalenza delle lingue, caratteristica della cultura italiana nel periodo delle origini; (2) alto tasso di cura stilistica e retorica, per reggere il confronto con i classici; (3) radicale esautorazione degli elementi psicologici e drammatici. 40 I contemporanei di Dante (n. 1250-1270) Cavalcanti, Dino Compagni, Cecco Angiolieri, Francesco da Barberino, Cecco d’Ascoli, Folgore da San Gimignano, Domenico Cavalca I contemporanei di Petrarca (n. 1300-1315) Jacopo Passavanti, Fazio degli Uberti, Antonio Pucci, Giovanni Boccaccio I contemporanei di Machiavelli (n. 1470-1485) Pietro Bembo, Ludovico Ariosto, Michelangelo, Baldassarre Castiglione, Francesco Guicciardini 41 B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, Dedica, §3 Altri dicono che, essendo tanto difficile e quasi impossibile trovar un omo così perfetto come io voglio che sia il cortegiano, è stato superfluo il scriverlo perché vana cosa è insegnare quello che imparare non si po. A questi rispondo che mi contentarò aver errato con Platone, Senofonte e Marco Tullio, lassando il disputare del mondo intelligibile e delle idee; tra le quali, sì come, secondo quella opinione, è la idea della perfetta republica e del perfetto re e del perfetto oratore, così è ancora quella del perfetto cortegiano; […] e se con tutto questo [i lettori] non potran conseguir quella perfezion, qual che ella si sia, ch'io mi son sforzato d'esprimere, colui che più se le avvicinarà sarà il più perfetto, come di molti arcieri che tirano ad un bersaglio, quando niuno è che dia nella brocca, quello che più se le accosta senza dubbio è miglior degli altri. 42 B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, Dedica, §3 La diffesa adunque di queste accusazioni e, forse, di molt'altre rimetto io per ora al parere della commune opinione; perché il più delle volte la moltitudine, ancor che perfettamente non conosca, sente però per istinto di natura un certo odore del bene e del male e, senza saperne rendere altra ragione, l'uno gusta ed ama e l'altro rifiuta ed odia. Perciò, se universalmente il libro piacerà, terrollo per bono e pensarò che debba vivere; se ancor non piacerà, terrollo per malo e tosto crederò che se n'abbia da perdere la memoria. E se pur i mei accusatori di questo commun giudicio non restano satisfatti, contentinsi almeno di quello del tempo; il quale d'ogni cosa al fin scuopre gli occulti difetti e, per esser padre della verità e giudice senza passione, suol dare sempre della vita o morte delle scritture giusta sentenzia. 43 N. Machiavelli, Il principe, cap. 15 Perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi massime, nel disputare questa materia, da li ordini delli altri. Ma sendo l'intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si doverrebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità. 44 N. Machiavelli, Il principe, cap. 18 Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede per esperienza ne' nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l'astuzia aggirare e' cervelli delli uomini: e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la realtà. […] Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e' mezzi sempre fieno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa: e nel mondo non è se non vulgo, e' pochi non ci hanno luogo quando gli assai hanno dove appoggiarsi. 45 N. Machiavelli, Istorie fiorentine, III 13 Né conscienzia né infamia vi debba sbigottire, perché coloro che vincono, in qualunque modo vincono, mai non ne riportano vergogna. […] Se voi noterete il modo del procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande potenzia pervengono, o con frode o con forza esservi pervenuti […]. E quelli i quali, o per poca prudenzia o per troppa sciocchezza, fuggono questi modi, nella servitù sempre e nella povertà affogano, perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e frodolenti. Perché Idio e la natura ha posto tutte le fortune degli uomini loro in mezzo, le quali più alle rapine che alla industria, e alle cattive che alle buone arti sono esposte: di qui nasce che gli uomini mangiono l’un l’altro, e vanne sempre col peggio chi può meno. 46 Mappa cronologica essenziale • 1527 m. Machiavelli, 1529 m. Castiglione, 1530 m. Sannazaro (1526 ed. De Partu Virginis), 1533 m. Ariosto (1532 ed. Orlando furioso) • 1547 m. Bembo (1525, ed. Prose della volgar lingua, 1530 edd. Rime, Asolani, Prose latine) • 1558 edd. Rime e Galateo di Della Casa (m. 1556) • 1545-63 Concilio di Trento • 1581 ed. Gerusalemme liberata di Tasso (1593 ed. Gerusalemme conquistata) 47 Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, le cortesie, l'audaci imprese io canto, che furo al tempo che passaro i Mori d'Africa il mare, e in Francia nocquer tanto, seguendo l'ire e i giovenil furori d'Agramante lor re, che si diè vanto di vendicar la morte di Troiano sopra re Carlo imperator romano. Canto l'arme pietose e 'l capitano che 'l gran sepolcro liberò di Cristo. Molto egli oprò co 'l senno e con la mano, molto soffrì nel glorioso acquisto; e in van l'Inferno vi s'oppose, e in vano s'armò d'Asia e di Libia il popol misto. Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi segni ridusse i cavalieri erranti. Dirò d'Orlando in un medesmo tratto cosa non detta in prosa mai né in rima: che per amor venne in furore e matto, d'uom che sì saggio era stimato prima; se da colei che tal quasi m'ha fatto, che 'l poco ingegno ad or ad or mi lima, me ne sarà però tanto concesso, che mi basti a finir quanto ho promesso. (Orlando furioso I 1-2) O Musa, tu che di caduchi allori non circondi la fronte in Elicona, ma su nel cielo infra i beati cori hai di stelle immortali aurea corona, tu spira al petto mio celesti ardori, tu rischiara il mio canto, e tu perdona s'intesso fregi al ver, s'adorno in parte d'altri diletti, che de' tuoi, le carte. 48 (Gerusalemme liberata I 1-2) Mappa cronologica essenziale • 1618-19 Rime di Chiabrera, 1623 Adone di Marino, 1632 Dialogo di Galileo • 1753 La locandiera di Goldoni (dal 1762 a Parigi) • 1764 Dei delitti e delle pene di Beccaria • 1764 (giugno) primo numero di «Il Caffè» • 1763-65 Mattino e Mezzogiorno di Parini • 1782 Saul e 1786 Mirra di Alfieri • 1806 ed. Dei Sepolcri di Foscolo • 1819 L’infinito e Alla luna di Leopardi • 1820 Il conte di Carmagnola e 1822 Adelchi di Manzoni 49 50 U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, II 10 (Milano, 4 dicembre 1798) Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch'io m'abbia mai conosciuto; e d'altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria, e fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite; tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione: non più la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l'amore figliale — e poi mi tesseva gli annali recenti, e i delitti di tanti uomicciattoli ch'io degnerei di nominare, se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d'animo, non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque e' si vedano presso il patibolo — ma ladroncelli, tremanti, saccenti — più onesto insomma è tacerne. — A quelle parole io m'infiammava di un sovrumano furore […]. E pensi tu, proruppe, che s'io discernessi un barlume di libertà, mi perderei ad onta della mia inferma vecchiaja in questi vani lamenti? o giovine degno di patria più grata! se non puoi spegnere quel tuo ardore fatale, chè non lo volgi ad altre 51 passioni? G. Leopardi, Il Parini ovvero della gloria (1824) Giuseppe Parini fu alla nostra memoria uno dei pochissimi Italiani che all’eccellenza nelle lettere congiunsero la profondità dei pensieri, e molta notizia ed uso della filosofia presente: cose oramai sì necessarie alle lettere amene, che non si comprenderebbe come queste se ne potessero scompagnare, se di ciò non si vedessero in Italia infiniti esempi. Fu eziandio, come è noto, di singolare innocenza, pietà verso gl’infelici e verso la patria, fede verso gli amici, nobiltà d’animo, e costanza contro le avversità della natura e della fortuna, che travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finché la morte lo trasse dall’oscurità. Ebbe parecchi discepoli: ai quali insegnava prima a conoscere gli uomini e le cose loro, e quindi a dilettarli coll’eloquenza e colla poesia. 52 La letteratura italiana del Seicento: altre date • 1612, Vocabolario dell’Accademia della Crusca (Firenze) • 1606-1608, Giulio Cesare Croce, Bertoldo e Bertoldino (Bologna) • 1634-36, Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti (Napoli) • 1690, fondazione dell’Accademia dell’Arcadia (Roma) 53 Accademia dell’Arcadia: 1690-1728 diffusione in Italia 54 L’erudizione letteraria del Settecento • G. M. Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, 1698 • L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, 172338 • F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, 1739-52 • G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, 177282 55 Molière, Le Bourgeois gentilhomme (1670) Di rigori armata il seno, contro amor mi ribellai; ma fui vinta in un baleno in mirar duo vaghi rai; Ahi! che resiste puoco cor di gelo a stral di fuoco! Ma si caro è 'l mio tormento, dolce è sí la piaga mia, ch'il penare è'l mio contento, e'l sanarmi è tirannia. Ahi! che più giova e piace, quanto amor è più vivace! Bel tempo che vola rapisce il contento; d'Amor nella scola si coglie il momento. 56 P. Metastasio, Didone abbandonata (1723) atto I scena 18 musica di Niccolò Piccinini (1769) http://www.youtube.com/watch?v=Bf-6EErjyTU&fmt=18 E soffrirò che sia sì barbara mercede premio della tua fede, anima mia! Tanto amor, tanti doni... Ah pria ch'io t'abbandoni, pèra l'Italia, il mondo, resti in oblio profondo la mia fama sepolta; vada in cenere Troia un'altra volta. Ah che dissi! Alle mie amorose follie, gran genitor, perdona, io n'ho rossore, non fu Enea che parlò; lo disse Amore. Si parta… E l'empio moro stringerà il mio tesoro? Numi, consiglio! Se resto sul lido, se sciolgo le vele, infido, crudele mi sento chiamar. E intanto, confuso nel dubbio funesto, non parto, non resto, ma provo il martìre che avrei nel partire, che avrei nel restar. 57 L. Da Ponte, Il dissoluto punito o sia Il don Giovanni (1787) I 5 http://www.youtube.com/watch?v=INF9r5jju0A&feature=related Donna Elvira: Il scellerato / m’ingannò, mi tradì… Leporello: Eh consolatevi! / non siete voi, non foste, e non sarete / né la prima, né l’ultima. Guardate / questo non picciol libro, è tutto pieno / dei nomi di sue belle; / ogni villa, ogni borgo, ogni paese / è testimon di sue donnesche imprese. Madamina, il catalogo è questo / delle belle che amò il padron mio; / un catalogo egli è che ho fatto io, / osservate, leggete con me. // In Italia seicento e quaranta, / in Lamagna duecento e trentuna, / cento in Francia, in Turchia novantuna, / ma in Ispagna son già mille e tre. // V’han fra queste contadine, / cameriere, cittadine, / v’han contesse, baronesse, / marchesane, principesse, / e v’han donne d’ogni grado, / d’ogni forma, d’ogni età. // Nella bionda egli ha l’usanza / di lodar la gentilezza, nella bruna, la costanza, / nella bianca, la dolcezza. / Vuol d’inverno la grassotta, / vuol d’estate la magrotta; / è la grande maestosa, / la piccina è ognor vezzosa. / Delle vecchie fa conquista / pel piacer di porle in lista, / ma passion predominante / è la giovin principiante. / Non si picca se sia ricca, / se sia brutta, se sia bella: / puché porti la gonnella, / voi sapete quel che fa. 58 W.A. Mozart, lettera a J. Haydn, Vienna 1 sett. 1785 Un padre, avendo risolto di mandare i suoi figli nel gran mondo, stimò doverli affidare alla protezione e condotta di un uomo molto celebre in allora, il quale per buona sorte era per di più il suo migliore amico. Eccoti del pari, celebre uomo ed amico mio carissimo, i miei sei figli. Essi sono, è vero, il frutto di una lunga e laboriosa fatica. Pur la speranza fattami da più amici di vederla almeno in parte compensata, m'incoraggisce e mi lusinga che questi parti siano per essermi un giorno di qualche consolazione. Tu stesso, amico carissimo, nell'ultimo tuo soggiorno in questa capitale me ne dimostrasti la tua soddisfazione. Questo tuo suffragio mi anima soprattutto, perché io te lo raccomandi e mi fa sperare, che non ti sembreranno del tutto indegni del tuo favore. Piacciati dunque accoglierli benignamente ed esser loro padre, guida ed amico. Da questo momento io ti cedo i miei diritti sopra di essi; ti supplico però di guardare con indulgenza i difetti, che l'occhio parziale di padre mi può aver celati, e di continuar, loro malgrado, la generosa tua amicizia a chi tanto l'apprezza, mentre son di cuore il tuo sincerissimo amico». 59 W.A. Mozart, Lettera a L. Da Ponte, 7 settembre 1791 Aff.mo signore, […] ho il capo frastornato, conto a forza, e non posso levarmi dagli occhi l’immagine di questo incognito. Lo vedo di continuo, esso mi prega, mi sollecita, ed impaziente mi chiede il lavoro. Continuo, perché il comporre mi stanca meno del riposo. Altronde non ho più da tremare. Lo sento a quel che provo, che l’ora suona; sono in procinto di spirare; ho finito prima di aver goduto del mio talento. La vita era pur sì bella, la carriera s’apriva sotto auspici tanto fortunati, ma non si può cangiar il proprio destino. Nessuno misura i propri giorni, bisogna rassegnarsi, sarà quel che piacerà alla providenza, termino ecco il mio canto funebre, non devo lasciarlo imperfetto. 60 La letteratura italiana del secondo Settecento: storia e geografia • Veneto C. Goldoni (1707-1793), Venezia M. Cesarotti (1730-1808), Padova: Poesie di Ossian, 1763; Saggio sulla filosofia delle lingue, 1785 I. Pindemonte (1753-1828), Verona: Prose e poesie campestri, 1788; I cimiteri, 1806 • Lombardia G. Parini (1729-1799), Milano V. Monti (1754-1828), milanese d’adozione dopo il 1797 • Piemonte G. Baretti (1719-1789), Torino: attivo a Milano, Venezia, Londra V. Alfieri (1749-1803), Asti 61 Accademie scientifiche in Italia alla fine del Settecento 62 V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, 1843 Il popolo italiano è un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa, e non so pur se si trovi nel nostro vocabolario. V’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana congiunte di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre; ma divisa di governi, di leggi, d’istituti, di favella popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini. Cfr. A. Manzoni, Marzo 1821, 29-32: «Una gente che libera tutta, / o fia serva tra l’Alpe ed il mare; / una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue, di core». 63 Il Romanticismo italiano: i padri della patria Alfieri, Foscolo, Manzoni Massimo d’Azeglio, I miei ricordi (1867): «Alfieri fu quello che scoperse l’Italia, ed a lui si deve il primo respiro della vita nazionale». Giuseppe Mazzini, Note autobiografiche (1861): «L’Ortis che mi capitò allora fra le mani, mi infanatichì: lo imparai a memoria» Giuseppe Ricciardi, Memorie autografe d’un ribelle (1857): «Il coro dell’Adelchi di Alessandro Manzoni! In quella maravigliosa poesia sono riassunti, per così dire, dieci secoli e più della misera storia d’Italia! Deh! Possano quei bellissimi versi non riuscire applicabili mai alla sua storia futura». Dante Luigi Settembrini, Ricordanze (1875): «Di Dante non vi dico nulla: era l’idolo degli studiosi: egli rappresenta la grande idea della nostra nazionalità, egli il pensiero, l’ingegno, la gloria, la lingua d’Italia». 64 Stato e Nazione: il concetto di «nazione» (I) • Vocabolario della Crusca (a c. di A. Cesari, Verona 1806-11) Nazione = «Generazione di uomini nati in una medesima provincia o città». • C. Beccaria, Elementi di economia pubblica (1804) «Le nazioni sono una moltitudine d’uomini mossi a vivere in società per difendersi reciprocamente da ogni forza esteriore e contribuire nell’interno al bene comune procurando il bene proprio». 65 Stato e Nazione: il concetto di «nazione» (II) • G. Mazzini, I collaboratori della Giovine Italia ai loro concittadini (1832) «Per nazione noi intendiamo l’universalità dei cittadini parlanti la stessa favella, associati, con eguaglianza di diritti civici e politici, all’intento comune di sviluppare e perfezionare progressivamente le forze sociali». • Dizionario della lingua italiana di N. Tommaseo e B. Bellini (1861-74) Nazione = «Schiatta d’uomini avente la medesima origine e parlante la lingua medesima. Unione di gente in vincolo di tradizioni civili, morali, intellettuali. […] Quella è più propriamente Nazione ove gli uomini hanno comune la schiatta, la lingua, le leggi e la potenza e la volontà d’eseguirle». 66 Stato e Nazione: il concetto di «nazione» (III) Il concetto di «nazione» nel XIX secolo 1. Presunta origine comune (medesimo gruppo etnico) 2. Comunanza di lingua, storia, costumi, istituzioni sociali 3. Naturale e legittima tendenza a realizzarsi in una entità politica → V. Gioberti: «Stato e nazione, secondo natura, sono tutt’uno; e quando la prima di queste aggregazioni, non che compiere e suggellar la seconda, la contraddice, l’arte viene a ripugnar la natura e lo stato è intrinsecamente vizioso». Due integrazioni novecentesche: B. Croce: le nazioni non sono dati naturali, ma stati di coscienza e formazioni storiche. T. De Mauro: una nazione è tale indipendentemente dalla sua eventuale e non necessaria realizzazione in unità politica, ma presuppone la consapevolezza di appartenenza da parte dei suoi membri. 67 Stato e Nazione: il concetto di «stato» (I) • Vocabolario della Crusca (1806) Stato = signoria, dominio, potenza (equivalente ai sost. latini principatus, regnum, imperium); cfr. J. Passavanti, «Beni della fortuna sono le cose che son fuori di noi, come sono le ricchezze, le delizie, gli stati, le dignitadi, la fama». • V. Gioberti, Primato morale e civile degli italiani (1843) 68 Stato e Nazione: il concetto di «stato» (II) Il concetto di «stato» nel XIX secolo 1. stabile insediamento territoriale 2. autonomo e sovrano ordinamento giuridico 69 Gli osservatori settecenteschi: virtù e difetti degli italiani • Descrizione de’ costumi italiani del nobile bergamasco Pietro Calepio (1693-1762): stampata per la prima volta in traduzione francese a Basilea nel 1728; ed. dell’originale versione italiana a cura di S. Romagnoli, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1962 • An Account of the Manners and Customs of Italy di Giuseppe Baretti (1719-1789): prima ed. a Londra nel 1768 (contro un noto personaggio inglese, Samuel Sharp, che aveva ‘strapazzato’ l’Italia, «trattando tutti gli uomini nostri di becchi, di fanatici e d’ignoranti, e tutte le nostre donne di puttanacce e di superstiziose») 70 P. B. Shelley a un amico (1818) «Roma è, per così dire, una città di morti, o meglio di coloro che non possono morire, e sopravvivono alle meschine generazioni che abitano e passano sul luogo che essi hanno consacrato all'eternità. A Roma, almeno nel primo entusiasmo della riscoperta dei tempi antichi, non ci si accorge degli Italiani». 71 Ann Radcliffe, The Italian, 1797 Viveva, nel convento domenicano dello Spirito Santo, a Napoli, un uomo chiamato padre Schedoni; un italiano, come il nome indicava, di oscure origini sulle quali, in alcune circostanze, era apparso desideroso di gettare un velo impenetrabile. […] Non rivelava tuttavia gli slanci di un animo generoso ma piuttosto il cupo orgoglio di un essere deluso. […] Nessuno dei suoi confratelli lo amava; a molti era sgradito, i più lo temevano. La sua figura colpiva, ma non per la grazia; era alto e, sebbene estremamente sottile, aveva membra grandi e sgraziate e, nel procedere con andatura maestosa, avvolto nella tonaca nera del suo ordine, aveva un'aria terribile, un qualcosa di soprannaturale. Il cappuccio, gettando un'ombra sul livido pallore, del suo volto, ne accresceva la severità fino al punto da destare quasi, orrore, anche per l'effetto dei grandi occhi melanconici; una melanconia che non era quella di un cuore sensibile e ferito ma piuttosto quella di una natura cupa e feroce. […] I suoi occhi erano così penetranti che, in un sol colpo, parevano scendere nel cuore altrui e leggere i più riposti pensieri. Poche persone potevano reggere la loro indagine o persino sopportare di incontrarli due volte. 72 • 1807, Mme De Staël, Corinne ou l’Italie • 1807-1808, Simonde de Sismondi, Histoire des républiques italiennes du Moyen-Âge, in 4 voll. (II ed., in 16 voll., 1809-1818) • 1818-1820, G. Leopardi, All’Italia – Sopra il monumento di Dante – Ad Angelo Mai • 1824, G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (I ed. 1906) • 1858, Ippolito Nievo, Confessioni di un italiano (I ed., postuma, nel 1867, con titolo Confessioni di un ottuagenario) 73 M.me De Staël, Corinne, ou l’ Italie (1807) Su gli Italiani voi ripetete quel che dicono gli stranieri, cosa che sulle prime fa impressione; ma per giudicare un paese, che ha avuto diversi periodi di grandezza, bisogna essere meno superficiali. […] Non so se mi inganno, ma i difetti degli Italiani non fanno che ispirarmi un senso di compassione per la loro sorte. In ogni epoca gli stranieri hanno invaso e straziato questo bel paese, oggetto della loro incessante ambizione; e proprio gli stranieri rinfacciano con acrimonia a questa nazione i mali delle nazioni vinte e straziate! [...] Nelle relazioni private gli Italiani sono sinceri e fedeli. Subiscono l'effetto dell'interesse e dell'ambizione, ma non dell'orgoglio e della vanità; dan poca importanza alle distinzioni di casta; niente società, niente salotti, niente moda, niente espedienti quotidiani per emergere in particolare. Queste comuni sorgenti di dissimulazione e di invidia non esistono presso di loro: se ingannano nemici e rivali, è perché si considerano come in stato di guerra con essi; ma in pace sono semplici e sinceri. [...] I concetti di stima e di dignità son meno efficaci e molto meno conosciuti, lo ammetto, in Italia che altrove. Ne è causa la mancanza di società e di opinione pubblica. Ma nonostante tutto quel che si è detto sulla perfidia degli Italiani, sostengo che è uno dei paesi del mondo dove c' è più bontà. 74 S. de Sismondi, Histoire des républiques italiennes du Moyen-Âge Di tutte le forze morali cui l'uomo va soggetto, quella che può fargli maggior bene o maggior male è la religione. Tutte le opinioni che si riferiscono ad interessi che avanzano gl'interessi di questo mondo, tutte le credenze, tutte le sette ottengono sopra i morali sentimenti dell' uomo prodigioso imperio e maravigliosamente ne modificano l'indole. Niuna religione per altro soggioga maggiormente il cuore dell'uomo quanto la religione cattolica, perché niun'altra è così gagliardamente costituita, niuna ha così compiutamente assogettata a sé stessa la filosofia morale, niuna ha ridotto in più stretta servitù le coscienze, niuna ha instituito, come essa fece, il tribunale della confessione, che riduce tutti i fedeli nella più assoluta dipendenza del clero, niuna ha ministri più disciolti da ogni spirito di famiglia, e perciò più intimamente uniti dagl' interessi e dallo spirito di corporazione. 75 G. Leopardi, lettera a G. P. Vieusseux, 2 febbraio 1824 Io vivo qui segregato dal commercio, non solo dei letterati, ma degli uomini, in una città dove chi sa leggere è un uomo raro, in un verissimo sepolcro, dove non entra un raggio di luce da niuna parte, e donde non ho speranza di uscire. […] I libri che oggi si pubblicano in Italia non sono che sciocchezze, barbarie, e soprattutto rancidumi, copie, ripetizioni. […] Un giornale dee promuovere principalmente il progresso e la propagazione delle scienze morali, […] che sono lo studio meno coltivato in Italia. 76 G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, 1818 Io muoio di vergogna e dolore e indignazione pensando ch’ella [la patria] sventuratissima non ottiene dai presenti una goccia di sudore, quando assai meno bisognosa ebbe torrenti di sangue dagli antichi prontissimi e lieti. 77 G. Leopardi All’Italia settembre 1818 Sopra il monumento di Dante Ad Angelo Mai gennaio 1820 settembre-ottobre 1820 O patria mia, vedo le mura e gli archi / e le colonne e i simulacri e l’erme / torri degli avi nostri, / ma la gloria non vedo, / non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi / i nostri padri antichi. Or fatta inerme, / nuda la fronte e nudo il petto mostri. / Oimè quante ferite, / che lividor, che sangue! Perché le nostre genti / pace sotto le bianche ali raccolga, / non fien da’ lacci sciolte / dell’antico sopor l’itale menti / s’ai patrii esempi della prisca etade / questa terra fatal non si rivolga. / O Italia, a cor ti stia / far ai passati onor; che d’altrettali / oggi vedove son le tue contrade. Italo ardito, a che giammai non posi / di svegliar dalle tombe / i nostri padri? ed a parlar gli meni / a questo secol morto, al quale incombe / tanta nebbia di tedio? E come or vieni / sì forte a’ nostri orecchi e sì frequente, / voce antica de’ nostri, / muta sì lunga etade? 78 G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani Gl’Italiani non temono e non curano per conto alcuno di essere o parer diversi l’uno dall’altro, e ciascuno dal pubblico, in nessuna cosa e in nessun senso. [Lascio stare che la nazione non avendo centro, non havvi certamente un pubblico italiano; lascio stare la mancanza di teatro nazionale, e quella della letteratura veramente nazionale moderna, la quale presso l’altre nazioni, massime in questi ultimi tempi è un grandissimo mezzo e fonte di conformità di opinioni, gusti, maniere, caratteri individuali, non solo dentro i limiti della nazione stessa, ma tra più nazioni eziandio rispettivamente. Queste seconde mancanze sono conseguenze necessarie di quella prima, cioè della mancanza di un centro, e di molte altre cagioni. Ma lasciando tutte queste e quelle, e restringendoci alla sola mancanza di società, questa opera naturalmente che] in Italia non havvi una maniera, un tuono italiano determinato. Quindi non havvi assolutamente buon tuono, o egli è cosa così vaga, larga e indefinita che lascia quasi interamente in arbitrio di ciascuno il suo modo di procedere in ogni cosa. Ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé. 79 G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani Come la disperazione, così né più né meno il disprezzo e l’intimo sentimento della vanità della vita, sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e della immoralità. Nasce da quelle disposizioni la indifferenza profonda, radicata ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la peggiore peste de’ costumi, de’ caratteri, e della morale. Non si può negare; la disposizione più ragionevole e più naturale che possa contrarre un uomo disingannato e ben istruito della realtà delle cose e degli uomini [...] è quella di un pieno e continuo cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di parole e d’azioni. Conosciuta ben a fondo e continuamente sentendo la vanità e la miseria della vita e la mala natura degli uomini, […] il più savio partito è quello di ridere indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno, incominciando da se medesimo. Questo è certamente il più naturale e il più ragionevole. Or gl’italiani generalmente parlando, e con quella diversità di proporzioni che bisogna presupporre nelle diverse classi e individui, trattandosi di una nazione intera, si sono onninamente appigliati a questo partito. Gl’ italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’ altra nazione. [...] Sono incalcolabili i danni che nascono ai costumi da questo abito di cinismo [...] Oltre di ciò in qualunque modo il vedersi sempre in derisione per necessità produce una disistima di se stesso, e dall’altra parte un’indifferenza a lungo andare sulla propria riputazione. […] E certo che il principal fondamento della moralità di un individuo e di un popolo è la stima costante e profonda che esso fa di se stesso, la cura che ha di conservarsela (né si può conservarla vedendo che gli altri ti disprezzano), la gelosia, la delicatezza e sensibilità sul proprio onore. Un uomo senza amor proprio, al contrario di quel che volgarmente si dice, è impossibile che sia giusto, onesto e virtuoso di carattere, di 80 inclinazioni, costumi e pensieri, se non d’ azioni. I. Nievo, Le confessioni di un italiano, 1858 «Io nacqui veneziano ai 18 ottobre 1775, giorno dell’evangelista san Luca, e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo». → Par. XI 28-30, «La provedenza che governa il mondo / con quel consiglio nel quale ogne aspetto / creato è vinto pria che vada al fondo». «La vita è quale ce la fa l’indole nostra, vale a dire natura ed educazione; come fatto fisico è necessità; come fatto morale, ministero di giustizia. Chi per temperamento e persuasion propria sarà in tutto giusto verso se stesso verso gli altri verso l’umanità intera, colui sarà l’uomo più innocente utile e generoso che sia mai passato pel mondo». 81 I. Nievo, Le confessioni d’un italiano La mia indole, l’ingegno, la prima educazione e le operazioni e le sorti progressive furono, come ogni altra cosa umana, miste di bene e di male: e se non fosse sfoggio indiscreto di modestia potrei anco aggiungere che in punto a merito abbondò piuttosto il male che il bene. Ma in tutto ciò nulla sarebbe di strano o degno da essere narrato, se la mia vita non correva a cavalcione di questi due secoli che resteranno un tempo assai memorabile massime nella storia italiana. [...] L’attività privata d’un uomo che non fu né tanto avara da trincierarsi in se stessa contro le miserie comuni, né tanto stoica da opporsi deliberatamente ad esse, né tanto sapiente o superba da trascurarle disprezzandole, mi pare debba in alcun modo riflettere l’attività comune e nazionale che la assorbe; come il cader d’una goccia rappresenta la direzione della pioggia. Così l’esposizione de’ casi miei sarà quasi un esemplare di quelle innumerevoli sorti individuali che dallo sfasciarsi dei vecchi ordinamenti politici al raffazzonarsi dei presenti composero la gran sorte nazionale italiana. 82