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A. M. Passaseo, D. De Salvo – Università di Messina Coscienza delle contraddizioni: •Diritto di famiglia legato al primato del marito •Analfabetismo •Morti per parto •Sfruttamento sul lavoro LEGISLAZIONE COSTRUITA SULLA DISEGUAGLIANZA TRA I SESSI E SULLA SUBORDINAZIONE DELLA DONNA ALL’UOMO: •Sostegno alla maternità (in nome della politica demografica di potenza) •Limitazione negli impieghi pubblici •Esclusione dall’insegnamento nei licei •Riduzione dei salari •Fine dell’impegno sindacale, politico, associativo 1924 OPERAIA DELLA SPIGA DI TORINO L’operaia indossa il “toni” (tuta). La tuta esprime una forma di orgoglio di appartenenza alla fabbrica. Questo è un abbigliamento molto inusuale per l’epoca 1945 - IL DECRETO SUL VOTO Il decreto legislativo luogotenenziale, governo Bonomi, è del 30 gennaio 1945, mentre Italia del nord era ancora occupata ed era ancora momento di Resistenza. Il decreto legislativo è molto semplice, solo tre articoli. Il primo estende il diritto di voto alle donne, il secondo ordina la compilazione di liste elettorali femminili distinte da quelle maschili, il terzo esclude le prostitute che esercitavano “il meretricio al di fuori di luoghi autorizzati”. Il decreto del 30 gennaio 1945 passa senza grossi problemi, non sollecita nessuna discussione politica. Nessuno si alza a dire “Io sono contrario” come era successo per tutto l’800 ed i primi del ‘900. D’altronde, nel 1945, questo non era più possibile: quasi tutto il mondo ormai, negli anni trenta- quaranta aveva concesso il voto alle donne. (L’Italia precede tra i paesi europei solo la Svizzera, dove le donne voteranno dal 1971). La generale mancanza di discussione sul decreto è dovuta anche alla mancanza dell’assemblea parlamentare, alla guerra ancora in corso e al problema, in quel momento molto più lacerante, delle epurazioni dei funzionari civili e militari. Il voto arriva così senza neppure un eco delle battaglie femministe o dei dibattiti parlamentari che avevano periodicamente e infruttuosamente contrassegnato i decenni dell’età liberale. Il voto è sostanzialmente elargito. ADULTERIO FEMMINILE (1968) Nell’atmosfera chiusa, bigotta, perbenista degli anni ‘50 per le donne la vita amorosa, sessuale e domestica era davvero poco invidiabile a causa delle inique norme di doppia morale contenute nel Codice civile. Nulla è più contrario alla Costituzione della norma che distingue l’adulterio femminile da quello maschile. Lei commette reato, lui No. L’art. 559 del Codice penale recita: “la moglie adultera è punita con la reclusione fino ad un anno. Con la stessa pena è punito il correo”. L’adultero se la cava. La disparità del trattamento non rispetta la Costituzione eppure giudici e politici non ne prendono atto. Nella morale comune lui è un donnaiolo, lei si dice che fa le corna al marito e quindi è una poco di buono. Con due sentenze del 19 dicembre 1968 la Corte Costituzionale abrogherà l’articolo sul diverso trattamento dell’adulterio maschile e femminile e quello analogo del Codice penale. SENTENZE ANTICOSTITUZIONALI Nel 1956 la Corte di Cassazione si pronuncia a favore delle botte, purché a prenderle sia la moglie e a suonarle sia il marito, che è depositario, sostengono i giudici, di un potere di correzione e di disciplina nella compagine familiare. Per tutti gli anni ’50 i magistrati attribuiscono al marito lo ius corrigendi e il controllo della corrispondenza della moglie, in contrasto con i diritti riconosciuti dall’articoli 15 della Costituzione. Soltanto nel ’63 la Cassazione afferma che “ deve escludersi che al marito compete lo ius corrigendi nei confronti della moglie”. 1956-1963 DONNE IN MAGISTRATURA L’articolo 51 della Costituzione “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere negli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza” non garantì per molti anni ancora la tutela di quel diritto. Tale accesso non fu accolto in modo esplicito dalla Costituente, Il divieto d’acceso delle donne alla magistratura venne ribadito negli anni da varie sentenze. Nel 1956 è pronto un disegno di legge, per opera di Aldo Moro, il quale socchiude le porte delle aule di giustizia alle donne, che potranno accedere esclusivamente alle giurie popolari con il limite massimo di tre su sei (norma che resterà in vigore fino al 1978) e ai tribunali minorili. Minima concessione, ma sufficiente ad essere contestata dai magistrati, una casta chiusa e impenetrabile alla concorrenza, non avvezzi ad essere criticati, figuriamoci giudicati, dalle donne. Giuristi, magistrati, professori e politici usano gli stessi argomenti che si usavano nell’800 per negare il titolo di elettore e quello di avvocato alle donne, con un’aggiunta: la convinzione che la donna non potesse essere in grado di giudicare in certi giorni del mese, di essere troppo emotiva, di non essere sufficientemente razionale, e così via. La legge Moro viene approvata e si attenuano un po’ i toni: “è opportuno l’intervento della donna in seno alla magistratura per i minorenni i cui problemi vanno risolti, più che con l’applicazione di fredde formule giuridiche con il sentimento e la conoscenza del fanciullo che è proprio della donna”. Ancora funzioni che sono il prolungamento della figura materna. Solo nel 1963 la legge n.66 attua l’art. 51 della Costituzione, ammettendo le donne a tutti i pubblici uffici senza distinzioni di carriere né limitazioni di grado. 1969 LEGGE SUL DIVORZIO 1974 REFERENDUM Per tutti gli anni ‘50 e ‘60 il matrimonio rimane indissolubile, esiste solo l’istituto della separazione legale. Negli anni ‘50 sotto il ferreo controllo di Pio XII, quella parola terribile e distruttiva, divorzio, non veniva pronunciata; negli anni ‘60, segno dei nuovo tempi, se ne discute, si effettuano sondaggi, si può tranquillamente dichiarare la propria opinione. Già nel 1965 molte cose sono cambiate, si stima che vi siano un milione di donne separate, con famiglie spaccate, sole con figli da mantenere, abbandonate. E’ proprio nel 1965 che il socialista Loris Fortuna avanza la prima proposta di legge sul divorzio, sulle orme del collega Renato Sansone, che negli anni ‘50 ci aveva invano provato, mettendo a punto una legge di piccolo divorzio per i casi estremi di ergastolani, malati di mente, scomparsi senza lasciare traccia, divorziati all’estero. Nel novembre 1969 finalmente la Camera approva la legge. Con l’approvazione della legge Fortuna-Baslini, si compie un passo avanti verso un assetto normativo più moderno per la famiglia italiana e verso una maggiore tutela delle donne. Su richiesta di 1.370.000 elettori, che vorrebbero abolire la legge, il Capo dello stato indice per il 12 maggio 1974 il referendum. Vince il fronte del No con il 59%. La legge rimane in vigore. 1971 ANTICONCEZIONALI 1978 ABORTO 1981 REFERENDUM • • • • • • • • Per realizzare la sua politica demografica, il fascismo tentò di imporre un controllo sul corpo femminile, e in particolar modo sulle funzioni riproduttive. Le misure repressive compresero il fatto di trattare l’aborto come un crimine verso lo Stato, (“reato contro la sanità della stirpe”) la messa al bando del controllo delle nascite, la censura sull’educazione sessuale. Le donne italiane, soprattutto quelle appartenenti alla classe operaia urbana, praticavano la pianificazione familiare come potevano, ricorrendo principalmente all’aborto. Nonostante i divieti, quest’ultimo divenne alla fine degli anni ’30 la forma di pianificazione familiare più diffusa. Questa situazione si protrasse fin quasi agli anni ’70. Nel 1961 la pillola arriva nelle farmacie di molti paesi europei. La Chiesa nel 1968 condanna irrimediabilmente la contraccezione. Nel 1971 la Corte costituzionale, dopo un’aspra battaglia, abroga l’articolo 535 del codice penale che vieta la propaganda di qualsiasi mezzo contraccettivo e punisce i trasgressori con il carcere. Nel luglio 1975 i radicali chiedono un referendum abrogativo su tutte le residue norme che penalizzano l’aborto. Il 20 maggio 1978 viene approvata dal parlamento la legge sull’aborto. Il referendum abrogativo non ha successo (maggio 1981) PATRIA POTESTA’ Negli anni ‘50, il peso dell’educazione dei figli grava sulle spalle delle madri ma agli occhi della legge conta quasi niente. La patria potestà spetta i due genitori, ma il suo esercizio tocca al padre, secondo l’art. 316 del Codice civile. Nel 1957 è presentato in Parlamento un disegno di legge che prevede l’esercizio congiunto della patria podestà da parte dei genitori a una condizione: in caso di divergenza di vedute prevalga il marito. Solo nel 1975 (Nuovo diritto di famiglia) la legge riconosce la parità giuridica tra i coniugi, che hanno uguali diritti e responsabilità, attribuisce ad entrambi la patria potestà. 1996 STUPRO Lo stupro non è considerato disdicevole almeno fino agli anni ’70. La mentalità comune vuole che, se una donna è violentata, questo le è toccato perché lei “ci sta” o ha dato l’impressione di starci. I violentatori godono di parecchi vantaggi: oltre che dal costume sono favoriti dalla legge. L’articolo 519 del Codice punisce la violenza carnale con una pena massima di 10 anni, più o meno come un furto aggravato. Quando poi il violentatore dichiara ai giudici le sue intenzioni matrimoniali, il matrimonio riparatore cancella la colpa. Il matrimonio riparatore è riconosciuto dall’articolo 544 del Codice penale: chi ha sedotto una minorenne può cancellare il reato sposandola. In caso contrario è applicato l’articolo 530 che prevede pene da sei mesi a tre anni. Bisognerà arrivare al 1996 perché lo stupro sia punito come delitto contro la persona e non contro la moralità pubblica e il buon costume. •La scelta del termine “liberazione” al posto del vecchio “emancipazione” : non più la ricerca dell’omologazione al modello maschile ma la costruzione autentica di sé, a partire dai propri desideri e bisogni; •La riconduzione della politica alla rivoluzione dei comportamenti, grazie al mutamento delle coscienze attraverso le relazioni personali; •L’attenzione al corpo, il riappropriarsi del corpo come parte di sé, nella sessualità, nella medicina alternativa, superando i vecchi tabù. •La tradizionale differenza di carattere tra maschi e femmine non è dovuta a fattori innati bensì ai condizionamenti culturali che l’individuo subisce nel corso del suo sviluppo; •La cultura si serve di tutti i mezzi a sua disposizione per ottenere dagli individui dei due sessi il comportamento più adeguato ai valori che le preme conservare e trasmettere: il mito della “naturale” superiorità maschile contrapposta alla “naturale” inferiorità femminile; •In realtà non esistono qualità “maschili” e qualità “femminili”, ma solo qualità umane.