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Filmografia ragionata

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Filmografia ragionata
Istituto di Sessuologia Clinica®
FILMOGRAFIA RAGIONATA
E SCHEDE CRITICHE
Via Savoia, 78 – 00198 Roma – Tel. 0685356211 – fax 0685356118
E-mail: [email protected]
INDICE
Amami se hai coraggio……………………………………………………..pag. 4
American beauty…………………………………………………………….pag. 8
Beautiful thing ………………………………………………….……………pag. 11
Billy Elliot ……………………………………………………….……………pag. 14
Bowling a Columbine……………………………………………………….pag. 17
Caterina va in città …………………………………………….……………pag. 20
Come te nessuno mai …………………………………………………..….pag. 24
Elephant ……………………………………………………………………..pag. 27
Gente comune ………………………………………………………………pag. 30
Il buio oltre la siepe …………………………………………………………pag. 33
L’albero delle pere ………………………………………………………….pag. 36
L’altra metà dell’amore………………………………………………………pag. 38
L’attimo fuggente …………………………………………………….……..pag. 42
L’educazione fisica delle fanciulle…………………………………………pag. 45
La frattura del miocardio…………………………………………………….pag. 49
La stanza di Cloe…………………………………………………………….pag. 51
Mignon è partita ……………………………………………………………..pag. 55
Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano ……………………………………..pag. 58
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Notte prima degli esami ……………………………………………………pag. 62
Pensieri pericolosi…………………………………………………………..pag. 64
Philadelphia ……………………………………………………………..…..pag. 68
Ricordati di me ………………………………………………………….…..pag. 70
Scoprendo Forrester ………………………………………………………..pag. 72
Segreti e bugie ………………………………………………………….…..pag. 74
Sognando Beckham ………………………………………………………..pag. 78
Stand by me …………………………………………………………………pag. 82
Tredici anni …………………………………………………………………..pag. 86
Will Hunting ………………………………………………………………….pag. 88
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Amami se hai coraggio
Commedia
Regista: Samuell, Yann
Autore del soggetto: Cukier, Jacky
Autore del soggetto: Samuell, Yann
Sceneggiatore: Samuell, Yann
Sceneggiatore: Cukier, Jacky
Produttore: Rossignon, Christophe
Fotografia: Roch, Antoine
Montaggio: Sedlácková, Andrea
Musiche: Rombi, Philippe
Scenografie: Simonet, Jean-Michel
Film per tutti
Cast: Guillaume Canet (Julien), Marion Cotillard (Sophie), Thibault Verhaeghe
(Julien a 8 anni), Josephine Lebs-Joly (Sophie a 8 anni), Gérard Watkins (padre di
Julien), Emmanuelle Grönvold (madre di Julien), Laëtitia Venezia Tarnowska
(Christelle), Gilles Lelouche (Sergei), Elodie Navarre (Aurélie), Julia Faure (sorella
di Sophie)
Crediti: montaggio, Andrea Sedlácková; musiche, Philippe Rombi; scenografia,
Jean-Michel Simonet
Prodotto: Francia: Artémis Productions Canal + Caneo Films Centre du Cinéma et
de l'Audiovisuell de la Communauté Française de Belgique Cofimage 13
C.R.R.A.V. France 2 France 2 Cinéma Lazennec Film M6 Films M6 Métropol
Télévision Media Service Nord-Ouest Productions Orocirep Reégion NordPas_de-Calais Studio Canal Studio Canal France Studio Images 9 Wallimage,
2003
Distribuito: Italia, Mediafilm Medusa
Trama
Julien e Sophie sono due bambini di otto anni. Diventano amici quasi per darsi a
vicenda un affetto altrimenti introvabile: Julien è figlio di una giovane madre che
sta lentamente ma inesorabilmente morendo a causa di una grave malattia,
Sophie è costantemente irrisa e disprezzata dai suoi compagni di scuola perché
immigrata dalla Polonia.
Progressivamente, però, l'amicizia pare non soddisfarli più e il loro rapporto si
trasforma in qualcosa di diverso, in apparenza solo un gioco che col passare del
tempo prende loro la mano: Julien e Sophie inaugurano una sfida perenne, pronta
a scattare in ogni momento passandosi simbolicamente una scatola di latta al
grido improvviso e improcrastinabile di «Giochi o non giochi?», in conseguenza
del quale essi devono cimentarsi in imprese, azioni e dar vita a situazioni che
sfiorano incessantemente i confini del buon gusto e della tranquillizzante morale
comune.
Il gioco non caratterizza soltanto la fanciullezza e l'adolescenza di Julien e Sophie,
ma i due ragazzi, diventati maggiorenni, non accennano minimamente a
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interrompere la loro sfida che diventa sempre più estrema e alienata rispetto al
contesto sociale e affettivo in cui vivono. L'esistenza stessa dei due amici è
caratterizzata da rapporti non più diretti e sensibili, bensì da un legame basato su
una perenne e sconfinata esperienza ricreativa.
Anche il sentimento che sempre più evidentemente è scoppiato tra Julien e
Sophie è mediato dal gioco in cui sono imprigionati, con il quale sostituiscono
l'esperienza diretta, privandosi della necessaria comunicazione indispensabile alla
reciproca rivelazione d'amore. Ma i casi della vita fanno sì che i due ragazzi
dividano le loro strade e si uniscano a partner differenti.
Casualmente, Julien e Sophie si incontrano nuovamente dieci anni dopo e solo in
questa occasione comprendono di non poter vivere separati, ma il gioco che da
sempre caratterizza le loro vite filtra ancora una volta le loro scelte esistenziali: la
sfida, infatti, li porta a entrare insieme nella cassaforma di un pilastro di un palazzo
in costruzione e ad attendere il cemento che li unirà per l'eternità.
Parole-chiave
Adolescenti − Amicizia − Amore − Bambini − Bambini immigrati −
Discriminazione razziale − Giochi − Ruolo − Sviluppo emotivo
Soggetto: Bambini e adolescenti - Amicizia e amore
Soggetto: Bambini e adolescenti - Sviluppo emotivo - Ruolo dei giochi
Soggetto: Bambini immigrati - Discriminazione razziale
Scheda critica
Il film nasce come story-boarder (coloro che illustrano le singole scene del film
come se fossero dei fumetti in fase di preparazione della pellicola); Amami se hai
coraggio, al di là della storia di progressiva alienazione dal mondo da parte dei
due protagonisti Julien e Sophie, dei loro giochi per rendere il mondo circostante
meno amaro, dell’eterna dicotomia tra amore e morte, si segnala anche (e
soprattutto) per lo stile vivace, colorato, ricercato nei suoi effetti digitali che
deformano, conformano e ipercaratterizzano le inquadrature, creando spesso
quell’effetto di alienazione che è indicativo del significato del film, nonostante lo
stesso regista abbia a più riprese dichiarato che non è assolutamente suo
interesse fornire un preciso ed univoco messaggio al pubblico. Lo stile ricercato,
immagine di un film in cui la fantasia come rimedio alla desolazione dell’esistenza
rappresenta il nodo centrale, ha fatto paragonare Amami se hai coraggio ad un
altro celebre lavoro realizzato in Francia in questi ultimi anni, Il favoloso mondo di
Amélie. La fiaba di ricerca e formazione di Amélie Poulain, tuttavia, si inasprisce
nei toni progressivamente sempre più melodrammatici del film di Samuel, nel
quale l’amore tra i due protagonisti è ostacolato (impedimento amoroso come una
delle caratteristiche fondamentali del genere mélo), quasi paradossalmente, dalla
loro stessa incapacità di rapportarsi alla realtà. In Amami se hai coraggio, inoltre,
l’educazione alla fantasia riceve un impulso decisivo, un incoraggiamento al sogno
come negazione della sofferenza, dalla stessa madre di Julien, dolce e premurosa
nel suo tentativo di protezione di un figlio che di lì a poco dovrà tristemente
abbandonare a causa della sua malattia.
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IL RUOLO DEL MINORE E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
Un gioco inaugurato per sottrarsi alle brutture di un’età che di tenero ha solo il
numero esiguo degli anni trascorsi nel mondo: otto. Per il resto solo delusioni,
sofferenze, difficoltà e dolore: Julien vive con piena consapevolezza la prossima
fine della madre, mentre Sophie risiede in un mesto complesso di case popolari
con la sorella ed è continuamente dileggiata, anche pesantemente, dai coetanei a
causa della sua origine polacca, in un soffocante esempio di razzismo endemico.
Il gioco nasce così, innocentemente: un tentativo di cancellare la desolante realtà
per farsi cullare dalle suadenti e accoglienti braccia della fantasia, un piccolo
lampo a rischiarare una vita già troppo dura per essere vissuta spensieratamente.
Julien e Sophie, tuttavia, così facendo scivolano progressivamente in un sistema
esistenziale parallelo, che con la realtà ha solo un legame di ordine indiretto,
referenziale, arrivando a negarla per servirsene come suo capovolgimento
beffardo, scherzoso, ma proprio per questo sofferto e alienante. All’interno di un
codice comprensibile solo ai due giocatori (altra chiusura di Julien e Sophie nei
confronti dell’esterno), simbolo del gioco diventa una scatola di latta vivace e dai
colori sgargianti, piccolo surrogato di un’esistenza altrimenti grigia e monocorde:
possedere detta scatola è il segno inconfondibile della sfida in atto, significa che il
gioco è partito senza che all’altro giocatore sia data la possibilità di rifiutare ciò
che, quasi automaticamente, deve essere compiuto, pena l’esclusione anche
dall’universo parallelo di gioia e leggerezza che i due bambini si sono
necessariamente creati intorno. Inoltre, dal momento che il mondo è tenuto in una
considerazione meschina e chiusa in se stessa, gli elementi stessi della sfida si
sforzano di negarne il valore e qualunque tipo di convenzione comunemente
accettata, proprio con la dichiarata ed evidente volontà di andare oltre quella
realtà che ha provocato così tanta sofferenza. Sophie, quasi si tratti di un’autentica
dichiarazione d’intenti relativa al nuovo gioco in atto, nel momento più difficile per
Julien, sebbene fosse da tempo preannunciato, ossia il funerale di sua madre, si
arrampica su un enorme monumento funebre da utilizzare come palcoscenico per
una performance cantata del classico La vie en rose (autentico - e indicativo nel
suo testo pieno di speranza - leit-motive del rapporto tra i due ragazzi per tutta la
durata del film), che sin da subito suscita le reazioni in quel mondo che
indirettamente entrambi si apprestano a rifiutare: raccapriccio nei partecipanti al
funerale per l’inopportunità quasi offensiva della situazione, con l’unica eccezione
di Julien il cui volto è dolce e disteso.
Il gioco, tuttavia, va ben oltre la sola infanzia, per diventare sempre più ardito e
incurante rispetto al contesto in cui prende vita: Sophie che, durante un esame
universitario, indossa reggiseno e mutandine sopra i vestiti, dimostra
semplicemente che la crescita è avvenuta soltanto da un punto di vista anagrafico
e che entrambi i ragazzi si trovano precipitati in un profondo stato di immaturità
che mostrerà il suo vero e doloroso volto successivamente, impedendo loro di
relazionarsi senza il filtro del gioco che li caratterizza. Di pari passo con
l’immaturità si palesa la grave alienazione di cui sono vittime inconsapevoli:
l’amore che li lega incontrovertibilmente sin dai tempi ingenui dell’infanzia è
sempre stato ostacolato dalle modalità di interazione, che se all’età di otto anni
potevano essere comprese, ora che sono adulti non trovano più giustificazione
alcuna. L’innamoramento, anche se evidente, non si rivela, né tanto meno si
accetta, perché implicherebbe la fine del gioco, un sorta di fondamentale
attraversamento della soglia verso una delineata assunzione di responsabilità che
sancirebbe al contempo l’approdo verso la maturità acquisita. L’immaturità di
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Julien e Sophie si segnala quindi anche per la loro insormontabile difficoltà di
comunicazione, celata illusoriamente all’interno di una codificazione unica e
personale: il risultato, tuttavia, è soltanto quello di ingannarsi ulteriormente,
vivendo più volte, e a livelli differenti, una vita impropria, che nel tentativo di
sottrarsi alla sofferenza non ha fatto altro che rinunciare, di fatto, alla felicità.
RIFERIMENTI AD ALTRE PELLICOLE E SPUNTI DIDATTICI
All’interno di un’unità didattica in cui si analizzi la funzione della fantasia e del
gioco come difesa dall’oscura realtà circostante, notando al contempo i complessi
rapporti tra il mondo fittizio e quello reale per sviscerarne relazioni e
contraddizioni, Amami se hai coraggio, con il suo sensibile corollario di
corrispondenze tra amore e morte, può essere inserito in una rassegna di cui
facciano parte anche La vita è bella di Roberto Benigni, Creature del cielo di Peter
Jackson e L’ottavo giorno di Jaco Van Dormael, film arricchito dal motivo
dell’handicap che si sovrappone al tema della fantasia liberatoria.
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American beauty
Drammatico
Regista: Mendes, Sam
Autore del soggetto: Ball, Alan
Sceneggiatore: Ball, Alan
Produttore: Cohen, Bruce
Produttore: Jinks, Dan
Produttore: Wlodkowski, Stan
Produttore: Ball, Alan
Fotografia: Hall, Conrad
Montaggio: Anwar, Tariq
Montaggio: Greenbury, Chris
Musiche: Newman, Thomas
Scenografie: Shohan, Naomi
Vietato ai minori di 14 anni
Cast: Kevin Spacey (Lester Burnham), Annette Bening (Carolyn Burnham), Thora
Birch (Jane Burnham), Mena Suravi (Angela Hayes), Wes Bentley (Ricky Fitts),
Chris Cooper (il colonello Frank Fitts), Peter Gallagher (Buddy Kane), Allison
Janney (Barbara Fitts), Scott Bakula (Jim Olmeyer), Sam Robards (Jim Berkley),
Barry Del Sherman (Brad Dupree)
Crediti: montaggio, Tariq Anwar e Chris Greenbury; musiche, Thomas Newman;
scenografie, Naomi Shohan
Prodotto: Stati Uniti: Dreamworks Pictures Jinks-Cohen Company, 1999
Distribuito: Italia: Dream Works Home Entertainment, c1999
Trama:
Lester Burnham è un uomo di mezza età che conduce un'esistenza mediocre ed
incolore in compagnia della moglie Carolyn, agente immobiliare schiava delle sue
insicurezze e del culto dell'apparenza, e della figlia Jane, adolescente
problematica alla ricerca di un senso da dare alla sua vita. Lester, inoltre, rischia di
essere licenziato dalla ditta di pubblicità nella quale lavora a causa di esuberi di
posti. Andando a vedere Jane che si esibisce come ragazza pon-pon per la
squadra di basket della scuola, Lester rimane conquistato dall'accattivante Angela,
l'amica della figlia, una ragazza pienamente conscia della sua bellezza e del suo
sex-appeal: per Lester l'incontro è una rivelazione che lo induce a migliorare la
forma fisica per apparire affascinante agli occhi della ragazza. Lester, durante una
festa in cui la moglie incontra Buddy Kane - il re degli agenti immobiliari -, conosce
Ricky, il suo nuovo vicino di casa, figlio di un rigido colonnello dei marines. Ricky,
che è innamorato di Jane al punto da riprenderla costantemente con una
videocamera, diventa il fornitore di spinelli di Lester, attività che il ragazzo svolge
per potersi pagare la passione per l'audiovisivo. L'uomo, sempre più convinto di
dover cambiare vita, fa in modo di essere licenziato, ma riesce ad ottenere una
lauta liquidazione ricattando il suo superiore, e si impiega come commesso di un
fast-food, come aveva fatto in gioventù. Mentre sta servendo nel locale, l'uomo
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sorprende Carolyn e Buddy in teneri atteggiamenti, ma la cosa non sembra
disturbarlo più di tanto: è soltanto la conferma che il suo desiderio di riprendere a
vivere fuori da un'esistenza vuota e grigia è la decisione giusta. Mentre Jane
risulta disgustata dall'atteggiamento del genitore di apparire affascinante nei
confronti di Angela, l'austero padre di Ricky, a causa di un equivoco, pensa che gli
appuntamenti che il figlio e Lester si danno per la vendita di spinelli siano dei
convegni carnali in cui il ragazzo vende il suo corpo. Il colonnello Fitts, dopo aver
picchiato il figlio, si reca da Lester e, disperato, cerca di baciarlo, ma Lester lo
allontana, recandosi in casa, dove trova Angela. I due hanno un approccio, ma
quando Lester scopre che per la ragazza, contrariamente alle apparenze, sarebbe
la prima volta, si ritrae teneramente. Ma intanto nell'abitazione è giunto il
colonnello Fitts, che uccide a sangue freddo il povero Lester.
Parole chiave: Adolesenti – Adolescenti femmine − Devianza − Disagio −
Genitori − Rapporti − Sessualità
Soggetto: Adolescenti − Devianza e disagio
Soggetto: Adolescenti − Rapporti con i genitori
Soggetto: Adolescenti femmine − Sessualità
SCHEDA CRITICA
Atto d’accusa nei confronti del perbenismo e delle apparenze che allignano nella
middle class americana, stigmatizzazione di una generazione di padri imbelli, di
madri senza pulsioni, di una società senza etica, con valori falsi ed artefatti,
narcisista, vigliacca, repressa e falsamente disciplinata, edonista ed arrivista.
American Beauty è tutto questo, certamente, ma è anche, e in certi casi
soprattutto, altro. Un divertente prodotto citazionista, tanto per iniziare, con la voce
di Lester Burnham che replica modalità, convenzioni e struttura della stessa voce
mortuaria di Joe Gillis/William Holden in Viale del tramonto di Billy Wilder (1950), il
quale narrava la vicenda che lo vedeva vittima predestinata mentre giaceva inerte
sulla superficie di una piscina. La voce di Lester Burnham parte tuttavia da una
visualizzazione differente, dalla descrizione del suo laccato e perfetto quartiere,
rigorosa immagine di serafica tranquillità borghese, per la quale le beghe
rimangono nell’alveo dell’irrisolto, del frustrato e del rigorosamente non-esternato.
Lester rispetto a Joe Gillis ha però una consapevolezza in più: mentre il
personaggio di Wilder, sceneggiatore disoccupato, coltivava una speranza di vita
che grottescamente risultava destinata ad infrangersi contro il muro
dell’impossibilità drammatica, Lester può narrare tranquillamente la sua storia,
senza alcun problema di verosimiglianza, perché si segnala fin dall’inizio come un
personaggio morto.
“(…) Sarebbe molto bello essere importante per lui. (…) Mi crea dei danni
psicologici notevoli, credimi…anch’io ho bisogno di struttura, di un po’ di
disciplina…Come potrebbe non danneggiarmi? Mi serve un padre che mi faccia
da modello, non un ragazzino arrapato che spruzza nelle mutande quando porto
un’amica a casa dopo la scuola…che schiappa. Qualcuno dovrebbe aiutarlo a
smettere di soffrire”. Con queste parole Jane, la figlia di Lester, segnala quali
siano le colpe di un padre che, per utilizzare la sua stessa terminologia, è stato in
coma per vent’anni senza alcun impulso vitale, ovvero non ha vissuto, si è chiuso
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in un mondo fatto di apparenza. Accortosi tardi del suo sopore, Lester cerca nella
provocante ragazzina amica della figlia il ritorno a quella giovinezza che ha saltato
a piè pari per entrare direttamente nel claustrofobico mondo borghese, fatto di
apparenze e puro conformismo; la figlia cerca in Ricky quella sicurezza e
quell’affetto che il padre non è in grado di fornirle. Lester e Jane, legati dal
sangue, ma divisi dalle intenzioni. Lester sa che la figlia lo detesta e cerca, in
qualche modo, di riportare la ragazza sulla strada del dialogo. Ma lo fa in modo
grossolano, non del tutto convinto, da inetto quale è, vanificando tutto nello
squallido tentativo di apparire energico e ammaliante nei confronti di Angela. Jane,
complessata anche nel raffronto con Angela, in apparenza molto sicura di sé e
conscia del fascino che emana, si sente talmente trascurata dal padre da pensare
addirittura che l’unica soluzione possibile sia quella di eliminarlo. Se l’inflessibile
colonnello Fitts educa Ricky attraverso una robusta disciplina fatta di domande
alle quali bisogna dare una risposta standard (come nel momento in cui Ricky è
costretto a dire che gli omosessuali lo disgustano), sonore battute a scopo
punitivo, internamenti coatti (Ricky, anni prima, era stato ricoverato in una casa di
cura perché autore di una rissa dopo essere stato sorpreso dal padre a fumare
cannabis ed aver subito un’umiliante punizione) e spersonalizzazione (la madre di
Ricky, totalmente alienata dal mondo circostante), Jane, di contro, sente il bisogno
almeno di una parvenza di struttura che Lester non offre nemmeno nei suoi
caratteri essenziali. La verità, aristotelicamente, sta nel mezzo, ma la generazione
dei padri è totalmente incapace di qualunque tipo coerente di educazione. Anzi,
tenta addirittura di approfittare di un’altra fetta di adolescenza, quella che, a tutta
prima, sembra meno problematica, perché meno complessata, più superba e fiera
del suo essere, sicura delle proprie caratteristiche. Ma solo apparentemente.
Angela è l’immagine di questo tipo di adolescenza non meno inquieta di quella
rappresentata da Jane: mostra una maschera di sicurezza quasi inibitoria anche
rispetto agli adulti, salvo poi far cadere lo schermo nel momento topico, quando
tutto l’inevitabile corredo di insicurezze deve necessariamente venire a galla a
causa della scarsa esperienza nelle cose della vita. La millanteria provoca un
istinto di tenerezza nella generazione dei padri imbelli. Ma è l’ultimo sussulto:
dopo c’è solo la morte.
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Beautiful thing
Commedia
Regista: Mac Donald, Hettie
Autore del soggetto: Harvey, Jonathan
Sceneggiatore: Harvey, Jonathan
Produttore: Garnett, Tony
Produttore: Shapter, Bill
Fotografia: Seager, Chris
Montaggio: Fairservice, Don
Musiche: Altman, John
Film per tutti
Soggetto tratto dal testo teatrale Beautiful thing, di Jonathan Harvey
Cast: Linda Henry (Sandra Gangel), Glen Berry (Jamie Gangel), Scott Neal (Ste
Pearce), Ben Daniels (Tony), Tameka Empson (Leah), Garry Cooper (Ronnie
Pearce), Daniel Bowers (Trevor Pearce), Jeillo Edward (Rose), Andrew Fraser
(Jayson), John Savage (Lenny), Terry Duggan (Kevin), Anna Karen (Marlene),
Sophie Stanton (Louise).
Crediti: montaggio, Don Fairservice; musiche, John Altman; scenografie, Mark
Stevenson.
Prodotto: Gran Bretagna: Channel Four Films World Productions, 1996.
Distribuito: Italia: Lucky Red Home Video, 1996.
Trama
Jamie è un adolescente deriso dai suoi compagni di scuola per la sua riservatezza
e per la presunta scarsa virilità. Jamie abita con la madre Sandra nel quartiere di
Thamesmead, periferia di Londra. Suoi vicini di casa sono Ste, meglio integrato di
Jamie nei giochi dei coetanei, ma vessato dal padre alcolista e dal fratello
spacciatore e Leah, stravagante ragazza, pungente e dedita al culto maniacale di
Mama Cass, la corpulenta cantante del gruppo californiano dei Mamas and
Papas. La vita sul ballatoio dell'abitazione procede sempre uguale ogni giorno che
passa, ma una notte, maltrattato più del solito dal fratello Trevor, Ste decide di non
far ritorno a casa. Incontrato e consolato da Sandra, di ritorno dal lavoro in un pub,
Ste passa la notte nella stanza di Jamie: è l'inizio di una conoscenza sempre più
sensibile che porterà i due ragazzi ad innamorarsi e a vivere quotidianamente il
loro sentimento, nonostante la paura che parenti e amici possano scoprire la loro
unione. Un giorno Sandra riceve una telefonata da un'insegnante che l'avvisa del
fatto che Jamie continua ad essere oggetto di beffe da parte dei compagni di
classe. La donna fruga nello zaino del figlio e legge sui quaderni ignobili offese
rivoltegli a causa della sua omosessualità. Lo segue e vede che con Ste si reca in
un noto locale gay. Al ritorno di Jamie, Sandra lo affronta a muso duro, ma
nonostante l'estremo turbamento causato dalla scoperta, capisce le motivazioni e
consola sia il figlio sia Ste, i quali ora possono mostrare apertamente il loro
sentimento con un ballo nel cortile, sotto lo sguardo di tutto il vicinato.
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Parole chiave:
Adolescenti maschi – Coetanei – Familiari – Maltrattamento – Omosessuali –
Rapporti – Sessualità – Violenza su adolescenti
Soggetto: Adolescenti maschi – Sessualità
Soggetto: Familiari – Violenza su adolescenti
Soggetto: Omosessuali – Adolescenti maschi – Maltrattamento da parte dei
coetanei
SCHEDA CRITICA
Beautiful Thing, la cosa bella che caratterizza il titolo, altro non è che la tenerezza
del sentimento amoroso, che la regista teatrale Hettie MacDonald mette in scena
partendo da una commedia di Jonathan Harvey. Il tono è simpaticamente
minimalista. La quotidianità di Thamesmaed, quartiere a sud-est di Londra, è resa
tramite piccoli e grotteschi squallori che vanno dal linguaggio scurrile di Sandra
(capace di passare da momenti di grande tenerezza ad altri in cui pare
assolutamente insensibile e volgare), alle malignità di Leah (che arriva ad
accusare Sandra di aver abortito volontariamente soltanto per allontanarla da
Tony, l’amante della donna), alle brutture domestiche di cui si fanno portatori
Ronnie e Trevor Pearce, rispettivamente il padre alcolista e il brutale fratello di
Ste, allo scherno costante e feroce cui i coetanei sottopongono la presunta
omosessualità di Jamie. In questo contesto spersonalizzante ognuno cerca la sua
piena dimensione. La cerca nel passato Leah, che sente sul suo corpo le
vibrazioni di Mama Cass, l’ipertrofica cantante dei Mamas and Papas, al punto da
pensare di essersi addirittura trasformata nella sua icona dopo un’abbondante
assunzione di sostanze stupefacenti; la cerca nella gratificazione personale
Sandra, che aspira ad una licenza per gestire direttamente un pub mentre
conduce un rapporto monotono con Tony, più giovane di lei di una decina di anni;
e la cercano Jamie e Ste. Jamie ha già preso coscienza della sua omosessualità:
odia il calcio – e questo per i suoi compagni è già esplicita ammissione di diversità
(nella prima sequenza del film fugge aldilà della rete di recinzione che delimita
metaforicamente il campo di calcio e la considerazione che la società comune ha
della normalità) – ama leggere i giornali femminili – Hello! – che sottrae alla
madre, guarda con timido ma malcelato desiderio Ste, si adopera per far
comprendere all’amico il sentimento che nutre nei suoi confronti fissandolo e
chiedendogli di potergli spalmare l’unguento alla menta piperita sulle ecchimosi
procurategli dalla cieca ed irrazionale violenza dei suoi congiunti. Jamie è
consapevole, Ste ancora non sa. Quello cui si assiste nel caso di Ste è una sorta
di educazione sentimentale che permetterà progressivamente al ragazzo di
prendere coscienza della sua vera personalità, nonostante le comprensibili
resistenze di partenza. L’inizio di questo percorso vede Ste in uno stato di
sottomissione cui non può sottrarsi, costretto a salutare sbrigativamente, nel
ballatoio in comune, gli amici Jamie e Leah (e con loro la spensieratezza propria
della sua età) e correre a casa a preparare una cena a base di patate e cavoli per
il padre e per il fratello. Prima di raggiungere l’epilogo di una nuova
consapevolezza, rappresentato dalla scena – che sa tanto di captatio
benevolentiae – del tenero ed esplicito ballo tra Jamie e Ste, in mezzo alla
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trafficata strada del quartiere di Thamesmea per esternare orgogliosamente la
propria sessualità, il ragazzo vive l’angoscia di un’identità che pensava di
conoscere (sono molti i momenti in cui Ste rifiuta la tenera compagnia di Jamie) e
si dimostra tutt’altro, vive la paura che i disumani familiari possano apprendere la
voce che circola e rivalersi sul povero Ste (in questo caso è l’eccentrica Leah a
salvare Ste dall’essere battuto, dicendo a Trevor che il fratello ha dormito sul
divano e non nel letto di Jamie), vive l’ansia per una situazione che cambia
radicalmente e che non consente ripensamenti. È dunque il ‘viaggio’ di Ste a
essere il più difficile e irto di ostacoli. Tuttavia la MacDonald tratta la storia di
Jamie e Ste con le caratteristiche di una normale vicenda sentimentale, senza
darle impronte di diversità o eccentricità. I due ragazzi si comportano come
normali innamorati: la rincorsa ingenua e folle nel bosco dopo essere usciti dal
locale gay, il bacio prolungato in mezzo alla vegetazione, i pianti, i tremori nel
momento in cui i due giovani scoprono nel letto di Jamie l’attrazione reciproca, la
fugacità degli sguardi carichi di interesse, la scena in cui Ste, dopo aver accettato i
soldi che Sandra gli ha offerto affinché compri un regalo alla ragazza di cui la
donna crede sia innamorato, offre un cappello di lana a Jamie, una sorta di
«regalo di fidanzamento», come dice quest’ultimo. L’amore non ha sesso e non ha
età per l’accoppiata Harvey/MacDonald, serve solo per vivere meglio.
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Billy Elliot
Commedia
Regista: Daldry, Stephen
Autore del soggetto: Hall, Lee
Sceneggiatore: Hall, Lee
Produttore: Brenman, Greg
Produttore: Finn, John
Fotografia: Tufano, Brian
Montaggio: Wilson, John
Musiche: Warbeck, Stephen
Film per tutti
Cast: Jamie Bell (Billy Elliot), Julie Walters (Mrs. Wilkinson), Gary Lewis (Jackie
Elliot), Stuart Wells (Michael), Janine Birkett (la madre di Billy), Colin MacLachlan
(Mr. Wilkinson), Jamie Draven (Tony Elliot), Jean Heywood (la nonna di Billy),
Mike Elliot (George Watson), Nicola Blackwell (Debbie Wilkinson).
Crediti: montaggio, John Wilson; musiche, Stephen Warbeck; scenografie, Maria
Djurkovich.
Premi e riconoscimenti: Candidature Oscar 2001 per la miglior regia, la miglior
sceneggiatura non originale ed a Julie Walters come miglior attrice non
protagonista.
Prodotto: Gran Bretagna, Arts Council of England BBC Films Studio Canal Tiger
Aspect Working Title Films WT2, 2000.
Distribuito: Italia, Universal Video, 2000.
Trama
Sullo sfondo delle lotte sindacali che a metà degli anni Ottanta coinvolsero i
lavoratori delle miniere di Durham in Gran Bretagna, il film narra la storia di Billy undici anni, orfano di madre e figlio di un minatore in sciopero - che scopre la
passione per la danza. Billy intraprende un durissimo allenamento per essere
ammesso alla prestigiosa Royal Ballet School di Londra, incoraggiato da Mrs
Wilkinson, la sua insegnante di danza e da Michael, un suo compagno di scuola
con tendenze omosessuali, ma osteggiato dal padre che lo vorrebbe boxeur.
Quest'ultimo, tuttavia, dopo aver assistito per caso a un allenamento del figlio,
decide di sostenerlo facendosi aiutare dai suoi colleghi in sciopero che
organizzano una colletta per pagare il viaggio nella capitale. Billy supererà
l'esame, ma il suo momento di gloria sarà eclissato dal coincidere con la fine dello
sciopero e la resa dei lavoratori alle decisioni del governo. Diversi anni dopo
ritroviamo il protagonista, ormai adulto, étolie nel Lago dei cigni al Covent Garden
di Londra.
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Parole chiave:
1980-1990 – Amicizia – Aspirazioni – Danzatori – Figli preadolescenti – Gran
Bretagna – Motivazioni – Omosessualità – Padri – Preadolescenti –
Preadolescenti maschi – Pregiudizi – Rapporti – Società
Soggetto: Danzatori – Preadolescenti maschi – Aspirazioni e motivazioni –
Gran Bretagna – 1980-1990 – Omosessualità – Pregiudizi della società –
Amicizia
SCHEDA CRITICA
L’elemento che colpisce maggiormente e che più fa riflettere in Billy Elliot è
sicuramente lo stridente contrasto tra le circostanze storico-sociali che fanno da
sfondo alla vicenda e il desiderio del protagonista, un sogno davvero fuori del
comune per un ragazzino cresciuto in un anonimo villaggio di minatori. Il passo dal
pugilato alla danza classica non può apparire più lungo se non si tiene conto che,
una delle doti migliori per un boxeur è il gioco di gambe, quella capacità di sottrarsi
e schivare prima di tutto i colpi dell’avversario per poi colpirlo. E proprio questa
sembra essere la volontà del giovane protagonista e di coloro che, intuito il suo
talento, decidono di aiutarlo: permettergli di sottrarsi a una triste realtà che lo
vedrebbe obbligato, di lì a poco, a seguire le orme del padre e del fratello
maggiore nelle viscere della terra a estrarre carbone e a scioperare per difendere
il posto di lavoro messo a repentaglio dalla politica del governo conservatore di
Margaret Thatcher. La palestra di pugilato, che inizialmente Billy frequenta con
pessimi risultati, è una sorta di allenamento per gli scontri di piazza che i giovani,
una volta divenuti minatori, dovranno affrontare. E infatti nel corso del film si
alternano sapientemente scene di violente colluttazioni tra polizia e dimostranti a
scene in cui il protagonista, guidato dall’insegnante, si esercita a eseguire
spaccate e piroette: è una conferma del profondo rapporto dialettico esistente tra il
tema della contrapposizione violenta, fisica, brutale con la vita e quello del
desiderio di elevarsi al di sopra di essa, la volontà di non rimanerne schiacciato.
Ma per una fatale coincidenza è proprio grazie allo sciopero in atto nelle miniere –
la scuola di danza classica è costretta a dividere la palestra con quella di boxe a
causa dell’occupazione di alcuni locali da parte degli scioperanti – che Billy potrà
scoprire una realtà diversa dalla cruda quotidianità che lo circonda: una realtà non
meno dura e faticosa, che dovrà difendere soprattutto dai pregiudizi degli altri.
Pregiudizi, questi, che il protagonista dapprima teme e tenta di evitare tenendo
nascosta la sua passione, ma che poi decide di ignorare, riuscendo a trasformare
la danza in un momento di riscatto per tutti coloro che, come suo padre e suo
fratello, lottano per una condizione migliore. In un ambiente come quello dei rudi
minatori della contea di Durham è logico che la danza sia vista come un’attività
adatta solo alle donne e ai gay e certamente non è un caso se il migliore amico
del protagonista è proprio Michael, un ragazzino dalle malcelate tendenze
omosessuali che ama indossare gli abiti della sorella e sogna di danzare con Billy
vestendo il tutù. È il tema della diversità – che in una società come quella del
proletariato di provincia assume toni essenzialmente maschilisti – che trova
nell’amicizia tra i due ragazzini un ulteriore momento di affermazione nel finale del
film. Qui ritroviamo, infatti, Michael, oramai cresciuto, vestito da donna, seduto
tranquillamente in platea al Covent Garden, a fianco del fratello maggiore e del
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padre di Billy, mentre assiste alla rappresentazione del Lago dei cigni interpretata
dal protagonista, a questo punto divenuto una celebrità. Forse è proprio grazie
all’esempio dato da Billy se Michael è uscito allo scoperto e ha dichiarato
apertamente la propria identità sessuale, e se i due rudi minatori possono
accettare serenamente la diversità del ragazzo.
Billy Elliot appartiene a una recente ondata di film prodotti oltremanica che, sulla
scia del Free Cinema, un movimento nato durante gli anni Sessanta e portatore di
una ventata di novità e freschezza nel cinema inglese, hanno riportato
all’attenzione del grande pubblico storie e personaggi appartenenti alla cosiddetta
working class. Come già era avvenuto con Full Monty di Peter Cattaneo (1998), il
grande successo della pellicola, vero caso dell’anno, è probabilmente dovuto alla
mescolanza di due toni drammatici apparentemente opposti come la commedia e
il melodramma (grazie ai quali è possibile affrontare lo sfondo sociale della storia
senza approfondire troppo il discorso), all’uso accattivante di una colonna sonora
che riprende una serie di motivi pop-rock di grande successo utilizzandoli in
funzione diegetica – ovvero non solo come semplice commento delle azioni dei
personaggi ma come sottofondo della loro ‘vita’ – nonché a un’innegabile abilità
nell’orchestrazione della sceneggiatura e nell’uso della macchina da presa
(apprezzabili per sapienza tecnica è, a tal proposito, la sequenza
dell’inseguimento del fratello di Billy da parte dei poliziotti). Abilità che permette il
contagio del buon umore, l’indissolubile aderenza dello spettatore con la storia di
questo ragazzino.
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Bowling a Columbine
Documentario
Regista: Moore, Michael
Autore del soggetto: Moore, Michael
Sceneggiatore: Moore, Michael
Produttore: Moore, Michael
Produttore: Glynn, Kathleen
Produttore: Czarnecki, Jim
Fotografia: Danitz, Brian
Fotografia: McDonough, Michael
Montaggio: Engfehr, Kurt
Musiche: Gibbs, Jeff Musiche: Golden, Bob
Film per tutti
Cast: Michael Moore (se stesso), Denise Ames (ragazza con la pistola), George
W. Bush (se stesso), Dick Cheney (se stesso), Dick Clark (se stesso), Bill Clinton
(se stesso), Barry Glassner (se stesso), Charlton Heston (se stesso), Marylin
Manson (se stesso), Trey Parker (se stesso), Chris Rock (se stesso), Matt Stone
(se stesso)
Crediti:
montaggio,
Kurt
Engfehr;
musiche,
Jeff
Gibbs
e
Bob
Golden
Distribuito: Italia : Cecchi Gori Home Video
Trama
Il documentarista Michael Moore, prendendo spunto dalla strage del liceo
Colombine di Littleton, Colorado, in cui, il 27 aprile del 1999, due ragazzi
spararono sui loro compagni di classe uccidendo dodici studenti e un'insegnante,
si interroga sulla violenza insita nella società americana e sulla facilità
nell'acquistare armi da fuoco. Moore vaga per gli Stati Uniti in cerca di soggetti da
intervistare per la sua inchiesta, cercando di far entrare in contraddizione gli
individui interpellati: il documentario diventa quindi una sorta di lungo campionario
di varia umanità nel quale si evidenzia come gli Usa soffrano di una pericolosa
paranoia che li vorrebbe perennemente preda di minacce di varia provenienza.
L'indagine porta Moore, in un abile crescendo che sa tanto di fiction calibrata su
tonalità progressive, a confrontarsi con Charlton Heston nella lussuosa villa di
questo: l'attore hollywoodiano è ora il testimonial più accreditato della National
Rifle Association (l'associazione che si occupa della diffusione delle armi ad uso
domestico) e Moore riesce a metterlo a confronto con le stragi che la politica di
armamento capillare e indiscriminato ha prodotto. Heston non controbatte, ma
lascia Moore e se ne va nelle sue stanze, dimostrando l'impossibilità di una
risposta coerente e chiarificatrice.
Parole chiave:
Adolescenti − Armi − Bambini − Commercio − Disagio − Littletonn −
Preadolescenti − Ruolo − Scuole medie superiori − Stati Uniti d'America −
Studenti − Suicidio − uso violenza
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Soggetto: Armi − Commercio − Stati Uniti d'America
Soggetto: Armi − Uso da parte di bambini e adolescenti − Stati Uniti
d'America
Soggetto: Disagio − Littleton − 1999
Soggetto: Scuole medie superiori − Studenti − Littleton − 1999
Soggetto: Suicidio − Littleton − 1999
Soggetto: Violenza da parte degli studenti delle scuole medie superiori −
Littleton
−
1999
Soggetto: Violenza da parte dei preadolescenti e degli adolescenti − Ruolo
del commercio delle armi − Littleton − 1999
Scheda critica
Michael Moore è uno dei documentaristi più attivi e schierati degli Stati Uniti, un
fustigatore dei vari malcostumi che allignano nel paese a stelle e strisce. Bowling
for Colombine è soltanto la punta di un iceberg nell’attività di Moore, il suo
documento più celebre e più premiato (Premio della Giuria a Cannes e Oscar per
il miglior documentario), ma l’attività del regista non è nata certo nel 2002 con
l’analisi della strage degli studenti della Colombine High School di Littleton,
Colorado: già nel 1989, con Roger & Me, Moore aveva fornito il suo personale
resoconto della crisi che nel suo paese natale aveva portato la General Motors a
licenziare ben trentamila operai con la chiusura di undici stabilimenti. Durante gli
anni, Moore ha mostrato sempre un impegno costante nello svelare le enormi
contraddizioni presenti negli Stati Uniti, utilizzando nei suoi documentari una
progressione narrativa quasi da fiction: l’indagine parte da un evento di grande
rilevanza per ascoltare testimonianze sull’accaduto e su altri eventi ad esso
concettualmente connessi. La situazione di partenza allarga il proprio orizzonte
per contemplare un quadro globale più vasto, in grado di chiarire maggiormente
tutte le problematiche esistenti intorno alla questione originaria: la narrazione
condotta da Moore – che compare come indagatore/intervistatore – si avvia quindi
progressivamente ad un incontro finale, perseguito con la ferma intenzione di
dimostrare direttamente le sproporzioni insite nel problema dibattuto. In Bowling
for Colombine le interviste a vasto raggio di Moore giungono fino a Charlton
Heston, ma l’ex icona del cinema hollywoodiano, che ha sposato la causa della
libera diffusione delle armi da fuoco, davanti alle foto delle vittime esita e non
risponde.
Tutto sembra apparentemente partire il funesto 27 aprile 1999, quando in un liceo
del Colorado, la Colombine High School di Littleton, due ragazzi cominciarono a
sparare all’impazzata nei confronti dei loro compagni di scuola. Il bilancio fu
tragico: dodici studenti e un insegnante persero la vita, mentre i due ragazzi, finita
la cieca mattanza, decisero di porre fine alla loro vita sparandosi. La polizia, una
volta giunta sul luogo della strage, conterà decine di feriti e circa novecento
bossoli sparsi sul pavimento. Qualche mese dopo, nel Michigan, un bambino di sei
anni, lasciato spesso solo dalla madre vittima di turni di lavoro massacranti,
s’impadronisce della pistola dello zio, entra in classe e uccide la sua compagna di
banco. Da questi drammatici fatti di cronaca parte l’indagine di Michael Moore. Il
regista si domanda ed intende chiedere alle persone intervistate come mai negli
Stati Uniti in un solo anno si verifichino undicimila vittime a causa delle armi da
fuoco, mentre nel vicino Canada – paese in cui circola un numero di armi da fuoco
non inferiore agli Stati Uniti – i deceduti siano soltanto centosessantacinque. I talk
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show americani insistono sulla degenerazione culturale giovanile e l’opinione
pubblica si adegua al luogo comune: bullismo adolescenziale, influenza nefasta
dei videogiochi ritenuti troppo violenti e alienanti, addirittura il bowling come
fomentatore di violenza (il titolo stesso del film si riferisce al luogo in cui i due
ragazzi responsabili della strage avevano passato la mattinata prima di decidere di
passare all’azione). E ancora: i cantanti rock che sollecitano all’azione stragista (il
regista intervista uno dei cantanti ritenuti maggiormente responsabili, Marilyn
Manson, il quale, a dispetto dell’aspetto poco raccomandabile, si esprime con
stupefacente lucidità e straordinaria pacatezza sul problema), la droga che
ottenebra la menti, l’alcool che le deforma, i genitori incapaci di dialogare
costruttivamente con i figli, l’assenza di metal detector all’ingresso delle scuole
ecc. Moore ascolta le motivazioni di tutti con estrema attenzione, ma fa in modo
che le contraddizioni emergano in modo quasi naturale, grazie anche al sapiente
uso del montaggio: vedere le immagini in cui Bill Clinton annuncia il
bombardamento del Kosovo per garantire la libertà e la pacifica esistenza,
assistere alle grottesche esercitazioni della milizia volontaria del Michigan per
assicurarsi la difesa da un non ben identificato nemico, sentire Charlton Heston
che invita i normali cittadini ad armarsi per la difesa personale in un mondo nel
quale la minaccia per l’incolumità individuale è costante, sono le armi di cui si
serve il documentarista per affrontare il discorso della violenza americana e di una
paranoia strisciante che affonda le sue radici nel bisogno di un nemico –
qualunque esso sia – per affermare l’identità del Paese. Le risposte relative alle
colpe della musica rock, della droga, dei videogames, del mancato dialogo tra
genitori e figli sono solo aspetti contingenti di un problema più vasto e
sociologicamente più drammatico e capillare: chiunque negli Stati Uniti, anche un
minorenne, può acquistare un’arma (come dimostra inevitabilmente la
testimonianza del ragazzo che ha costruito domesticamente una bomba di venti
chili utilizzando il napalm), di conseguenza il problema s’indirizza a tutta una
cultura e a una mentalità pronta ad armarsi per difendersi dalle proprie paure e
dalle personali idiosincrasie. In tutto questo l’adolescenza violenta è solo un
semplice aspetto di un problema molto più vasto e di non facile soluzione, finché ci
saranno le potenti lobbies delle industrie di armi a gestire fette considerevoli del
potere economico e politico americano.
Il tragico tema delle stragi nelle scuole ha motivato recentemente altre due
pellicole, una delle quali ha anche vinto il Festival di Cannes del 2003. Elephant
del regista di Portland Gus Van Sant, infatti, parte dalla nefasta influenza del caso
del liceo Colombine per generalizzare l’assunto e narrare la giornata di diversi
studenti all’interno della scuola nelle ore che precedono l’improvviso e immotivato
massacro. Van Sant non cerca giustificazioni sociologiche e non intende indagare
nel dettaglio come invece fa Michael Moore, ma illustra l’evento con una freddezza
e un distacco fenomenologici, atti a sottolineare l’evento come un drammatico
dato di fatto, come una sorta di incubo imprevisto ed annichilente. Sulla stessa
falsariga di Elephant si pone il film del regista tedesco Uwe Boll Heart of America
(2003). Meno noto della pellicola omologa di Van Sant premiata a Cannes, il film
di Boll utilizza lo stesso efferato tema della strage in un liceo per riflettere sulla
possibile violenza nelle scuole e sulla degenerazione della mentalità giovanile. Tali
pellicole possono inserirsi nell’ambito di una riflessione che prenda in esame fatti
di cronaca e modalità narrative atte ad illustrare il tema della violenza presente
nelle scuole americane.
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Caterina va in città
Commedia
Regista: Virzì, Paolo
Autore del soggetto: Virzì, Paolo
Autore del soggetto: Bruni, Francesco
Sceneggiatore: Virzì, Paolo
Sceneggiatore: Bruni, Francesco
Produttore: Virzì, Paolo
Produttore: De Laurentiis, Guido
Fotografia: Catinari, Arnaldo
Montaggio: Zanuso, Cecilia
Musiche: Virzì, Paolo
Scenografie: Zera, Tonino
Film per tutti
Cast: Alice Teghil (Caterina), Sergio Castellitto (Giancarlo Iacovoni), Margherita
Buy (Agata Iacovoni), Claudio Amendola (Manlio Germano), Flavio Bucci (Lorenzo
Rossi Chaillet), Galatea Ranzi (Livia, madre di Margherita), Antonio Carnevale
(Cesarino), Paola Tiziana Cruciani (zia Marisa), Zach Wallen (Edward), Silvio
Vannucci (Fabietto Cruciali), Emanuele Aiello (Mirko), Ottavia Virzì (Zecca),
Federica Sbrenna (Daniela Germano), Carolina Iaquaniello (Margherita Rossi
Chaillet) Martino Reviglio (Gianfilippo), Luigi Grilli (zio Alfredo), Tereza Paula De
Rosa (Teresa), Margherita Mazzola (Martina), Martina Tasquetta (Alessia), Giulia
Goretti (Giada), Giacomo Rivera (zecca rasta), Riccardo Morra (zecca Gaber),
Leo Cappelletto (piccoletto vispo), Carola Di Mambro (pariola), Giuditta Avossa
(altra pariola), Marina Benetti (precisa), Lorenza Tedesco (precisona),Beatrice
Nalin (precisina), Chadlee Dasalla (orientale), Filippo Festuccia (pariolo), Raffaele
Vanoli (Marcello l'autista).
Crediti: montaggio, Federica Minetti e Cecilia Zanuso; musiche, Paolo Virzì;
scenografia, Tonino Zera.
Premi e riconoscimenti: David di Donatello 2004 per la migliore attrice non
protagonista a Margerita Buy; Nastro d'argento 2004 a Margherita Buy come
miglior attrice non protagonista; premio Guglielmo Biraghi 2004 a Alice Teghil.
Prodotto: Italia: Cattleya Rai Cinema in collaborazione con Sky, 2003, Italia.
Trama
Caterina Iacovoni, tredici anni, appassionata di musica classica - è una valente
corista - si trasferisce a Roma dalla provincia quando suo padre Giancarlo,
insegnante di liceo, ottiene una cattedra in una scuola romana. Le aspettative di
Giancarlo, docente frustrato e dalle molte ambizioni fallite, sono altissime: la
Capitale, per lui, costretto per anni a risiedere in un piccolo centro del viterbese,
rappresenta un mondo di possibilità fino ad allora precluse.
Per Caterina, pur incuriosita dalla novità, il cambiamento è decisamente
traumatico: iscritta in uno dei più prestigiosi licei romani si ritrova in una classe
dove dominano due fazioni rivali capeggiate da altrettante coetanee. La sua
ingenuità conquista dapprima Margherita, figlia di due intellettuali di sinistra, che la
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coinvolge in iniziative politiche e culturali ma che poi, in seguito ad un malinteso, la
allontana dal gruppo, e poi Daniela, figlia di un parlamentare di destra, che la
introduce nell'ambiente della Roma – bene iniziandola ai suoi rituali (shopping,
feste, flirt con ragazzi più grandi).
Ma anche questo idillio ben presto finisce e con penose conseguenze: a scuola,
Margherita aggredisce Daniela, che ha pesantemente apostrofato Caterina,
provocando una vera e propria rissa e, di conseguenza, la convocazione dei
genitori da parte del preside Giancarlo, che fino a quel momento aveva tentato
goffamente di inserirsi negli ambienti frequentati dalla figlia (prima proponendosi
come scrittore alla madre di Margherita, poi come autore televisivo al padre di
Daniela), si ritrova faccia a faccia con i padri delle compagne di classe.
La visione dei due che si stringono la mano ignorandolo completamente, provoca
in Giancarlo un esaurimento nervoso che lo allontanerà progressivamente dal suo
lavoro e dalla famiglia, spingendolo a una vita nomade e solitaria. Caterina e la
madre si riorganizzeranno, anche a partire dal piccolo successo personale della
ragazzina che, nel frattempo, è riuscita ad entrare come corista al Conservatorio.
Parole chiave:
Adolescenti – Adolescenti femmine – Ambiente familiare – Ambiente
scolastico – Ambiente sociale – Bullismo – Figli adolescenti – Genitori –
Identità – Influsso – Partecipazione politica – Personalità – Rapporti – Roma
– Ruolo – Sviluppo
Soggetto: Adolescenti – Partecipazione politica – Roma
Soggetto: Adolescenti – Personalità – Sviluppo – Influsso dell’ambiente
familiare e dell’ambiente sociale – Roma
Soggetto: Adolescenti femmine – Bullismo – Roma
Soggetto: Adolescenti femmine – Identità – Sviluppo – Ruolo dell’ambiente
scolastico – Roma
Soggetto: Figli adolescenti – Rapporti con i genitori − Roma
SCHEDA CRITICA
Per tentare di classificare il suo cinema sono stati addirittura tirati in ballo i film
della commedia all’italiana, quelli che, nel corso degli anni Sessanta riuscirono a
dare del Belpaese un ritratto paradossale e grottesco ma, in fondo, aderente alla
realtà sociale del tempo. Paolo Virzì, attraverso cinque o sei film ha tentato di fare
più o meno la stessa cosa: fissare tramite l’individuazione di “tipi” sociali, morali e
politici – che fossero al tempo stesso tipi comici – la situazione dell’Italia degli
ultimi dieci anni, quella della cosiddetta Seconda Repubblica. Con Caterina va in
città Virzì, sia pure in maniera indiretta (ovvero stigmatizzando attraverso le sue
giovanissime protagoniste i vizi e le virtù degli adulti), va proprio al cuore del
problema e traccia un identikit delle principali caratteristiche della cosiddetta Italia
del maggioritario (il sistema elettorale introdotto all’indomani di Tangentopoli
basato sul bipolarismo).
Fin dal suo film d’esordio – La bella vita (1994) – Virzì, livornese d’origine, si era
sempre tenuto lontano da Roma, sede proprio di quel potere politico, preferendo
ambientare le sue storie, politicamente impegnate (e soprattutto schierate), in
provincia, dando tuttavia ad intendere in più occasioni di puntare ad una messa in
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scena di situazioni che riflettevano – sia pur “in sedicesimo” – una condizione
generalizzata del Paese che, proprio nella Capitale trovava il suo punto d’origine.
A tale prerogativa non rinuncia neanche in quest’occasione, affidando sguardo e
voce narrante a una ragazzina figlia di un insegnante delle superiori, trasferitasi
con la famiglia a Roma dalla provincia di Viterbo che, paradossalmente, proprio
come tutti i luoghi geograficamente molto vicini ai centri del potere, sembra
antropologicamente e culturalmente lontanissimo dagli stessi. L’attacco vero e
proprio al cuore del potere politico e intellettuale del Paese viene condotto, invece,
attraverso la scoperta dei mondi opposti delle due comprimarie: entrambe romane,
Margherita e Daniela sono le rappresentanti di tutti i peggiori difetti delle rispettive
aree politico-sociali di appartenenza. Da un lato l’autocompiacimento della propria
condizione “isolata” e fuori dagli schemi sociali tipica della sinistra, dall’altro la
superficialità e l’ eccessivo conformismo ad un certo status da parte della destra.
Al di là delle caratterizzazioni più o meno divertenti delle due fazioni (Virzì, quasi
volendosi attenere alle regole della cosiddetta par condicio, assegna all’incirca la
medesima dose di antipatia a entrambi gli schieramenti), ciò che emerge con
maggior forza e dà da riflettere è soprattutto la capacità, messa sapientemente in
evidenza, di “fare blocco”, tanto a destra quanto a sinistra, di imporsi come gruppi
sociali compatti, dotati di veri e propri leader e di proprie regole di aggregazione
basate su precisi rapporti di forza, che è presumibile si perpetueranno in futuro nei
ruoli che le stesse protagoniste ricopriranno da adulte.
Con logica implacabile – e una buona dose di semplificazione che, a volte, scade
nella caricatura – Virzì assegna alle due ragazzine dei genitori che sono
rispettivamente i rappresentati del potere politico di destra (Manlio Germano,
padre di Daniela, è un potente ministro con trascorsi imbarazzanti nella destra
extraparlamentare, una figura ricalcata con grande abilità su quella reale di un
noto esponente politico italiano) e del potere culturale di sinistra (Lorenzo Rossi
Chaillet è un professore universitario, un maître a penser che, pur essendo
raffigurato come un personaggio bonario e svagato, ha le mani in pasta un po’
dappertutto). In un pre-finale che toglie ogni illusione allo spettatore, Virzì mette in
scena la pantomima del potere (o meglio, dei due poteri) con il povero padre di
Caterina costretto a vedere confermate tutte le proprie ossessioni, le proprie
manie di persecuzione: il ministro e il professore che si stringono la mano, si
scambiano apprezzamenti amichevoli per i rispettivi successi, in un gioco delle
parti affatto imbarazzante, come due elementi perfettamente complementari di uno
stesso mostruoso sistema. È l’immagine sconsolante di un paese che vede
confermati i propri limiti culturali (ovvero quelli dei propri rappresentanti politici),
forse con un tocco di qualunquismo necessario a fare della protagonista eponima
(e della sua famiglia) l’unico vero personaggio degno di rispetto del film.
IL RUOLO DEL MINORE E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
Alla ricerca di un’armonia corale
“Ma tu sei zecca o pariola?” Con questa domanda (forse incomprensibile ai più
perché tratta dal gergo giovanile della Capitale) uno dei nuovi compagni di classe
di Caterina cerca di capire a quale delle due fazioni la ragazzina appartenga: da
quel momento diviene immediatamente evidente che per lei sarà davvero difficile
sottrarsi ad una qualsiasi scelta, per quanto provvisoria possa essere. “Zecche” è
il modo spregiativo con cui vengono definiti a Roma gli appartenenti alla borghesia
intellettuale prevalentemente di sinistra che, secondo quanto affermano i suoi
detrattori, vivrebbe ben nascosta ma saldamente attaccata all’organismo che le
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ospita (lo Stato) succhiandone il sangue (gli stipendi statali e parastatali) senza
nulla dare in cambio, mentre i Parioli è uno dei quartieri-bene della capitale,
abitato per lo più dalla borghesia moderata e di destra: da qui “pariolo” o “pariola”
a indicare coloro che vivono in quel quartiere e si rifanno a quella mentalità. Poco
prima, presentandosi alla classe, forse per la prima volta compatta nel rimarcare
l’assoluta estraneità della nuova arrivata (sia pure con le sfumature del dileggio da
una parte e del compatimento dall’altra), Caterina candidamente aveva dato come
indicazione della propria provenienza prima un punto cardinale (Nord-Nordovest, a
rimarcare ulteriormente la centralità di Roma e, dunque, la marginalità della
propria origine), poi una zona geografica indeterminata (la costa tirrenica), per
confessare, infine la propria provenienza (Montalto di Castro). Con il suo accento
da “burina” a modo, l’abbigliamento piccolo-borghese, dimesso ma assolutamente
normale, il viso acqua e sapone e una dose infinita di ingenuità, Caterina, oltre a
essere la metafora del cittadino italiano medio, è soprattutto un’adolescente che,
per trovare e formarsi una propria identità deve provare molte esperienze. Proprio
per coloro che dimostrano intelligenza e sensibilità, queste sono, per forza di cose,
passeggere e vengono rielaborate all’interno di un percorso individuale articolato
su piani diversi. Eccola, dunque, confrontarsi con l’anticonformismo radical-chic di
sinistra, con gli atteggiamenti corrucciati e l’impegno politico a tutti i costi, con gli
slogan – magari anche giusti – ma ripetuti macchinalmente e, successivamente,
con l’adesione acritica alle tradizioni (anche quelle peggiori), con la caccia
spasmodica agli status symbol imposti dalla moda, l’artificiosa ricerca della
spensieratezza e del divertimento. Miracolosamente, Caterina resiste, supera le
prove imposte e rimane se stessa, forte anche dell’esperienza del padre che, con
la sua goffa ricerca di una qualche forma di visibilità a tutti i costi, fa ancor più
risaltare la semplicità e la moderazione della figlia. Giancarlo, infatti, non è il tipico
genitore frustrato dalla vita che cerca in tutti i modi di proiettare sulla propria prole
le ambizioni che non ha potuto realizzare: lui cerca, al contrario, di realizzarle in
prima persona servendosi della figlia, spingendola a farsi amici i potenti, per
sentirsi vicino a loro. Caterina, al contrario, più che conquistare spazi di visibilità
vuole costruire la propria identità di singolo, integrato tuttavia all’interno di una
comunità democratica, estranea a quei meccanismi di inclusione ed esclusione
tipici tanto delle dinamiche di socializzazione tra adolescenti quanto di gruppi di
potere che agiscono all’interno della società. Non è un caso che la sua passione
sia il canto corale: solo all’interno di questa attività basata sull’armonizzazione di
una serie di componenti molto diverse in un gruppo riesce a sentirsi inserita in un
sistema complesso, proprio come dovrebbe esserlo ogni cittadino.
RIFERIMENTI AD ALTRE PELLICOLE E SPUNTI DIDATTICI
I toni da commedia, l’età della protagonista e, soprattutto l’ambientazione
scolastica possono costituire degli elementi di forte immedesimazione per un
pubblico di studenti delle superiori. Insieme ad altri film come Election di
Alexander Payne, Come te nessuno mai di Gabriele Muccino, Les roseaux
sauvages di André Téchiné, Caterina va in città si inserisce perfettamente
all’interno di un breve percorso filmografico sull’impegno (e il disimpegno) politico
e sociale all’interno della scuola.
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Come te nessuno mai
Commedia
Regista: Muccino, Gabriele
Autore del soggetto: Muccino, Gabriele
Autore del soggetto: Muccino, Silvio
Autore del soggetto: Fusco, Giovanni
Sceneggiatore: Muccino, Silvio
Sceneggiatore: Tulli, Adele
Sceneggiatore: Muccino, Gabriele
Produttore: Procacci, Domenico
Fotografia: Catinari, Arnaldo
Montaggio: Di Mauro, Claudio
Musiche: Buonvino, Paolo
Scenografie: Di Napoli, Eugenia F.
Film per tutti
Cast: Silvio Muccino (Silvio Ristuccia), Giuseppe Sanfelice di Monteforte (Ponzi),
Giulia Steigerwalt (Claudia), Giulia Carmignani (Valentina), Luca De Filippo (il
padre di Silvio), Anna Galiena (la madre di Silvio), Enrico Silvestrin (Alberto
Ristuccia), Giulia Ciccone (Chiara Ristuccia), Adele Tulli (Veronica), Caterina Silva
(Giulia), Valeria D'Obici (la madre di Giulia), Luis Molteni (il preside del Liceo).
Crediti: montaggio, Claudio Di Mauro; musiche, Paolo Buonvino; scenografie,
Eugenia F. di Napoli.
Prodotto: Italia: Fandango Mikado RAI Radiotelevisione italiana, 1999.
Distribuito: Italia: Elle U Multimedia, 1999.
Trama
Il sedicenne Silvio vive in una famiglia borghese di Roma, insieme ai genitori ex
sessantottini, un fratello universitario e una sorella boy-scout. Liceale, sempre
insieme all'amico Ponzi, egli è innamorato segretamente di Valentina, la ragazza
di un suo compagno di classe. Durante l'occupazione della scuola, decisa per
lottare `contro la privatizzazione e l'omologazione dell'individuo, riesce finalmente
a baciarla, ma commette l'errore di raccontarlo a Ponzi, il quale dà il via a un giro
di voci incontrollabile. Pur di dormire la notte a scuola in modo da stare ancora con
Valentina, Silvio litiga furiosamente con i genitori. Andando contro il parere del
padre, a cui rinfaccia l'imborghesimento e l'incapacità di capirlo, prende il sacco a
pelo e ritorna al liceo. Nel frattempo però la “voce” del bacio è arrivata alle
orecchie di Martino, il ragazzo di Valentina, il quale si vendica picchiandolo. Silvio
si ritrova così pestato e inoltre abbandonato dalla ragazza, che non voleva far
sapere in giro l'accaduto. Disperato ritorna a casa. Il giorno successivo la polizia
entra con la forza nella scuola arrestando molti ragazzi. Silvio, insieme a Claudia,
una compagna di classe segretamente innamorata di lui, è tra i pochi a fuggire. Lo
scampato pericolo dà la forza alla timida Claudia di svelare l'amore per l'amico.
Silvio, dapprima sorpreso, decide di ricambiare l'affetto e fa con lei per la prima
volta l'amore.
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Parole chiave:
Adolescenti – Amicizia – Amore – Figli adolescenti – Genitori – Italia –
Partecipazione politica – Rapporti – Scuole medie superiori – Sessualità –
Studenti
Soggetto: Adolescenti – Amicizia e amore – Italia
Soggetto: Adolescenti – Sessualità – Italia
Soggetto: Figli adolescenti – Rapporti con i genitori – Italia
Soggetto: Scuole medie superiori – Studenti – Partecipazione politica – Italia
SCHEDA CRITICA
Come te nessuno mai, secondo lungometraggio di Gabriele Muccino, narra le
avventure sentimentali e scolastiche di un gruppo di adolescenti sotto forma di
ballata, grazie alla capacità del regista di assemblare al motivo musicale
predominante (la storia di Silvio e dei suoi coetanei), alcuni movimenti melodici
secondari che si stagliano sullo sfondo e che riescono così ad arricchire il quadro
sociale raccontato (si vedano le crisi dei genitori sessantottini o quelle di Alberto,
fratello maggiore di Silvio). Anche i passaggi narrativi del film seguono la falsa riga
di uno spartito, alternando sapientemente momenti di pausa (le scene in cui i
ragazzi parlano dell’amore o della politica) a vere e proprie contorsioni collettive
(la scena dell’occupazione o dell’arrivo dei celerini), momenti di riflessione a ritmi
canzonatori e divertenti (come la descrizione del modo di vestirsi dei giovani
romani), ritornando su alcuni classici leit motiv del genere (la contestazione, la
sorella “secchiona”) e terminando il racconto, in modo circolare, con la
riproposizione della prima sequenza della pellicola, come se tutta la storia
dovesse finire chiusa in se stessa, proprio come un brano musicale.
Muccino, aiutato dal fratello-attore Silvio e dalla compagna di classe Adele Tulli,
co-autori della sceneggiatura, ai quali bisogna ricondurre una leggerezza e una
partecipazione emotiva non riscontrabile in film analoghi, ha avuto il merito di
descrivere in modo autentico lo spirito di un’età fatta di pulsioni incontrollabili, di
repentini cambi di idee (si veda come il protagonista Silvio perdoni l’amico Ponzi o
si innamori di Claudia), di prove autenticamente difficili da superare (la
confessione amorosa di Claudia, l’intervento di Silvio durante l’assemblea
studentesca, la confusione sentimentale di Valentina), e di emotività spiccia che fa
vivere ogni momento della vita con la “pancia” e non con la “testa”. Non per ultimo,
ha saputo ricostruire puntigliosamente un microcosmo – gli studenti romani “di
sinistra” e i loro genitori, giocando sulla parlata, sulle idee e sui falsi preconcetti –
senza emettere giudizi, senza dare delle ricette.
Ne nasce uno spaccato di giovani interessati solamente, e verrebbe anche da dire
inevitabilmente e giustamente, all’altro sesso, all’amore, ai sentimenti e alle
emozioni, per colpa di un mondo che non ha più muri e confini nei quali schierarsi,
e che per questo è un tutt’uno di superficialità. Si pensi alla scena dello scontro tra
gli studenti di sinistra e i naziskin a causa dell’ingresso di un giovane di destra
nella scuola occupata dove la sua entrata non era provocata da contrapposizioni
ideologiche, ma da semplici motivi amorosi. L’adolescenza ritratta dal film non può
essere però bollata come disimpegnata, anche se la tentazione in cui poi cadono i
genitori ex sessantottini di Silvio è forte, né tanto meno può essere considerata
semplicemente confusa o irruente. Lo slogan “contro la privatizzazione e contro
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l’omologazione” così superficiale e così usato dai ragazzi, quasi senza sapere il
significato o, forse sarebbe meglio dire, quasi privo di significato per l’inflazione
d’uso, alla fine è il vero messaggio profondo che la generazione degli adolescenti
lancia al mondo degli adulti, una generazione che è contro la privatizzazione
intesa simbolicamente come ripiegamento nella sfera del privato o come solitudine
(i ragazzi cercano, nelle scene serali, la confidenza reciproca e il confronto) e
contro l’omologazione vista come mancanza di espressione personale (perché al
di là dei vestiti e dei comportamenti, i ragazzi sono tutti diversi).
Lo slogan, come il ritornello di una canzone che si ripete più volte all’interno dello
stesso brano e che col tempo si impara a memoria canticchiandolo quasi senza
accorgersene, diventa così il simbolo di una coscienza generazionale che gli adulti
hanno fatalmente perso.
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Elephant
Drammatico
Regista: Van Sant, Gus
Autore del soggetto: Van Sant, Gus
Sceneggiatore: Van Sant, Gus
Produttore: Wolf, Dany
Fotografia: Savides, Harris
Montaggio: Van Sant, Gus
Vietato ai minori di 14 anni
Cast: Alex Frost (Alex), Eric Deulen (Eric), Jhon Robinson (John McFarland), Elias
McConnell (Elias), Jordan Taylor (Jordan), Carrie Finklea (Carrie),Nicole Gorge
(Nicole), Brittany Mountain (Brittany), Alicia Miles (Acadia), Christen Hicks
(Michelle).
Crediti: montaggio, Gus Van Sant.
Premi: Palma d'oro per il miglior film e la migliore regia al Festival di Cannes 2003.
Prodotto: Stati Uniti; HBO Films; Meno Films; Pie Films Blue Relief Productions
Fearmakers Studios, 2003, Italia.
Trama
Portland, Whitaker High School. In una giornata come tante altre si legano tra loro
le azioni degli allievi della scuola, intenti a svolgere le solite attività quotidiane e a
intrecciare l'abituale matassa di rapporti interpersonali: John si trova costretto a
sostituire il padre alla guida della sua autovettura perché il genitore è ubriaco e
non può accompagnarlo a scuola; Jordan e Carrie, invece, si amano: il loro
pensiero è già rivolto alla fine delle lezioni, a quando si incontreranno per godere
di un momento di intimità lontano dagli altri compagni di scuola; Acadia ha invece
una spiccata simpatia per John e, dopo essersi scambiata tenerezze con il
ragazzo, si reca ad un incontro sulle minoranze sessuali. La goffa Michelle,
invece, svolge il suo compito di aiutante della biblioteca, sopportando la derisione
delle sue compagne per la mancanza di grazia che la caratterizza. Due studenti,
Alex ed Eric, tramano una tremenda strage: procuratisi due fucili per mezzo di un
sito internet, entrano decisi nel liceo con l'intenzione di uccidere più gente
possibile. Il loro è un gioco al massacro: con cinica brutalità e con una freddezza
agghiacciante, essi abbattono chiunque gli si pari davanti. Una tragedia che
spazza via anche le giovani vite di Elias, Jordan, Carrie e Michelle.
Parole chiave:
Adolescenti – Portland – Scuole medie superiori – Studenti – Violenza
Soggetto: Adolescenti – Portland
Soggetto: Scuole medie superiori – Studenti – Violenza – Portland
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SCHEDA CRITICA
Gus Van Sant è regista che utilizza spesso l’adolescenza per narrare le sue storie:
pellicole come Belli e dannati (1991), Da morire (1995), Will Hunting, genio ribelle
(1997) e Scoprendo Forrester (2000) hanno come centro nevralgico vicende di
formazione che riguardano personaggi alle prese con esperienze esistenziali
dolorose e in alcuni casi anche frustranti. Per Elephant Gus Van Sant si è ispirato
alla strage occorsa il 27 aprile del 1999 nel liceo Colombine di Littleton, Colorado:
due ragazzi diciassettenni spararono sui loro compagni di classe uccidendo dodici
studenti e un’insegnante. L’intenzione del regista di Louisville, Kentucky, è quella
di mostrare attraverso uno stile asciutto, disadorno ed essenziale, quasi si
trattasse di un freddo documentario, l’improvvisa e immotivata esplosione di
violenza che origina la strage in un giorno come tanti altri, nel corso del quale i
ragazzi del liceo Whitaker di Portland (città d’adozione per il regista) svolgono
compiti, azioni, mansioni e gestiscono le loro interazioni come centinaia di volte in
precedenza avevano fatto.
Van Sant si limita a mostrare: la sua intenzione non è assolutamente quella di
giudicare, bensì di osservare i meccanismi quotidiani attraverso l’inseguimento
sistematico dei personaggi negli ampi locali della scuola fino al compimento
dell’assurda strage. L’intento del regista non è assolutamente quello di restituire in
qualche modo le psicologie dei personaggi: Alex ed Eric agiscono semplicemente,
e il perché della loro assurda decisione non è indagato. Troppo facile sarebbe
trovare una motivazione. Il tutto è condito da un’aura di assurdità che sconfina nel
peggiore degli incubi senza che la verità possa essere trovata Tutto è come nella
parabola buddista che è all’origine del titolo del film: un elefante toccato
parzialmente da un uomo bendato non fornirà la verità sulla effettiva natura
dell’animale, ma solo una visione parziale e soggettiva.
IL RUOLO DEL MINORE E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
Finanziato dalla rete televisiva via cavo HBO e realizzato dopo un’attentissima,
quasi maniacale, selezione del cast che ha previsto circa 1500 provini di liceali di
Portland, il film di Gus Van Sant mostra una mattinata qualunque nella placida e
ovattata calma di una High School dell’Oregon.
Ciò che colpisce di Elephant nelle sue prime scene è la serenità quasi straniante
che accompagna la comparsa dei vari personaggi in scena: una sorta di preludio
al contrario, una mancanza totale di riferimenti sulla violenza che si scatenerà nel
corso della mattinata. Se si eccettua la comparsa di John nella scena iniziale della
pellicola, nella quale il biondo ragazzo deve subentrare nel gioco delle
responsabilità al padre, completamente ubriaco ed incapace di accompagnare il
figlio a scuola guidando la macchina – al punto che il fanciullo è costretto a
condurre da sé l’auto rischiando l’incidente in alcune occasioni – la presenza dei
vari personaggi che si susseguono, si incontrano, si legano e si sfiorano nello
stabile della scuola segue modalità improntate alla neutralità più assoluta. I
ragazzi sono mostrati in relazione alle loro peculiarità, ai loro interessi e ai legami
interpersonali che li contraddistinguono e che giustificano la loro permanenza nel
mondo.
Elias, ad esempio, studente con la passione della fotografia, che si relaziona agli
altri ragazzi in funzione del suo interesse e della possibilità che gli altri personaggi
possano essere un’affascinante fonte di ispirazione per la sua arte, è ucciso nel
corso della strage compiuta da Alex ed Eric mentre sta scattando una foto, quasi a
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sottolineare l’estrema frustrazione dell’adolescenza nel conseguire con successo
le proprie aspirazioni. Allo stesso modo è delusa la speranza che siano i
sentimenti a risultare vincenti: Jordan e Carrie, innamoratissimi al punto da
procurarsi un permesso dalle lezioni per avere la possibilità di stare da soli e
bearsi del loro amore, sono uccisi all’interno di una ghiacciaia in cui si erano
rifugiati nella speranza di scampare alla mattanza.
La violenza cieca, arbitraria, irrazionale, perpetrata quasi per noia da Alex ed Eric
è il letterale annullamento di qualunque speranza per gli adolescenti del liceo
Whitaker e per qualunque altro minore vittima di una furia omicida altrettanto bieca
e pretestuosa. La serenità, la tranquilla e confortante quotidianità sono state per
un solo lungo istante interrotte da un evento di portata eccezionale che ha
sconvolto le abitudini, le aspirazioni, i sentimenti e le prospettive, ma ha anche
posto drasticamente fine a frustrazioni e complessi (come quelli di Michelle, che
attraversava velocemente i corridoi tentando di rendesi invisibile ed evitando così
la feroce ironia rivolta verso di lei), alle crisi e ai problemi degli adolescenti: anche
nel caso di sopravvivenza niente sarà più come prima. Nemmeno i sogni.
La stessa scuola, teatro dell’azione per tutto il corso della pellicola, appare come
uno scenario soffocante fatto di lunghi corridoi attraversati in continuazione dagli
studenti e che paiono chimerici luoghi in cui la socialità tra i ragazzi sembra
possibile. Ma anche i corridoi capovolgono il loro significato di socialità nel
momento della strage, divenendo percorsi obbligati grazie ai quali Alex ed Eric
colpiscono le loro vittime, uccidendole a bruciapelo.
Ancora una volta la scuola americana si trasforma da luogo di educazione e
cultura in annichilente spazio portatore di morte: se le armi possono entrare
liberamente nei locali previsti per la formazione (come non solo il cinema, ma
anche la cronaca, purtroppo, testimonia), è lecito pensare di assistere ad un
capovolgimento totale dei valori e delle aspirazioni in gioco. Ciò che dovrebbe
essere gioia e giubilo per i ragazzi diventa morte e dolore, quello che la scuola
dovrebbe fornire sul versante dell’educazione e dell’insegnamento si trasforma
inesorabilmente in frustrazione e odio originato da un malessere diffuso e
spaventosamente inspiegabile.
RIFERIMENTI AD ALTRE PELLICOLE E SPUNTI DIDATTICI
Elephant si lega inesorabilmente a Bowling for Colombine, inchiesta, atto d’accusa
e accurata ricostruzione del tragico fatto di cronaca avvenuto nel 1999 nel liceo di
Littleton a firma di Michael Moore. Ma i due film possono essere confrontati con
un’altra pellicola meno celebre, contemporanea al film di Van Sant: Heart of
America produzione tedesco-canadese del regista Uwe Boll, il quale però, a
differenza di Elephant si premura di fornire tra le pieghe del racconto delle
giustificazioni sociologiche che vedono l’uso di droga e la mancanza d’affetto delle
famiglie come cause scatenanti della violenza minorile. Tali pellicole possono
sicuramente, a buon diritto, inserirsi in una riflessione che intenda analizzare il
tema della violenza presente nelle scuole americane, partendo dai cruenti fatti di
cronaca a cui si ispirano.
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Gente comune
Drammatico
Regista: Redford, Robert
Autore del soggetto: Guest, Judith
Sceneggiatore: Sargent, Alvin
Produttore: Schwary, Ronald L.
Fotografia: Bailey, John
Montaggio: Kanew, Jeff
Musiche: Hamlisch, Marvin
Scenografie: Fosser, William B.
Scenografie: Wunderlich, Jerry
Altro autore: Pollack, Bernie
Film per tutti
Titolo originale: Ordinary people
Tratto dall'omonimo romanzo di Judith Guest
Cast: Donald Sutherland (Calvin Jarrett), Mary Tyler Moore (Beth Jarrett), Judd
Hirsch (Dr. Tyrone Berger), Timothy Hutton (Conrad Jarrett), M. Emmet Walsh
(Coach Salan), Elizabeth McGovern (Jeannine Pratt), Dinah Manoff (Karen),
Frederic Lehne (Lazenby), James Sikking (Ray Hanley), Basil Hoffmann (Sloan),
Scott Doebler (Buck Jarrett), Quinn K. Redeker (Ward), Mariclare Costello
(Audrey), Meg Mundy (madre di Beth), Elizabeth Hubbard (Ruth).
Crediti: montaggio, Jeff Kanew, musiche, Marvin Hamlisch, scenografie, Phillip
Bennett e J. Michael Riva, costumi, Bernie Pollack.
Prodotto: Stati Uniti, Paramount Pictures Wildwood, 1980.
Distribuito: Italia, Paramount Home Entertainment.
Trama
Illinois, fine anni Settanta Conrad Jarrett, sedici anni, viene dimesso da una clinica
psichiatrica nella quale è stato ricoverato per quattro mesi dopo un tentativo di
suicidio alla cui origine c'è il senso di colpa per la morte del fratello maggiore Buck
(annegato durante una gita in barca) cui il ragazzo ha assistito impotente,
riuscendo a stento a salvarsi. Se il padre, Calvin, segue con premura il suo ritorno
alla vita normale (la scuola, la passione per il nuoto, il canto nel coro scolastico, la
cotta per la coetanea Jeannine), sua madre Beth sembra non riuscire a
perdonargli di essere sopravvissuto alla disgrazia. Quando Conrad decide di
ricorrere all'aiuto del dottor Berger, uno psichiatra, Beth diviene ancora più fredda
nei confronti del figlio. Di fronte alla richiesta di Calvin di partecipare ad una
terapia familiare per aiutare Conrad la donna oppone un secco rifiuto, riuscendo a
convincere il marito a partire per una breve vacanza.
Rimasto solo, Conrad dovrà affrontare la notizia del suicidio di una sua amica:
durante una drammatica seduta con Berger emergerà con chiarezza la
responsabilità della madre nello sviluppo dei suoi disturbi causati dal senso di
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colpa che la donna scatena in lui ritenendolo colpevole della morte del fratello.
Calvin, resosi conto della realtà e dell'incapacità della moglie di mutare il proprio
atteggiamento, trova per la prima volta il coraggio per parlare chiaro a Beth: la
donna sarà costretta ad andarsene affidando totalmente a Calvin la cura di
Conrad.
Parole chiave:
1975-1979 – Adolescenti – Comportamento – Disturbi psichici – Figli – Figli
adolescenti – Fratelli – Genitori – Illinois – Madri – Maltrattamento
psicologico – Morte – Reazione – Senso di colpa – Sviluppo – Tentato
suicidio
Soggetto: Adolescenti – Disturbi psichici – Sviluppo – Ruolo del
comportamento delle madri – Illinois – 1975-1979
Soggetto: Figli – Morte – Reazione dei genitori – Illinois – 1975-1979
Soggetto: Figli adolescenti – Maltrattamento psicologico da parte delle madri
– Illinois – 1975-1979
SCHEDA CRITICA
L’America raccontata pacatamente
Quella rappresentata in Gente comune è l’America che, a cavallo tra la fine degli
anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, sembra immune dagli eventi travagliati che
hanno caratterizzato il decennio appena trascorso (la guerra in Vietnam, lo
scandalo del Watergate), ma che ancora non ha conosciuto la cosiddetta età dell’
“edonismo reaganiano”, dell’assenza di interrogativi e di dubbi a favore di una
visione tutta esteriore dell’esistenza basata fondamentalmente sull’immagine,
sull’apparenza. Sospesa in uno stato di quiete apparente, una condizione alla
quale paiono alludere le prime inquadrature su cui scorrono i titoli di testa
(immagini di ricche ville unifamiliari immerse nel verde scorrono sulle note placide
e nostalgiche del Canone in D di Pachebel che diventano diegetiche allorquando
scopriamo che sono eseguite dal coro scolastico di cui fa parte Conrad), l’America
di Robert Redford è quella del cosiddetto riflusso, tendenzialmente regressiva,
tuttavia non completamente conservatrice. È una nazione che tenta faticosamente
di ritrovare il senso della propria esistenza nei valori fondamentali che da sempre
l’hanno sorretta, primo fra tutti la famiglia, ma che deve arrendersi all’evidenza
della necessità di un cambiamento e prendere coscienza della fine delle proprie
incrollabili certezze. A riprova di quanto fosse aderente l’immagine proposta dal
celebre attore (qui alla sua prima regia) alla realtà contemporanea del proprio
Paese, la pioggia di premi Oscar che il film si aggiudicò nel 1981, nonché il grande
successo di pubblico, segno, quest’ultimo, di una capacità non comune di
interpretare la sensibilità collettiva attraverso i toni dimessi del dramma familiare
rielaborati abilmente dal bestseller omonimo di Judith Guest. La regia di Redford è
pacata, la narrazione lineare, sostanzialmente priva di invenzioni, ma
perfettamente aderente al mondo che descrive, quello della ricca borghesia wasp
(“white, anglo-saxon, protestant”, ovvero bianca, anglosassone, protestante).
L’analisi del regista è severa, a tratti impietosa nell’osservazione del malessere
sotterraneo che attraversa la famiglia Jarrett, ma allo stesso tempo il suo sguardo
riesce ad essere affettuoso, specie nei confronti del giovane protagonista, privo
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cioè di autocompiacimento, mai crudele verso un mondo che l’autore dimostra di
conoscere perfettamente e, in fondo, anche di apprezzare. Se l’allontanamento
della madre dal nucleo familiare sembra contraddire a prima vista lo spirito
sostanzialmente borghese del film e lo scopo ultimo dell’autore, ovvero il recupero
dei valori più autentici della cultura americana, in effetti tale scelta si riallaccia ad
una tradizione, essenzialmente cinematografica, che vede nel rapporto tra uomini,
nell’amicizia virile (strutturata secondo le modalità alternative padre-figlio,
maestro-allievo) uno tra gli archetipi più forti di una visione della vita fondata
sull’autenticità dei sentimenti e sulla schiettezza dei comportamenti. Il merito
principale di Redford, qui al suo debutto nella regia, è quello di non cedere mai al
tono patetico pur connaturato ad una vicenda ricca di spunti intimistici che ben si
sarebbe potuta prestare a una simile deriva: la sua capacità di tradurre con
semplicità sentimenti complessi e di rendere la contraddittorietà dell’animo umano
si giova di tre ottimi interpreti come Donald Sutherland, Mary Tyler-Moore e
Timothy Hutton, quest’ultimo inspiegabilmente premiato con l’Oscar per il miglior
attore non protagonista, malgrado sia la figura maggiormente presente all’interno
del film.
LA FUNZIONE DEL MINORE E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
La morte e le relazioni famigliari ridisegnate
I genitori dovrebbero essere pronti a mettersi in discussione e a cambiare per
amore dei propri figli: è questo l’assunto di fondo di Gente comune, un film che
analizza il cambiamento delle relazioni tra i membri di una famiglia posti di fronte
all’esigenza di gestire la scomparsa di uno dei propri membri. L’elaborazione del
lutto in ambito familiare passa infatti anche e soprattutto attraverso una
ridefinizione dei ruoli di ciascun componente, proprio ciò che i Jarrett non sono
riusciti a fare. Attraverso il suo gesto suicida, Conrad lancia un segnale d’allarme
ai genitori, la richiesta di una maggiore attenzione nei suoi confronti, un
avvertimento sulle proprie condizioni di “sopravvissuto” alla tragedia di cui è
rimasto vittima Buck. Conrad è solo apparentemente l’anello più debole della
famiglia e, attraverso il suo comportamento, non fa che confermare agli occhi della
madre l’assurdità di un destino che ha risparmiato lui, il figlio più fragile e meno
dotato, prendendo l’altro, il maggiore, il prediletto. È chiaro, tuttavia, che
contrariamente a quanto appare, tanto Conrad quanto suo padre Calvin sono gli
unici due membri della famiglia in grado di reagire alla tragedia, mentre Beth,
trincerata dietro la freddezza e l’autocontrollo che la connotano, è incapace tanto
di mettere da parte le sue preoccupazioni per le apparenze, quanto di esprimere il
proprio dolore, sfogare la propria rabbia per la perdita di Buck. La donna ammette
esplicitamente di non essere disposta a ridisegnare o, perlomeno, a considerare
criticamente, per il bene del figlio, il proprio modo di comportarsi: la sua risposta ai
problemi è la fuga (le vacanze, i viaggi all’estero), una tattica elusiva rispetto ai
problemi, del tutto diversa dall’atteggiamento di Calvin, la cui presenza al fianco di
Conrad si fa via via più costante con l’approssimarsi dell’epilogo. È proprio grazie
a questa figura di donna dura, fredda, distante, che il film può proporre, come
raramente accade nel cinema statunitense, due figure maschili (Conrad e Calvin)
che risaltano per l’apparente fragilità e la sensibilità d’animo. Sta proprio in questo
processo di cambiamento e di crescita, simile a quello che attraversa ogni
individuo al passaggio dall’adolescenza alla maturità la chiave di lettura principale
della pellicola: Conrad e suo padre sono pronti a mettersi in discussione e proprio
per questo riescono a ricostruire il proprio rapporto al di là della morte di Buck. Alla
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figura di Beth, chiusa nel suo riserbo e preoccupata solo delle apparenze, si
contrappone in modo netto quella di Berger, lo psicologo: il merito maggiore di
questo personaggio è di essere riuscito, attraverso i suoi modi rudi e poco
convenzionali, a porsi come modello di quella schiettezza dei sentimenti che
riuscirà a prevalere nell’abbraccio finale tra Calvin e suo figlio.
RIFERIMENTI AD ALTRE PELLICOLE E SPUNTI DIDATTICI
La stanza del figlio (2001) di Nanni Moretti è, insieme a Gente comune, uno dei
film che meglio descrivono un processo di elaborazione del lutto in ambito
familiare: ad accomunare i due film la medesima sobrietà nell’affrontare
l’argomento, una sensibilità particolare nel descrivere le diverse figure all’interno
del nucleo familiare, il rapporto del tutto speciale tra padre e figlio, la tematica
della psicanalisi che, nel film italiano, passa attraverso la figura di Giovanni (il
padre), appunto psicoterapeuta.
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Il buio oltre la siepe
Drammatico
Regista: Mulligan, Robert
Autore del soggetto: Lee, Harper
Sceneggiatore: Foote, Horton
Produttore: Papula, Alan
Fotografia: Harlan, Russell
Montaggio: Stell, Aaron
Musiche: Bernstein, Elmer
Scenografie: Emert, Olivier
Film per tutti
Titolo originale: To kill a mockingbird
From To kill a mockingbird, by Harper Lee
Cast: Gregory Peck (Atticus Finch), Mary Badham (MaryLou Scout Finch), Philip
Alford (Jem Finch), Robert Duvall (Arthur `Bu` Radley), John Megna (Dill Harris),
Frank Overton (lo sceriffo), Ruth White (Mrs. Duboise), Brock Peters (Tom
Robinson), Estelle Evans (Calpurnia), Paul Fix (il giudice Taylor), Collin Wilcox
(Mayella Violet Ewell), James Anderson (Bob Ewell), Alice Ghostley (Stephanie
Crawford).
Crediti: montaggio, Aaron Stell; musiche, Elmer Bernstein; scenografie, Olivier
Emert.
Premi e riconoscimenti: Oscar 1962 per la migliore sceneggiatura non originale,
per la migliore scenografia ed a Gregory Peck come miglior attore protagonista;
David di Donatello 1963 a Gregory Peck come miglior attore straniero.
Prodotto: Stati Uniti, Brentwood Productions Pakula Mulligan Productions, 1962.
Distribuito: Italia, Universal Video, 1962.
Trama
Siamo nel 1932 a Macomb, una cittadina dell'Illinois. Atticus Finch è un avvocato
rimasto vedovo con due figli cui badare: la piccola Jane-Louise, detta Scout, di sei
anni e Jem, di dieci. Nei pressi della loro casa si trova quella dei Radley il cui figlio
Arthur, soprannominato Bu, sofferente per problemi mentali, è considerato dai
bambini come una specie di 'uomo nero'. Quando Tom Robinson, un uomo di
colore, viene accusato di aver violentato Mayella Ewell, una ragazza bianca,
Atticus, convinto progressista, è l'unico avvocato della città disposto a difenderlo:
in questo modo si attira le antipatie della maggior parte della popolazione bianca.
Malgrado Atticus riesca a provare l'innocenza di Tom, sbugiardando la
testimonianza di Mayella e di suo padre Bob, la giuria del processo, composta
esclusivamente di bianchi, condanna l'uomo che, successivamente, durante un
disperato tentativo di fuga, viene ucciso dalla polizia. Alcuni mesi dopo, Bob Ewell,
volendo vendicarsi dello smacco subito al processo, assale Scout e Jem: in aiuto
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dei due bambini interviene proprio Bu che, durante la colluttazione, uccide Bob.
Atticus e lo sceriffo della contea decidono di far passare l'omicidio per un semplice
incidente.
Parole chiave:
1932 – Americani neri – Atteggiamenti – Bambini – Discriminazione razziale
– Educazione familiare – Illinois – Influsso
Soggetto: Americani neri – Discriminazione razziale – Atteggiamenti dei
bambini – Influsso dell’educazione familiare – Illinois – 1932
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L’albero delle pere
Drammatico
Regista: Archibugi, Francesca
Autore del soggetto: Archibugi, Francesca
Sceneggiatore: Archibugi, Francesca
Produttore: Pescarolo, Leo
Produttore: De Laurentiis, Guido
Fotografia: Bigazzi, Luca
Montaggio: Calabria, Esmeralda
Musiche: Lena, Battista
Scenografie: Rossetti, Mario
Cast: Niccolò Senni (Siddartha), Valeria Golino (Silvia), Sergio Rubini (Massimo),
Stefano Dionisi (Roberto), Francesca Di Giovanni (Domitilla), Chiara Noschese
(l'infermiera), Maria Consagra (la psicologa), Giuseppe Del Bono (Toni).
Crediti: montaggio, Esmeralda Calabria; musiche, Battista Lena; scenografie,
Mario Rossetti
Prodotto: Italia: 3Emme Cinematografica, 1998
Distribuito: Italia: Istituto Luce, 1998
Trama
Siddharta è un quattordicenne romano precocemente responsabilizzato a causa di
una situazione familiare disastrosa: vive con la madre Silvia, tossicodipendente,
tentando di accudirla e sorvegliarla. Massimo, suo padre, è un sedicente regista
con il quale ha un rapporto da coetaneo; ha anche una sorellastra di quattro anni
(Domitilla) che vive con il proprio padre, un avvocato molto affermato.
Per le festività natalizie la bambina viene affidata a Silvia, ma è Siddharta a
prendersi cura di lei. Quando la sorellina si punge con una siringa della madre, il
ragazzino decide di farle fare le analisi cliniche necessarie senza far sapere nulla
ai grandi. Tuttavia, la verità salta fuori e gli adulti intervengono decidendo di
instaurare un inedito menage familiare che li vede riuniti tutti sotto lo stesso tetto.
Quando Silvia muore in un incidente d'auto dopo aver assunto degli stupefacenti,
Siddharta si ritrova a dover fronteggiare due padri divenuti decisamente
ingombranti.
Parole chiave:
Adolescenti – Bambini – Genitori – Incuria – Madri tossicodipendenti –
Rapporti – Relazioni familiari
Soggetto: Bambini e adolescenti – Rapporti con le madri tossicodipendenti
Soggetto: Famiglie ricostituite – Relazioni familiari
Soggetto: Genitori – Incuria
Soggetto: Relazioni fraterne
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SCHEDA CRITICA
Il cinema di Francesca Archibugi ha come caratteristiche peculiari due elementi
che restano fissi e costanti di film in film: la critica serrata a quella generazione
che, durante gli anni Settanta, fu protagonista della contestazione contro il
sistema, lo sguardo dei bambini e degli adolescenti figli di quella generazione,
quasi sempre rivolto verso i genitori come un atto d’accusa. Nel caso di Verso
sera (1990) e de L’albero delle pere, però, la coincidenza di elementi simbolici,
date e situazioni diviene talmente evidente da farci pensare al secondo film come
a una sorta di sequel del primo.
La scelta del nome del protagonista (Siddhartha), poi, richiama singolarmente
quello della piccola Papere (Mescalina) in Verso sera: entrambi i nomi sono il
frutto di quelle tipiche infatuazioni giovanili della generazione degli anni Settanta
per le culture alternative a quella occidentale. Nel caso di Siddhartha, tuttavia, tale
scelta non si limita a circoscrivere l’ambito culturale di appartenenza dei genitori,
ma, per il ragazzino, sembra prefigurare una sorta di vocazione, anzi, di
predestinazione: quella di essere un bodhisattva, ovvero, colui che, secondo il
pensiero buddhista, giunto a un passo dall’Illuminazione, rifiuta di entrarvi per
aiutare e soccorrere gli altri.
Siddhartha, così, pur potendo vivere serenamente e costruttivamente la propria
età, si ritrova a dover gestire le vite degli adulti che lo circondano: la decisione di
mantenere nascosto a questi l’infortunio occorso alla sorellina, dunque, non è
dettato dal timore per i rimproveri o per le punizioni (così come farebbe un
ragazzino ‘normale’), ma dalla consapevolezza dell’inettitudine, da parte di una
generazione di adolescenti mai cresciuti, a fronteggiare le emergenze della vita. A
un livello che potremmo definire simbolico, il ragazzino arriva al punto di assumere
su di sé il male che minaccia Domitilla (al medico che deve autorizzare le analisi è
costretto a fornire il proprio nome anziché quello della sorellina), confermando in
pieno il valore di premonizione che sembra contenere il suo nome.
Così, Siddhartha è costretto a trasformare il proprio computer in un ibrido tra la
voce della mamma (quando ogni giorno gli ricorda i suoi impegni quotidiani), e una
voce della coscienza (quando lo costringe impietosamente a sostenere le sue
responsabilità). Con la capacità del ragazzino nel tenersi aggiornato (è ancora al
computer che chiede consigli su quali siano le analisi che deve fare chi si è punto
con la siringa di un tossicodipendente) va, ancora una volta, controcorrente
rispetto all’universo degli adulti che lo circondano: sua madre che è dipendente
dall’eroina “quando non è neanche più di moda”, suo padre che gioca con la
telecamera a fare il regista stile “cinema verità”, il padre di Domitilla indeciso tra il
ruolo di professionista rampante e quello di genitore moderno.
Sensibile testimone della sempre crescente difficoltà degli adolescenti nel trovare
punti di riferimento precisi all’interno della nostra società, Francesca Archibugi è
abile, come pochi altri registi oggi in Italia, nel narrare storie e situazioni familiari
attraverso un delicato intimismo. In quest’occasione, tuttavia, l’autrice sembra non
riuscire a governare appieno la materia narrata e, nel tentativo di sbloccare una
sceneggiatura fondamentalmente irrisolta, isola i personaggi adulti all’interno di
situazioni ed inquadrature statiche e sceglie, per le sequenze che hanno per
protagonista Siddhartha, uno stile giovanile che si rifà agli stilemi dello spot
pubblicitario o del videoclip.
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L’altra metà dell’amore
drammatico
Regista: Pool, Léa
Autore del soggetto: Swan Susan
Sceneggiatore: Thompson, Judith
Produttore: Richard, Lorraine
Produttore: Dummett, Greg
Produttore: Rochon, Louis-Philippe
Fotografia: Gill, Pierre
Montaggio: Huot, Gaetan
Musiche: Chamberland, Yves
Musiche: Gano, Gordon
Scenografie: Arsenault, Josée
Scenografie: Pilon, Louise
Film per tutti
Soggetto tratto dal romanzo di Susan Swan The wives of bath
Cast: Piper Perabo (Pauline Oster), Jessica Pare (Tory Moller), Mischa Barton
(Mary Mouse Bradford), Jackie Burroughs (Fay Vaughn), Graham Greene (Joe
Menzies), Mimi Kuzyk (Eleanor Banner), Luke Kirby (Jake), Caroline Dhavernas
(Kara), Amy Stewart (Cordelia), Noel Burton (Morley Bradford)
Crediti: montaggio, Gaetan Huot, musiche Yves Chamberland e Gordon Gano,
scenografie, Josée Arsenault e Louise Pilon
Prodotto: Canada, Cité Amerique Dummett Films , 2002
Trama
La quattordicenne Mary `Mouse` Bradford è costretta a frequentare un college per
sole ragazze, perché così hanno deciso il padre e la matrigna. Ben presto però si
accorge che le aspettative funeree che aveva nei confronti di una vita passata
lontana da casa si rivelano infondate: introdotta nei giri `giusti` dalle due
compagne di stanza Pauline e Tory, senz'altro le ragazze più estroverse e
trascinanti della scuola, inizia a divertirsi e a vincere la propria timidezza. Le tre
amiche, per di più, hanno una comune sofferenza che le tiene legate: Pauline è
stata abbandonata da neonata dalla vera madre, Tory è costretta a soddisfare le
altissime aspettative che il padre ha nei suoi riguardi, Mouse non ha ancora
superato la morte della madre. Tuttavia tra le due compagne di stanza più grandi
non c'è solo un'intima amicizia ma una vera e propria relazione d'amore.
Così, quando si viene a scoprire che Pauline dorme nel letto di Tory e Tory, pur di
mettere a tacere le voci, taglia ogni rapporto con Pauline, Mouse si trova divisa tra
le due amiche senza sapere come comportarsi. Tory decide di uscire con un
ragazzo conosciuto a una festa, Pauline, cieca di gelosia e amore, cerca in ogni
modo di riavvicinarsi all'amata, arrivando anche a sfidare e ferire, in una gara di
scherma, il suo nuovo fidanzato. Disperata, Pauline, dopo essere stata per
l'ennesima volta rifiutata durante un ballo, sale sul tetto della scuola e si uccide
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sotto gli occhi esterrefatti di Mouse che nulla ha potuto per frenare la violenta e
folle passione della sua amica.
Parole-chiave:
Adolescenti − Adolescenti femmine − Lesbiche − Pregiudizi − Privazione
materna − Relazioni interpersonali − Ruolo − Suicidio
Soggetto: Adolescenti − Lesbiche - Pregiudizi
Soggetto: Adolescenti femmine - Relazioni interpersonali - Ruolo della
privazione materna
Soggetto: Adolescenti femmine - Suicidio
Scheda critica
Una storia d’amore e di morte
Quella portata sullo schermo da Léa Pool, regista svizzera che lavora da anni in
Canada, è una vera storia di amore e di morte. Amore condiviso, intimo,
coinvolgente, felice, reciso dal più classico dei motivi: la convenzione sociale, il
giudizio degli altri, la morale comune. Se la tragedia amorosa si conclude con la
più shakespeareiana delle soluzioni, il suicidio dell’amato, tuttavia in questo caso a
dividere i due amanti non sono motivi di ordine economico, imposizioni famigliari
o, più in generale, l’impossibilità di scegliere il proprio destino, ma la paura d
essere giudicati diversi, di essere emarginati. L’omosessualità serve solo in
quanto elemento di eterogeneità dalla norma comune, e non c’è alcun tentativo da
parte della regista di raccontare i motivi personali, sociali o formativi che hanno
spinto due adolescenti ad attrarsi l’un l’altra, anzi si dà per scontato il loro rapporto
senza spiegarne i presupposti, senza sapere da quanto dura. Il lesbismo di Tory e
Pauline è semplicemente un’esca narrativa, un elemento di fascinazione per lo
spettatore che da una parte ritrova tutti i tratti del genere “dramma sentimentale”,
mentre dall’altra si sorprende nel vederli assegnati non ad un “Romeo” e ad una
“Giulietta”, ma a due “Giulietta”.
IL RUOLO DEL MINORE E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
L’adolescenza e l’amour fou
Léa Pool preferisce indagare le ragioni che conducono un amante alla pazzia, a
prescindere dal proprio orientamento sessuale. Da questa prospettiva è
fondamentale la caratterizzazione e l’età della giovane Pauline, protagonista
assoluta della seconda parte del film. Fin dalle prime battute, Pauline è la ragazza
più inquieta, ribelle, indomita del trio. A differenza delle altre due amiche è alla
ricerca della vera madre, ovvero, trasportando l’evento in metafora, è ancora alla
ricerca della propria identità, del proprio passato e delle proprie radici.
Inconsciamente deve lottare contro la paura del rifiuto (si veda la scena in cui
chiede a Tory di non andare via per le vacanze e in cui afferma di voler piantare
centinaia di alberi – simbolo del radicamento alla terra – in attesa del suo ritorno),
contemporaneamente l’essere già stata rifiutata da neonata le offre una libertà ad
altri ignota. Non a caso passerà molto tempo ad accudire ed educare un rapace,
simbolo di selvaggia e solitaria indipendenza dalle regole del mondo e dalle leggi
fisiche. Quando il rifiuto giungerà nuovamente da coloro cui tiene di più (prima la
madre, poi Tory) senza che possa far nulla per lenire il dolore o modificarne la
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decisione, l’identificazione e l’imitazione della ragazza con il volatile rappresenterà
il suo unico spazio di fuga e di illusoria libertà. Si diceva della caratterizzazione
psicologica, ma anche l’età di Pauline è fondamentale per dare credibilità al
personaggio: le due ragazze hanno attorno ai diciassette/diciotto anni, vivono il
loro primo amore in un’età – secondo la Pool – in cui la ribellione e il rifiuto delle
regole sociali è più forte che in altri periodi della vita. Il film aderisce dunque al
luogo comune secondo il quale gli amori più intensi, coinvolgenti, totali vengono
vissuti dagli individui nel periodo adolescenziale. In realtà, spesso l’avvicinamento
alla sessualità e all’amore avviene qualche anno prima e non sempre in modo
irrazionale ed esclusivamente emotivo. L’ambientazione però è isolata – un
college tutto al femminile – e questo potrebbe giustificare, almeno in parte, lo
spostamento in avanti nel tempo del primo contatto con la sfera dei sentimenti e
dell’erotismo.
Imparare guardando
Probabilmente la seconda ragione di tale scelta è da rinvenire nell’età del terzo
personaggio del film, Mouse, la narratrice interna alla storia che segue passo
passo tutta la drammatica vicenda dell’amore tra Pauline e Tory. Mouse ha alcuni
anni in meno delle compagne di stanza, una caratteristica necessaria per svolgere
i ruoli che le sono stati assegnati in sede di sceneggiatura: colei che osserva
dall’esterno una realtà nuova e sconosciuta (una sorta di doppio dello spettatore)
e colei che recupera dall’interno – e dall’esempio delle due ragazze più grandi –
alcuni valori che l’allontanamento dalla famiglia rischiava di farle dimenticare. Il
ruolo predominante di Mouse è quello del testimone: assiste ai primi baci di Tory e
Pauline e alle loro notti d’amore, è presente quando le altre compagne le
sorprendono nude nello stesso letto, è la confidente delle due amiche,
accompagna Pauline nel suo disperato combattimento all’arma bianca con il
nuovo fidanzato di Tory, naturalmente assiste al suicidio dell’amica. Le poche
scene delle quali è protagonista, invece, sono dedicate al suo rapporto con la
madre, morta alcuni anni prima, di cui sente sempre di più la mancanza e che
soprattutto teme, presto o tardi, di dimenticare. Se all’inizio della pellicola, la prima
esigenza di Mouse è cercare delle figure adulte (o comunque più grandi di lei) di
riferimento che colmino l’assenza dei genitori – le compagne di stanza, il
giardiniere – poco per volta la crescita e l’esperienza di osservatrice le permettono
di rendersi conto che può camminare con le proprie gambe, senza dover imitare
gli altri. Una saggezza che Mouse dimostra di avere già dalle prime sequenze, da
quando decide di aiutare il giardiniere, perché il giardinaggio era l’occupazione
preferita dalla madre morta: quest’attività non è solo un modo per rivivere alcuni
momenti di vita quotidiana ormai perduti, ma anche per ancorarsi alla terra, per
“coltivarsi” e germogliare, rinunciando sia al sogno di una libertà folle e
irraggiungibile nutrito da Pauline, sia alla paura della convenzione sociale, di una
vita condotta all’interno delle regole così come scelto da Tory. Il film si rivela così
un romanzo di formazione alla rovescia, dove gli esempi non sono da imitare e le
esperienze da non ripetere più, ma solo da conservare nell’alveo della memoria.
RIFERIMENTI AD ALTRE PELLICOLE E SPUNTI DIDATTICI
Il film è uno dei pochi esempi che tratta il lesbismo in maniera naturale, senza
utilizzare stereotipi, anzi ignorando quasi il problema. Potrebbe essere un buon
esempio per riflettere sulle dinamiche dell’esclusione e della paura di accettare
fino in fondo i propri sentimenti. Sono invece numerosissimi gli esempi in cui i
volatili sono accostati all’adolescenza: essi servono per mettere in parallelo il
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desiderio di libertà degli adolescenti (o degli adulti) e l’emancipazione dalle regole
umane e dalla forza di gravità dei volatili. Tra i titoli più significativi citiamo Kes di
Ken Loach, Birdy – le ali della libertà di Alan Parker e, in chiave più pessimista,
L’età inquieta di Bruno Dumont.
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L’attimo fuggente
Drammatico (sociale)
Regista: Weir, Peter
Autore del soggetto: Shuman, Tom
Sceneggiatore: Shuman, Tom
Produttore:Haft, Steven
Fotografia: Seale, John
Montaggio: Anderson, William
Musiche: Jarre, Maurice
Scenografie: Stites, Wendy
Film per tutti
Titolo originale: Dead poets society
Cast: Robin Williams (John Keating), Ethan Hawke (Todd Anderson), Robert Sean
Leonard (Neil Perry), Josh Charles (Knox Overstreet), Gale Hansen (Charlie
Dalton), Dylan Kussman (Richard Cameron), Janes Waterston (Gerard Pitts),
Allelon Ruggiero (Steven Meeks), Norman Lloyd, Kurtwood Smith.
Crediti: montaggio, William Anderson; musiche, Maurice Jarre; scenografie,
Wendy Stites.
Premi e riconoscimenti: Oscar 1989 per la migliore sceneggiatura originale;
Candidato agli Oscar 1989 per il miglior film; British Acamedy of Film and
Television Arts Awards 1989 per il miglior film; David di Donatello 1990 per il
miglior film straniero.
Trama
Anno 1959. A Welton, uno dei collegi più rinomati degli Stati Uniti, l'educazione e
l'insegnamento si basano sui valori della tradizione, della disciplina, dell'onore e
dell'eccellenza. Solo l'ultimo arrivato tra i professori, il docente di letteratura
inglese John Keating, ha uno stile pedagogico anticonformista. I ragazzi, di natura
trasgressivi e vitali, rimangono affascinati dai metodi inusuali del professore. Egli
spinge gli allievi ad assaporare il gusto della vita e a cogliere l'attimo fuggente: fa
strappare le pagine dei libri scritti in arido linguaggio accademico, fa salire gli
studenti in piedi sulla cattedra per vedere la vita da altre prospettive, insegna loro
a scrivere poesie. Sette dei suoi studenti fondano inoltre “la società dei poeti
estinti”`, un gruppo clandestino che legge poesie di notte in una caverna, poco
lontano dal collegio. Tra i partecipanti spiccano Neil e Todd, il primo un vulcano di
vitalità, il secondo timido e riservato Neil, preso dall'entusiasmo per l'arte, decide
di andare contro il diniego del padre e recitare una commedia di Shakespeare.
Quando però il genitore lo scopre e decide di punirlo mandandolo all'accademia
militare, egli si suicida. Il professore Kieting viene ritenuto responsabile della morte
del giovane, reo secondo i genitori e gli altri professori di aver usato metodi
devianti sui ragazzi e di aver spinto Neil a coltivare la passione per il teatro.
Espulso dalla scuola, mentre raccoglie le sue cose dall'aula di insegnamento,
Kieting assiste ad una scena toccante: il timido Todd, per far capire al professore
che le sue lezioni non sono state vane, sale in piedi sul proprio banco seguito
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dalla maggior parte della classe, insensibile alle minacce del nuovo insegnante di
letteratura.
Parole chiave:
Adolescenti – Attori – Collegi – Comportamento – Figli adolescenti –
Influsso – Insegnanti – Maltrattamento psicologico – Motivazioni – Padri –
Relazione educativa – Studenti
Soggetto: Attori: Adolescenti – Motivazioni – Ruolo dei padri
Soggetto: Collegi – Insegnanti – Relazione educativa con gli studenti
Soggetto: Figli adolescenti – Maltrattamento psicologico da parte dei padri
SCHEDA CRITICA
L’attimo fuggente si rivela un film molto complesso nella sua valutazione critica.
Ha ricevuto un enorme successo di pubblico (tanto da essere la pellicola che più
ha incassato nella stagione 89/90), soprattutto tra gli adolescenti, ma ha spaccato,
nel contempo, in due la critica cinematografica e il mondo della pedagogia. Se,
infatti, gli spettatori giovani sono rimasti entusiasti da un professore
anticonformista, da un docente di vita più che di letteratura, capace di rinunciare ai
libri di testo, per andare a fare lezione in un parco tirando calci ad una palla, o
sfogliando le foto ingiallite di una bacheca, la critica adulta ha invece intuito, in
quest’anomalo educatore, da una parte la legittimazione di una didattica
autoritaria, tesa a creare persone uguali, disattento alle diversità dei ritmi di
crescita (in particolare nei riguardi del timido Todd, più volte messo a disagio
davanti alla classe), dall’altra uno stimolo ad avvicinarsi, in luogo di una
formazione troppo rigida, al lato più emotivo dei ragazzi, l’unico forse capace di
accettare gli insegnamenti di un mondo adulto altrimenti considerato lontano. Le
due letture in realtà si sovrappongono. Se da un lato Kieting sembra il modello di
un insegnante iper-eccitato, sempre sopra le righe più per confuso desiderio di
distinguersi dagli altri che per necessità di superare i conformismi, interessato a
formare giovani iper-euforici e iper-attivi – rivelante è la frase “carpe diem” che i
ragazzi pronunciano prima di agire, che è insieme una specie di presa di coraggio
e una giustificazione di gesti inopportuni, come la dichiarazione d’amore fatta da
Knox o la telefonata di Dio al preside ideata da Charlie-Nuanda – dall’altro il
professore di letteratura tocca le corde più sensibili di un adolescente, spingendo i
ragazzi a trovare una identità lontano dai conformismi che la società richiede loro
(si veda la scena della passeggiata in cortile), ad apprezzare il gusto e la vitalità
delle parole e delle poesie, chiedendo loro di coltivare le proprie passioni, di vivere
pienamente la vita dal primo all’ultimo giorno, di usare il proprio cervello
criticamente senza farsi appiattire da lezioni preconfezionate (come ad es. dai
grafici per interpretare le poesie del professor emerito J. Evans. Pritchard).
La ragione di questa spaccatura, in certi casi estremista e inconciliabile, è da
ricondursi alla presenza dell’attore Robin Williams. All’interno di una schiera
d’interpreti sconosciuti, egli concentra su di sé uno sproporzionato sistema
d’attese – d’altronde da lui il pubblico si aspetta sempre performance mirabolanti e
sbalorditive – e la sua recitazione eccessivamente caricata (si vedano le scene in
cui Williams imita Marlon Brando o John Wayne) finisce per portare in secondo
piano tematiche ben più ragguardevoli. Non a caso l’istrionico attore ha ricevuto
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una nomination all’Oscar (disorientando anche il giudizio dell’Academy) quando
invece, all’interno dell’economia narrativa, appaiono molto più importanti le storie
dei sette ragazzi e in particolare, per via dell’opposizione dei comportamenti,
quelle di Neil e Todd.
Ad una visione capace di tenere in giusto conto gli eccessi, parrà evidente
l’accento che il film mette su tematiche che solo in parte coinvolgono gli aspetti
educativi, ma che sono altrettanto importanti: come il rapporto conflittuale tra
genitori e figli, le inquietanti aspettative che gravano su ragazzi che hanno padri
‘famosi’ (i ragazzi sono tutti ‘figli di papà’; la timidezza di Todd è causata dalle
continue richieste di imitare gli incredibili successi del fratello maggiore),
l’esigenza della ribellione per trovare una propria strada, la scoperta delle proprie
capacità espressive, la sconfitta di chi che non riesce a interagire con il mondo
adulto (il suicidio di Neil non è, infatti, da imputare a Kieting, ma alla debolezza del
ragazzo, nascosta dalla disinvoltura e dall’esigenza protettiva di recitare sempre
una parte), la possibilità di essere persone diverse da quello che vogliono gli altri
(Charlie si fa chiamare Nuanda), l’esigenza di protezione e affetto che il college
nega ai ragazzi e che essi ricercano nella grotta, simbolo materno per eccellenza.
La rappresentazione dell’adolescenza non appare dunque così monocorde come
la raffigurazione del mondo adulto (professori e genitori in testa). La descrizione
della natura conferma la nostra impressione: il paesaggio, impassibile e
immacolato come il comportamento dettato dalle regole dei grandi, trova vitalità
solo quando viene ‘corrotto’ dalla presenza di un ragazzo, sia che esso vaghi nella
notte alla ricerca di una grotta o che corra con la sua bicicletta in mezzo a stormi
di uccelli. I quali, non a caso, risvegliati dal torpore, si alzano nel cielo, indicando
la capacità di sognare e di volare con la fantasia quale caratteristica intrinseca di
ogni adolescente.
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L’educazione fisica delle fanciulle
Drammatico
Regista: Irvin, John
Autore del soggetto: Wedekind, Frank
Sceneggiatore: Lattuada, Alberto
Sceneggiatore: Jemma, Ottavio
Sceneggiatore: Carrington, James
Sceneggiatore: Sadie, Jones
Produttore: Di Benedetto, Ida
Produttore: Bifano, Stefania
Produttore: Djaoui, André
Produttore: Balzer, Ian
Fotografia: Zamarion, Fabio
Montaggio: Perpignani, Roberto
Musiche: Grabowsky, Paul
Scenografie: Giorgetti, Nello
Scenografie: Ferretti, Dante
Vietato ai minori di 14 anni
Cast: Hanna Taylor-Gordon (Direttrice), Natalia Tena (Vera), Anna Maguire
(Melusine), Anya Lahiri (Rain), Emily Pinn (Blanka), Mary Nighy (Hidalla), Urbano
Barberini (Principe), Silvia De Santis (Gertrude), Eva Grimaldi (Simba), Enrico Lo
Verso (Ispettore), Galatea Ranzi (Lady Helena)
Crediti: montaggio, Roberto Perpignani; musiche, Paul Grabowsky; scenografia,
Nello Giorgetti
Distribuito: Italia, 01Distribution
Trama
Turingia, Germania, fine Ottocento. In un prestigioso collegio si insegnano a delle
allieve adolescenti le buone maniere e l'arte della danza. La rigidità della direttrice
e dell'educazione impartita non stempera il rigoglioso entusiasmo delle ragazze,
molto affiatate tra loro, alcune delle quali, come Irene e Hidalla, ad un grado di
intimità tale da sfiorare il rapporto saffico. Un giorno, alcune ragazze scorgono la
direttrice introdursi lungo un passaggio segreto. Incuriosite, entrano nella zona
interdetta e vi trovano uno schedario con tutti i loro nomi. Scattato un allarme, le
ragazze tentano la fuga, ma una di esse, Vera, rimane intrappolata nella stanza e
lasciata morire dalla direttrice fingendo che la ragazza sia fuggita dal collegio.
Un'altra ragazza, Melusine, dopo alcuni giorni scopre che la direttrice sta facendo
seppellire il corpo senza vita di Vera e fugge inorridita nel cortile del collegio
inseguita da un cane feroce che fa strazio del suo corpo. Ferita, la ragazza è finita
durante la notte da una dose eccessiva di morfina, iniettatale per volere della
direttrice con l'intento apparente di sollevarla dall'incessante dolore. Sulla
sparizione di Vera e sulla morte di Melusine indaga intanto un giovane ispettore di
polizia, il quale, tuttavia, trova resistenza in altri funzionari che non intendono
infangare il buon nome del collegio.
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La vita continua a scorrere nell'istituto: Blanka è scelta come prima ballerina dello
spettacolo che si sta allestendo, ma dopo essere stata scoperta nel letto
dell'insegnante di danza Gertrude, il suo posto è preso da Hidalla. Durante lo
spettacolo, Hidalla genera il bramoso interesse di un principe, accompagnato al
balletto da Lady Melena, un'ex allieva che ora intende rilevare il collegio. Irene,
ingelositasi, si suicida impiccandosi tra un atto e l'altro. Hidalla, per reazione,
appicca un incendio alla scenografia del palcoscenico e il pubblico fugge
spaventato. Il principe prende Hidalla e la conduce con sé, mentre la direttrice si
spara un colpo di pistola. Giunti al suo palazzo, il principe stupra Hidalla
ripetutamente, infrangendo il suo sogno di fuga dal collegio.
Parole-chiave:
Adolescenti femmine − colle − Collegi − Danza − Femmine − Rapporti −
Relazioni interpersonali − Studenti − Suicidio − Violenza sessuale
Soggetto: Adolescenti femmine - Rapporti con la danza
Soggetto: Adolescenti femmine - Suicidio
Soggetto: Adolescenti femmine - Violenza sessuale
Soggetto: Collegi - Studenti : Femmine - Relazioni interpersonali
Scheda critica
Una miscela di generi e tonalità diverse
Il film, così come recitano i flani pubblicitari del film, è tratto dal romanzo di Frank
Wedekind, Mine Ha-ha - L’educazione fisica delle fanciulle, scritto nel 1903. Il
regista Alberto Lattuada, da sempre sensibile alle tematiche femminili e
adolescenziali (tra i suoi lavori I dolci inganni [Italia, 1960], Guendalina [Italia,
1957] e La cicala [Italia, 1980], solo per citarne alcuni), prende il testo dell’autore
nato in Germania nel 1864, recupera gli elementi più affascinanti e torbidi (il
mistero che si origina da un’educazione repressiva e dalla voglia di alcune
fanciulle di scoprire il proprio corpo) e progetta di farne un racconto teso, con una
trama piena di violenze fisiche e psicologiche che mostrino il disegno di brutale
crudeltà inscritto nelle istituzioni. Con l’intenzione di divaricare lo iato esistente tra
volontà di perfezione e aberrazione del risultato raggiunto, Lattuada ha scritto la
sceneggiatura con Ottavio Jemma, ma la lunga malattia che lo ha colpito e lo ha
portato alla morte nel luglio del 2005 gli ha impedito di girare in prima persona il
film, che invece è passato nelle mani di John Irvin, nella cui infanzia c’è
un’esperienza all’interno di un collegio inglese. Il risultato definitivo, dopo una
revisione della sceneggiatura ad opera di James Carrington e Sadie Jones è un
incompleto ibrido tra vari generi, in grado di muoversi più o meno agevolmente dai
territori minacciosamente soleggiati del racconto metafisico sul modello Picnic a
Hanging Rock (Picnic at Hanging Rock, Peter Weir, Australia, 1975) al mistery de
Il giardino delle vergini suicide (The Virgin Suicides, Sofia Coppola, USA, 1999),
per approdare alla claustrofobia da reclusione di Magdalene (The Magdalene
Sisters, Peter Mullan, Gran Bretagna/Irlanda, 2002), al thriller (la suspense che si
concentra sul personaggio di Vera chiusa nella stanza segreta), alle influenze
horror (l’aggressione di Melusine da parte dei cani rabbiosi), al racconto visionario
(la scenografia infuocata alle spalle di una disperatamente furente Hidalla sul
palcoscenico), al racconto di formazione tendente al nulla (non a caso il libro che
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serve per far scattare il meccanismo della libreria che conduce al passaggio
segreto è il Werther di Goethe). Il risultato è disomogeneo e non completamente
riuscito, anche perché uno dei limiti della pellicola di Irvin è il bozzettismo con cui
sono caratterizzati alcuni personaggi, che compaiono, introducono uno sviluppo
possibile e poi spariscono nell’indistinto di una narrazione che è misteriosa almeno
quanto la materia trattata.
IL RUOLO DEL MINORE E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
Il marcio dietro l’apparenza
Mentre scorrono i titoli di testa, delle scarpette da ballerina tentano di ergersi sul
parquet e poi di muoversi con grazia rispettando il tempo della musica proposta a
commento delle immagini. L’inquadratura ritaglia i soli piedi, lasciando il resto del
corpo della fanciulla fuori dal campo di ripresa e al di là delle possibilità di visione
dello spettatore. Chi è la ballerina? Quale la sua identità, la sua riposta speranza,
la sua segreta aspirazione? A ben guardare, soprattutto alla luce di ciò che
accadrà nel proseguimento del racconto, l’inizio è quanto mai programmatico nel
suo non ancora leggibile, ma già proposto simbolismo: tutto L’educazione fisica
delle fanciulle, infatti, ruota intorno al concetto di grazia apparente (ciò che si vede
e si percepisce: l’armonico movimento dei piedi danzanti) e di sostanza indefinibile
occultata alla vista (ciò che è posto al di là della possibilità di visione, ossia il resto
della sagoma della ballerina) e determina ogni misura della narrazione e ogni
assunzione di significato che da essa scaturisce. Un prestigioso collegio, una
ferrea disciplina, ordine, ottemperanza, armonia e benessere garantiti
dall’eleganza curata del luogo in cui le ragazze, giovani adolescenti, dimorano fin
dalla tenera età. Dietro l’affettata perfezione dell’educazione, delle regole imposte
e rispettate, dell’abbigliamento, delle stesse forme e linee all’interno degli ampi
locali del collegio, si nasconde l’imponderabile, il cui inopinato scoperchiamento,
viste le conseguenze, genera il superamento di un limite oltre il quale la tragedia si
impossessa della grazia e dell’armonia, annullando ogni speranza di riscatto e
appagamento. Ciò che le ragazze non devono assolutamente conoscere è la
verità nascosta dietro l’accurato allestimento approntato per loro: lo sconfinamento
oltre la libreria, che nasconde un passaggio segreto per gli schedari di ogni allieva
ospitata nell’istituto, rappresenta il superamento del limite con una sorta di
dimensione parallela in cui all’equilibrio e alla gradevolezza subentrano,
sostituendole, la disarmonia, la crisi e la disposizione alla tragedia. È al di là di
questa dimensione, infatti, che le fanciulle scoprono le umili origini di genitori che
erano state spinte a pensare facoltosi e aristocratici, è oltre il confine superato che
si genera l’incubo e il raccapriccio che si abbatte sul loro capo sempre meno
ingenuo (prima con l’autentica condanna a morte per fame di Vera, costretta oltre
il passaggio segreto dal perfido volere della direttrice; poi, in una sorta di effetto
valanga che non pare conoscere pause, con le altre tragedie che si susseguono
nel collegio). Il superamento della barriera è anche simbolo di una progressiva
perdita di quell’innocenza primigenia che culminerà con lo stupro di Hidalla da
parte del principe, in un ribaltamento da incubo delle aspirazioni solitamente
proposte dalle fiabe. Hidalla, infatti, ottiene il ruolo di prima ballerina dopo la
scoperta notturna di Blanka, prima scelta, nel letto della sua insegnante Gertrude
(la quale accenna ad una storia simile occorsa anni prima tra un’altra allieva e la
direttrice stessa), poi, in seguito ad una strabiliante performance in cui felina
sensualità e consapevole malizia si impadroniscono della scena e del candore
precedente, è presa di peso dal principe e portata nel suo lussuoso palazzo. Ma il
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lieto fine non è assolutamente possibile, anche per le modalità narrative ed
iconiche di rappresentazione: Hidalla diventa prima ballerina in seguito ad una
delazione che introduce la direttrice nella stanza di Gertrude; durante la sua
esibizione, la sua intima amica Irene si suicida dopo aver osservato lo sguardo
lascivo della stessa Hidalla rivolto al principe sempre più bramoso; questi, dopo
l’incendio appiccato rabbiosamente dalla ragazza, ghermisce Hidalla e la porta in
carrozza nella sua dimora, ma le deformazioni della caratterizzazione fiabesca
non conducono, inevitabilmente, ad un contatto tenero e premuroso. La perdita
definitiva dell’innocenza è tutto nelle mani insanguinate di Hidalla al termine del
tumultuoso rapporto e nella conseguente fuga verso il nulla. Il superamento della
dimensione nascosta ha originato travaglio e sofferenza, morte e devastazione di
quell’ordine che la violenza stessa dell’educazione ha contribuito a creare. Sullo
sfondo, ma è solo il riflesso di un paio di battute, la Grande Guerra si appresta a
pretendere il suo funebre tributo, per un’ulteriore perdita di un’innocenza forse mai
posseduta completamente.
RIFERIMENTI AD ALTRE PELLICOLE E SPUNTI DIDATTICI
L’educazione fisica delle fanciulle origina indubbiamente una riflessione sulla
violenza delle istituzioni e sulle loro modalità di imporre regole e disciplina. Il
confronto con film quali Magdalene di Peter Mullan (2002) e Angeli ribelli di Aisling
Walsh (Song for a Raggy Boy, Irlanda/Spagna/Gran Bretagna/Danimarca, 2003)
appare opportuno per osservare la sproporzione esistente tra disciplina impartita e
asperità del risultato raggiunto. D’altro canto, però, il mistero che si inserisce
surrettiziamente in un collegio ad esclusiva presenza femminile e l’epoca in cui è
ambientato il film, nonostante la mancanza di suggestione fornita da una Natura
insondabile e mai completamente comprensibile, rammentano anche Picnic a
Hanging Rock di Peter Weir (1975), storia della scomparsa di alcune studentesse
durante una gita nell’Australia di inizio secolo, mentre la crisi di un’adolescenza
che sprofonda rovinosamente nella tragedia si pone sullo stesso piano di Il
giardino delle vergini suicide, sorprendente esordio, nel 1999, di Sofia Coppola.
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La frattura del miocardio
Commedia
Regista: Fansten, Jacques
Autore del soggetto: Fansten, Jacques
Sceneggiatore: Fansten, Jacques
Produttore: Boeken, Ludi
Produttore: Fasten, Jacques
Fotografia: Saillier, Jane-Claude
Montaggio: Farrugia, Colette
Musiche: Sénia, Jean-Marie
Scenografie: Gagneux, Gilbert
Film per tutti
Cast: Sylvain Copans (Martin), Nicolas Parodi (Jerome), Olivier Montiege
(Antoine), Cecilia Rouaud (Marianne), Lucie Blossier (Claire), Delphine Gouttman
(Helene), Benoît Gautier (Julien), Kaldi el Hadj (Dede), Mathieu Poussin (Nicolas),
Romuald Jarny (Pierrot), Wilfrid Flandrin (Mozart), Dominique Lavanant (la madre
di Claire), Maurice Bénichou (il vicino di casa), Jacques Brunet (il preside),
Catherine Hubeau (Dodoche), Gérard Croce (il giudice)
Crediti: montaggio, Colette Farrugia; musiche, Jean-Marie Sénia; scenografie,
Gilbert Gagneux
Distribuito: Italia, Pentavideo, c1991
Trama
Per evitare di finire in un orfanotrofio, Martin decide di tenere nascosta agli adulti
del paese in cui vive la morte della madre. Aiutato dai propri compagni di classe il
ragazzino organizza in tutta segretezza una sorta di funerale e seppellisce il corpo
nella campagna. Ma il comportamento di Martin, abbattuto per la perdita, non
passa inosservato e gli insegnanti chiedono al ragazzino di poter incontrare la
madre. Ben presto si scopre la verità, la polizia viene informata e il corpo ritrovato:
per un po' Martin può nascondersi sapendo di poter contare sull'aiuto e l'omertà
dei suoi compagni e di qualche adulto ma, alla fine, deve arrendersi. I suoi amici
non lo abbandoneranno neanche quando sarà mandato nel tanto temuto
orfanotrofio.
Parole chiave:
Adolescenti − Adolescenti istituzionalizzati − Coetanei − Comportamento −
Effetti − Elaborazione del lutto − Figli adolescenti − Madri − Morte − Rapporti
Soggetto: Adolescenti istituzionalizzati - Rapporti con i coetanei
Soggetto: Elaborazione del lutto da parte degli adolescenti
Soggetto: Figli adolescenti - Comportamento - Effetti della morte delle madri
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Scheda critica
È forte il rischio di scadere in un sentimentalismo di maniera quando si mettono in
contatto due realtà opposte come l’adolescenza e la morte: basandosi
principalmente sulla convinzione che queste due dimensioni debbano dare vita
oltre che a traumi irreversibili anche a un melenso patetismo che priva i giovani
protagonisti delle storie di qualsiasi capacità reattiva di fronte al dolore, il cinema
ha spesso tentato di ricondurre i loro comportamenti a una serie di stereotipi che
ricalcano, scimmiottandoli, quelli degli adulti. Il merito principale di La frattura del
miocardio è, invece, quello di spiazzare le attese dello spettatore, dando
un’immagine dell’adolescenza di fronte alla morte, inedita e probabilmente più
veritiera. Se la morte resta certamente un evento doloroso essa appare, in
superficie, meno traumatica di quanto non si possa immaginare: la scomparsa
della madre di Martin, innanzitutto, è lasciata fuori campo e ridotta, nel racconto
fatto dal protagonista ai suoi compagni, a un episodio che può persino apparire
banale nella sua dinamica (“È andata a riposare e, quando le ho portato la cena,
non si muoveva più”). Il fatto è subito ricondotto a un ambito razionale, è così
sottratto alla dimensione puramente emotiva: uno dei compagni del ragazzino,
figlio di un medico, si affretta a ‘certificare’ che la donna è deceduta per la frattura
del miocardio. La diagnosi, per quanto fantasiosa e scientificamente inattendibile,
costituisce tuttavia un primo, fondamentale passo in quel processo di elaborazione
del lutto che consiste nel ricondurre a una dimensione accettabile un evento
tragico come la perdita di una persona cara: è impossibile avere un medico legale
e, così, i ragazzi si arrangiano, fanno di necessità virtù, aggrappandosi alle poche
ingenue certezze di cui possono disporre. Il funerale, poi, è poco più di una serie
di gesti necessari, una sorta di rituale laico, magari goffo e approssimativo nella
sua ‘messa in scena’, ma profondamente civile, privo di quell’ostentazione dei
sentimenti tipica del mondo adulto. C’è piuttosto un’accettazione serena dei fatti
che solo a uno sguardo superficiale può essere scambiata per volontà di
negazione: la morte è realmente un evento privato, e nascondere il corpo della
madre di Martin è l’unico espediente per non lasciare che gli adulti, scandalizzati
per l’occultamento del cadavere ma incuranti del destino del ragazzino, si
impossessino della situazione.
L’intelligenza del film sta nella volontà di non cedere a un facile psicologismo che
avrebbe intaccato il fragile ma armonioso equilibrio creato dal regista tra il senso
del surreale prodotto dal contatto con la morte – che, tuttavia, non cede mai alla
tentazione di trasformare la curiosità in gusto per il macabro – e invece la misura
nella descrizione dei sentimenti, delle paure e delle angosce dei giovani
protagonisti. Il taglio dato al racconto e alle immagini contribuisce non poco alla
riuscita della pellicola: inizialmente concepito come prodotto televisivo, il film è
retto da una regia che non facendo mai sfoggio di particolare originalità si limita
semplicemente a seguire i protagonisti della storia, calandoli in un’atmosfera
dimessa, da cronaca scarna eppure efficace. Proprio per questo motivo la prima
parte del film, che vede protagonisti quasi esclusivi Martin e i suoi compagni di
classe, appare più riuscita della seconda, nella quale entrano in scena gli adulti: a
parte alcune rare figure di genitori, i rappresentanti delle istituzioni (insegnanti,
poliziotti, educatori dell’orfanotrofio) sono raffigurati in maniera poco credibile e, a
tratti, addirittura caricaturale. Certo questo è un modo per evidenziare ancora
meglio la maturità dei ragazzi di fronte alla situazione ma, alla lunga, va a inficiare
il bilancio complessivo di un’opera altrimenti pienamente riuscita.
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La stanza di cloe
Drammatico
Regista: De Heer, Rolf
Autore del soggetto: De Heer, Rolf
Sceneggiatore: De Heer, Rolf
Produttore: De Heer, Rolf
Produttore: Fusco, Micaela
Produttore: Jackson, Sharon
Produttore: Paterson, Fiona
Produttore: Pedersoli, Giuseppe
Produttore: Procacci, Domenico
Fotografia: Clark, Tony
Montaggio: Nehme, Tania
Musiche: Tardif, Graham
Scenografie: Paterson, Fiona
Film per tutti
Cast: Paul Blackwell (Il padre), Chloe Ferguson (la bambina a sette anni), Phoebe
Ferguson (la bambina a tre anni), Celine O'Leary (la madre)
Crediti: montaggio, Tania Nehme; musiche, Graham Tardif; scenografia, Fiona
Paterson
Prodotto: Australia: Francia: Italia: Fandango Production Marvel Movies SBS
Indipendent Smile Production The South Austeralia Film Corporation Vertig , 1996
Distribuito: Italia, BMG VideoMikado
Trama
Cloe ha sette anni e da un po' di tempo si rifiuta di parlare per protestare contro i
continui litigi dei suoi genitori che stanno progressivamente deteriorando la vita
della famiglia. Il suo mutismo è totale, ma solo in casa: di giorno Cloe continua ad
andare a scuola e quando torna a casa si chiude nella sua stanza dove vive in un
mondo tutto suo fatto di ricordi, desideri, fantasie, paure.
I genitori non danno molto peso a questi silenzi (imputandoli a una fase critica
della sua crescita destinata a non durare), la coccolano, giocano e sono affettuosi
con lei ma, allo stesso tempo, continuano a discutere e a scontrarsi senza riuscire
a trovare un accordo che dia serenità a tutti. Quando è sola Cloe ricorda i suoi
primi anni di vita quando i genitori erano sereni e la abbracciavano continuamente,
pensa che desidererebbe avere un cane, che vorrebbe vivere in campagna e,
attraverso il disegno esprime il suo bisogno di una vita tranquilla, a dispetto dei
ripetuti litigi che portano la coppia sull'orlo del divorzio.
Appresa la notizia della separazione, Cloe si rinchiude in un armadio dove resta
nascosta per un po': spaventati dalla reazione della figlia i genitori decidono di
discutere più pacatamente la situazione e giungono alla decisione di separarsi per
un periodo di tempo limitato affinché si interrompa il circolo vizioso di accuse
reciproche del quale sono prigionieri.
Il momentaneo allontanamento dei coniugi non servirà a ridare un'immediata
serenità alla famiglia, ma Cloe, poco a poco, ricomincerà ad esprimersi (in parte
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attraverso le parole, in parte attraverso i disegni) contribuendo in parte a far
riflettere il padre e la madre sui loro errori.
Prole-chiave:
Atteggiamenti − Bambini − Conflittualità − Disagio − Disegni − Genitori −
Identità − Rappresentazione
Soggetto: Bambini - Disagio - Rappresentazione mediante i disegni
Soggetto: Bambini - Identità
Soggetto: Genitori - Conflittualità - Atteggiamenti dei bambini
Scheda critica
Gli inganni della parola
Il regista australiano di origine olandese Rolf De Heer si è sempre interessato a
storie con protagonisti affetti da disabilità fisiche o da disturbi mentali: si pensi a
Balla la mia canzone nel quale una donna tetraplegica rivendicava il proprio diritto
a una vita normale (anche dal punto di vista sessuale) o a Bad Boy Bubby, il cui
giovane protagonista, segregato per anni in uno scantinato dalla propria madre,
partiva alla scoperta del mondo. Anche la piccola Cloe soffre di un evidente
disturbo (si rifiuta di parlare) e, malgrado le apparenze, proprio con il personaggio
di Bubby ha non pochi punti in comune, a incominciare dal nucleo centrale del suo
disagio che è da ricercarsi nella famiglia, fino all’individuazione di quel
meccanismo “perverso” che si rivela essere in molte situazioni l’uso del linguaggio,
la comunicazione verbale, qui interrotta volontariamente dalla bambina, lì
capovolto dal giovane disturbato che, finalmente “venuto alla luce” dopo
trentacinque anni di prigionia, decideva di andarsene in giro ingenuamente e
impunemente a pronunciare verità indicibili seminando il panico tra la gente
cosiddetta normale. Nel caso di Cloe tutto ciò non è possibile, anzi sì, ovvero lo è
ma solo in virtù di un meccanismo narrativo prettamente cinematografico che
consente allo stesso tempo di articolare il racconto su più piani: quello reale dei
genitori che parlano molto, tentano in tutti i modi di far parlare Cloe e continuano
più o meno indisturbati a discutere e litigare; quello interiore della bambina che ha
rinunciato a parlare (ma non a riflettere su quanto accade attorno a sé)
chiudendosi in un mondo di ricordi, fantasie, pensieri ed emozioni delimitato
fisicamente dalle quattro mura della sua stanza da letto ma non chiuso
ermeticamente agli stimoli esterni.
Il grande merito di La stanza di Cloe sta proprio nel coltivare caparbiamente,
coerentemente e fino in fondo questa dicotomia insanabile tra mondo adulto,
fondato soprattutto su un uso illusorio del linguaggio, alla ricerca di continui
compromessi e universo infantile fatto di esigenze e desideri irrinunciabili e
assoluti, bisognoso di risposte certe e senza appello. Per fare questo de Heer
rimuove dal luogo dell’azione qualsiasi elemento superfluo, lasciando in campo
solo ciò che è necessario, ovvero i tre protagonisti principali (Cloe, il padre e la
madre) all’interno di un unico ambiente, la stanza di Cloe, concedendosi solo
qualche digressione dal presente (dal quale è cancellata ogni volontà narrativa
forte a favore di un racconto frammentario ma solo apparentemente disorganico)
in occasione dei ricordi e delle visioni utopiche della bambina. Una sorta di
palcoscenico dotato di porte per le entrate e uscite di scena sul quale agiscono, né
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più né meno che in teatro, dei personaggi (i genitori) i cui ruoli sono
drammaticamente preordinati, il cui vano e scomposto agitarsi stride con il bisogno
di chiarezza ed efficacia della bambina. A volte, certo, i simbolismi possono
suonare scontati: i pesci, ovviamente muti, con i quali la bambina parla nelle prime
sequenze del proprio rifiuto di parlare; le bambole del tipo Barbie con cui simula
un matrimonio sereno, diverso da quello dei genitori; i vetri colorati di una delle
porte attraverso i quali osserva i genitori litigare, sotto una luce blu più fredda, o
rappacificarsi sotto una luce arancione più calda. Tuttavia il film, al di là di qualche
ingenuità ed un finale forse eccessivamente ottimista e repentino, La stanza di
Cloe rimane un tentativo intelligente di dare voce a ai pensieri inaspettatamente
profondi di chi pensa che le parole da sole non possano bastare.
IL RUOLO DEL MINORE E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
Silenzi eloquenti
I meriti di La stanza di Cloe, tuttavia, non si fermano alla sola capacità di ribadire il
bisogno da parte dei bambini di una dimensione stabile e concreta soprattutto da
parte di quelle figure di riferimento essenziali e irrinunciabili che sono i genitori. Il
suo maggior pregio è di fare tutto ciò riuscendo anche a mettere in evidenza –
forse ingenuamente, ma con innegabile efficacia – le reazioni psicologiche dei
bambini di fronte a processi di disgregazione del nucleo familiare. Cloe, in fondo,
non fa niente di più che portare alle estreme conseguenze quel rifiuto di
comunicare dietro il quale si trincerano tutti i bambini che sono in condizione di
difficoltà, il regredire ad uno stato pre-infantile per chiedere aiuto attirando
l’attenzione dei genitori. Cloe è ancora molto giovane (ha circa sette anni) ma
ricorda già con nostalgia la propria condizione di pochi anni prima, riconducendo
l’unità della famiglia e l’armonia tra il padre e la madre ad una serie di possibilità
(quella di dormire nel letto dei suoi, l’abbraccio affettuoso di entrambi i genitori)
che ora non fanno più parte della sua vita di “bambina grande”. Anche il suo
rifugiarsi nella stanza è una regressione allo stato uterino che culmina nella
decisione di nascondersi nell’armadio e, successivamente, di rivelare la propria
presenza ai genitori riprendendo a parlare per venire letteralmente alla luce una
seconda volta.
Le parole dividono, afferma Cloe ad un tratto, ribadendo la propria sfiducia nei
confronti della comunicazione verbale: attraverso le parole si può raggiungere un
accordo, un equilibrio, mentre invece ciò che lei ricerca è una forma di “unione
nella totalità” che non ammette compromessi. Di qui il tentativo di riconquistare
una condizione in cui i gesti e gli atti valgano più di quelle parole ora considerate
dagli adulti l’unico canale (o quasi) attraverso il quale comunicare. In più
occasioni, infatti, ciò che Cloe cerca più ardentemente è un contatto fisico con i
genitori (essere coccolata dalla madre, arrampicarsi e stare in equilibrio sulle
spalle del padre, ritornare a dormire nel letto matrimoniale), come a ribadire
l’inutilità dei discorsi, delle discussioni e soprattutto dei litigi di fronte all’esigenza di
forme di comunicazione che non lascino spazio ad equivoci.
Due mondi inconciliabili, dunque? Non del tutto. È già emersa l’importanza delle
immagini nella vita della bambina: la memoria di quella condizione positiva vissuta
nella primissima infanzia e ora andata perduta è affidata innanzitutto a una serie di
immagini (dei flashback dal vago sapore onirico, nel film), i suoi desideri e il
piacere di fantasticare ad altre sequenze, le uniche del film che si aprono verso
uno spazio esterno a quello domestico (la tanto agognata campagna). Sarà
proprio attraverso delle immagini – questa volta disegnate – che Cloe deciderà di
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comunicare con i genitori per segnalare loro i motivi del suo disagio: immagini
ingenue ma essenziali, capaci di illustrare desideri (la vita all’aria aperta), di
segnalare la consapevolezza della propria condizione (l’assenza di un futuro al di
fuori dell’unità della famiglia), di esporre i propri punti di vista (l’impossibilità di
comunicare di fronte a un vero e proprio “muro di parole”). Quanto siano
inconciliabili i discorsi dei genitori (che la voce fuori campo della piccola
puntualmente anticipa o stigmatizza, sottolineandone ironicamente l’inutilità) con il
suo mondo fatto di colori, immagini e sensazioni, lo testimonia l’atteggiamento di
totale chiusura verso le parole del padre e della madre sintetizzato dagli
scarabocchi che Cloe traccia con un gessetto nero su dei fogli mentre i due
tentano di convincerla che, in fondo, il divorzio non sarà poi così negativo.
Attraverso il disegno, estensione diretta della sua immaginazione la piccola Cloe
sembra ribadire concretamente l’invito rivolto (mentalmente, è ovvio) ai suoi
genitori, ovvero di “avere più fantasia”, trovare soluzioni diverse ai propri problemi
al di là delle parole.
RIFERIMENTI AD ALTRE PELLICOLE E SPUNTI DIDATTICI
Impossibile non ricordare tra le opere che hanno affrontato il problema dei bambini
alle prese con genitori in crisi coniugale I bambini ci guardano di Vittorio De Sica.
Con il film del grande regista italiano La stanza di Cloe ha in comune soprattutto
l’incapacità da parte degli adulti di assumere un atteggiamento adulto e coerente,
capace di educare più con l’esempio che con le parole. Un altro elemento comune
a entrambe le pellicole è la maturità dei bambini di fronte a tali situazioni: proprio
come il piccolo Pricò del film del 1943, Cloe è dotata di una grande maturità
interiore, a dispetto del suo desiderio di ritornare in una condizione di unione totale
con i genitori.
Non pochi sono, poi, i film che vedono protagonisti bambini o adolescenti affetti da
mutismo o con gravi disturbi del linguaggio: si va dal capolavoro di François
Truffaut Il ragazzo selvaggio al classico Anna dei miracoli di Arthur Penn,
dall’enigmatico ma superficiale La voce del silenzio di Michael Lessac,
all’interessante ma poco conosciuto Prima la musica poi le parole di Fulvio Wetzl.
Film diversissimi che potrebbero andare a costituire un piccolo ma pregnante ciclo
di proiezioni sul rapporto conflittuale ma indispensabile che bambini e adolescenti
in difficoltà hanno con l’apprendimento e l’uso del linguaggio.
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Mignon è partita
Commedia
Regista: Archibugi, Francesca
Autore del soggetto: Archibugi, Francesca
Autore del soggetto: Malatesta, Gloria
Autore del soggetto: Sbarigia, Claudia
Sceneggiatore: Malatesta, Gloria
Sceneggiatore: Sbarigia, Claudia
Sceneggiatore: Archibugi, Francesca
Produttore: Pescarolo, Leo
Produttore: De Laurentiis, Guido
Fotografia: Verga, Luigi
Montaggio: Muschietti, Alfredo
Musiche: Gatto, Roberto
Musiche: Lena, Battista
Scenografie: Spano, Massimo
Film per tutti
Cast: Leonardo Ruta (Giorgio), Céline Beauvallet (Mignon), Stefania Sandrelli
(Laura Forbicioni), Jean Pierre Duriez (Federico Forbicioni), Massimo Dapporto
(Aldo), Francesca Antonelli (Chiara), Daniele Zaccaria (Tommaso), Eleonora
Sambiagio (Antonella), Flavio Chiappalone (Giacomino), Lorenzo De Pasqua
(Cacio), Giuseppe Giordani (Giuseppe), Giulio Marcello (Pennellone), Valentina
Cervi (Valentina), Roberto Berini (Massimo), Micheline Presle (la professoressa
Girelli).
Cast: montaggio, Alfredo Muschietti; musiche, Roberto Gatto e Battista Lena;
scenografie, Massimo Spano.
Premi e riconoscimenti: David di Donatello 1989 per il miglior regista esordiente, la
migliore sceneggiatura, il miglior fonico in presa diretta, a Stefania Sandrelli come
miglior attrice protagonista ed a Massimo Dapporto come miglior attore non
protagonista.
Prodotto: Francia: Italia: Chrysalide Film Ellepi Film Rai Tre, 1988.
Distribuito: Italia: Cine Video Corporation, 1988.
Trama
Roma, anni Ottanta. Giorgio, tredici anni, è il secondo dei cinque figli di Federico e
Laura Forbicioni: è un ragazzino sensibile e studioso, diverso dai suoi fratelli più
spensierati e superficiali.
A portare ulteriore scompiglio nella già turbolenta routine della famiglia, arriva da
Parigi la cugina Mignon, quindici anni, sofisticata e scostante, spedita a Roma
presso gli zii in seguito a uno scandalo finanziario nel quale è coinvolto il padre.
La convivenza tra la ragazzina e i cugini non è facile e l'unico tra essi con cui la
giovane sembra legare è Giorgio che, segretamente, s'innamora di lei. Incapace di
confessare i propri sentimenti a Mignon, sempre più deluso, quando scopre la
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cugina che sta facendo l'amore con un ragazzo, Giorgio tenta, ingenuamente, di
suicidarsi con la naftalina.
Ma neanche questo gesto serve a far capire a Mignon i sentimenti di Giorgio nei
suoi confronti. La ragazzina, dal canto suo, farà credere di essere incinta per poter
tornare a Parigi: inutilmente il protagonista cercherà, poco prima della sua
partenza, di dirle qualcosa.
Parole chiave:
Adolescenti – Affidamento
psicologico- Tentato suicidio
familiare
–
Preadolescenti
–
Sviluppo
Soggetto: Adolescenti – Affidamento familiare
Soggetto: Preadolescenti – Affidamento familiare
Soggetto: Preadolescenti e adolescenti – Sviluppo psicologico
SCHEDA CRITICA
Introducendo la narrazione attraverso la voce fuori campo del protagonista,
Francesca Archibugi struttura il racconto di Mignon è partita secondo i canoni di
un romanzo di formazione di stampo ottocentesco. Del resto, riferimenti più o
meno diretti a tale genere letterario non mancano nel film: in una delle prime
sequenze, Giorgio e Mignon sono uno accanto all’altra, intenti a leggere Grandi
speranze di Charles Dickens (la ragazzina non manca di far notare al cugino che
lei sta leggendo la versione originale inglese) e, successivamente, li ritroviamo in
una scena cruciale sulle sponde del Tevere mentre leggono ad alta voce L’isola di
Arturo. Proprio il romanzo di Elsa Morante può fornirci lo spunto per interpretare
un film come questo che, con il suo aspetto da commedia agrodolce, affronta
alcuni fra i temi cruciali dell’adolescenza. Anche Giorgio, come Arturo (che passa
tutta l’infanzia e l’adolescenza a Procida), vive in una specie di isola: l’indicazione
geografica precisissima (Roma, quartiere Flaminio, piazza Melozzo da Forlì) che
introduce il film, indica che l’azione sarà limitata allo spazio ristretto di un isolato,
quello del caseggiato nel quale si trova l’appartamento della famiglia del
protagonista. Sintetizzata efficacemente da un simbolo (le sbarre di quel cancello
attraverso il quale Giorgio, nella prima sequenza, entra nel cortile di casa perché
ancora abbastanza esile per poterci passare, ma che alla fine del film gli
impediranno di raggiungere Mignon perché ormai cresciuto), la maturazione del
protagonista si realizza grazie a un percorso di conoscenza di se stesso e dei
propri sentimenti e attraverso la delusione amorosa, frutto della sua indecisione e
timidezza.
Giorgio, piccolo intellettuale che a tredici anni conosce già gli autori latini, si trova
così a fare i conti con la propria crescita interiore precocissima cui non
corrisponde quella fisica ed emotiva che, fatalmente, si realizza troppo tardi,
quando oramai l’oggetto del suo desiderio gli si sottrae irrimediabilmente. In un
dialogo con la sua professoressa delle scuole medie – quest’ultima aveva
contribuito in maniera determinante al suo sviluppo intellettuale – emergerà che il
ragazzino, alle superiori, decide di andare male a scuola, forse per sentirsi più
simile a quell’amico del fratello cui Mignon ha scelto di concedersi.
Così, crescere significa diventare mediocri, simili agli altri: il goffo tentativo di
suicidio messo in atto dal protagonista nella seconda parte del film – che da un
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punto di vista meramente drammatico è motivato dalla visione dell’amplesso di
Mignon con un ragazzo più grande – può essere allora interpretato come un
estremo sforzo per sottrarsi a quella mediocrità che lo circonda e nella quale
Giorgio si sente inesorabilmente risucchiato allo stesso modo di Edmund, il piccolo
protagonista di Germania anno zero di Roberto Rossellini, dal quale il ragazzino
sembra voler trarre ispirazione dopo aver assistito a una proiezione
cinematografica del vecchio capolavoro.
Questa opera prima rivelò Francesca Archibugi come autrice capace di descrivere
l’universo sentimentale degli adolescenti attraverso uno sguardo affettuoso e
commosso. Il film, infatti, ci presenta, oltre ai due protagonisti principali (Giorgio e
Mignon) una galleria quanto mai varia di figure – tutte sapientemente delineate e
delicatamente dirette – che, fanno da sfondo corale alla vicenda principale.
Significative, a tal proposito, sono le storie sentimentali parallele dei genitori di
Giorgio che, intrecciandosi con quella dei due ragazzini, spesso contribuiscono ad
anticipare, completare o rafforzare il senso del racconto.
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Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano
Drammatico
Regista: Dupeyron, François
Autore del soggetto: Schmitt, Eric Emmanuel
Sceneggiatore: Dupeyron, François
Sceneggiatore: Schmitt, Eric Emmanuel
Produttore: Pétin, Michèle
Produttore: Pétin, Laurent
Fotografia: Chevrin, Rémy
Montaggio: Faysse, Dominique
Musiche: Lindon, Valérie
Scenografie: Wyszkop, Katia
Altro autore: Bouchard, Catherine
Film per tutti
Titolo originale: Monsieur Ibrahim et les fleurs du Coran
Cast: Omar Sharif (Monsieur Ibrahim), Pierre Boulanger (Mosè), Gilbert Melki (il
padre), Lola Naymarl, Isabelle Adjani, Eric Caravaca.
Crediti: montaggio, Dominique Faysse; musiche, Valérie Lindon; scenografie,
Katia Wyszkop; costumi, Catherine Bouchard.
Contenuti extra: Trailer italiano e francese; Galleria fotografica; Filmografie; La
locandina, Il Leone d'oro a Omar Sharif; La carriera di un mito; L'intervista di Alain
Elkann.
Prodotto: Francia: ARP Selection Lucky Red, 2003
Distribuito: Italia: Lucky Red
Trama
Parigi, anni '60: Mosè, detto Momò, di famiglia ebrea, abbandonato quand'era
piccolo dalla madre, abita con il padre in un quartiere periferico della città; dalla
finestra della sua stanza osserva la sfilata delle prostitute che lavorano proprio sul
marciapiede nell'isolato di casa sua. Il rapporto con il padre non è certo buono,
anche perché il genitore, spesso depresso o arrabbiato per le sue pessime
condizioni lavorative, è sempre pronto a rinfacciare a Momò di non essere come il
fratello Popol, partito con la madre molti anni prima.
Alla soglia dei sedici anni, deciso a perdere la verginità, contrariamente ai rigidi
precetti del padre, dà fondo ai suoi risparmi per pagarsi un rapporto sessuale.
Inoltre, per continuare a frequentare le prostitute, comincia a rubacchiare nel
negozio di fronte a casa, gestito dall'arabo Ibrahim, e a fare la cresta sulla spesa.
Tra Momò e il vecchio Ibrahim si innesca lentamente una complicità sempre più
forte, con l'arabo (appellativo utilizzato come sinonimo di musulmano), che
dispensa le sue perle di saggezza coraniche alle orecchie insieme ingenue e
disilluse del ragazzo.
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Perso il lavoro, il padre si allontana da casa per la vergogna abbandonando il figlio
e ben presto arriva la notizia del suo suicidio. Momò è ormai indipendente e in
grado di compiere consapevolmente le scelte migliori per sé: all'arrivo della madre,
dopo moltissimi anni, dichiara di chiamarsi Mohamed per non dover essere
affidato alle sue cure e viene a sapere da lei che Popol non è mai esistito. Il
rapporto con Ibrahim, intanto, è diventato a tutti gli effetti genitoriale, e dopo aver
proceduto all'atto di adozione, padre e figlio partono sulla loro nuovissima
decappottabile per un viaggio in Turchia.
In realtà quello, per Ibrahim, si rivelerà l'ultimo viaggio: a causa di un incidente
stradale muore nel suo minuscolo villaggio di origine. Tutta la sua eredità, un
vecchio Corano con due fiori tra le pagine, è per il figlio Momò. L'ultima sequenza
ci restituisce un Momò cresciuto, ormai noto come Mohamed, sulla soglia della
piccola bottega del quartiere, intento a dispensare ad altri i suoi `fiori del Corano.
Parole chiave:
1960-1969 – Abbandono – Adolescenti – Adozione – Anziani – Figli – Figli
adolescenti – Madri – Padri – Parigi – Rapporti – Religione – Sessualità –
Sviluppo psicologico
Soggetto: Adolescenti – Adozione – Parigi – 1960-1969
Soggetto: Adolescenti – Rapporti con gli anziani – Parigi – 1960-1969
Soggetto: Adolescenti – Rapporti con la religione – Parigi – 1960-1969
Soggetto: Adolescenti – Sessualità – Parigi – 1960-1969
Soggetto: Adolescenti – Sviluppo psicologico – Parigi – 1960-1969
Soggetto: Figli – Abbandono da parte delle madri – Parigi – 1960-1969
Soggetto: Figli adolescenti – Rapporti con i padri – Parigi – 1960-1969
SCHEDA CRITICA
Vecchia Nouvelle Vague
Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano si pone prima di tutto come un omaggio agli
anni ’60. Sulla strada che Momò osserva instancabilmente dalla sua finestra,
sfilano, è proprio il caso di utilizzare questo termine, bellissime donne con abiti
variopinti e retrò sfiorate da enormi automobili colorate e meravigliose, tra le note
sincopate che la radio trasmette come un invito a sciogliersi in un ballo scatenato.
Ed ancora, con questo film, Francois Dupeyron costruisce un piccolo monumento
alla Nouvelle Vague, la nuova corrente cinematografica che proprio a partire dalla
Francia, in quegli anni, rivoluzionava, con autori-critici come Godard, Truffaut,
Resnais, Rohmer, il modo di fare e pensare il cinema. Un cinema che in quegli
anni finiva per le strade come quelle perlustrate dal protagonista dove, non a caso,
sulle note di una canzonetta intitolata “Nouvelle vague” ci si prepara a girare una
scena curiosamente simile a Fino all’ultimo respiro, con un regista curiosamente
simile proprio a Jean-Luc Godard. Con un divertente esercizio di imitazione e
modernizzazione, Dupeyron ri-tenta quello scavalcamento emotivo delle barriere
di sicurezza, quel tentativo straordinariamente riuscito di abbassare la macchina
da presa al livello del cuore dell’uomo e della realtà, di andare oltre la finzione pur
mantenendo la poesia; ecco allora che la macchina scende continuamente dal
cavalletto, in groppa all’operatore, per respirare, muoversi e traballare liberamente
al fianco, di fronte e dentro i protagonisti. Un modo efficace di affrontare una storia
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che vive sui volti degli attori, quello perfetto di Omar Sharif e quello bellissimo di
Pierre Boulanger, e nelle loro parole vive pronunciate con i denti, con le labbra,
con la lingua.
Vano e deludente, invece, cercare nel film un approfondimento sull’Islam o sui
rapporti profondi tra le religioni monoteiste, risolto sbrigativamente da un excursus
sull’odore dei luoghi di culto (incenso nelle chiese ortodosse, candele in quelle
cattoliche, sudore in Moschea), e con il Corano ridotto quasi ad un libro di
aforismi.
IL RUOLO DEL MINORE E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
La scelta del padre
Mosè, emblema dell’adolescenza come età della trasformazione dolorosa ma
necessaria, vive una sorta di lacerazione interiore: da un lato agisce come un
adulto, rompendo simbolicamente il salvadanaio a cui fin dall’infanzia aveva
affidato i propri risparmi per poter perdere la verginità e sentirsi finalmente
cresciuto, dall’altro è in cerca di qualcuno che lo aiuti a sviluppare una propria
consapevolezza, un maestro di vita che lo traghetti nella maturità spirituale. Il
padre, abbandonato a sua volta dalla moglie per la sua incapacità di amare e di
affrontare la vita, incapace persino di controllare il proprio corpo, invece di
occuparsi di lui si rifugia nella finzione dei suoi libri polverosi e nell’invenzione di
un fantomatico figlio perfetto, Popol, insieme alter-ego ed emanazione, proiezione
onirica del padre stesso. Mosè vive quest’eterno confronto oppressivo pensando
che la madre abbia preferito il fratello a lui e sentendosi continuamente inadeguato
e insicuro, non sapendo dare forma alle proprie inclinazioni ed alla propria
interiorità. Il suicidio del padre, odiato e disprezzato, pone il protagonista di fronte
alla necessità/possibilità di trovare un sostituto finalmente all’altezza del compito:
all’arrivo della madre, riapparsa dopo anni e colpevole di un primo, originario,
imperdonabile abbandono, la scelta è gia compiuta, con una sorta di cambio di
identità, Mosè dichiara di chiamarsi Mohamed, che sancisce il rifiuto totale delle
proprie origini insieme famigliari e culturali. È nel vecchio Ibrahim, placido
dispensatore di saggezza e di pratici consigli, che Momò trova un maestro
amorevole ed una guida autorevole, un padre spirituale in grado di placare la sua
sete metafisica ma anche un benevolo complice nei piccoli insegnamenti della vita
quotidiana. L’adozione, tenacemente voluta e ottenuta nonostante le lungaggini
burocratiche, sancisce un’alleanza perfetta che, ben prima di essere interreligiosa,
interrazziale o intergenerazionale, è il punto di arrivo di due persone in cerca l’una
dell’altra. Gli insegnamenti di Ibrahim non sono, dunque, le regole e i precetti
islamici, ma costituiscono uno stimolo fondamentale all’educazione ed alla
formazione del carattere. Quello che gli adolescenti di oggi cercano nei loro idoli,
le grandi star della musica leggera, gli attori, i personaggi controversi, vale a dire
dei simboli di una controcultura, di una rivoluzione rispetto agli schemi e alle
rigidità degli adulti, Momò li trova condensati nelle parole semplici ma illuminanti di
questo padre-nonno e nel suo sorriso disarmato e disarmante. La morte di Ibrahim
arriva alla fine di un viaggio fisico e simbolico e la sua eredità, quel Corano
vecchio e consumato, è una filosofia di vita, una ricerca della serenità, una via per
la pace interiore. Momò ora è adulto: non più figlio, è pronto a diventare padre.
RIFERIMENTI AD ALTRE PELLICOLE E SPUNTI DIDATTICI
Un riferimento tematico e stilistico obbligato sull’abbandono, sull’adolescenza
difficile e sulla ricerca di riferimenti è I quattrocento colpi di Francois Truffaut.
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Questo film si pone nei confronti di Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano come un
predecessore imprescindibile sia per lo stile della regia (il film di Truffaut è uno dei
manifesti e dei capolavori proprio della Nouvelle Vague), sia per la vicenda
narrata: con forti tratti autobiografici Truffaut rende in tutta la sua complessità la
storia di un adolescente abbandonato e incompreso alla ricerca di una identità e di
un modo per uscire dalla propria condizione oppressiva; il viaggio si scontra con le
gabbie sociali (il riformatorio) e con la fuga in un meraviglioso finale aperto e
irrisolto.
Se la pellicola è poco utile, come si è già detto, per approfondire le differenze che
ci sono tra islamismo, ebraismo e cattolicesimo, in compenso il film può
rappresentare un buon esempio – almeno nella sua prima parte – per riflettere sul
rapporto tra ragazzi ed anziani. Sullo stesso tema segnaliamo Tolgo il disturbo di
Dino Risi, Azzurro di Denis Rabaglia, Un giorno da ricordare di James Foley.
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Notte prima degli esami
Commedia
Regista: Brizzi, Fabio
Autore del soggetto: Brizzi, Fabio
Sceneggiatore: Bruno Massimiliano, Martani Marco, Brizzi Fausto
Produttore: Lucidano Fulvio
Produttore: Lucidano Federica
Produttore: Pecorelli Giannandrea
Musiche: Venditti Antonello
Musiche: Zambrini Bruno
Scenografie: Scarpato Beatrice
Film per tutti
Prodotto: Italia, 2005
Cast: Cristina Capotondi, Giorgio Faletti, Nicolas Vaporidis, Chiara Mastalli,
Andrea de Rosa, Elena Bouryka, Sarah Maestri, Eros Galbiati, Valentina Idini.
Premi e riconoscimenti: David di Donatello miglior regista esordiente.
Trama
Nell'estate del 1989 un gruppo di amici si prepara a sostenere gli esami di
maturità. Una sera ad una festa, Luca incontra Claudia e se ne innamora
perdutamente, inconsapevole del fatto che la ragazza è niente meno che la figlia
del suo professore di letteratura, al quale in un momento di insolito coraggio
rovescia addosso un'incredibile valanga di insulti e accuse. Alla vicenda di Luca si
intrecciano quelle dei suoi compagni, Alice, da sempre segretamente innamorata
di lui, Massi che sta con Simona ma ha una storia con la sorella della sua ragazza,
e il ricchissimo e viziato Riccardo.
SCHEDA CRITICA
Giugno 1989. Le emozioni adolescenziali sono intense, la musica del tempo
resterà la tua musica, le ragazze che rappresentano i primi amori vivranno nella
leggenda, i disastri e le imprese acerbe si insinueranno nelle storie che si
racconteranno da adulti. È un imprinting, un segno indelebile, marchio di fabbrica
nella personalità di ciascuno. Fausto Brizzi, regista e co-autore di Notte prima
degli esami sapeva di realizzare un film dedicato agli adolescenti e
inconsciamente di pensare a chi adolescente è stato due decenni prima.
Luca si innamora di Claudia e insulta il professore Martinelli (Giorgio Faletti) senza
sapere che sarà in commissione d'esame, Massi va con la sorella della fidanzata
Simona e Alice è perennemente innamorata di Luca senza mai confessarglielo,
Riccardo, bello e impossibile come i dreamers di Bertolucci. Tutti questi
personaggi rappresentano ciò che ciascuno ha vissuto durante l'adolescenza, con
le amicizie, le gioie e i dolori che contraddistinguevano questo periodo di vita. I
loro "ultimi giorni" prima di quell'esame che li farà entrare definitivamente nella vita
adulta. Cambiano solo le musiche, i punti di riferimento, le mode del vestire, le vie
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di comunicazione (oggi abbiamo internet e i cellulari). Notte prima degli esami
racconta gli adolescenti di ieri per i trentacinquenni di oggi, non trascurando chi ha
diciotto anni e che probabilmente vive da vicino le emozioni dei protagonisti.
Perché il tempo corre ma le emozioni non passano. La strada è la stessa, ed è
circolare, in un continuo e infinito ripetersi, stampato nel presente e proiettato nel
passato.Cosa resterà di questi anni 2000? Un sorriso con gli occhi persi nei
ricordi.
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Pensieri pericolosi
drammatico
Regista: Smith, John N.
Autore del soggetto: Johnson, Lou Anne
Sceneggiatore: Bass, Ronald
Produttore: Simpson, Don
Produttore: Bruckheimer, Jerry
Fotografia: Letarte, Pierre
Montaggio: Rolf, Tom
Musiche: Coleman, Lisa
Musiche: Melvoin, Wendy
Scenografie: Burt, Donald Graham
Film per tutti
Cast: Michelle Pfeiffer (Lou Anna Johnson), George Dzundza (Hal Griffith),
Courtney B. Vance (Carla Nichols), Robin Bartlett (Emilio Ramirez), Bruklin Harris
(Callie Roberts), Renoly Santiago (Raul Sanchero), Lorraine Toussaint (Irene
Roberts), Beatrice Winde (Mary Benton), Marcello Thedford (Cornelius Bates),
Roberto Alvarez (Gusmano Rivera), Richard Grant (Durrell Benton), Marisela
Gonzales (Angela), Toni Nichelle Buzhardt (Nikki), Norris Young (Kareem),
Rahman Ibraheem (Big G), Desire Galvez (Taiwana), Wilson Limpo (Roderick),
Raymond Grant (Lyonel Benton)
Crediti: montaggio, Tom Rolf; musiche, Lisa Coleman e Wendy Melvoin;
scenografia, Donald Graham Burt
Distribuito: Italia, Hollywood Pictures Home Video, 1996
Trama
LouAnne Johnson, grazie al suo corposo e accreditato curriculum, ottiene un
posto da insegnante in una scuola californiana. La sua classe, però, è quella dei
`ragazzi speciali`, allievi dai grossi problemi disciplinari a causa delle condizioni
svantaggiate in cui vivono a livello sociale, responsabili già di due defezioni da
parte delle precedenti insegnanti. Dopo il contraccolpo accusato il primo giorno,
LouAnne decide di attirare la loro attenzione stupendoli: li incuriosisce spiegando
loro le mosse basilari del karatè, subendo, per questo motivo, anche i rimbrotti del
preside della scuola. Ma la Johnson non demorde e comincia a stimolare la
scolaresca facendole leggere e commentare versi scritti da Bob Dylan nelle sue
canzoni.
L'insegnante, tuttavia, si accorge che il leader della classe, Emilio Ramirez, le
mostra assoluta indifferenza quando non addirittura ostilità: l'obiettivo, se vuole
accattivarsi le simpatie della classe e continuare nel suo lavoro, è quello di avere
l'approvazione del ragazzo.
La donna la ottiene recandosi in visita nelle case dello stesso Emilio, di Raul e di
Gusmaro a parlare e in qualche modo rassicurare le famiglie dopo che tali allievi
sono stati sospesi dalle lezioni a causa di una violenta rissa. Continuando con i
suoi criteri didattici, la Johnson istituisce un premio per gli allievi che riusciranno a
trovare le similitudini tra il testo di una canzone di Bob Dylan e una poesia del
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poeta gallese Dylan Thomas: i vincitori andranno a cena nel ristorante più
esclusivo della città con lei. I vincitori risultano Raul, Callie e Durrell, ma solo il
primo può gustare la cena con la Johnson: Durrell e Callie - che aspetta un
bambino - devono infatti lavorare la sera per potersi mantenere.
Ma i problemi per la Johnson sono costanti: Callie è costretta da un tacito
regolamento della scuola - al quale la professoressa si oppone, spuntandola - a
trasferirsi in un altro istituto per ragazze madri, mentre Durrell e il fratello Lyonel
hanno abbandonato la scuola per volontà della madre che reputa stupidaggini gli
insegnamenti sulla poesia della Johnson. Emilio, intanto, è minacciato di morte
dall'ex fidanzato della sua attuale ragazza, appena uscito di prigione dopo aver
scontato una pena per uso di crack: LouAnne lo convince a denunciare il rivale
alla polizia parlandone con il preside, ma questi, il giorno seguente, si rifiuta di
ricevere il ragazzo perché è entrato nell'ufficio senza bussare. Emilio viene ucciso
e la Johnson, scorata, ha la netta sensazione di aver fallito il suo obiettivo. Decide
allora di lasciare la scuola, ma gli allievi, utilizzando i suoi stessi insegnamenti, la
convincono a rimanere.
Parole-chiave:
California − Comportamento a rischio − Insegnanti − Relazione educativa −
Scuole medie superiori − Studenti
Soggetto: Insegnanti - Relazione educativa con gli studenti
Soggetto: Scuole medie superiori - Studenti - Comportamento a rischio California
Scheda critica
La scuola come un film
Chi è che deve educare i giovani alla vita in un mondo che non si preoccupa
minimamente di loro se non per stigmatizzarne il comportamento? La tesi di
LouAnne Johnson, autrice del libro My Posse don’t do Homework, nato
dall’esperienza diretta in una classe difficile di una scuola californiana, e del
regista John N. Smith, che ne traspone in immagini il soggetto, è che di tale
operazione si debba occupare la scuola, ma non nella sua veste istituzionale,
bensì attraverso l’umanità proposta da un’insegnante che si dispone a far pensare
i suoi allievi e non ad imporre nozioni vuote e lontane dalla realtà che i giovani
vivono quotidianamente, fatta di degrado, droga, omicidi, regolamenti di conti,
morte. Leggere Bob Dylan e Dylan Thomas alla luce delle esperienze personali è
il metodo migliore per impostare l’insegnamento: fondere sapere ed esperienza è
procedimento pragmatico e la Johnson dispone di tutte le possibilità di catalizzare
l’attenzione di studenti svogliati. Purtroppo la pellicola di Smith si perde in un
umanitarismo di fondo che sfocia nell’esasperazione di cui si macchiano molto
spesso i film americani non condotti con sano equilibrio e sapido spirito
(auto)critico: quello dell’autocelebrazione delle possibilità che solo la cultura
democratica a stelle e strisce sa imporre ai propri figli, anche a quelli a volte
dimenticati in un angolo della società Che cosa sarebbe altrimenti la
giustificazione che il personaggio di Raul offre alla Johnson riguardo al suo
tentativo di sfidare Emilio, pur sapendo di avere poche possibilità di vittoria? Il
ragazzo sostiene che ha agito non diversamente dall’ideologia statunitense nei
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confronti dei nemici, pronta ad attaccare per prima soltanto per imporre la propria
fama di paese dominante. Così società e microcosmo della classe si legano
indissolubilmente, ed anche il finale felice con tanto di acclamazione
dell’insegnante che pensa di non aver svolto adeguatamente il proprio lavoro sa
tanto di chiusura felice e facile di una situazione ben altrimenti problematica.
IL RUOLO DEL MINORE E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
Imporre l’interesse
Come fare per penetrare all’interno di un muro di indifferenza? Come cercare di
fare breccia nell’interesse di una classe di soggetti con grossi problemi di
integrazione sociale? Questo è il problema che si trova a dover risolvere LouAnne
Johnson, un divorzio fresco di sei mesi, un passato fatto di esperienze in vari
settori (anche come Marine nell’esercito degli Stati Uniti) e un gran bisogno di
lavorare per sentirsi viva e ancora utile all’umanità. Dall’altro lato della barricata (è
il caso di dirlo), ragazzi rumorosi, chiusi nel loro mondo fatto di musica sparata a
tutto volume, violenza, quartieri disastrati e arretratezza socioculturale. Imporsi o
catalizzare in qualche modo il loro interesse per poi guadagnarsi la necessaria
fiducia? “Gridare forte non serve”, consiglia il collega e amico Hal alla Johnson il
primo giorno di scuola. Serve, invece, risvegliare le coscienze intorpidite
dall’indifferenza e dal pregiudizio altrui, dal ghetto ideale in cui sono stati confinati
simili allievi, costretti ad essere parcheggiati in un’aula senza infondere in loro
alcuna speranza di un futuro se non quello di morire squallidamente su un
marciapiede per uno sgarbo fatto al potente di turno. In Pensieri pericolosi, pur
nella superficialità dell’analisi sociologica proposta, sono tre i livelli di cultura che
interagiscono tra loro. Il primo livello proposto è quello della ritualità tribale, proprio
dei ragazzi della scuola, fondato sul culto dell’onore e del rispetto tra i membri
delle varie etnie che non si riconoscono nella cultura ufficiale del Paese in cui
vivono. Pur nell’accesa rivalità che li divide, i ragazzi si rendono conto delle norme
che regolano la loro sottocultura (ma solo nell’accezione di cultura parziale rispetto
alla società in cui vivono), e vivono in un regime di perfetta omertà verso i membri
esterni a tale comunità, isolandosi con i loro problemi, i loro contrasti (anche a
costo di rimetterci la vita), le loro paure. Altro livello è quello della cultura che
serve a maturare una propria coscienza critica, utilizzando la scelta, il libero
arbitrio per decidere del proprio futuro (motivo su cui il film insiste ripetutamente):
attraverso l’analisi delle poesie di Dylan Thomas e i versi di Bob Dylan proposti da
LouAnne Johnson, i ragazzi possono acquisire le competenze necessarie a
pensare in proprio e a scegliere deliberatamente il loro futuro, nella piena
consapevolezza di potersi affrancare dalle rigide regole dell’onore e della ritualità
per garantirsi una vita normale, con delle aspettative e delle ambizioni, senza
alcun rischio di vedersi morire progressivamente sulla strada del proprio quartiere.
Ma la cultura ufficiale porta con sé i germi del terzo livello istruttivo, quello più
becero e rigido, irrazionale e intollerante: quello della formalità come garanzia
dell’ordine costituito e di una disciplina insensibile alle esigenze dei ragazzi, ma
preoccupata esclusivamente di conservare le apparenze e la dignità delle
istituzioni. Emilio Ramirez, solo per fare l’esempio limite, perderà la vita in mezzo
alla strada, ucciso da un rivale imbottito di crack che non gli ha perdonato l’essersi
fidanzato con la sua ex ragazza, soltanto perché, entrato nell’ufficio del preside
per denunciare la minaccia cui era sottoposto, non aveva bussato, dimenticandosi
della formalità più pretestuosa e retriva, venendo cacciato dal direttore didattico
insofferente. La cultura della poesia si deve assumere, quindi, il difficile compito di
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fare da tramite per il traghettamento dell’insoddisfazione in possibilità di
affermazione per dei ragazzi difficili, ma sicuramente non compresi a dovere dalle
istituzioni.
RIFERIMENTI AD ALTRE PELLICOLE E SPUNTI DIDATTICI
Lavagne violente
Il filone delle pellicole scolastiche ambientate in classi violente è un sottogenere
molto fiorente, soprattutto negli Stati Uniti. A questo proposito, converrebbe
confrontare Pensieri pericolosi con pellicole simili per impostazione e contenuti
quali Il seme della violenza (Richard Brooks, 1955), nel quale un’insegnante
idealista si confronta con ragazzi di una zona newyorchese degradata, La forza
della volontà (Ramon Menéndez, 1987), in cui un’insegnante di matematica riesce
a conquistare la sua difficile classe, Principal – Una classe violenta (Christopher
Cain, 1987) e Codice omicidio 187 (Kevin Reynolds, 1997), nei quali la situazione
è affrontata dagli insegnanti con metodi spicci e piuttosto particolari. Tali pellicole
possono essere inserite in un discorso sulla violenza all’interno delle scuole e sui
diversi metodi (non tutti ortodossi, a dire la verità) per contrastarla.
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Philadelphia
Drammatico
Regista: Demme, Jonathan
Autore del soggetto: Nyswaner, Ron
Sceneggiatore: Nyswaner, Ron
Produttore: Saxon, Edward
Produttore: Demme, Jonathan
Montaggio: Mckay, Craig
Musiche: Springsteen, Bruce
Muiche: Shore, Howard
Scenografie: Zea, Kristi
Film per tutti
Prodotto: USA, 1993
Cast: Banderas Antonio (Miguel), Hanks Tom (Andrew Beckett), Robards Jason,
Washington Denzel (Joe Miller), Woodward Joanne.
Premi e riconoscimenti: premio Oscar miglior attore Tom Hanks, premio Oscar
migliore colonna sonora.
Trama
Andrew Beckett (Tom Hanks) è un avvocato rampante che lavora per il più
prestigioso studio legale della città. In ufficio nessuno sa che da anni vive
felicemente con Miguel (Antonio Banderas) e, meno che mai, che ha contratto
l'Aids. Una ferita sulla fronte, causata dall'incipiente malattia, attira però
l'attenzione di un collega. Pochi giorni dopo, viene licenziato con la scusa di
scarsa efficienza. Andrew, convinto che sia la malattia la vera causa del suo
benservito, si rivolge a molti avvocati per intentare una causa contro chi lo ha
ingiustamente e illegalmente discriminato. L'unico a dargli retta è Joe Miller
(Denzel Washington), un avvocato di colore, che inizialmente stenta molto ad
accettare l'incarico perché è fondamentalmente prevenuto verso gli omosessuali e
gli dà fastidio avere contatti con un malato. Andrew, sempre più roso dalla
malattia, presenzia alla causa in tribunale; la parte avversa giustifica fittiziamente il
proprio comportamento, negando la conoscenza della malattia ed addebitando il
licenziamento alla sua inaffidabilità professionale. Joe, dal canto suo, diventato
amico di Andrew, impara ad apprezzarlo sia dal punto di vista umano che morale.
La sua difesa coraggiosa e volitiva influenza positivamente la giuria: il verdetto è
favorevole ad Andrew, ma non c'è che il tempo di comunicargli l'esito, perché
muore di lì a poco.
SCHEDA CRITICA
La produzione di alto costo sull'Aids, è una lezione di tolleranza, una requisitoria
sui pregiudizi, un'arringa contro l'ingiustizia affidata a uno straordinario T. Hanks,
interprete simpatico e "leggero" e a D. Washington, l'avvocato che lo difende, fiero
eterosessuale e a disagio con i gay, che a poco a poco disperde i suoi pregiudizi e
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le sue paure insieme a quelli dello spettatore. È il primo film sull'Aids prodotto da
una major hollywoodiana e perciò Demme ha dovuto fare i conti con le inderogabili
esigenze del cinema commerciale, scendendo a patti su alcuni punti:
banalizzando le scene d'amore tra Hanks e Banderas che per tutto il film non si
toccano che una sola volta, nella scena del ballo mascherato e non mostrando
mai con reale crudezza la malattia, deducibile più che altro dal progressivo,
esteriore deterioramento fisico di Hanks. Ma, tutto sommato, Philadelphia è
riuscito nel difficile compito di accontentare tutti: il pubblico e la critica ed è stato
sostanzialmente ben accolto dalle comunità gay americane. In effetti, il film ha
innegabili qualità e riesce a catturare emotivamente lo spettatore grazie ad una
sceneggiatura fluida e ben giostrata e a scene dal ricco pathos, come quella in cui
Hanks vive intensamente, davanti a Washington, un brano dell'Andrea Chenier,
cantato da Maria Callas.
Basato su una storia vera, Philadelphia sfrutta intelligentemente due filoni di sicuro
successo del cinema americano: quello giudiziario, che si sviluppa attraverso i
dibattiti in tribunale e che vede nel finale la vittoria dell'innocente (qui vanificata
dalla morte, purtroppo attesa ed irrimediabile) e quello della malattia. Il film trova il
suo punto di forza nel capitale personaggio dell'avvocato in cui il pubblico medio
omofobo può identificarsi, un personaggio sicuramente positivo nel suo
abbandono dell'iniziale e aspra diffidenza nei confronti dell'omosessualità e della
malattia fino ad un’umana comprensione e convince nel suo assunto di fondo, da
una parte nello smascherare l'intolleranza e la discriminazione che si opera verso
il malato di Aids, almeno finché non colpisce qualcuno caro, e dall'altra nell'invito
ad una maggiore umanità e alla giustizia. Il tutto, non a caso, a Philadelphia, città
dove fu sancita la dichiarazione d'indipendenza americana che afferma
pomposamente che tutti gli uomini sono uguali.
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Ricordati di me
Drammatico
Regista: Muccino, Gabriele
Autore del soggetto: Muccino, Gabriele
Autore del soggetto: Schleef, Heidrun
Sceneggiatore: Muccino, Gabriele
Sceneggiatore: Schleef, Heidrun
Produttore: Fandango
Montaggio: Di Mauro, Claudio
Musiche: Pacifico, Elisa
Musiche: Buonvino, Paolo
Musiche: Dalla, Lucio
Musiche: Halliwell, Geri
Musiche: Hardy, Françoise
Scenografie: Bizzarri, Paola
Film per tutti
Prodotto: Francia - Gran Bretagna – Italia, 2003.
Cast: Monica Bellucci (Alessia), Fabrizio Bentivoglio (Carlo Ristuccia), Laura
Morante (Giulia Ristuccia), Silvio Muccino (Paolo Ristuccia), Nicoletta Romanoff
(Valentina Ristuccia), Gabriele Lavia (Alfredo), Enrico Silvestrin (Stefano Manni),
Silvia Coen (Elena), Amanda Sandrelli (attrice), Blas Roca Rey (attore).
Premi e riconoscimenti: David di Donatello Miglior Film.
Trama
Giulia che sognava di diventare una grande attrice fa l'insegnante al liceo e Carlo
che si vedeva romanziere è funzionario in una società finanziaria. I loro sogni di
gloria sono stati vanificati dall'arrivo dei figli ora adolescenti. Ed è proprio la
determinazione della figlia Valentina nell'arrivare a fare la soubrette in televisione
che incrina la serenità familiare risvegliando desideri sopiti e mettendo in crisi
anche il fratello Paolo finché tutti si interrogheranno sulla possibilità di ricominciare
tutto da capo.
SCHEDA CRITICA
Il giovane regista romano racconta le aspirazioni soffocate e la vita complicata e
deludente che appartiene a molti. La famiglia di Muccino è una delle tante che si
incontrano o che magari ci appartengono. Un luogo in cui è quasi impossibile
riuscire a farsi ascoltare perché a volte sono le persone che conosciamo da
sempre, o almeno così ci pare, a sostenerci di meno, a strapparci con la violenza
della noncuranza le nostre aspirazioni meno ovvie (…).
Ricordati di me è un film importante e necessario. Importante perché propone una
straordinaria radiografia della salute sociale, politica e mentale dell'Italia post2000. Necessario perché ad ogni società, in ogni momento della sua storia, è utile
avere degli specchi in cui osservarsi senza ipocrisie. Detto questo, i problemi del
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film sono sostanzialmente due, e non di poco conto. Primo problema: il
precedente, fortunatissimo film di Gabriele Muccino, rispetto al suo ultimo lavoro, è
meno accattivante, meno divertente, più cupo, per molti versi più maturo. Se i
trentenni hanno avuto buon gioco a identificarsi nei personaggi di Stefano Accorsi,
di Giovanna Mezzogiorno e della loro banda di amici, appare meno probabile che i
40-45enni possano felicemente riconoscersi nella famiglia composta da Fabrizio
Bentivoglio e da Laura Morante (che, per la cronaca, si chiamano Carlo e Giulia
come la coppia del vecchio film: come dire che sono sempre loro, qualche anno
dopo). Carlo e Giulia sono inaciditi, insoddisfatti, vecchi dentro. Lui ha rinunciato a
finire un romanzo che si porta dietro da anni, lavora per un orrendo politico di
destra e si risveglia solo incontrando ad una festa Alessia, ex fidanzata e
compagna di scuola (Monica Bellucci); lei sognava di diventare attrice, ma si è
sacrificata per i figli e ritrova lo sprint solo cimentandosi in un tremendo spettacolo
teatrale «d'avanguardia» e innamorandosi ovviamente del regista, per altro gay
(Gabriele Lavia). Ancora peggio di loro sono i figli: Valentina (Nicoletta Romanoff)
è pronta a tutto per sfondare in tv e diventare una «letterina»; Paolo (Silvio
Muccino) è un ragazzo irrisolto, che per avere un ruolo a scuola e nella vita sa
solo rubare i ruoli degli altri. Paradossalmente ma non tanto, Valentina è l'unica
che sa ciò che vuole. E lo ottiene, diventando nell'ultima scena quel "mostro" che,
in potenza, era già fin dalla prima inquadratura. Questa è l'Italia, o per lo meno
l'Italia borghese e romana che Muccino ci racconta con la decisiva collaborazione
della sceneggiatrice Heidrun Schleefe e del montatore Claudio Di Marco, il regista
porta avanti le quattro storie in modo serrato. Le due ore di fiIm scorrono che è un
piacere - o un dolore, se si pensa alle esistenze devastate che i personaggi si
trovano a vivere. Qui subentra il secondo problema, che solo Muccino potrebbe
risolvere: il giudizio del regista sullo spaccato sociale che ha scelto di analizzare.
Chi scrive ha vissuto per tutto il film nella speranza di non incontrare mai, nella
vita, persone simili; ma può darsi che Muccino li ami e li odi al tempo stesso e
condivida i loro sogni e le loro ossessioni. Fa capolino il sospetto che la suddetta
radiografia sia in qualche misura involontaria: il che non la rende, però, meno
importante e meno necessaria.
Ricordati di me è una summa di falsi in bilancio sentimentali, l'unica sicurezza è
che mancano sicurezze. Lo si legge sul volto vinto, espressivo, triste, con le
raffinatezze psicologiche che è in grado di offrire, guardandoci negli occhi,
scovandoci uno per uno in platea.
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Scoprendo Forrester
Commedia
Regista: Sant, Gus van
Autore del soggetto: Rich, Mike
Sceneggiatore: Rich, Mike
Produttore: Mark, Laurence
Produttore: Connery, Sean
Produttore: Tollefson, Ronda
Fotografia: Savides, Harris
Montaggio: Oskarsdottir, Valdis
Musiche: Frisell, Bill
Musiche: Barman, Ken
Scenografie: Musky, Jane
Film per tutti
Titolo originale: Finding Forrester
Cast: Sean Connery (William Forrester), Rob Brown (Jamal Wallace), F. Murray
Abraham (il professor Robert Crawford), Anna Paquin (Claire Spence), Michael
Nouri (il dottor Spence), Busta Rhymes (Terrell), April Grace (Miss Joyce), Pichael
Pitt (Coleridge), Richard Easton (Matthews), Glenn Fitzgerald (Massie).
Crediti: montaggio, Valdis Oskarsdottir; musiche, Bill Friesll e Ken Karman;
scenografie, Jane Musky.
Prodotto: Stati Uniti: Columbia Pictures Fountainbridge Films Laurence Mark
Production, 2000.
Distribuito: Italia: Columbia Tristar Home Video, 2000.
Trama
Nel Bronx newyorchese la finestra di un'abitazione incuriosisce i ragazzi di colore
che giocano a basket nel campetto antistante. All'interno dell'abitazione pare vi
abiti un uomo anziano sul quale si sprecano le più fantasiose leggende Jamal
Wallace, per scommessa con i suoi amici, penetra nell'abitazione ma viene messo
in fuga dall'improvviso sopraggiungere dell'uomo. Il ragazzo, nella precipitosità
della fuga, ha dimenticato il suo zaino scolastico, che viene reso alcuni giorni dopo
con i compiti di letteratura corretti.
Inizia così un rapporto particolare tra il singolare misantropo dell'abitazione - che
non mette piede all'esterno da una ventina d'anni - e il sedicenne Jamal,
appassionato di scrittura: il giovane riesce a ottenere l'accesso nella casa, mentre
l'uomo lo aiuterà ad affinare le sue qualità dietro il patto di non rivelare niente della
sua esistenza e di non portare all'esterno niente di ciò che verrà scritto in casa
Intanto. Jamal, per merito del suo talento.
Jamal, per merito del suo talento cestistico, si trasferisce in una prestigiosa scuola
di Manhattan, nella quale entra in contatto con un universo fatto di competizione,
denaro e conflitti con il severo e arrogante insegnante di letteratura Robert
Crawford. Jamal, quasi per caso, scopre che il misterioso uomo che sta
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frequentando è William Forrester, esaltato autore di un solo libro, datato 1953,
dopo il quale non ha più voluto pubblicare altro.
Jamal, intanto, vorrebbe partecipare al concorso letterario dell'istituto, ma è
ostruito da Crawford, che non crede che un ragazzo del Bronx possa avere tali
doti letterarie. Jamal, giunto al limite dell'esasperazione, consegna un manoscritto
il cui primo paragrafo è copiato da un articolo che molti anni prima Forrester aveva
pubblicato per il New Yorker. Scoperto l'inghippo, il consiglio d'istituto mette alle
strette Jamal, costringendolo a firmare una lettera di scuse oppure a regalare alla
scuola l'agognato titolo cestistico cittadino. Nelle ultime battute della finale, però
Jamal spreca malamente i due tiri liberi che ha a disposizione per vincere la partita
e subito dopo consegna a Forrester una lettera di scuse per ciò che ha
commesso. Durante la cerimonia di premiazione, il vecchio scrittore vince la sua
ritrosia ad uscire e si reca nell'aula della scuola per leggere la lettera ricevuta da
Jamal, il quale, finalmente, fa ricredere Crawford. Un anno dopo a Jamal giunge la
notizia della morte di Forrester trasferitosi nella natia Scozia: il giovane è stato
dichiarato suo erede universale.
Parole chiave:
Adolescenti svantaggiati – Educazione – Insegnanti – Rapporti – Scuole
medie superiori – Studenti
Soggetto: Adolescenti svantaggiati – Educazione
Soggetto: Scuole medie superiori – Studenti – Rapporti con gli insegnanti
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Segreti e bugie
Drammatico
Regista: Leigh, Mike
Autore del soggetto: Leigh, Mike
Sceneggiatore: Leigh, Mike
Produttore: Channing-Williams, Simon
Fotografia: Pope, Dick
Montaggio: Gregory, Jhon
Musiche: Dickson, Andrew
Scenografie: Chitty, Alison
Film per tutti
Titolo originale: Secrets and lies
Cast: Brenda Blethyn (Cynthia), Phillis Logan (Monica), Marianne Jean-Baptiste
(Hortense), Timothy Spall (Maurice), Claire Rushbrook (Roxanne), Elizabeth
Berrington (Jane), Michele Austin (Dionne), Lee Ross (Paul), Brian Bovell (fratello
di Hortense), Trevor Laird (altro fratello di Hortense).
Crediti: montaggio, Jon Gregory; musiche, Andrew Dickson; scenografia, Alison
Chitty.
Premi e riconoscimenti: Nastro d'argento come Miglior Film Straniero a Cannes
1996; Premio Miglior Attrice a Brenda Blethyn a Cannes 1996; Premio della Critica
Internazionale.
Prodotto: Gran Bretagna, Channel Four Films CiBy2000 Thin Man Films, 1996
Distribuito: Italia, BIM.
Trama
Hortense, una giovane optometrista di colore, all'indomani della morte dei genitori
adottivi decide di conoscere le proprie origini e, per questo, si rivolge ai servizi
sociali che, in base alle leggi vigenti, le forniscono le informazioni utili per risalire
all'identità dei genitori biologici. La sua madre naturale è Cynthia, un'operaia
bianca che vive con la figlia Roxanne - anche lei nata da un rapporto occasionale in una cadente casa nei sobborghi londinesi.Madre e figlia sono in continuo
conflitto: Roxanne, insoddisfatta del suo lavoro di netturbina, sfoga la sua
frustrazione su Cynthia, depressa per natura e ossessivamente preoccupata per la
vita sessuale della figlia, fidanzata con l'introverso Paul. Intanto Maurice, fratello di
Cynthia, si divide tra il suo lavoro di fotografo e l'agiata ma triste vita coniugale con
Monica, una donna nevrotica, depressa a causa della sterilità, un fatto, questo,
che forse ha contribuito ad allontanare anche affettivamente Maurice e Cynthia.
Il ventunesimo compleanno di Roxanne sembra l'occasione buona per riunire la
famiglia ma, proprio pochi giorni prima della festa, Hortense rintraccia Cynthia,
dapprima sospettosa (visto il differente colore della pelle della ragazza), impaurita
e diffidente verso questa parte rimossa del suo passato, poi sempre più coinvolta
da un rapporto che soddisfa il suo bisogno di affetto. Gli incontri tra le due donne
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si susseguono frequenti, naturalmente all'insaputa di tutti e, quando giunge il
giorno della festa, Cynthia invita anche Hortense, presentandola come sua amica.
Tutto si svolge nella più assoluta normalità e cordialità fino a quando Cynthia non
riesce più a tenere per sé la reale identità di Hortense: tra lo sconcerto generale
Roxanne abbandona la festa e solo l'intervento di Maurice riesce a farla tornare in
sé. La giornata si conclude all'insegna delle reciproche confessioni (Cynthia parla
a Roxanne dell'uomo dal quale l'ha avuta e Monica confessa alla cognata di
essersi allontanata da lei a causa dell'impossibilità di avere figli) e di una definitiva
riconciliazione della famiglia cui appartiene, ormai non più soltanto
biologicamente, anche Hortense.
Un'ultima sequenza vede Roxanne e la sorellastra, ormai diventate amiche,
chiacchierare nel giardino della vecchia casa di Cynthia sotto lo sguardo sereno di
quest'ultima.
Parole chiave:
Assistenti sociali – Diritto di accesso all’informazione sulle proprie origini –
Donne – Figli – Figli adottivi – Figli naturali – Genitori – Genitori Biologici –
Rapporti – Relazioni familiari – Ruolo – Sterilità.
Soggetto: Donne – Sterilità
Soggetto: Figli – Rapporti con i genitori
Soggetto: Figli adottivi – Rapporti con i genitori biologici
Soggetto: Figli naturali – Diritto di accesso alle informazioni sulle proprie
origini – Ruolo degli assistenti sociali
Soggetto: Relazioni familiari
SCHEDA CRITICA
Sguardi al di là delle maschere
Segreti e bugie è stato il film che ha permesso al grande pubblico di conoscere il
talento di Mike Leigh, regista appartato della scena inglese (almeno fino a questo
clamoroso successo di critica e pubblico) capace di esprimere le inquietudini della
società contemporanea attraverso storie e personaggi comuni e al tempo stesso
emblematici. Attraverso il suo stile semplice ed efficacissimo, che alterna
abilmente momenti nei quali prevale uno sguardo distaccato e ironico ad altri in cui
è capace di avvicinarsi ai personaggi per rivelarne con sensibilità il lato più intimo,
Leigh affronta il tema della difficoltà dei rapporti umani, dell’incomunicabilità, del
gioco delle apparenze e delle formalità dietro cui ciascuno si trincera per non
esporsi al giudizio o all’invadenza degli altri. Ma non solo: un’idea di quanto ampio
sia il ventaglio delle questioni affrontate in questo film ce la offrono le prime due
sequenze, quella in cui Hortense partecipa al funerale della madre adottiva e la
successiva dove Maurice è alle prese con una cerimonia nuziale, una delle tante a
cui assiste, dato il suo mestiere di fotografo. Due immagini che evocano parentele,
formalità, celebrazioni, ma anche – guardando solo un po’ più in là della superficie
– legami di sangue, sentimenti, figli, ricordi rimossi, la vita intera con il suo portato
di aspettative spesso deluse e il rapporto inevitabile con la morte.
Dal punto di vista della struttura narrativa il film è costruito in maniera esemplare:
la prima parte è occupata dalla presentazione dei cinque personaggi principali
(Hortense, Maurice, Roxanne, Cynthia e Monica) ognuno alle prese con la sua
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occupazione, con il suo lavoro; la parte centrale sull’intrecciarsi delle loro storie
attraverso incontri a due a due che chiariscono via via la natura dei rapporti che li
uniscono (ma, soprattutto, delle distanze che li separano); quella finale,
interamente dedicata alla festa di compleanno (“corale” anche grazie all’uso di
inquadrature totali che creano un senso di attesa nello spettatore per la rivelazione
della verità) è una resa dei conti in forma di dramma collettivo durante il quale
cadono tutte le maschere e le finzioni. Se la relazione tra Cynthia e Hortense è
sicuramente centrale e risolutiva ai fini drammatici, le altre sono tutt’altro che
accessorie: ad esempio, Monica con la sua sterilità, i suoi imbarazzi, la sua
casetta leziosa, è l’esatto opposto della cognata Cynthia che vive in un’abitazione
cadente, è goffa ma spontanea e fin troppo prolifica; allo stesso modo la rabbia
repressa, il rancore, l’inquietudine proletaria di Roxanne sono all’opposto della
pacatezza, della dignità e dell’equilibrio borghese di Hortense. Del resto Leigh
dissemina il suo film di una serie di indizi, di piccole notazioni curiose e
apparentemente prive di senso che nel corso del racconto assumono un valore
emblematico. Un esempio per tutti le professioni di Maurice e Hortense: il primo,
con le sue fotografie, fissa l’immagine pubblica delle persone, ufficializza
“visivamente” unioni e relazioni nella loro veste più convenzionale ma, allo stesso
tempo, tenta in ogni occasione di tirare fuori da ognuno la parte migliore, più
positiva; la seconda aiuta gli altri a vedere meglio, a guardare meglio la realtà al di
là dei veli che le si frappongono. Non è forse ciò che faranno rispettivamente
Maurice che con pazienza ritesserà la rete dei rapporti tra i vari membri della sua
famiglia (proprio come un buon padre, come affermerà al termine della festa la
sua segretaria, coinvolta suo malgrado nel trambusto creato dalle rivelazioni di
Cynthia) e Hortense, che con la sua comparsa fa cadere le ipocrisie che gravano
sui rapporti tra i vari componenti del nucleo familiare?
Il ritorno del rimosso
Il segreto di Segreti e bugie (che, paradossalmente, aveva avuto come titolo di
lavorazione The Truth, ovvero “La verità”) è anche quello di saper rovesciare gli
stereotipi (come, ad esempio, quello del confronto tra i relativi livelli di benessere –
nell’accezione più ampia del termine – di bianchi e neri risolto nettamente a favore
dei secondi) e di saper parlare con chiarezza, senza scadere nel didascalico, delle
molteplici cause di crisi dell’istituto della famiglia nella nostra società. Il nucleo
dolente è, evidentemente, il rapporto tra genitori e figli: figli che arrivano troppo
presto nella vita dei protagonisti (come nel caso di Cynthia), che non arrivano mai
(Monica e Maurice), che tornano nei momenti meno opportuni (Hortense) o che, al
contrario, vorrebbero andare via per sempre (Roxanne). Il ventaglio delle
possibilità, pur essendo ampio, contempla solo gli estremi: come nel caso di
Cynthia che, nella sequenza in cui “riconosce” Hortense dopo aver escluso
categoricamente la possibilità di un legame di sangue, addirittura mostra di aver
dimenticato (rimosso) la persona e l’occasione (una violenza sessuale) del
concepimento, o, al contrario, come in quello di Monica, sterile eppure condannata
dal proprio corpo, ad ogni mestruazione, a ricordarsi dolorosamente di essere
capace di concepire, ma soltanto in teoria. Dall’altro lato si scontrano due
immagini filiali altrettanto opposte: da un lato Roxanne che, come la maggior parte
dei figli, sa solo guardare ai lati negativi dei genitori e che, nel rapporto con
Cynthia, riversa le proprie frustrazioni, dall’altro Hortense, figlia adottiva che, dopo
la morte dei genitori putativi (paradossalmente “più adatti” ad accoglierla di quanto
non fosse Cynthia perché di colore come lei), sente la necessità di conoscere le
proprie origini biologiche, andando incontro al rischio di scontrarsi – come poi
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avviene in effetti – con una realtà molto lontana da quanto avrebbe potuto
immaginare.
Con la sua pelle nera, il suo garbo e la sua gentilezza, la sua normalità (anche e
soprattutto dal punto di vista fisico, in confronto agli altri personaggi, tutti connotati
da tic, ossessioni, fisionomie strambe o eccessive), Hortense rappresenta il
cosiddetto “ritorno del rimosso”. Concretamente e coerentemente con il suo status
di figlia illegittima non riconosciuta e successivamente adottata, ovvero in quanto
frutto di un “errore” di gioventù che è stato nascosto e si è voluto occultare,
dimenticare, ma anche come ritorno, come venire nuovamente a galla di
sentimenti, relazioni, affetti messi a tacere o, più banalmente, ignorati più per
abitudine che non per malvagità. Paradossale, dunque, che proprio lei,
disconosciuta e adottata, “figlia del peccato”, sia la più “normale” e, in fondo, la più
forte rispetto a tutti gli altri personaggi e che proprio a lei tocchi il compito di
riportare alla luce una serie di emozioni accantonate, di far scoppiare il dramma
che poi, fortunatamente, si risolverà positivamente.
RIFERIMENTI AD ALTRI FILM E SPUNTI DIDATTICI
Il film rappresenta il tentativo meglio riuscito da parte del cinema di finzione di
mettere in scena l’amplissimo ventaglio di problematiche aperto dal tema del
ricongiungimento tra figli adottati e genitori biologici: come messo in evidenza
dall’analisi, ciò che emerge è uno spettro di situazioni quanto mai ampio e
variegato che hanno posto spesso i legislatori dei vari Stati ad interrogarsi su quali
siano gli strumenti atti a favorire il ricongiungimento e, al tempo stesso, a tutelare
la privacy e i sentimenti di chi è stato coinvolto, consapevolmente o meno, in simili
vicende. Pertanto, oltre a costituire un ottimo esempio di cinema tout-court,
capace di parlare di temi gravi seriamente ma al tempo stesso con ironia, Segreti
e bugie si presta ottimamente come supporto audiovisivo in ambito formativo al
fine di mettere in evidenza quali e quante siano le possibili conseguenze di un
ricongiungimento tra genitori naturali e figli adottati, nonché quale sia il ruolo delle
istituzioni all’interno di questo percorso (in part. si veda la sequenza in cui
Hortense incontra un’assistente sociale che la informa su quali siano i suoi diritti di
figlia adottata verso la sua vera madre). Un altro film che tratta il tema
dell’adozione e dei rapporti tra genitori naturali e figli adottivi – ma in chiave
decisamente comica – è La dea dell’amore di Woody Allen.
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Sognando Beckham
Commedia
Regista: Chadha, Gurinder
Autore del soggetto: Chadha, Gurinder
Sceneggiatore: Chadha, Gurinder
Sceneggiatore: Mayeda Berges, Paul
Sceneggiatore: Binda, Guljit
Produttore: Chadha, Gurinder
Produttore: Mayeda Berges, Paul
Fotografia: Jong, Lin
Montaggio: Krish, Justin
Musiche: Alexender, Gregg
Musiche: Mayfield, Curtis
Musiche: McElhone, John
Scenografie: Ellis Nick
Film per tutti
Cast: Parminder K. Nagra (Jesminder Bhamra), Keira Knightley (Jules Paxton),
Jonathan Rhys-Meyers (Joe), Anupam Kher (Mr. Bhamra), Archie Panjabi (Pinky
Bhamra), Shaznay Lewis (Mel), Frank Harper (Alan Paxton), Juliet Stevenson
(Paula Paxton), Shaheen Khan (Mrs. Bhamra), Ameet Chana (Tony), Imran Ali
(Gary), Saraj Chaudhry (Sonny), Trey Farley (Taz), Kulvinder Ghir (Teetu), Preeya
Kalidas (Monica), Poojah Shah (Meena), Paven Virk (Bubbly).
Crediti: montaggio, Justin Krish, musiche, Gregg Alexander, Curtis Mayfield, John
McElhone, scenografie, Nick Ellis.
Prodotto: Germania: Gran Bretagna: Bent It Films Kintop Pictures Road Movies
Roc Media, 2002.
Distribuito: Italia: Lucky Red.
Trama
Jessminder, diciotto anni, appartiene a una famiglia indiana immigrata anni
addietro in Gran Bretagna Malgrado i suoi genitori siano estremamente rispettosi
delle tradizioni indiane, Jessminder è una fan sfegatata di David Beckham (il
capitano della nazionale di calcio inglese), nonché a sua volta centravanti di
un'improvvisata squadra di coetanei maschi. Viene notata da Jules, una ragazza
che milita in una squadra femminile di dilettanti, che la invita a sottoporsi a un
provino. Grazie alla propria bravura Jessminder riesce a convincere Joe, il
giovane allenatore di origine irlandese, a reclutarla per il campionato estivo.
Malgrado la ragazza faccia di tutto per nascondere ai genitori che è entrata a far
parte della squadra di calcio, una serie di imprevisti fanno venire a galla la verità:
la reputazione della famiglia sembra compromessa al punto che il matrimonio
imminente della sorella maggiore di Jessminder viene messo in dubbio.
A complicare le cose ci si mette anche la gelosia di Jules che, durante una
trasferta, scopre che tra Joe e Jessminder c'è del tenero. Arriva il giorno della
finale alla quale assisterà anche un selezionatore americano in cerca di talenti per
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una prestigiosa squadra statunitense: per Jessminder sarà impossibile
parteciparvi, visto che sua sorella si sposa proprio quel giorno. Il padre, tuttavia,
mentre la festa è in corso, la spinge a raggiungere il campo di calcio: grazie a
un'ottima prestazione la squadra vince il campionato, Jessminder e Jules possono
riconciliarsi e, in più, ottengono l'ingaggio Con la benedizione del padre, che da
giovane aveva dovuto rinunciare ad una carriera come giocatore di cricket perché
discriminato dagli inglesi, Jessminder parte alla volta degli Stati Uniti.
Parole chiave:
Adolescenti femmine – Identità culturale – Identità di genere – Immigrati di
seconda generazione – Integrazione culturale – Integrazione sociale – Pari
opportunità – Regno unito – Ruolo – Sport – Sportivi
Soggetto: Adolescenti femmine – Identità di genere – Regno Unito
Soggetto: Immigrati di seconda generazione, Adolescenti femmine –
Integrazione culturale e integrazione sociale - Ruolo dello sport – Regno
Unito
Soggetto: Sportivi – Adolescenti femmine – Pari opportunità – Regno Unito
SCHEDA CRITICA
Immigrati di prima e seconda generazione
Sognando Beckham appartiene a un vero e proprio filone sviluppatosi a partire
dalla fine degli anni Novanta che potrebbe essere definito come “ethnic comedy”,
ovvero una sorta di satira garbata, politicamente corretta, nei confronti di quelle
minoranze che, soprattutto in Gran Bretagna, popolano i sobborghi delle grandi
città riuscendo a integrarsi nel tessuto economico e sociale con più o meno
successo. Il pretesto narrativo che dà il via al racconto viene offerto, nella maggior
parte dei casi, dal confronto-scontro tra genitori e figli, ovvero tra gli immigrati di
prima generazione ancora legati ad un proprio bagaglio culturale tradizionale del
quale esitano a disfarsi completamente, e quelli di seconda generazione, nati e
cresciuti lontano dal paese di origine dei padri e desiderosi di un’integrazione
totale, definitiva. La ragione della proliferazione e del successo riscosso dalle
commedie a sfondo etnico è che le situazioni che possono svilupparsi all’interno di
simili realtà sono tante quanti sono i tabù e i divieti che i giovani protagonisti
devono infrangere per poter dare corpo ai propri desideri e alle proprie aspirazioni.
Dall’educazione al lavoro, dal tempo libero alle relazioni sociali, dalla sessualità al
matrimonio, dal cibo alla moda, ogni pretesto è valido per mettere in scena lo
scontro, che spesso assume caratteristiche paradossali o decisamente comiche,
fra la visione tradizionale del gruppo etnico di appartenenza dei protagonisti e le
caratteristiche di una società che, su scala globale, si avvia a diventare multietnica. In ogni caso si tratta di conflitti destinati a essere ricomposti senza
eccessivi traumi, in linea con la natura di un tipo di commedia, quella di costume,
che tende a sdrammatizzare le situazioni di scontro tra etnie diverse all’interno di
uno stesso spazio urbano, fino al punto di mettere in scena una sorta di
intolleranza al contrario, ovvero un rifiuto da parte dei membri di una minoranza,
delle caratteristiche della cultura egemonica, a differenza di quanto accade
solitamente nella realtà. Ciò è dovuto principalmente al fatto che i nuclei familiari
protagonisti di queste pellicole sono sempre ben integrati, almeno dal punto di
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vista economico e della “rispettabilità” sociale, dunque niente affatto bisognosi di
inserirsi nel tessuto della comunità attraverso una serie di scelte estranee alla
propria identità. La componente etnica, particolarmente marcata in Sognando
Beckham, si riduce a poco più di un pretesto per “fare colore”: non c’è né la
rivendicazione orgogliosa dell’appartenenza a una cultura diversa da quella
occidentale, né tanto meno la richiesta di affrancarsi dalle anacronistiche tradizioni
indiane. Il film risulta, tuttavia, estremamente piacevole, anche se decisamente
superficiale, proprio grazie alla sapienza con cui vengono mescolati aspetti affatto
eterogenei delle due culture a confronto: si pensi al contrasto prodotto
dall’immagine delle donne in sari che armeggiano con i telefoni cellulari, dagli
uomini con il turbante alla guida di lussuose automobili, dalla proverbiale pudicizia
delle madri paragonata con l’esuberanza sessuale delle figlie, dalla scelta di una
colonna sonora che mescola abilmente ritmi da discoteca con melodie indiane
tradizionali.
RUOLO DEL MINORE E SUA RAPPRESENTAZIONE
Le ragazze e i culti laici
Un’immagine accomuna e al tempo stesso allontana Jessminder dal mondo dei
propri genitori: la venerazione per David Beckham, il celebre bomber inglese, la
cui fotografia giganteggia nella stanza della ragazza, collocata a mo’ di nume
tutelare, quasi a voler imitare e contemporaneamente a contrapporsi all’immagine
raffigurante il santone Babaji che campeggia nel soggiorno di casa e al quale i
coniugi Bahmra rivolgono le proprie preghiere e i propri scongiuri affinché la
propria figliola desista dai suoi folli propositi sportivi. Al piano di sopra, invece,
Jessminder prega proprio il campione inglese affinché la guidi nelle proprie scelte,
gli confessa le proprie paure, si confida con lui nei momenti di solitudine, esulta
sotto la sua immagine per i primi successi sportivi, proprio come ogni adolescente
fa con l’idolo di turno. Sognando Beckham è un film che sta tutto tra questi due
estremi, tra il culto laico del calcio e la devozione alle tradizioni religiose, tra una
passione troppo forte per poter sottostare alle regole imposte da una cultura cui
Jessminder sente di appartenere solo in parte e la necessità dei suoi genitori di
conservare quel poco che ancora li lega alle proprie radici culturali. Le scelte della
giovane protagonista, dunque, danno luogo a un moto di emancipazione articolato
su più piani a loro volta intersecati: quello famigliare, dato che, come tutte le sue
coetanee anche Jessminder vuole rendersi indipendente dai genitori; quello
dall’universo culturale indiano che, per lei così come per sua sorella e le altre
ragazze della comunità è ormai un inutile involucro di tradizioni e rituali
anacronistici; quello sessuale, che vorrebbe il calcio uno sport riservato agli
uomini. Alla famiglia che, secondo la tradizione indiana la vorrebbe relegata nel
ruolo unico di cuoca, madre e sposa di un proprio connazionale, Jessminder
oppone un tipo di immagine femminile che neanche la maggior parte delle famiglie
inglesi approverebbe. L’intelligenza della regista e sceneggiatrice Gurinder
Chadha sta proprio nella capacità di non circoscrivere alla sola comunità indiana
questo genere di pregiudizi: la madre di Jules dimostra di avere non meno remore
dei genitori di Jessminder nei confronti del calcio, partendo dal presupposto che
una donna che pratichi sport difficilmente potrà essere attraente per un uomo,
arrivando al punto di ipotizzare che la figlia possa essere lesbica. L’idea più
brillante di tutto il film, quella che permette all’autrice, anche lei inglese di origine
indiana, di operare una sintesi positiva tra richieste di emancipazione e orgoglio
per le proprie origini è, tuttavia, quella di fare sì che il padre di Jessminder veda
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nell’affermazione come calciatrice della ragazzina il riscatto per quella carriera da
giocatore di cricket che a lui fu impedita solo perché indiano.
RIFERIMENTI AD ALTRE PELLICOLE E SPUNTI DIDATTICI
Due sono i film che dividono con Sognando Beckham il tema dell’emancipazione
da una condizione svantaggiata attraverso lo sport: Girlfight (USA, 2000, regia di
Karyn Kusama) e Billy Elliot (Gran Bretagna, 2000, regia di Stephen Daldry). Nel
primo film il riscatto della protagonista (una ragazza di colore che si dedica alla
boxe contro i pregiudizi di quanti la circondano) è, a differenza di Sognando
Beckham i cui protagonisti appartengono alla middle-class, anche sociale oltre che
sessuale. Lo stesso dicasi per Billy Elliot, il cui protagonista, un ragazzino figlio di
una famiglia di minatori, sfida i pregiudizi (a dire il vero ben più pesanti di quelli
affrontati dalle protagoniste degli altri due film) del proprio ambiente dedicandosi
alla danza. Per quanto riguarda le ethnic comedy, possiamo citare East is East di
Damien O'Donnel e Jalla Jalla di Josef Fares
Il film può essere utilizzato in ambito scolastico sia per illustrare le tematiche della
diversità culturale, dell’integrazione razziale e della parità sessuale, sia in quanto
portatore di una visione dello sport come mezzo di integrazione culturale e sociale
sempre meno comune al giorno d’oggi.
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Stand by me
Drammatico/Avventura
Regista: Reiner, Rob
Autore del soggetto:
Sceneggiatore: Gideon, Rob
Produzione: Act Iii Productions
Musiche: Nitzsche Jack
Scenografie: Gideon, Raynold
Film per tutti
Prodotto: USA, 1986
Soggetto tratto dal romanzo di Stephen King Stand by me
Cast: Wheaton Wil, Phoenix River, Feldman Corey, O’connel Jerry, Sutherland
Kiefer, Casey Siemaszko, Riley Gary, Gregg Bradley, Oliver Jason, Marshall Bell.
Premi e riconoscimenti: una nomination per il premio Oscar (miglior
sceneggiatura), due nomination per il Golden Globes (miglior film e migliore regia)
Trama
Nel bosco che circonda Castle Rock, una cittadina dell'Oregon, quattro ragazzi si
danno spesso convegno in una capanna appollaiata sulla biforcazione di un
albero. Il sensibile (e scrittore) Gordie Lachance, il più maturo ed equilibrato
Chris Chambers, l'estroverso Teddy Duchamp e Vern Tessio, il timoroso ciccione
del gruppo (tutti in difficili rapporti con i rispettivi padri), partono un giorno per una
escursione di una cinquantina di chilometri lungo i binari della ferrovia e verso il
fiume. È proprio Vern, che di nascosto ha sentito parlare il fratello maggiore del
corpo di un ragazzo scomparso giorni prima, da lui ritrovato nel bosco dove si era
recato con un suo amico su di un’auto rubata, che li guida. L'occasione per i
quattro adolescenti non è allegra, ma eccitante: la televisione potrà parlare di
loro. Incontrano varie piccole avventure e alla fine vedranno il cadavere tra foglie
e arbusti, battendo sul traguardo altri ragazzi più grandi, capeggiati da un bulletto
cittadino. Poi la vita li separerà: Teddy e Vern resteranno a Castle Rock, Chris,
malgrado molti ostacoli familiari, diventerà avvocato e Gordie sarà uno scrittore di
successo che tanto desiderava essere, senza però mai dimenticare quelle
schiette amicizie di tanti anni prima.
SCHEDA CRITICA
Era stato George Lucas, nel 1973 con American Graffiti, ad aprire le porte ad un
nuovo modo di fare cinema, un nuovo modo di raccontare storie, iniziando quella
riflessione sulla fine dell'adolescenza, su quella “linea d'ombra” dalla giovinezza
alla maturità, quel mitico rito di passaggio che invece il romanzo americano aveva
saputo mostrare con notevole anticipo. Questo passaggio, questo intervallo di
tempo, tra l'adolescenza e l'età adulta che già con Salinger aveva visto la luce
nell'ormai lontano 1951 (“Il giovane Holden”), è rappresentato da Lucas in un “tutto
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in una notte”, una notte di crescita, di trasformazione, di scelte, di maturazione. Ma
è anche mostrato con un senso del nostalgico, del rimpianto per la giovinezza
ormai trascorsa, che è una di quelle caratteristiche che fanno grande il cinema
americano. Qui da noi il termine nostalgico ha un valore purtroppo ancora
negativo. Gli americani invece hanno compreso la profondità e l'emozione che
questo sentimento suscita e nell'ultimo decennio hanno saputo “usare” il ricordo, la
memoria della propria giovane età come luogo forte ed espressivo in cui proiettare
le proprie illusioni, le delusioni, i fallimenti, ma anche un luogo in cui scavare sui
sensi complessivi dell'esistenza, sulla tenerezza dell'amicizia, su quella capacità
che in talune epoche storiche un gruppo di pari età ha di trasformarsi in
generazione. Questo passaggio, questo momento importante di trasformazione,
questo amore per la propria generazione è ciò che accomuna film altrimenti diversi
come Un mercoledì da leoni, Gli amici di Georgia, Rumble Fish, A cena con gli
amici, The Return of the Secaucus Seven, Il grande freddo, La banda di Eddie,
Fandango. Tutti film dove dominano il ricordo, la memoria, il senso del tempo, le
occasioni della vita, i sogni, le aspirazioni, le scelte da fare, le illusioni dissennate,
la fine dell'innocenza, quello scontro con la durezza della vita che trasforma le
speranze, gli ardori giovanili nel cinismo o nella rassegnata disperazione
dell'essere adulto. Ma quello che è più forte in questi film è proprio quella
straordinaria capacità di parlare dell'amicizia, quel senso di unione tenero e forte
che è il pilastro di ogni discorso possibile su adolescenza e giovinezza. Sì tratta di
un sentimento che trascende e supera le storie individuali, una passione che nel
cinema USA non ha eguali in alcun rapporto d'amore, forse perché, trattandosi di
condizione giovanile, come ha scritto Paul Goodman, si parla esclusivamente di
un universo maschile, American Graffiti si chiude all’aeroporto con Richard
Dreyfuss in partenza per il college. Dei quattro protagonisti è l'unico che - in
qualche modo - realizzerà il sogno, uccisi gli altri dalla guerra, dalla sfortuna, o
dalla quotidianità della vita middle-class. Il personaggio di Dreyfuss si afferma
come scrittore ed è proprio in questo ruolo che l'attore ricompare quindici anni
dopo in Stand By Me, pellicola diretta da Bob Reiner, da un racconto di Stephen
King. Dreyfuss appare in scena per pochi ma intensi secondi, in apertura e in
chiusura del film, è l'io-narrante della vicenda. Forse pochi avranno visto quello
straordinario film del 1978 che era Moses Wine Detective - qui Richard Dreyfuss
interpretava il ruolo di uno scanzonato, squattrinato e disilluso detective, con un
passato di attivista militante nel movement, incaricato di scoprire che fine avesse
fatto un suo coetaneo ex leader della contestazione misteriosamente scomparso.
Tutto il film è incentrato su questo viaggio a ritroso, su questa ricerca all'interno
della storia della propria generazione, che trova il suo momento clou, decisivo
emozionalmente e commovente all'inverosimile (e sulla commozione vale il
discorso già fatto sulla nostalgia) nella scena in cui Moses rivede vecchi filmati dei
sixties, manifestazioni, comizi, ecc., e rivede soprattutto quella forza comune,
quell'idea di lottare per cose “giuste”, quel “comunismo emozionale” di
generazione che è sicuramente quello che più rimpiange, con gli anni, di aver
perduto. Insomma questo attore, questo straordinario volto è il segno, il corpo in
cui convergono esperienze diverse ma riconducibili comunque attorno alle
coordinate amicizia-generazione-capacità viscerale di trasformare le passioni, le
pulsioni affettive in storie. Dreyfuss diventa una sorta di tratto comune, elemento
simbolico che con la sua sola presenza, anche solo accennata, sa imprimere al
film un tono, un senso in più, una direzione precisa che ruota proprio attorno a
questo rito di passaggio, a questo io che diventa noi che solo certo cinema
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americano sa narrare (proviamo a pensare a film italiani che sanno esprimere
emozioni in questa direzione e non andremo più in là dei pur apprezzabili La
rimpatriata di Damiani e C'eravamo tanto amati di Scola; Moretti e gli altri sono
troppo presi dall'Io e non pretendono di narrare di una generazione). Poche
immagini di avvio e si entra nella storia: una valle, un’auto con dentro Dreyfuss
scrittore-io narrante, dei bambini che passano in bicicletta, e il tempo diventa
quello della memoria, il 1960 in cui quattro ragazzi di 12-13 anni vivono la loro
avventura decisiva. È l'inizio di Stand By Me. Il motivo di questo “viaggio”, di
questa avventura nel cuore delle tenebre della natura è la ricerca del cadavere di
un loro coetaneo scomparso e mai più ritrovato. Ma il fatto che questa ricerca si
trasformi immediatamente in “qualcos'altro”, in una sorta di sfida a se stessi, di
ricerca del proprio io, del senso della propria amicizia, lo si capisce subito dal
come viene effettuata la ricerca. Una marcia di due giorni per 30 o 50 miglia
all'interno della foresta, seguendo la traccia dei binari della ferrovia. Nel racconto
King scrive che “sembrava giusto farlo in questo modo, perché il rito di passaggio
è un corridoio magico e perciò ci mettiamo sempre in corsia”. Questo gruppo di
ragazzi trova al proprio interno i valori e le speranze in cui credere e nei massmedia, tv, cinema e fumetto, il riferimento immaginario più vicino. Per dirla con D.
Riesman sono individui eterodiretti che nel rapportarsi agli altri cercano di
assimilarsi al gruppo, anche se forse in questi ragazzi tutto c'è tranne che un
appiattimento comportamentale. Questo senso di “gruppo” ha un suo luogo, la
casa sull'albero in cui si ritrovano a leggere, parlare e giocare, e ha un suo modo
di esprimersi in un linguaggio spesso incomprensibile al di fuori, quei giochi sulle
parolacce dove l'offesa è sempre più complessa e articolata ed è motivo di riso
comune piuttosto che di lite, quei gesti che sono propri di un'infanzia che non
intende finire come lo “struscio” delle mani in segno di pace, di amicizia e
complicità. E poi i discorsi, “quel genere di discorsi che non puoi più ricordarti
bene una volta che hai superato i 15 anni e hai scoperto le ragazze”. Questo
viaggio, questa discesa nella natura è una vera e propria ricerca di maturità e
come tutti i passaggi della vita deve attraversare alcune “prove” decisive, superate
le quali si sarà acquistata quella conoscenza, quella consapevolezza, quella fine
dell'innocenza che li trasporterà nella vita adulta. La prima prova che affrontano è
quella della discarica di Milo Pressman e del suo ferocissimo cagnaccio, Chopper.
In questa prima tappa di avvicinamento la scoperta vera e propria è quella che
Gordie (il ragazzo-narratore) definisce “la prima lezione sulla vasta distanza tra
mito e realtà”. L'uomo tanto cattivo altri non era che un goffo grassone incapace di
scavalcare una rete e il mitico cagnaccio addestrato “ad addentare parti specifiche
dell'anatomia umana”, un semplice “bastardello di mezza taglia”, immediato
oggetto di scherno dei ragazzi. La seconda prova è visivamente la più
spettacolare, la scena del ponte, un lungo ponte attraversato dalla sola ferrovia
senza spazio ulteriore in cui cacciarsi se fosse sopraggiunto il treno. E questa del
treno è una presenza costante sia nel racconto che nel film; è il treno che
probabilmente ha ucciso Ray Brower, il ragazzo del cadavere scomparso, è la
ferrovia che i ragazzi seguono come percorso di ricerca, strada sicuramente più
lunga ma che comunque li lega ancora alla civiltà, ed è il treno - appunto - che li
minaccia fisicamente, mostro tecnologico che attenta alle loro giovani piccole vite.
Non so se volutamente, ma l'intera sequenza del treno che compare all'improvviso
con i ragazzi ancora al centro del lungo ponte, sembra uno stupendo omaggio a
quello che André Bazin chiamava “montaggio proibito”. La terza prova è la notte, e
qui siamo nel terreno proprio di King, che gioca in casa nel luogo tipico delle
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paure, delle ossessioni dell'infanzia. Superare la paura del buio, di “quelle tenebre
al limite del paese”, significa acquisire l'autonomia, l'indipendenza dall'adulto
protettore, affrontare i fantasmi nascosti della propria infanzia. La notte intorno al
fuoco è anche un luogo dove parlare, dove raccontarsi e scoprire se stessi, la
profondità di un'amicizia, quella di Chris e Gordie, che è quella che resisterà alla
storia e che solo la morte di Chris strapperà via. Nel film è sufficiente uno sguardo,
una mano sulla spalla per mostrare tutto questo; King ci regala invece pezzi di
notevole bravura: “... e per un attimo ci guardammo negli occhi e vedemmo
qualcuna di quelle cose autentiche che ci facevano amici”. E più avanti: “Ci
guardammo con calore per un secondo e poi, forse imbarazzati da quello che
ognuno vedeva negli occhi dell'altro, abbandonammo lo sguardo
contemporaneamente”.La quarta prova non è proprio tale, ma è comunque
un'esperienza forse unica e comunque individuale, l'incontro all'alba di Gordie con
il daino. Questa è l'unica cosa che Gordie si terrà per sé, non raccontandola a
nessuno forse perché le cose più importanti sono le più difficili da dire, perché le
parole le rimpiccioliscono. “È difficile far in modo che un estraneo provi interesse
per le cose belle della tua vita”. D'accordo con King anche noi tacciamo e
lasciamo al piacere della lettura e della visione la ricchezza di emozioni che
questa scena sa comunicare. La quinta è una prova di dolore fisico, il bagno nel
laghetto e i corpi dei ragazzi che si riempiono di sanguisughe. Anche qui abbiamo
una sorta di esame di maturità: resistere, superare il dolore fisico è un qualcosa
che - almeno nel cinema americano - appartiene al fatto di essere uomini, “uomini
veri” se vogliamo citare una rassegna scema di bei film trasmessi in tv. Poi c'è
l'incontro con il morto, la scoperta della loro finitezza, la terribile esperienza di
sentirsi mortali, l'idea che di colpo tutte le nostre inquietudini, passioni, ricerche,
speranze, i nostri rapporti, la nostra esistenza possa essere spazzata via, magari
dall'arrivo di un treno non “schivato”.
È proprio su questo macabro possesso di cadavere che avverrà l'ultima decisiva
prova dei quattro nello scontro con la banda di Asso, i ragazzi dell'altra
generazione, “i ragazzi più vecchi, i grandi”. Ed è qui che avviene forse quel 'salto',
quella differenza che fa di Stand By Me un prodotto che segna una svolta nel
genere. Finora il genere aveva lavorato ai fianchi sullo scontro generazionale, i
giovani contro gli adulti, due modi assolutamente opposti di rapportarsi ai sensi
dell'esistenza e dei rapporti umani. Il momento del passaggio è quello dalla
giovinezza alla maturità, al momento delle scelte decisive per divenire adulto e
questo è comunque sempre il momento della fine delle scuole superiori oppure
della fine del college (American Graffiti, Gli amici di Georgia, Fandango, I ragazzi
della porta accanto, ecc.). Questo è il momento che Conrad chiama “una linea
d'ombra che ci avverte che la regione della prima gioventù, anch'essa, la
dobbiamo lasciare addietro”. La novità del film di Reiner e del racconto di King è di
superare questo assunto, da un lato ritornando a quel tema fondamentale della
cultura americana che è la riluttanza di fronte alla fine dell'adolescenza e dall'altro,
in questo caratterizzandosi in pieno come prodotto degli anni 80, dotando i ragazzi
di una consapevolezza davvero nuova della propria età.
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Tredici anni
Drammatico
Regista: Hardwicke, Catherine
Autore del soggetto: Hardwicke, Catherine
Sceneggiatore: Hardwicke, Catherine
Sceneggiatore: Reed, Nikki
Produttore: Venice Surfclub
Montaggio: Richardson, Nancy
Musiche: Mothersbaugh, Mark
Scenografie: Strober, Carol
Film per tutti
Titolo originale: Thirteen
Cast: Holly Hunter (Melanie), Evan Rachel Wood (Tracy), Nikki Reed (Evie), Brady
Corbet (Mason), Jeremy Sisto (Brady), Deborah Kara Unger (Brooke), Sarah
Clarke (Birdie), Vanessa Anne Hudgens (Noel), Jenicka Carey Small (Astrid),
Tessa Ludwick (Yumi), Java Benson, Sarah Cartwright (Medina), Yasmine
Delawari (sig.na Flores), Charles Duckworth (Javi), Ulysses Estrada (Rafa),
Cynthia Ettinger (Cynthia), Steven Kozlowski (Skanky Runaway), Maurice 'Mo'
Mcrae, Frank Merino (De Leon), D.W. Moffett (Travis), Kip Pardue (Luke).
Premi e riconoscimenti: Nomination Miglior attrice non protagonista (Academy
Awards, 2004).
Prodotto: USA 2003.
Distribuito: 20th Century Fox
Trama
Tracy è una studentessa modello di tredici anni, con le treccine, gli orsetti del
cuore e la sua amata Barbie. Quando arriva al liceo, dove impera lo spirito del
branco, subisce il fascino della ragazza più popolare della scuola, Evie Zamora,
che con il suo carisma la spinge, per imitazione, a trasformarsi completamente.
Tutta la sua energia è impegnata a essere alla moda, avere il look giusto, fare le
esperienze che la rendano appetibile agli occhi di chi per lei conta.
SCHEDA CRITICA
Diario intimo del vuoto rassicurante, consumista e conformista delle nuove
generazioni, che imitano i modelli preconfezionati Jennifer Lopez e Britney Spears
senza accorgersi di non decidere niente e di essere spietatamente manipolate.
Thirteen, doppio Pardo d’argento al Festival di Locarno come migliore opera prima
e per l’interpretazione di Holly Hunter, non è soltanto un film specchio sugli
atteggiamenti istintivamente vendicativi e taciturni delle adolescenti, ma anche uno
studio antropologico sulla necessità di essere riconosciute ed accettate,
scavalcando qualsivoglia ostacolo morale. Alla regista non è necessario
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esasperare vizi e comportamenti, ma riprodurre fedelmente la realtà e l’isterico
desiderio di liberazione, di accettazione e di promozione sociale nel gruppo, con
uno stato fatuo di eccitazione permanente che porta le giovanissime protagoniste
a non voler rinunciare a nulla, a non saper distinguere tra bene e male. Dentro la
mente della ragazzina, filmata nervosamente e tallonata dalla regista con uno stile
che, nella finzione, rimanda alla semplicità ed all’immediatezza realistica del
cinema-verità, c’è un desolante senso di vuoto e di straniamento dal quotidiano,
che si dilata in dialoghi insignificanti che portano alla luce una lacerante solitudine.
Thirteen, senza moralismi, nella spietata analisi tra bugie e false consolazioni del
“Girl Power”, è la cronaca lucida e fredda della trasformazione di Tracy, figlia
modello da esibire ed ammirare, che vive circondata in un’atmosfera profumata di
borotalco, orsetti di peluche e merendine da addentare: una volta entrata alla
scuola media conosce Evie, e per farsi accettare cambia completamente
atteggiamento e personalità, smette di studiare diventando aggressiva e nervosa
seppur incapace di affrontare e risolvere i problemi e le piccole difficoltà. L’autrice,
nell’autentica e attenta osservazione dei linguaggi, dei corpi e dei segni, dei codici
di comportamento, non si lascia mai sedurre dai pianti a comando, mettendo in
scena gli inganni studiati a tavolino, la smania di voler passare “from zero to hero”
senza mai calcolare il prezzo da pagare, affrancandosi e liberandosi dalla
presenza dei genitori. Tuttavia la Hardwicke, profondamente influenzata dalla
cultura rock, dalla visione ironica e disincantata delle cose di Cameron Crowe,
dalle verità anarchiche di David O’Russell, ha cercato di raccontare il distacco
dalla ragione e dall’equilibrio nell’esistenza, in cui l’impulso vitale resta sempre
quello dello shopping permanente, unica spinta giornaliera alla realizzazione.
Thirteen non è soltanto un apologo sull’invidia come motore del quotidiano, ma
un’analisi della rivoluzione della pubertà, e dell’impossibilità a capire e a
comprendersi sotto la spinta anestetizzante di oggetti inutili che restano
accatastati e adorati come piccoli totem e poi buttati via. La Hardwicke, con
inattesa e sorprendente maturità, non concede alla sua eroina nessuna
attenuante, né riveste i sogni di illusioni consolatorie, bensì costruisce uno
spregiudicato racconto di formazione sull’annientamento della personalità, con un
film autenticamente cattivo e tragico nella sua leggerezza sulla vampirizzazione
dei gusti e dei caratteri.
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Will Hunting
Drammatico
Regista: Van Sant, Vincent
Autore del soggetto: Affleck, Ben
Autore del soggetto: Damon, Matt
Sceneggiatore: Affleck, Ben
Sceneggiatore: Damon, Matt
Produttore: Bender, Lawrence
Montaggio: Scalia, Pietro
Musiche: Elfman, Danny
Musiche: Smith, Elliot
Scenografie: Stewart, Missy
Film per tutti
Titolo originale: Good Will Hunting
Cast: Matt Damon (Will Hunting), Robin Williams (Sean McGuire), Ben Affleck
(Chuckie Sullivan), Stellan Skarsgard (Gerald Lambeau), Minnie Driver (Skylar),
Casey Affleck (Morgan O'Mally), Cole Hauser (Billy McBride), John Mighton
(Tom), Rachel Majoroswski (Krystyn), Collen McCauley (Cathy), Ron Lyons
(Carmine Scarpaglia), Scott William Winters (Clark), George Plimpton (Henry
Lipkin).
Crediti: montaggio, Pietro Scalia; musica, Danny Elfman; scenografie, Melissa
Stewart; costumi, Beatrix Aruna Pasztor.
Premi e riconoscimenti: Oscar a Robin Wiliams come Miglior attore non
protagonista, Oscar a Matt Damon e Ben Affleck per la miglior sceneggiatura
originale; Orso d'argento al Festival di Berlino a Matt Damon per la sceneggiatura
e l'interpretazione; Golden Globe per la miglior sceneggiatura a Matt Damon e Ben
Affleck.
Prodotto: Stati Uniti: Lawrence Bender Productions Miramax Films, 1997.
Distribuito: Italia: Cecchi Gori Home Video.
Trama
Boston, Massachusetts, anni Novanta. Will Hunting è un ragazzo residente in
periferia che trascorre il suo tempo uscendo con gli amici, frequentando i bar per
divertirsi in allegria e spensieratezza. Il ragazzo ha un carattere violento ed
irascibile e vive alla giornata svolgendo lavori saltuari. Mentre sta esercitando le
sue mansioni di uomo delle pulizie, Will riesce a risolvere un difficilissimo
problema matematico lasciato alla lavagna del prestigioso M.I.T. dal professor
Lambeau nella vana speranza che lo risolvano i suoi studenti. Grazie ad una
particolare dote naturale, Will Hunting è un vero e proprio genio: qualunque
disciplina per lui non ha segreti, e il professor Lambeau, una volta individuato
come il responsabile dell'operazione, si attiva per offrirgli le opportunità che il
ragazzo indubbiamente merita. Ma i piccoli precedenti penali di Will, dovuti alle
sue intemperanze caratteriali, fanno in modo che il ragazzo debba sottoporsi a
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delle sedute psicoanalitiche con lo specialista Sean McGuire. McGuire è uno
psicologo uscito dal grande giro per una sorta di vocazione alla marginalità
inasprita dal grande dolore della perdita della moglie. Il rapporto tra lo psicologo e
Will non inizia sotto i migliori auspici: abituato a farsi beffe di chiunque senza alcun
timore reverenziale, il ragazzo pensa di ingabbiare anche McGuire nella sua rete e
di ridicolizzarlo. Parallelamente, Will conosce Skylar, una ragazza abbiente che
frequenta l'università, ma quando la fanciulla si innamora, Will fuggirà da lei e
interromperà bruscamente il rapporto.
Nonostante le difficoltà, le sedute di Will con McGuire procedono: lo psicologo,
con estrema perseveranza e donando al ragazzo quell'affetto di cui è sempre stato
bisognoso, riesce progressivamente a far emergere il trauma rimosso dovuto ai
maltrattamenti ricevuti dal padre durante l'infanzia. Svelate paure ed incertezze,
ora Will è in grado di ottenere ciò cui aspira maggiormente: l'amore per Skylar,
principalmente, accantonando gli obiettivi ambiziosi e carichi di oneri e ricchezza
ai quali lo vedeva destinato il fin troppo razionale professor Lambeau.
Parole chiave:
1990-2000 – Adolescenti – Adolescenti superdotati – Boston –
Comportamenti devianti – Lavoro Minorile – Padri - Psicologi scolastici –
Rapporti – Ruolo – Violenza su adolescenti.
Soggetto: Adolescenti – Comportamenti devianti – Ruolo dei padri – Boston –
1990-2000.
Soggetto: Adolescenti superdotati – Rapporto con gli psicologi scolastici –
Boston – 1990-2000
Soggetto: Lavoro Minorile – Boston – 1990-2000
Soggetto: Violenza su adolescenti – Ruolo dei padri – Boston – 1990-2000
SCHEDA CRITICA
Un regista vicino all’adolescenza
Gus Van Sant è da sempre un regista anomalo: considerato all’inizio degli anni
Novanta uno degli alfieri di una ritrovata libertà d’espressione dei cineasti
americani affrancati dalle rigide regole dell’intrattenimento commerciale dettato
dalla macchina hollywoodiana, dopo l’insuccesso del suo film più ambizioso,
Cowgirl: il nuovo sesso (1995), opera irrealizzabile perché tratta dal romanzo di
uno scrittore come Tom Robbins, capace in ogni più piccolo inciso di evocare
paesaggi grottescamente e surrealisticamente venati da una spessa patina di follia
lisergica, Van Sant ripiega su se stesso e sulle sue aspirazioni di indipendenza
accettando le proposte delle grandi case di produzione, limitandosi, per la maggior
parte della critica, a mettere in scena progetti meno coraggiosi, più corretti e
maggiormente aderenti ad un semplice mestiere, senza quei picchi poetici che
nella prima fase della sua carriera avevano fatto gridare al miracolo di una nuova
e possibile liricità. Eppure, tra le pieghe del racconto vansantiano esistono delle
costanti che trasmigrano da una pellicola all’altra e che conferiscono al corpus
dell’autore quelle caratteristiche espressive che ne decretano l’immediata
riconoscibilità. Così, tra elementi eminentemente visivi (nuvole che si muovono nel
cielo con effetto accelerato, le improvvise inquadrature che fungono da inserti atti
a chiarificare, confrontare e metaforizzare la realtà di riferimento), principi
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strutturali (la circolarità insita nell’organizzazione dei suoi film), temi ricorrenti
(l’emarginazione tossico-omosessuale) e ammiccanti tonalità tendenti all’onirismo,
risulta evidente come Van Sant osservi spesso la difficile fase che accompagna gli
individui nel passaggio che dall’adolescenza li conduce verso un’età adulta
sempre gravida di disillusioni sferzanti e conseguenze devastanti.
IL RUOLO DEL MINORE E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
Un genio di difficile gestione
Anche Will Hunting – Genio ribelle, seppur facente parte della “seconda fase” della
carriera di Van Sant, non sfugge a quest’attenzione citata poc’anzi: Will Hunting è
un adolescente disadattato a causa dei maltrattamenti subiti dal padre in tenera
età. La degenerazione della famiglia è un altro dei temi preferiti dal regista, il quale
ha sempre citato tra le sue influenze principali Gente comune di Robert Redford
(datato 1980, primo film come regista del noto attore: un dramma familiare sui
sensi di colpa e sulle difficili dinamiche che seguono le tragedie domestiche) e i
disastrati e disgreganti nuclei familiari che popolano gli universi teatrali off-offBroadway di Sam Shepard (soprattutto in quella che è nota come la “Trilogia della
famiglia” o “American Gothic”, formata dai drammi Curse of the Starving Class,
Buried Child e True West). Will Hunting è un genio: storia, matematica, chimica,
scienze sociali, tutto rientra nel suo scibile, ma il suo sapere non è utilizzato per
migliorare la sua posizione nella società. Anzi pare proprio che quest’aspetto non
gli interessi: il ragazzo, infatti, ama scazzottarsi come un qualunque teppista da
strada e trascorrere le sue serate in piccoli e squallidi locali a discutere di aspetti
risibili della realtà con i suoi amici, i quali sono mediocri, alcune volte possono
apparire anche tardi, ma sono costantemente presenti, e sono tutto quello che Will
possiede. Will è una splendida farfalla che si sforza di non uscire dal suo bozzolo.
L’esterno spaventa: l’inconscio dei maltrattamenti ricevuti durante l’infanzia gli ha
costruito addosso una dura corazza atta a respingere tutto ciò che gli è estraneo,
fosse anche un sincero coinvolgimento emotivo.
Le dinamiche mentali di Will sono fini a se stesse, il suo talento è destinato a
rimanere circoscritto al suo interno oppure, altrettanto poco utilmente, a mortificare
studenti che utilizzano la cultura per far sfigurare i suoi fin troppo intellettualmente
indifesi amici. Ma sulla pelle di Will si giocano anche i sentimenti e le frustrazioni
degli adulti: da un lato il professor Lambeau, al quale va il merito di aver scoperto
il genio di Will, che cerca di utilizzare il ragazzo per accedere pienamente a quella
vita colma di riconoscimenti che il destino ha voluto sfiorasse soltanto; dall’altro
Sean McGuire, psicologo anticonformista e disilluso, marginale per vocazione, il
quale conosce pienamente le passioni (ha perso infatti la sua adorata moglie) e
odia la freddezza del raziocinio accademico. Will viene così ad essere l’impietoso
campo da gioco in cui deve essere determinato necessariamente il suo destino
futuro, l’oggetto attraverso il quale l’età adulta dispone ancora una volta del minore
per sfogare rabbia, delusioni e impotenti frustrazioni. La battaglia tra passione e
razionalità è stravinta dalla prima: McGuire offre a Will tutto un corredo di
sensazioni intense che gli erano mancate nell’infanzia, trae dal suo subconscio la
violenza patita anni addietro, permettendogli librarsi in volo verso quell’esterno che
ha sempre temuto. Ora per Will è possibile qualunque aspirazione. Anche e
soprattutto l’amore che prima aveva sempre rifiutato.
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RIFERIMENTI AD ALTRE PELLICOLE E SPUNTI DIDATTICI
Adolescenze allo sbando
All’interno del cinema di Gus van Sant è possibile un percorso intenso e
intrecciato che mostri le varie facce dell’adolescenza. Se nel suo primo, scabroso
film, Mala Noche (1986) giovani messicani si prostituivano facendo impazzire
d’amore omosessuale un giovane americano un po’ più maturo di loro, nel terzo
film, Belli e dannati (My Own Private Idaho, 1991), ripercorrendo le orme
dell’Enrico IV di Shakespeare, l’adolescenza mostrava le sue facce più complicate
e problematiche: da una parte, un giovane che si apprestava a ricoprire in società
il ruolo del vecchio padre, sindaco di Seattle; dall’altra, un coetaneo senza
famiglia, con gravi problemi emotivi, alla perenne ricerca di una madre sfuggente
ed inesistente come un sogno in una notte lontana. Ma l’adolescenza vansantiana
va oltre e diventa mezzo per eliminare un marito scomodo in Da morire (To Die
For, 1995) e modalità per poter conoscere se stesso per un vecchio scrittore
misantropo in Scoprendo Forrester (Finding Forrester, 2000), fino a giungere al
suo, per ora, ultimo lavoro, quell’Elephant (2003) che, ispirato dal famoso
massacro del liceo di Colombine, descrive realisticamente, senza alcun
compiacimento formale, senza nessuna congettura lirica, la giornata di alcuni
adolescenti (non attori, ma veri studenti dei licei di Portland, Oregon) fino
all’esplosione di violenza finale.
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