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Dieci storie di chi ha ripreso in mano la propria vita

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Dieci storie di chi ha ripreso in mano la propria vita
Redazione: Piazza Cavour 17 - 00193 Roma • Poste Italiane spa – Spedizione in abbonamento postale 70% - Milano
IL MAGAZINE PER LA DISABILITÀ / AGOSTO-SETTEMBRE 2014 / NUMERO 8-9
VOLTERRA
VIGORSO DI BUDRIO
Nella patria
della riabilitazione
L’officina delle protesi
più grande d’Italia
DOPO L’INFORTUNIO
Dieci storie di chi ha ripreso
in mano la propria vita
EDITORIALE
di Giovanni Paura
Direttore Centrale Prestazioni Sanitarie e Reinserimento, Inail
Infortuni sul lavoro.
Per noi non sono numeri
A
nche quest’anno la Relazione annuale sugli infortuni lavorativi arriva inesorabile a ricordarci che di lavoro ancora si muore e ci si ammala. Per fortuna i dati offrono
qualche elemento di conforto: i decessi e gli incidenti sono fortemente diminuiti nel 2013, l’ultimo anno analizzato dal rapporto. Le morti bianche sono state 660 e gli infortuni 695mila,
rispettivamente il 17 per cento e il 7 per cento in meno rispetto
all’anno precedente. E, soprattutto, è calato l’indice di sinistrosità, ovvero la percentuale degli incidenti sul numero di lavoratori occupati. Una buona notizia, certo, ma che non deve in
ogni caso farci abbassare il livello di guardia.
Dinanzi a tali tragedie noi non restiamo a guardare. I tecnici e gli esperti
dell’Inail lavorano costantemente per diffondere tra i datori di lavoro e i lavoratori
quella cultura della sicurezza, che ancora stenta ad affermarsi. Non è mai troppo insistere sul valore della prevenzione. Purtroppo tutto questo non basta e il
nostro primo mandato istituzionale rimane comunque quello di accompa- Il nostro primo mandato
gnare i lavoratori e le loro famiglie nel lungo e faticoso percorso che segue rimane quello di accompagnare
il trauma dell’incidente. Un dovere che va oltre l’erogazione dei benefici
economici indispensabili per l’infortunato e i suoi familiari. E che i nostri i lavoratori e le loro famiglie
medici, assistenti sociali ed esperti portano avanti attraverso quella che, nel percorso che segue il trauma
con un termine eloquente, definiamo presa in carico dell’individuo. Perché sappiamo bene che rendite, protesi e ausili da soli non sono sufficienti. dell’incidente
E che gli infortunati di cui l’Istituto si prende cura ogni giorno ci chiedono innanzitutto di aiutarli a elaborare nuovi percorsi esistenziali. Una sfida difficile per chi
vede sgretolarsi di punto in bianco ogni certezza e per noi che ci troviamo a dover
dare una risposta alla più difficile delle domande: che cosa sarà ora della mia vita?
Per questa ragione abbiamo deciso di raccontare i nostri Centri di eccellenza di Vigorso di Budrio e di Volterra, insieme alle storie di tanti che sono
riusciti a rialzarsi dopo l’incidente. Lo abbiamo fatto attraverso un numero monografico della nostra rivista conducendo prima i lettori nelle officine delle protesi e
della riabilitazione, dove l’elemento vincente è la soluzione personalizzata che nasce dalla relazione tra tecnici e pazienti. E poi raccogliendo le storie di chi ha vissuto
il trauma dell’infortunio sulla propria pelle. In controtendenza rispetto al modello
ormai imperante nella professione giornalistica, i nostri corrispondenti hanno lasciato le scrivanie per incontrare direttamente le persone nelle loro case. Perché la
nostra idea del giornalismo somiglia alla nostra idea di presa in carico: relazione,
prossimità, comprensione delle ragioni dell’altro.
SuperAbile INAIL
3 Agosto Settembre 2014
sommario
SuperAbile Magazine
Anno III - numero otto-nove, agostosettembre 2014
Direttore: Giovanni Paura
In redazione: Antonella Patete, Laura
Badaracchi e Diego Marsicano
Direttore responsabile: Stefano Trasatti
Redazione: SuperAbile Magazine
c/o agenzia di stampa Redattore Sociale
Piazza Cavour 17 - 00193 Roma
E-mail: [email protected]
Stampa: Tipografia Inail
6 L’arte di fare le protesi.
Autorizzazione del Tribunale di Roma
numero 45 del 13/2/2012
Un ringraziamento particolare
Progetto grafico: Giulio Sansonetti
In copertina: protesi al Centro di Vigorso
di Budrio (Bologna). Foto di Riccardo
Venturi
l’Assicurazione contro gli Infortuni sul
Lavoro
alle assistenti sociali Inail delle Direzioni
regionali e delle Sedi territoriali,
che hanno collaborato alla realizzazione
di questo numero.
SuperAbile INAIL
non sono numeri
di Giovanni Paura
il reportage
Via Boncompagni 41 - 20139 Milano
Hanno collaborato: Laura Pasotti,
Jacopo Storni, Michela Trigari (Redattore
Sociale); Ilaria Cannella, Francesca
Iardino, Monica Marini, Maria Pedroli
(Inail)
Editore: Istituto Nazionale per
EDITORIALE
3 Infortuni sul lavoro. Per noi
Il miracolo di Budrio
di Laura Pasotti
10 Carmine Iannece, 53 anni,
Calitri (Avellino)
di L.P.
16 Interfacce neurali e robotica:
le nuove frontiere della ricerca
di L.P.
18 Enrico Lanzone: «Diamo
alle persone una prospettiva
di vita»
di L.P.
4 Agosto Settembre 2014
24 A scuola di riabilitazione.
Le tecnologie di Volterra
di Jacopo Storni
26 Aziz Basraoui, 47 anni,
Mohammedia (Marocco)
di J.S.
28 Manuela Salis, 28 anni,
Sassari
di J.S.
Quell’umanità oltre le tecnologie
la vita dopo l’incidente. 10 storie
34 E a Vigorso è sbocciato l’amore.
36
39
42
46
48
50
52
La fortuna di Antonino
di Laura Badaracchi
In sella o in canoa. Continua
il sogno di Brunella
di L.B.
Body building e manicaretti.
La rinascita di Antonio
di L.B.
Ho aiutato tanti giovani
a incontrare lo sport. Nino
di Antonella Patete
Come un arco ti aiuta a guarire.
La missione di Willy
di A.P.
Io non mi fermo dinanzi
a niente. L’entusiasmo di Salvo
di A.P.
E a un certo punto ho smesso
di piangere. Caterina
di A.P.
Dio mi ha salvato, l’Inail mi ha
rimesso in piedi. Thomas
di A.P.
54 Ostia, gli albori dello sport
paralimpico
di A.P.
58 Non tutti i giorni nasce
un campione. La tenacia
di Vittorio
di A.P.
60 Dopo 40 anni è ancora amore.
L’ironia di Uber e Irene
di A.P.
l’intervista
62 Angela Goggiamani
Malattie professionali:
un fenomeno da non
sottovalutare
di A.P.
64 Margherita Caristi
Servizio sociale: dall’assistenza
all’autonomia degli infortunati
di A.P.
Dulcis in fundo
66 Strissie - I pupassi
Realizzare un numero monografico è sempre una scelta
impegnativa per una rivista che, pur con il passo lento
del mensile, ha l’ambizione di seguire le infinite svolte
dell’attualità. Bisogna abbandonare l’agenda per fare un
tuffo nelle storie che si è scelto di approfondire. In questo
numero siamo andati nei Centri di Vigorso di Budrio e di
Volterra per mettere in luce quel lato umano che troppo
spesso rimane in secondo piano rispetto all’eccellenza
tecnologica. Perché dietro le sperimentazioni di
avanguardia nel campo delle
protesi e della riabilitazione si
nasconde un esercito di tecnici,
operatori, scienziati sempre
al servizio delle esigenze del
paziente. Professionisti abituati
a mettere in discussione il loro
lavoro, perché sanno bene che
anche l’ausilio più avveniristico
non serve a nulla senza la
profonda convinzione di chi se ne servirà.
Il numero ospita anche una serie di storie di infortunati sul
lavoro che, con l’aiuto dell’Inail, sono riusciti a riprendere
in mano la propria vita sconvolta dall’incidente. Persone
di varia età e provenienza geografica e sociale che
testimoniano l’infinita ricchezza dell’esperienza umana,
anche dopo lo shock di ritrovarsi improvvisamente in
un corpo diverso. E che a volte sono riuscite a fare della
disabilità sopraggiunta un’occasione di cambiamento
ed esplorazione di nuovi mondi.
Lungo tutto questo viaggio ci ha accompagnato un
fotografo, Riccardo Venturi, che ha immortalato nei suoi
scatti il lavoro, le emozioni, l’impegno di tutti quelli
che abbiamo incontrato. E che si sono prestati volentieri
a raccontarci le loro esperienze. Anche quando si trattava
di ripercorrere momenti difficili delle loro esistenze,
andando a toccare ferite ancora aperte. A tutti loro
va il nostro grazie.
di Adriana Farina e
Massimiliano Filadoro
SuperAbile INAIL
5 Agosto Settembre 2014
L’arte di fare le protesi.
Il miracolo di Budrio
SuperAbile INAIL
6 Agosto Settembre 2014
IL REPORTAGE
Dalle mani cinematiche di legno
degli anni Sessanta agli attuali arti
robotici, ne ha fatta di strada
il Centro protesi Inail di Vigorso
di Budrio. Una struttura dove
artigianato, ricerca, sfida,
innovazione sono all’ordine
del giorno. E dove al centro di tutto
c’è sempre il paziente, che spesso
entra demotivato e sconsolato ed esce
con una speranza in più: quella
di poter tornare a una vita normale.
Ma Vigorso è anche un crocevia
di storie dove utenti, operatori, tecnici
percorrono insieme un importante
tratto di strada. Alla ricerca di
una soluzione unica e personalizzata,
che vada bene per ogni singolo caso.
Viaggio nell’officina protesica fiore
all’occhiello del made in Italy
Romano, classe 1966, due volte vincitore del World Press
Photo, dalla metà degli anni Novanta Riccardo Venturi
si occupa soprattutto delle aree in conflitto del pianeta.
In Italia ha realizzato un reportage fotografico sulle
morti bianche per conto dell’Anmil. Sono suoi gli scatti
di questo numero monografico.
SuperAbile INAIL
7 Agosto Settembre 2014
L’arte di fare le protesi. Il miracolo di Budrio
SuperAbile INAIL
8 Agosto Settembre 2014
IL REPORTAGE
Laura Pasotti
H
eorhiy ha 29 anni. Di origine ucraina, da circa un
decennio lavora in Italia, nell’edilizia. A Vigorso di Budrio, in provincia di Bologna, è arrivato
solo da qualche mese. Nel giugno del 2013 è caduto da
un’impalcatura a Longiano, nel forlivese. Stava tagliando le tubature sul soffitto di un capannone per sostituirle, ma un pezzo si è staccato finendogli addosso e lui è
precipitato da quattro metri di altezza. Lesione spinale
incompleta, la diagnosi.
Heorhiy percorre uno dei corridoi del Centro protesi Inail su una sedia a ruote. Alto, magro, silenzioso, lo
sguardo basso. Si ferma davanti a un ambulatorio dove
proverà i tutori che gli consentiranno di camminare di
nuovo, anche se – sottolinea lui – «in modo diverso». La
conseguenza della lesione spinale, infatti, è una paraplegia. Non muove più la gamba destra, mentre la sinistra
è paralizzata solo fino al ginocchio. I tutori sfruttano la
funzione cinetica del corpo, dei muscoli, per farlo muovere. Dopo aver trascorso quattro mesi al Centro riabilitativo dell’ospedale di Montecatone, vicino a Imola
(sempre nel Bolognese), Heorhiy o Giorgio, «il mio nome italiano», è a Vigorso di Budrio per rimettersi in piedi. «Sto imparando a usare i tutori, faccio fisioterapia,
vado in palestra ed è finita la giornata», racconta. Ancora qualche mese – il tempo per sistemare le pratiche
relative all’infortunio – e poi tornerà in Ucraina, dalla
sua famiglia, dalla moglie e dai figli di quattro e sei anni. A chi gli chiede cosa farà una volta a casa, lui risponde: «Messo così, non potrò più fare niente».
La depressione e la tendenza a chiudersi in se stessi
o in un atteggiamento negativo è molto diffusa – e anche comprensibile – fra chi transita per il Centro protesi,
specie tra quelli che, come Heorhiy, stanno imparando a convivere con un corpo diverso solo da poco tem-
SuperAbile INAIL
9 Agosto Settembre 2014
L’arte di fare le protesi. Il miracolo di Budrio
Carmine Iannece
53 anni
Calitri
(Avellino)
È bastato un
attimo. Un
comando
sbagliato. E
l’autobetoniera
con cui stava
lavorando nell’azienda di
famiglia si è portata via tutte
le dita del piede sinistro.
Al Centro traumatologico
ortopedico di Napoli gliele
hanno riattaccate, ma
l’operazione non è riuscita e
il piede è andato in necrosi.
Poi un viaggio al Nord,
all’Istituto ortopedico Rizzoli
di Bologna, dove gli hanno
consigliato di tagliare la
gamba a metà polpaccio,
anziché solo il piede, perché
avrebbero potuto fare «una
protesi migliore».
Da allora sono passati 30
anni e Carmine Iannece,
SuperAbile INAIL
10 Agosto Settembre 2014
53enne di Calitri, in
provincia di Avellino,
continua a tornare al Nord,
destinazione Vigorso di
Budrio, dove gli hanno fatto
una protesi transtibiale.
«Quella nuova ha un
piede elettrico», racconta
soddisfatto.
Particolare fondamentale,
perché Carmine non ha mai
smesso di lavorare – «se no
IL REPORTAGE
po. Anche per questo motivo, alla prima visita – oltre al
tecnico, al fisiatra e al consulente ortopedico per valutare le potenzialità della persona (anche in base all’età)
– ci sono anche uno psicologo e un’assistente sociale. La
presa in carico è integrata, sia dal punto di vista motorio che da quello psicologico e ambientale. Al centro ci
sono sempre loro, gli utenti.
La prima visita è il momento in cui il paziente riceve le corrette informazioni su ciò che il Centro è in grado di offrire. Non sempre tutto è possibile e l’obiettivo
principale è non creare false aspettative. Vero è che le
protesi di Vigorso di Budrio fanno degli autentici miracoli: consentono alle persone di ritornare al lavoro,
di usare un computer, di sciare o anche (solo) di ricominciare a camminare. Basti pensare che la struttura
è il fiore all’occhiello del made in Italy, in particolare
per quanto riguarda le protesi sportive: sono, infatti,
diversi gli atleti presenti alle ultime edizioni delle Paralimpiadi di Londra e Sochi che hanno trovato qui la
protesi più adatta per la propria disciplina.
Il risultato finale, però, dipende anche dalla collaborazione da parte del paziente e dalla fiducia che ripo-
ne nei tecnici, come racconta Antonio Ammaccapane,
responsabile del Reparto protesi, andato in pensione
il primo luglio dopo aver lavorato per 42 anni a Vigorso di Budrio. «Siamo tecnici e non psicologi, ma dopo
tanti anni un po’ di cose sulla psicologia dei pazienti le abbiamo imparate anche noi – afferma –: abbiamo capito che, se si interrompe il rapporto di fiducia
tra tecnico e paziente, difficilmente si arriverà a un risultato ottimale». Ovvio che, se i problemi sono reali,
si interpella uno psicologo per aiutare la persona a superare le proprie difficoltà. Con alcuni pazienti è più
facile perché sono estremamente positivi, come Carcome lo pago il mutuo?»
–, è tornato a correre, fa
passeggiate in montagna
e, soprattutto, va ancora a
ballare con la moglie Rosa.
«Ci siamo conosciuti quando
avevamo 13 anni e non ci
siamo più lasciati – dice –.
Quando ho avuto l’incidente
ci eravamo appena sposati e
la nostra prima figlia aveva
sei mesi: ci siamo fatti forza
a vicenda». Di figli poi ne
sono arrivati altri quattro.
Attualmente Carmine lavora
insieme a due di loro e
al fratello nell’azienda di
famiglia, che oggi si occupa
di estrazione di marmo nel
Potentino.
«Non mi sono mai barricato
dietro il mio handicap e
ce l’ho messa tutta perché
volevo tornare a essere
SuperAbile INAIL
quello di prima», afferma.
«Oggi mi sento integrato al
101%», racconta Carmine,
anche se non nasconde che
alla sera, quando si toglie
la protesi e va a dormire,
a volte mentre è a letto
pensa che «se venisse a
tremare la terra, tutti gli altri
si salverebbero mentre io,
ora che mi infilo la protesi, è
già venuta giù la casa». Ma
11 Agosto Settembre 2014
è solo un pensiero, che non
gli toglie il sorriso con cui
affronta la vita. Se ne sono
accorti anche a Vigorso di
Budrio, tanto che quando è
al Centro Inail per sostituire
la protesi lo mettono in
stanza con i più giovani,
quelli amputati da poco, per
aiutarli, tirarli su di morale e
trasmettergli un po’ del suo
ottimismo. [L.P.]
L’arte di fare le protesi. Il miracolo di Budrio
La sua vita è
cambiata il
29 dicembre
1975. Figlio di
agricoltori,
quella sera Vendemiano
sta combattendo con
una cisterna per i liquami.
Mentre la presa cardanica
pompa, si allontana per dare
da mangiare agli animali.
Quando sente che la cisterna
è piena, corre ma scivola e
Vendemiano Mazzer
54 anni
San Polo di Piave
(Treviso)
dida molto breve
dida molto breve
finisce dentro la presa con
la gamba sinistra. Il padre
è ancora in campagna e
lui è da solo. Lo trovano
due signori arrivati per
acquistare un maialino e
lo portano all’Ospedale di
Oderzo (Treviso), dove gli
amputano la gamba sopra il
ginocchio. Vendemiano ha
15 anni. «Allora lo psicologo
non era un’opzione da
prendere in considerazione
e ci sono voluti anni
per metabolizzare
l’accaduto – dice –. I miei
non sapevano come
comportarsi: parlavano di
protesi miracolose che mi
avrebbero fatto tornare
come prima. Lo dicevano in
buona fede e io, ragazzino,
ci credevo». La prima protesi
è arrivata nel 1976, a Budrio.
E non era il “miracolo” che
gli avevano prospettato.
SuperAbile INAIL
12 Agosto Settembre 2014
IL REPORTAGE
mine Iannece (box alle pagg. 10-11) che frequenta Vigorso di Budrio ormai da 30 anni. Nei giorni in cui è
al Centro per sostituire la protesi (per legge ogni quattro anni o più spesso, se servono riparazioni), di frequente condivide la stanza con i nuovi amputati, per
contagiarli con la sua positività. Carmine ce l’ha messa tutta per tornare a essere come prima e oggi con la
sua protesi transtibiale va a lavorare, a fare passeggiate in montagna e a ballare.
Per altri, al contrario, è molto difficile accettare la
nuova condizione. «Ci sono alcuni pazienti che su 365
giorni, stanno ricoverati per 200», dice Antonio. E allora si prova anche a scherzare, aggiunge Fausto Caprara, alla soglia dei 24 anni al Centro come tecnico.
«È un modo per sbloccarli», afferma. Non sempre ci si
riesce, ma esistono ottime protesi e, grazie ai progressi
della tecnologia, le opportunità a disposizione dei pazienti sono in continua evoluzione.
Pasqua Caterina Guida (a fianco) ha 47 anni e da quasi 20
lavora a Vigorso di Budrio come fisioterapista. «Mi piace
tantissimo la mia professione, ma soprattutto mi piace quando i pazienti sono contenti», racconta. A volte
capita che alcuni mostrino disinteresse o rifiutino il
rapporto, «un meccanismo di difesa che attuano per
il timore di non farcela – spiega Catia, come tutti la
chiamano qui al Centro –. Il nostro compito è stare
loro vicino, aiutarli, spronarli, ma senza assecondarli
quando assumono un atteggiamento negativo». Catia
è nella palestra del Centro protesi – sviluppata insieme al laboratorio per la sperimentazione delle abilità
– dove i pazienti «vengono addestrati a camminare di
nuovo». C’è chi abbozza qualche passo tenendosi appoggiato alle parallele e chi si misura sul tapis roulant.
«Dalla sedia a ruote alla protesi, quando li rimetti in
Faceva male e non riusciva
a stare in piedi. Figuriamoci
camminare. C’è voluto un
mese di fisioterapia per fare
i primi passi, con il bastone.
«Ma l’ho presa bene, perché
volevo tornare a essere come
prima». Quello che non
sarebbe tornato come prima
è il lavoro. Così Vendemiano
riprende la scuola: il padre
lo iscrive all’istituto agrario
e, finiti gli studi, lavora in
qualche ufficio. Ma non
gli piace: la terra è la sua
vita ed è lì che torna. Nel
frattempo le attrezzature si
sono evolute e, pur con la
protesi, ricomincia a lavorare.
A metà degli anni Ottanta si
ritrova titolare dell’azienda
di famiglia, la stessa in cui
lavora ancora oggi con la
moglie Caterina, sposata
nel 2003. Prima di allora,
l’approccio con l’altro sesso
SuperAbile INAIL
non è stato facile: «Non
pensavo di poter essere
attraente per una donna».
Con la moglie è stato più
facile: ci ha pensato sua
sorella a fargliela incontrare
e quando sono usciti insieme
conosceva già la sua storia.
Ora hanno sette ettari di
vigneti a San Polo di Piave e
producono prosecco doc.
Vendemiano ha un
ginocchio elettronico
13 Agosto Settembre 2014
(Genium): «La protesi mi
permette di usare entrambe
le braccia, andare in
campagna, tornare a pranzo,
uscire di nuovo e la sera
cenare, toglierla, lavarla,
lavare me stesso e rilassarmi.
Senza, non potrei farcela –
conclude –. Certo, mi manca
correre o giocare a pallone:
quando ero ragazzo me lo
sognavo di notte, ora mi
succede di meno». [L.P.]
L’arte di fare le protesi. Il miracolo di Budrio
Giuseppe Calò
40 anni
Cesano Maderno
(Monza-Brianza)
Il 22 giugno
2005 Giuseppe
Calò è stato
investito, mentre
andava al lavoro
in moto, da una macchina
che non ha rispettato la
precedenza. Era il giorno
del suo compleanno.
«Quell’incidente mi ha
cambiato la vita», racconta,
oggi che ha 40 anni.
SuperAbile INAIL
Un mese di coma, poi il
risveglio. Prima e dopo quel
momento c’è il vuoto. Quello
che ricorda bene, però, era
che non riusciva né a parlare
né a camminare. E non
muoveva il braccio destro.
Da allora ha subìto cinque
interventi, di cui uno perché
il nervo frenico (che tiene il
diaframma) gli schiacciava
un polmone, dandogli
14 Agosto Settembre 2014
problemi respiratori. «Ho
dovuto ricominciare a
camminare, imparare di
nuovo a parlare, come i
bambini», dice. Suo figlio
Lorenzo, all’epoca, aveva
due mesi e mezzo e sono
«cresciuti» insieme.
Prima dell’incidente
Giuseppe era responsabile
del reparto di taglio e cucito
in un’azienda che produceva
IL REPORTAGE
piedi è una rinascita», aggiunge Catia. Le scene commoventi sono piuttosto frequenti, soprattutto se ad accompagnare gli infortunati c’è qualche parente.
Altri pazienti attendono il proprio turno all’ingresso della palestra. Uno di loro è Eugenio Stefanelli, 59enne di
Lodi, che nel 1997 è rimasto coinvolto con il suo camion in un maxi-tamponamento in autostrada all’altezza di Calenzano, vicino a Firenze. «Ci sono volute
più di quattro ore per tirarmi fuori dalla cabina», ricorda. Il radiatore del mezzo era esploso e il liquido
di raffreddamento era sparso sulle sue gambe. Dopo
le medicazioni al Pronto soccorso di Prato, Eugenio
è stato ricoverato al Centro traumatologico dell’Ospedale Careggi a Firenze, dov’è rimasto per tre mesi. La
gamba destra aveva subito uno schiacciamento: «I medici hanno provato a salvarla, ma non c’è stato nulla
da fare e nel gennaio del 1998 hanno deciso per l’amputazione sopra il ginocchio», dice. Eugenio racconta
di aver reagito in modo positivo; gli piaceva cantare
e, nei momenti buoni, sentivano la sua voce dagli altri reparti del Careggi. Ma quando la gamba gli faceva male per la sindrome dell’arto fantasma, «piangevo
come un bambino».
Poi Eugenio è arrivato a Budrio, «che non sapevo neanche che esistesse», dove ha ricevuto la prima
protesi in ferro, pesantissima, «ma io ci sono andato
anche a sciare», ammette. Dopo qualche anno, un ginocchio elettrico gli ha permesso di scendere le scale e
fare le discese. Eugenio ha ricominciato a lavorare inizialmente come portinaio in una ditta di Lodi – «ma
prima macinavo chilometri sul mio camion e non riuscivo a stare lì a non fare niente» –, poi in un’azienda che fa controsoffitti a led e mobili in metallo per le
macchine da caffè, dov’è impiegato tuttora.
divani; organizzava il lavoro
di 20 persone. Ma dopo quel
giorno non è più tornato
a lavorare. «Sto a casa con
mio figlio e mia moglie
lavora», spiega. Cucina, ma
soprattutto segue Lorenzo
anche se ammette di riuscire
a fare poche cose con lui.
«Ma cerco di fare bene
quelle poche, al meglio delle
mie possibilità». Tutta la
SuperAbile INAIL
famiglia gli è stata di grande
aiuto, soprattutto il padre, in
pensione.
Oggi Giuseppe continua ad
avere problemi alle gambe
e porta un tutore in resina
al braccio destro che ha
subito una lesione brachiale:
ha un deficit in flessione
dell’avambraccio. Con il
tricipite muove il braccio e
l’elastico inserito nel tutore
15 Agosto Settembre 2014
gli permette il movimento
del bicipite che, invece,
non funziona. Quando si
è trattato di scegliere il
tutore, ha preferito uno di
quelli in resina colorata. L’ha
provato, si è fotografato e
ha mandato lo scatto a suo
figlio con il cellulare. «Mi ha
detto: “Papà, sei bellissimo
con quel braccio”», racconta.
[L.P.]
L’arte di fare le protesi. Il miracolo di Budrio
Interfacce neurali
e robotica:
le nuove frontiere
della ricerca
Costruire
un sistema
innovativo
impiantabile
per il
controllo di protesi di mano
poliarticolata, in grado
di restituire la sensibilità
perduta. È l’obiettivo di
uno dei progetti esterni
di ricerca, relativi agli arti
superiori, che il Centro
protesi Inail di Vigorso di
Budrio sta sviluppando
insieme ad alcuni partner
per il triennio 2013-2016.
Com’è possibile? Attraverso
un sistema impiantabile di
interfacce neurali. Questa la
ricerca su cui il Centro è al
lavoro insieme all’Università
Campus biomedico di Roma:
integrare un sottosistema,
basato su sensori tattili di
SuperAbile INAIL
contatto e scivolamento, e
un sistema di stimolazione
intraneurale in grado di
dare alla persona amputata
alcune forme tattili e di
percezione (per esempio
quella di riconoscere la
posizione del proprio corpo
nello spazio), utili sia per
controllare la protesi che
per prendere o manipolare
oggetti. A Vigorso di
16 Agosto Settembre 2014
Budrio si aspettano, con
questi dispositivi, di influire
positivamente anche sulla
sindrome dell’arto fantasma,
che fa sentire dolore nella
parte mancante dell’arto
amputato.
Inoltre il Centro
sta sviluppando, in
collaborazione con l’Istituto
di biorobotica della Scuola
superiore Sant’Anna di Pisa,
IL REPORTAGE
«L’anno scorso – racconta – per la prima volta
dall’incidente sono andato al mare e ho fatto il bagno».
Per Eugenio è una conquista – «prima mi vergognavo»
–, ma a Budrio gli hanno fatto una copertura in silicone che, una volta indossata, fa sembrare la protesi una
gamba vera, del colore della sua carnagione e con la
peluria, da usare in spiaggia. Oggi Eugenio è consigliere regionale dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi sul lavoro (Anmil) per la Lombardia, va in moto
e si dice «contento di essere ancora qua».
Le stesse parole potrebbero pronunciarle i circa
11.500 pazienti – infortunati sul lavoro Inail, invalidi civili assistiti dal Servizio sanitario nazionale (dal
1984) e privati, in particolare stranieri, di qualsiasi età
e con disabilità motorie anche gravi, affetti da patologie congenite o acquisite e traumatiche – che ogni anno transitano per il Centro protesi Inail di Budrio. Nel
2013 quelli trattati sono stati 11.929 (per un totale di
28.562 prestazioni), di cui circa 2mila in conto all’Asl.
La struttura di Vigorso di Budrio, a una trentina di chilometri dal centro di Bologna, esiste dal 1961. È in quell’an-
no che il vecchio convalescenziario, comprato nel 1943
dall’Inail, diventa Centro protesi. Oggi ha 90 posti letto accreditati e conta oltre 300 dipendenti, di cui più
di 140 in produzione. In oltre 50 anni di attività, a Vigorso è stata mantenuta alta l’attenzione per la riabilitazione, ma si è sviluppato sempre di più il lavoro
dell’officina ortopedica per realizzare protesi e ausili
all’avanguardia nel mondo.
Dalla mano cinematica in legno e dalle protesi di
coscia degli anni Sessanta alle moderne mani mioelettriche personalizzate, fino alle protesi d’anca, alle calzature ortopediche, agli ausili per guidare l’auto o alle
protesi sportive, la struttura si è affermata nel tempo
un dito protesico funzionale,
poliarticolato e sensorizzato.
Le mani rappresentano
una delle parti del corpo
più difficili da trattare con
protesi, per via dell’esiguità
della parte disponibile.
Questo progetto riguarderà
la realizzazione di un
prototipo di protesi falangea
su cui poter disporre una
sensorizzazione, con
particolare attenzione alle
dimensioni e all’estetica.
Infine il Centro protesi,
insieme all’Istituto italiano
di tecnologia di Genova, sta
realizzando due progetti
con significative potenzialità
di ricadute industriali: una
protesi avanzata manopolso e un esoscheletro
per la deambulazione.
In particolare questo
SuperAbile INAIL
dispositivo si rivolgerà
a persone con disabilità
motoria da mielolesione.
Un esoscheletro, insomma,
come il Re-walk realizzato
in Israele e che è stato in
sperimentazione a Budrio
come strumento per la
riabilitazione, ma più
innovativo e tutto italiano:
dalla progettazione alla
realizzazione. [L.P.]
17 Agosto Settembre 2014
L’arte di fare le protesi. Il miracolo di Budrio
Enrico Lanzone:
«Diamo alle persone
una prospettiva
di vita»
«Fare in
modo che
chi ha subito
un infortunio
possa
essere messo in condizioni
di parità rispetto alle
persone normodotate». È
la scommessa del Centro
protesi Inail di Vigorso di
Budrio per i prossimi anni.
Parola di Enrico Lanzone,
50 anni di Genova, dal 2011
SuperAbile INAIL
e fino allo scorso giugno
direttore del Centro. Come
raggiungere questa parità?
«Attraverso la tecnologia e
l’attenzione che assicuriamo
ai nostri pazienti»,
aggiunge.
Tecnologia e rapporto speciale
con i pazienti. È questo il
segreto del successo del Centro
Inail?
Direi di sì. Un “segreto” che
18 Agosto Settembre 2014
è nel Dna dell’Inail prima
ancora che di Budrio. Qui
da noi raggiunge il suo
apice perché prendiamo
in carico persone con seri
problemi di vita a causa di
un infortunio sul lavoro o
di un’invalidità civile, per
restituire loro l’autonomia.
Qual è il primo impatto per chi
arriva da voi?
Il Centro protesi appare
IL REPORTAGE
come Centro altamente specializzato per la ricerca e
l’innovazione in campo protesico.
Ne sa qualcosa Fiorenzo Tondello (a fianco), 52enne di
Bassano del Grappa (Vicenza). Dopo aver subito un’am-
dida molto breve
come una “cittadina”. Chi
arriva qui come paziente si
rende conto di non essere
da solo, ma insieme a tanti
altri e realizza che vivere
significa avere relazioni.
Il nostro obiettivo è sì
rimetterli in piedi ma anche
motivarli, dare loro una
prospettiva, una passione.
Qui prendiamo per mano le
persone e le riportiamo alla
loro esistenza.
Il traguardo più importante
raggiunto dal Centro?
Nel 2012 il Presidente
della Repubblica Giorgio
Napolitano ha riconosciuto
l’eccellenza e la funzione
sociale di Budrio. Un
riconoscimento che ha un
significato molto ampio,
perché lavoriamo per
recuperare la disabilità.
Siamo la punta di
avanguardia per abbattere
SuperAbile INAIL
putazione transradiale al braccio destro a causa di un
infortunio, è rientrato nella sua azienda ma non più
in falegnameria. Ora si occupa dell’organizzazione
del lavoro grazie a una protesi mioelettrica, azionata
usando l’elettricità rilevata dal movimento dei muscoli del moncone, fabbricata a Budrio; inoltre ha iniziato a suonare la chitarra, da autodidatta. Oggi Fiorenzo
porta una “BeBionic”, mano robotica («mano Terminator», come scherzosamente la chiamano al Centro)
e sulla quale, nonostante le “proteste” di figli e amici,
indossa un guanto estetico personalizzato, in silicone.
«La scelta della protesi dipende anche dall’uso che deve
farne la persona – spiega Gianni Carrieri, tecnico ortopedico –. Le mani poliarticolate permettono movimenti più fluidi, ma sono molto delicate».
Bolognese, 45 anni, Carrieri è a Budrio dal 1994
dove si occupa di lesioni transradiali, quelle sotto al
gomito. In questi anni ha vissuto le evoluzioni della
tecnologia e dei materiali. In particolare, racconta, è
l’invaso (ovvero l’interfaccia tra il moncone e la parte elettrica della protesi) ad aver subito grandi cambiamenti. «Nelle protesi transradiali in cui la presa è
sopra il gomito le invasature sono diventate più piccole: abbiamo tolto la plastica dove non serviva e le abbiamo fatte minimaliste», spiega. Se prima il moncone
era chiuso dentro una specie di scafandro, ora – grazie ad apposite aperture – il paziente si interfaccia con
il mondo esterno in modo diverso: per esempio, attraverso fori praticati sul gomito è in grado di percepire le superfici su cui si appoggia. «Anche dal punto di
le barriere tra disabili e
normodotati.
Quali sono le prossime sfide in
campo protesico?
Abbiamo un bel
pacchetto di sfide. A
partire dall’esoscheletro,
a cui stiamo lavorando
con l’Istituto italiano di
tecnologia, passando per le
protesi per arto superiore
insieme al Centro di ricerca
19 Agosto Settembre 2014
della Scuola Sant’Anna,
fino ad arrivare al progetto
di ricerca con il Campus
biomedico di Roma, che
ha l’obiettivo di realizzare
protesi comandate dal
cervello. [L.P.]
L’arte di fare le protesi. Il miracolo di Budrio
dida molto breve
Rosella Treschi
49 anni
Pordenone
Se ripensa
all’incidente
che 25 anni fa
le è costato
l’anulare della mano destra,
Rosella dice: «Il destino era lì
che mi aspettava». Lavorava
in una falegnameria e non le
piaceva. Ogni giorno andava
in fabbrica e piangeva.
Oggi pensa che avrebbe
dovuto cogliere i segnali
davanti ai suoi occhi e
SuperAbile INAIL
andarsene prima. C’è voluto
un incidente con la rifilatrice
per spingerla a lasciare quel
posto. «È una macchina a cui
bisogna stare molto attenti
– racconta –. Io la stavo
pulendo, è bastato un attimo
e la mano è stata trascinata
dalla lama. Quando mi sono
tolta i guanti, sono svenuta».
All’ospedale le hanno
lasciato un piccolo moncone
per potervi inserire una
20 Agosto Settembre 2014
IL REPORTAGE
vista estetico sono stati apportati miglioramenti, mediante l’uso del silicone che rende la protesi più confortevole», afferma.
Oltre a essere impiegato per realizzare coperture realistiche per le protesi, sia di arto superiore che inferiore, il silicone è uno dei materiali utilizzati per le
cosiddette protesi estetiche ad alta cosmesi. Capita, infatti, che i pazienti non richiedano protesi funzionali,
ma cosmetiche e personalizzate in cui sono riprodotti i dettagli della pelle (vene, peluria, colore, unghie),
come nel caso di Rosella Treschi (box a pag. 20). Erika Groccia (nella pagina a fianco), tecnico ortopedico, ci lavora da sei anni, da quando è entrata a Budrio:
«Quello delle protesi estetiche è un mondo abbastanza nuovo», spiega. I banchi da lavoro dei tecnici impegnati in questo reparto assomigliano un po’ ai tavoli
di esperti di make-up: tavolozze con i colori, fotografie
appese, modelli. Le protesi fatte qui sono piccole opere d’arte, tanto che i tecnici che vi lavorano hanno talvolta un background artistico.
Ultima tappa è il reparto ausili. Anche in questo caso
si studia un programma personalizzato per il paziente. Si
sceglie una sedia a ruote elettrica, se è possibile e ce
n’è la necessità; si adattano le automobili per essere
guidate solo con le mani; si dotano le carrozzine di
ruote motrici per chi lavora in campagna e si adattano anche i mezzi agricoli per essere manovrati da una
persona che non è più in grado di muovere le gambe o
si sposta soltanto su sedia a ruote.
Anche in questo campo la tecnologia ha fatto passi
da gigante. Qualche esempio? A un paziente tetraplegico i tecnici Inail hanno fornito un “integra-mouse”,
dispositivo che gli consente di comandare un computer con le labbra, soffiando invece di cliccare. Nell’ofprotesi e hanno preso
un pezzo di tendine da
una gamba per ridarle la
mobilità. Rosella, allora,
aveva 25 anni e ha girato
tutta l’Italia per riuscire a
tornare come prima. Poi è
approdata al Centro protesi
di Vigorso. Erano i primi anni
Novanta. E non se n’è più
andata. «Volevo sentirmi
normale e qui mi hanno
sempre trattato come una
persona normale», dice. Ora
porta una protesi estetica.
Sul dito poi infila un anello,
grande, per mascherare
il punto in cui il moncone
incontra il silicone della
protesi. Periodicamente,
torna a Budrio per cambiarla.
«Qui – dice – hanno un
atteggiamento positivo».
E anche lei, dopo
quell’incidente, ha cambiato
vita. In meglio. Oggi, infatti,
SuperAbile INAIL
non lavora più in segheria
ma tiene corsi di yoga
kundalini insieme al marito,
conosciuto mentre faceva
fisioterapia. « Ho perso
qualcosa, ma ho acquisito
una coscienza diversa –
confida –. Ho capito che
bisogna essere felici di
quello che si ha. Ecco perché
con lo yoga, insieme a mio
marito, cerco di aiutare gli
altri». [L.P.]
21 Agosto Settembre 2014
L’arte di fare le protesi. Il miracolo di Budrio
«Mi ritengo
fortunata: per
un centimetro
non ho avuto
una lesione da tetraplegia».
Cinzia Giurgola, fiorentina,
53 anni, è da 20 su sedia
a ruote a causa di un
incidente stradale che le
ha provocato una lesione
spinale. Era il 1994 e lei,
impiegata al ministero della
Difesa, viene coinvolta in un
Cinzia Giurgola
53 anni
Firenze
tamponamento mentre va
al lavoro. Sul momento non
sembrano esserci grosse
conseguenze. A distanza di
qualche giorno, però, non
riesce a stare in piedi. Lastre
e risonanza magnetica
non rivelano niente, ma lei
accusa dolori alla schiena,
difficoltà a muoversi,
problemi respiratori.
Ulteriori esami, al Meyer
di Firenze, rivelano
SuperAbile INAIL
un’emorragia spinale.
Cinzia subisce un intervento
per rimuoverla, e altri per
stabilizzare i problemi
polmonari. Ma non
camminerà più. Trascorre
diversi mesi in ospedale,
«senza poter rivedere la mia
casa, i miei vestiti e le mie
scarpe».
Inizia il percorso per
l’autonomia, utilizzando
sedie a ruote e ausili. A
22 Agosto Settembre 2014
Budrio arriverà dopo qualche
anno, perché nel 1994
l’infortunio in itinere non è
ancora riconosciuto dall’Inail.
Non tornerà più nemmeno
a lavorare. «Non c’erano
bagni attrezzati né scivoli
all’ingresso – racconta –. I
dolori neurologici e le
difficoltà urologiche mi
avrebbero costretta a dare
continue spiegazioni, perché
stavo male e dovevo usare
IL REPORTAGE
ficina di Vigorso di Budrio hanno anche sperimentato
la guida tramite joystick, che permette ai pazienti di
“mettersi al volante” rimanendo sulla sedia a ruote. Un
altro esempio è la sedia Genny 2.0, autobilanciante, realizzata da Paolo Badano, disabile, e in dotazione anche al Centro protesi di Budrio. Al primo impatto non
sembra nemmeno una carrozzina per persone disabili,
ma ricorda i segway, mezzi a due ruote in dotazione a
vigili urbani e polizia ferroviaria.
Cinzia Franceschini, 42 anni, lavora a Budrio come
tecnico dal 2008. Si occupa di ausili; insieme al fisioterapista Massimiliano, sta seguendo Cinzia Giurgola (box a pag. 22) nell’addestramento sulla Genny 2.0.
«I nostri utenti hanno grandi aspettative, ma accontentarli sempre non è la cosa migliore», dice. Anche
la paziente ha rischiato di non poter avere Genny 2.0:
è troppo leggera per manovrarla. Ma alla fine sono
riusciti ad adattarla al suo peso. «Non tutti gli ausili
vanno bene per ogni persona – spiega ancora Franceschini –: è fondamentale fornire quello giusto in base
alla patologia del singolo».
Un mix di artigianato e ricerca, in cui al primo posto c’è sempre il paziente: ecco cos’è il Centro protesi Inail di Vigorso di Budrio. «Trent’anni fa la cosa più
complessa era fare la protesi – racconta ancora Antonio Ammaccapane, neopensionato ed ex responsabile
del Reparto protesi –. “Arte sanitaria” la chiamavano:
si faceva tutto a mano, ma la protesi era la stessa per
tutti». Ma in 50 anni materiali e tecnologie si sono evoluti, il progetto è più complesso e la difficoltà sta nella
scelta dei componenti, anche se l’invaso si fa ancora a
mano. «Oggi ci sono persone che corrono e vanno alle
Paralimpiadi con le protesi. Certo, è vero che sono pur
sempre protesi: le gambe vere – scherza il tecnico Fausto Caprara – ancora non possiamo farle».
spesso il bagno: non ero
pronta». Così resta a casa per
crescere la sua bambina, che
all’epoca aveva tre anni.
Le difficoltà però sono
tantissime, in primis quella
di imparare a vivere con
un corpo completamente
diverso, poi quelle legate
alle barriere architettoniche.
Il suo appartamento non è
più accessibile, ma trovarne
uno adatto non è stato
SuperAbile INAIL
semplice. Per cinque anni,
con il marito e la figlia, è
stata ospitata dai suoceri,
ma anche in quell’abitazione
c’erano ostacoli. «Per entrare
in bagno bisognava superare
un gradino e io dovevo
aspettare che mio marito
tornasse dal lavoro per
poterci andare».
Oggi Cinzia racconta di aver
accettato la sua disabilità.
Se dovesse decidere ora,
23 Agosto Settembre 2014
probabilmente farebbe una
scelta diversa rispetto al
lavoro: «Lotterei per farmi
accettare per quella che
sono».
Poi però ha trovato Genny
2.0, una sedia elettrica a
due ruote autobilanciante.
«È una giostra bellissima: ti
dà la libertà di movimento
che una carrozzina manuale
non può fornirti», dice
soddisfatta. [L.P.]
A scuola di riabilitazione.
Le tecnologie di Volterra
SuperAbile INAIL
24 Agosto Settembre 2014
IL REPORTAGE
Al Centro di riabilitazione motoria
Inail si arriva dopo un incidente
in fabbrica, una caduta dalle
impalcature, un infortunio lungo
il tragitto casa-lavoro.
Ma la struttura non è una fucina
di disperazione. Bensì un laboratorio
di speranza dove la rassegnazione
può trasformarsi in voglia di vivere.
Grazie a una tecnologia
di ultima generazione in continuo
aggiornamento e, soprattutto,
a operatori che conoscono
l’importanza della relazione
tra personale sanitario e pazienti.
E a volte accade il miracolo.
Che non è tornare a camminare,
ma comprendere e accettare
la nuova condizione. Imparando
a dare importanza ai valori
fondamentali della vita
SuperAbile INAIL
25 Agosto Settembre 2014
A scuola di riabilitazione. LE TEcNOLOGIE di Volterra
Aziz Basraoui
47 anni
Mohammedia
(Marocco)
«All’ospedale
volevo buttarmi
dal balcone, ma
poi un giovane
infermiere mi ha
aiutato a cambiare idea». Ha
lo sguardo adombrato Aziz
Basraoui, marocchino di 47
anni. Fa quasi impressione
la sua gamba malmessa.
Sotto la pelle è stato
trapiantato il muscolo della
spalla, una protuberanza
visibile e ingombrante,
ma forse è l’unico modo
perché Aziz possa tornare
a camminare. Per adesso
non se ne parla e per stare
in piedi deve utilizzare le
stampelle. Il suo pensiero è
inamovibile da quel terribile
25 gennaio 2012, quando un
grande masso di marmo gli
cadde sulla gamba. Rimase
SuperAbile INAIL
incastrato per lunghi minuti,
i colleghi chiamarono i
soccorsi, lui perdeva sangue,
tanto sangue. Amava il suo
mestiere Aziz, ma adesso
non potrà più tornare
a lavorare. «Soltanto io
posso sapere quello che ho
passato. Non potete capire.
Un incidente di questo
genere ti sconvolge la vita.
Per sempre».
26 Agosto Settembre 2014
IL REPORTAGE
«A
Jacopo Storni
desso come faccio a spiegare ai miei figli che
il padre sarà zoppo per tutta la vita?». È una
domanda che non smette di tormentarlo, vorrebbe trovare una risposta ma la risposta non c’è. L’istinto sarebbe quello di rassegnarsi a un’esistenza da
invalido, ma lui non molla: «In fondo c’è chi sta peggio,
basta sapersi accettare». Francesco Furfari cammina
appoggiandosi al girello, vacilla ma resiste, segue tenacemente gli esercizi di fisioterapia e legge libri. Legge
più che può, divora un volume a settimana, s’immerge nelle vite degli altri, in spazi onirici che lo fanno
sognare. Vive lontano dalla famiglia ormai da alcuni
mesi, giorno e notte in mezzo ad altre persone con disabilità, esattamente come lui, diventate invalide da un
giorno all’altro, da un secondo all’altro, tutte vittime di
gravi incidenti sul lavoro.
Qui, al Centro riabilitazione motoria Inail di Volterra, in provincia di Pisa, Francesco è uno dei più eruditi.
Si capisce da quel libro di Ian McEwan sempre in mano,
dal giornale che si fa recapitare tutti i giorni dai volontari della Croce Rossa, da come parla e dal lavoro che
fa, anzi, che faceva prima dell’incidente, quel fatale acquaplaning in auto, un martedì mattina come tanti altri, che gli ha cambiato la vita per sempre.
Ricercatore informatico al Cnr di Pisa, è patito di
computer e sta lavorando ad alcuni sensori applicati al
corpo umano per indagare gli stili di vita degli italiani:
«Sarà una ricerca rivoluzionaria». Si trova un po’ a disagio dentro questi corridoi, dove passeggiano drammi
e disperazioni, dove fisioterapisti e psicologi alleviano
traumi e dolori, con passione e con fatica. E con amore,
tanto che quando i pazienti lasciano il Centro è difficile staccarsi dopo un lungo periodo d’intimità: «Ci si
affeziona e nascono amicizie che vanno oltre la riabiliPrima dell’infortunio faceva
trekking e arrampicate,
adesso è impossibile. L’unica
rinascita potrebbe essere
l’amore della moglie, da cui
però è separato ma che non
ha mai smesso di amare.
In un paio d’anni ha perso
prima la famiglia, poi l’uso
della gamba. Hanno avuto
due figli, Andrea e Francesca,
il suo orgoglio. Il primo è un
baby talento di hockey su
ghiaccio: «Andavo a vederlo
giocare tutte le domeniche,
è un piccolo campione,
sono mesi che non vado
a fare il tifo per lui. Mi
manca da morire». La figlia
gli ha regalato un piccolo
braccialetto che porta al
polso: «Me l’ha dato il giorno
che sono entrato qui, non
me lo toglierò mai».
SuperAbile INAIL
Non smette di sperare e
qualche volta si sforza di
sorridere. Ma quella ferita
non gli dà tregua: i dolori
lancinanti si susseguono, di
giorno e di notte. «Se resto
nella stessa posizione per
più di 20 minuti, comincio
a urlare di dolore. Fino
a quando non prendo
l’antidolorifico». Notti insonni
quelle di Aziz, sormontate
27 Agosto Settembre 2014
da rabbia e disperazione.
Pensa ai suoi figli, pensa a
sua moglie, pensa ai suoi
amici: «Questa situazione mi
emargina». Non svanisce mai
il ricordo di una vita normale.
Adesso però non contempla
più l’idea del suicidio: «Nelle
ultime settimane sono molto
più sereno, anche se sono
consapevole che la mia vita
non sarà più la stessa». [J.S.]
A scuola di riabilitazione. LE TEcNOLOGIE di Volterra
Manuela Salis
28 anni
Sassari
«Se rimango
così, non
riuscirò ad
accettarmi». I
suoi dolci occhi stonano con
quel braccio paralizzato, la
mano ferita e i movimenti
quasi impossibili. Il grazioso
volto di Manuela Salis, sarda
di 28 anni, racconta tutto. C’è
la disperazione di una vita
cambiata all’improvviso e la
speranza flebile che alberga
nella fisioterapia quotidiana.
«A volte mi sento positiva
perché noto dei leggeri passi
avanti». Ma al momento
i miglioramenti sono
troppo pochi per tornare a
sorridere.
«Non mi sembra
vero di avere un braccio in
queste condizioni». Ogni
volta è un nodo alla gola,
un tuffo al cuore di chi si
ostina a combattere una
battaglia che non potrà mai
SuperAbile INAIL
vincere. «Quando mi sveglio
spero sia stato soltanto un
incubo». Ma un incubo non
è: quell’incidente in auto
è successo davvero. Era il
giorno del suo compleanno.
Lei però non ricorda niente,
soltanto il sorpasso di
un’altra macchina. Poi il
buio, le immagini di quei
momenti nel cono d’ombra
della memoria. «Mi sono
risvegliata in ospedale». E
28 Agosto Settembre 2014
il trasferimento al Centro
specializzato di Monza dove
le hanno ricostruito i nervi,
recuperati soltanto al 50 per
cento.
Le viene quasi naturale
alzare il braccio, ma quel
braccio non si muove e a
lei sembra impossibile che
sia proprio il suo. «Non mi
accetto, non mi accetto»,
continua a ripetere come
un mantra. Lei è così
IL REPORTAGE
tazione», raccontano Ornella Pierini e Annamaria Tirelli, due fisioterapiste del Centro: «Non trattiamo gli
infortunati come pazienti, ma come persone». Fattore
decisivo, che stimola gli ospiti e accelera i tempi della
riabilitazione.
Secondo gli operatori è decisivo guardare la propria disabilità a viso aperto: «Molti evitano di entrare
nell’argomento, ma questo non porta benefici a lungo termine – spiega lo psicologo del Centro, Vincenzo
Pantaleo –. È proprio attraverso il ricordo che si offre al paziente la possibilità di rielaborare l’incidente e
l’invalidità». E a volte succede il miracolo. Accade che,
racconta Pantaleo, «le persone capiscano i veri valori
della vita ed escano dal Centro Inail più felici di prima, nonostante l’invalidità che in alcuni casi dovranno portarsi dietro per sempre e nonostante il lavoro
che talvolta sono costretti ad abbandonare».
A Volterra si arriva in seguito a un infortunio sul lavoro: incidenti stradali, in fabbrica, nei campi o nei cantieri.
Il destino è il nemico di ognuno di loro, li ha travolti
all’improvviso. Ma questa struttura immersa nel cuore
della cittadina toscana non è una fucina di disperazione. È semmai un laboratorio di speranza, che trasforma la rassegnazione in voglia di vivere. È il frutto del
lavoro di 16 infermieri, 7 operatori sanitari, 13 fisioterapisti, 5 medici. Braccia umili e instancabili, supportate da braccia meccaniche dell’ultima tecnologia. C’è
la macchina isocinetica che valuta la forza negli arti, la
macchina Multi join system che rafforza la muscolatura e l’innovativa Bte che analizza i movimenti. Tra letti
e macchinari, si spera e si vive. Pranzo e cena in mensa,
notte nelle stanze per due pazienti, ognuna con un proprio bagno e un proprio televisore. E poi la palestra, la
piscina comunale e la sala lettura. Un microcosmo dogiovane, eppure ha già
due figli. Vivono a Sassari
e le mancano da morire.
Parla sempre di loro per
esorcizzare la sofferenza.
Fuma e naviga sull’iPad per
ingannare il tempo. Ha la
mano destra immobilizzata:
«Sto imparando a usare la
sinistra». A volte sembrano
battaglie contro i mulini a
vento. Mezz’ora di tempo
per scrivere due frasi. Una
lotta quotidiana. Prima
dell’incidente faceva
l’infermiera. Giorno e notte
a consolare i pazienti, gli
anziani, i malati. «Ma quando
capita a te, credimi, diventa
tutta un’altra cosa». Cerca
di fare tesoro dei consigli
che dava ai suoi pazienti
quando tutto sembrava
perduto, ma è durissima.
E spesso lo sconforto ha
il sopravvento. «Crisi di
SuperAbile INAIL
pianto ed esaurimento
nervoso», mormora
Manuela, con la voce rotta
dalla commozione. Indossa
una felpa avvolgente con
sopra scritto “Manu”. Ci sono
poche consolazioni, tranne
la vera amicizia nata con
Anna Cira, la sua compagna
di stanza: «Qui nascono vere
relazioni umane, quando sei
fragile cadono le barriere
reciproche». [J.S.]
29 Agosto Settembre 2014
A scuola di riabilitazione. LE TEcNOLOGIE di Volterra
SuperAbile INAIL
30 Agosto Settembre 2014
IL REPORTAGE
ve vivono quotidianamente 23 pazienti fissi e 23 semiresidenziali, provenienti da tutta la Toscana e da altre
regioni dell’Italia centrale. Trascorrono il tempo fra attrezzi e tapis roulant, leggono libri e ascoltano musica
sparata dagli mp3. Parlano tra di loro, si scoprono fragili e allo stesso tempo tenaci. Nascono amicizie vere.
Nessuno sembra volersi rassegnare.
«Possiamo sempre migliorare, basta volerlo», dice
Anna Cira De Falco, maestra elementare scivolata in
classe durante una lezione. Spalla e ginocchio gravemente contusi. Leggero rossetto sulle labbra e palpebre
truccate, cerca di vivere come se tutto fosse normale:
«Voglio andare avanti come prima, per non soccombere. Ogni mattina, quando mi alzo, mi guardo allo specchio e mi dico che è tutto ok».
Il Centro Inail di Volterra è nato nel 1999 su impulso di Rosy Bindi, a quel tempo ministro della Sanità. Direttore del Centro è Andrea Borghi, arrivato qui
dopo un concorso pubblico per infermieri nel 1998, a
cui è seguito un concorso interno grazie al quale è diventato coordinatore degli infermieri: «A Volterra c’è
l’eccellenza della riabilitazione motoria: siamo costantemente aggiornati sulle ultime tecniche in campo riabilitativo e in campo assistenziale e diamo molta
importanza alla relazione umana tra paziente e infermiere».
SuperAbile INAIL
31 Agosto Settembre 2014
La vita dopo l’incidente.
SuperAbile INAIL
32 Agosto Settembre 2014
Dieci storie
SuperAbile INAIL
Si fa presto a dire riabilitazione.
Eppure ci possono volere mesi, addirittura
anni, per rielaborare il trauma dopo
un incidente sul lavoro. Percorsi lunghi,
complessi, fatti di svolte improvvise e passi
indietro. Ma anche di tenacia, inventiva,
sperimentazione. Perché ricominciare
tutto da capo non è semplice. Lo sanno
bene le assistenti sociali e i membri
delle varie équipe multidisciplinari
dell’Inail, sparsi su tutto il territorio
nazionale. Che hanno il compito delicato
di accompagnare gli infortunati
nella ricerca di nuove strade. Spesso
molto diverse da quelle precedenti,
ma non per questo meno ricche
e interessanti. Con bilanci esistenziali
non di rado in attivo. Perché sono
in molti ad affermare: «Le cose sono
andate diversamente da come
mi aspettavo, ma oggi la mia vita
non è peggiore di tante altre»
33 Agosto Settembre 2014
La vita dopo l’incidente. dieci storie
E a Vigorso è sbocciato l’amore.
La fortuna di Antonino
«M
Laura Badaracchi
i è crollato il mondo
addosso». La ricorda
così, quella giornata drammatica dell’incidente a
Guastalla, in provincia di Reggio Emilia, mentre contribuiva alla costruzione di un porto
fluviale sul Po. Alto un metro e
85, Antonino Caschetto guidava un muletto per fare l’ennesima gettata di calcestruzzo e il
terreno disconnesso ne ha provocato il ribaltamento: «Per circa mezz’ora sono rimasto sotto
il mezzo, ma non ho mai perso
conoscenza. Sentivo una grande pesantezza alla gamba destra, più che dolore; mi rendevo
conto che qualcosa non andava».
Era un sabato mattina, il 27 settembre del 2003. «Una bella giornata, poco dopo le sette», ricorda
Antonino, che fin da adolescente faceva il carpentiere e aiutava
a costruire l’ossatura delle case.
Aveva appena sei anni quando, nel 1976, tornò in Sicilia con
la sua famiglia dalla Germania, dov’era nato. I suoi genitori cercavano un futuro per lui
ad Acquedolci, in provincia di
Messina. Poi di nuovo in viaggio verso l’Emilia Romagna per
un’occupazione stabile o, quantomeno, non occasionale. La
memoria di Antonino torna indietro a undici anni fa: arrivano
i vigili del fuoco, poi l’elisoccorso che lo trasporta in ospedale a Reggio Emilia. «Mi hanno
fatto firmare e hanno amputato la gamba», dice impassibile, con un filo di voce. A 33 anni
si ritrova da solo in quella stanza, con un arto in meno; i parenti arrivano in serata, il tempo di
prendere un volo da Catania e di
raggiungerlo in terapia intensiva,
dove poteva entrare una persona
alla volta. «Gli amici e i colleghi
mi sono stati vicini – confida –.
Ammetto di essermi scoraggiato
all’inizio, poi ho reagito: se non
mi davo una mossa io, chi poteva scuotermi? Se capitano certe
cose, ce le dobbiamo prendere»,
dice con semplicità.
Antonino è un uomo concreto, di poche parole. Ma si illumina quando inizia a raccontare la
seconda parte della storia: perché la sua voglia di vivere lo ha
trascinato in una strada che non
avrebbe mai immaginato di intraprendere. Il moncone della
gamba dà problemi se indossa la
protesi, quindi viene trasportato a Parma per una plastica, poi
torna in Sicilia e nel marzo del
2004 approda al Centro protesi
Inail di Vigorso di Budrio, do-
SuperAbile INAIL
34 Agosto Settembre 2014
ve rimane oltre due mesi. «Pian
piano con la protesi ho cominciato a muovere i primi passi: sono i più importanti, se li sbagli
continuerai a fare lo stesso errore per il resto della vita. La sera
ero stanco, ma l’indomani ripartivo: fisioterapia, ginnastica,
prove ed esercizi di deambulazione». A settembre dello stesso
anno torna al Centro e, a parte
altri infortunati con cui ha stretto amicizia, una sera – tra officine, ascensori, sala da pranzo
e bar – incontra Antonella Boffa. Che quei luoghi li conosceva
molto meglio di lui: «Una veterana», scherza. Amputata a Bologna per un osteosarcoma nel ’77,
quando aveva solo nove anni, a
undici viene portata dai genitori
a Vigorso di Budrio per imparare a portare la protesi alla gamba
come «invalida civile».
Carattere sanguigno, Antonella
provava tanta rabbia, «un senti-
mento che a volte mi assale ancora. E quando ho conosciuto
Antonino ero arrabbiata: dopo
due o tre anni, la Asl mi concede
di sostituire la protesi per usura,
ma c’è sempre qualcosa che non
va durante le varie prove».
Prima di incontrare Antonella, era noto fra i suoi amici come
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35 Agosto Settembre 2014
La vita dopo l’incidente. dieci storie
un “latin lover” single e senza
nessuna voglia di avviare una
relazione stabile. Ma la donna
potentina – anche lei single convinta, fino ad allora – fa breccia
nel cuore di Antonino, chiamato a un lungo e paziente corteggiamento prima di conquistarla.
«Ero diffidente – ammette lei –.
Pensavo volesse un’avventura
che sarebbe finita una volta tornati a casa, lui in Sicilia e io in
Basilicata». E invece, dopo innumerevoli telefonate e sms, «ho
ripreso la patente e sono venuto
in macchina a trovarla a Potenza. Dopo un anno, mi sono trasferito nella sua città, abbiamo
convissuto e poi ci siamo sposati», dice Antonino, guardandola fisso negli occhi. «Mi ha
colpito la sua generosità e dolcezza: è molto rassicurante, non
puoi non amarlo. Ha creduto in
noi prima che ci credessi io. Ma
siamo molto diversi: lui è casalingo e a me piace viaggiare», ribatte Antonella, che lo “trascina”
in giro per il mondo. «Lei mi ha
dato l’input per costruire una famiglia insieme, una casa: la vita
è andata avanti. Antonella dice
che ci hanno regalato la vita per
incontrarci. Io dico che aver perso una gamba è stato il prezzo
che ho dovuto pagare per conoscerla e va bene così».
Da qualche anno Antonino
ha un ginocchio elettronico; insieme vanno a Vigorso di Budrio
per i controlli e la manutenzione
di entrambe le protesi: «Affrontiamo sempre in due questo percorso».
In sella o in canoa.
Continua il sogno
di Brunella
E
ssere un’atleta nella specialità equestre del dressage paralimpico, indossando la
prima protesi di gamba costruita
appositamente per cavalcare in
tutte le discipline, non le bastava. Così Brunella Roscetti, seppure innamorata del suo cavallo
diciassettenne Don Castello, soprannominato “Principe”, qualche volta lo “tradisce” per salire
sulla canoa e allenarsi in pararowing, il canottaggio paralimpico che in questi ultimi mesi sta
raccogliendo nuovi adepti in tutta Italia grazie all’entusiasmo del
coach Dario Naccari.
«Sono nata a Roma e cresciuta con i cavalli, per i quali nutro
una grande passione», racconta
Brunella, 46 anni, che nel 2006
ha subito l’amputazione della gamba sinistra in seguito al
morbo di Buerger, una forma
di vasculite che colpisce le arterie piccole e medie; la patologia degenerativa ostruisce i vasi
sanguigni, portando alla necrosi dei tessuti. Dopo aver insegnato trekking presso il circolo
ippico Valle Scurella di Formello e lavorato per 22 anni come
responsabile del settore arrivi nel deposito farmaceutico di
una grande azienda, per la trentottenne è arrivata la diagnosi
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infausta. «Dopo la rabbia, cominciano i problemi pratici che
esigono razionalità e quindi, paradossalmente, aiutano a reagire. La disabilità acquisita cambia
anche il carattere», racconta. Lei
la forza l’ha trovata anche alla filiale del Centro protesi Inail
di Roma: «Medici, tecnici, ingegneri mi hanno aiutato a trovare
la migliore soluzione possibile.
Chiedevo non solo di poter camminare e guidare, ritrovando
l’autonomia, ma anche di cavalcare nuovamente. Per farlo mi
serviva una protesi diversa da
quella che uso quotidianamente,
adatta ai movimenti da compiere in sella. Così posso utilizzare
entrambe le gambe per equilibrarmi e indirizzare il cavallo
con l’aiuto di redini e bacino».
Grazie alle competenze dell’ingegner Gennaro Verni e del tecnico ortopedico Franco Mele
viene studiata dall’Inail una protesi con uno speciale invaso. Un
ginocchio e una caviglia ad hoc
per montare a cavallo, “indossati” dall’atleta sui campi di gara
in Italia e all’estero, continuamente adattata a lei anche grazie
al lavoro delle fisioterapiste: «Ho
trovato un’altra famiglia; per loro niente era un problema, mi
assicuravano che ce l’avrei fatta».
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La vita dopo l’incidente. dieci storie
Dal giorno in cui risale a cavallo, Brunella non si ferma
più: fonda l’associazione Ragazza in gamba per «aiutare a praticare l’equitazione chi si trova
in difficoltà a causa della disabilità». Poi inizia a partecipare a spettacoli equestri e a gare
di monta western nella disciplina sportiva del reining (letteralmente, «lavorare di redini»), di
cui nel 2010 diventa campionessa regionale con i normodotati.
Successivamente arriva sul gradino più alto del podio regionale
nel dressage paralimpico, gara in
cui cavallo e cavaliere compiono
figure armoniose in uno spazio
rettangolare. E nel 2012 conquista nuovamente il titolo regionale, fino all’argento vinto lo scorso
anno ai Campionati italiani di
para-dressage.
Al circolo ippico Casale San
Nicola, dove Brunella si allena,
si respira aria buona e serenità. “Don” dimostra il suo affetto
verso la padrona, trangugiando
golosamente le zollette di zucchero che lei nasconde nella sua
mano: «Con le persone disabili il
cavallo stringe un legame particolare, ascolta le loro esitazioni e
le sostiene. È un animale straordinario».
Brunella alterna le stampelle
a una carrozzina a motore: anche
la gamba destra è compromessa
dalla malattia e non può sforzarla se non per brevi spostamenti. «Non posso stare né troppo
seduta, né troppo in piedi», aggiunge. Ogni tre mesi deve fare
il day hospital, ma tutto questo
non la blocca, anzi. Nel 2013 co-
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nosce Dario Naccari, tecnico
della Nazionale di para-rowing,
neonata sezione della Federazione italiana canottaggio presieduta da Giuseppe Abbagnale. Si
rivolge ancora all’Inail che – grazie al tecnico Gianluca Migliore
– la sostiene nella messa a punto di una protesi particolare «per
bilanciare la barca» e nel gennaio scorso a Brindisi vince l’oro al
Campionato italiano indoor con
remo ergometro. «Una scommessa con me stessa – dice –. Bisogna essere prima campioni nella
vita, poi sul campo. Il mio obiettivo è che un maggior numero di
persone disabili possano accedere alle discipline sportive che
amano. Perché anche quando c’è
una disabilità – che ognuno deve
gestirsi e non può far pesare ad
altri – niente è perduto». [L.B.]
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Body building e manicaretti.
La rinascita di Antonio
O
stenta con fierezza il suo
fisico asciutto e va ogni
giorno in palestra, di buon
mattino, per rassodare i muscoli. Poi torna a casa e cucina per
tutta la famiglia. Anche se ha un
braccio in meno, proprio il sinistro, lui che era mancino. Pur
avendo attraversato il tunnel
della depressione, Antonio Lanzetta può dire con sicurezza di
aver ritrovato la voglia di vivere,
dopo quell’incidente sul lavoro successo dieci anni fa, che si
è portato via prima la sua mano
e poi via via l’arto, fin quasi alla
spalla, a causa di una setticemia.
Operaio in un’industria conserviera di pomodori, viene investito alla mano e all’addome da un
getto d’acqua bollente – temperatura: 125 gradi – a causa dello
scoppio di una valvola malfunzionante. Accanto a lui, sempre
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e comunque, la moglie Angela: un concentrato di tenacia e
coraggio. Non ha mai mollato,
anche quando il marito si è rifugiato in comportamenti autodistruttivi e compulsivi, come la
bulimia e l’alcolismo. Anche se
c’erano due bambini da crescere, Nunzio e Alessio. La protesi?
«Il moncone è troppo corto, così è difficile portarla a causa del
bretellaggio pesante. Preferisco
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La vita dopo l’incidente. dieci storie
stare senza e ho imparato a scrivere con la destra, anzi a fare di
tutto», dice Antonio.
Due anni fa, la svolta: grazie alla vicinanza del personale
Inail, nella Sede di Nola/Castellammare di Stabia, e all’assistente sociale del Comune
Angelo Perrotta, Antonio comincia faticosamente il suo
percorso di rinascita a Striano,
sempre in provincia di Napoli,
non lontano dal paese di Sarno,
nel Salernitano – tristemente
noto per la frana della montagna che il 5 maggio 1998 seppellì
nel fango 137 persone – dov’è nato quasi 40 anni fa. Quando era
un ventenne pieno di entusiasmo, ha conosciuto Angela: «Ci
siamo fidanzati quasi per scommessa e stiamo insieme da due
decenni». Sposati dal 2000, mettono su famiglia e tutto sembra
scorrere per il verso giusto. Poi
arriva l’infortunio, alle 7 del
primo settembre 2004, e l’atmosfera serena si trasforma in un
incubo doloroso. «All’ospedale, tutti si preoccupavano della
pancia e nessuno pensava alla mano. Me l’hanno fasciata, si
è formata una fistola. Sono stato nella camera iperbarica, dove
ho perso l’udito all’orecchio sinistro; ho fatto cinque interventi alla mano ma non è servito a
nulla. Alla fine mi hanno amputato la mano il primo marzo del
2006, ma l’infezione era salita e
ho perso anche il braccio. L’ulti-
mo pezzo me l’hanno amputato nel giugno del 2007», ricorda
Antonio, che nel Centro Inail di
Vigorso di Budrio ha trovato «il
top dell’umanità e dell’assistenza, psicologica e fisica».
«Se non ci fosse stata la fede,
non so come avrei fatto – confi-
da Angela –. Quando gli hanno
amputato il braccio, ho scoperto di aspettare il nostro secondo figlio. E ho detto ad Antonio:
“Gesù ti sta togliendo un pezzo,
ma te ne sta dando uno migliore». Eppure la nascita di Alessio
non basta a far uscire il marito
dal buco nero della depressione:
inerte sul letto o sul divano davanti alla tv, mangia continuamente fino a pesare 163 chili.
«Lei è stata molto forte e perseverante, mi ha martellato in maniera propositiva e mi ha messo
davanti a un out-out: o mi scuotevo, o se ne sarebbe andata con
i bambini. Non lo avrebbe mai
fatto, ma l’ha detto per farmi reagire». Antonio inizia una dieta,
una terapia psicologica e riprende l’attività fisica; in cinque
anni, anche grazie al bypass gastrico, dimagrisce gradualmente e raggiunge quota 77 chili: un
risultato incredibile. «L’ho fatto
per amore della mia famiglia»,
scandisce sottovoce con gli occhi lucidi.
La palestra diventa la sua seconda casa, l’alcool un lontano
ricordo. Non solo: Antonio co-
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mincia a fare volontariato, organizzando laboratori artistici e di
cucina per i ragazzi che partecipano ai campiscuola dell’Age
(Associazione genitori) di Striano. Ha scoperto infatti una nuova passione, anzi due: oltre ai
fornelli, la realizzazione di mosaici con semi di cereali incollati
e dipinti. «I bambini mi chiamavano “maestro” e alla fine
dell’esperienza mi hanno scritto bigliettini affettuosi: li conservo tutti gelosamente. Uno di
loro ha voluto dirmi “Grazie di
esistere”, un altro ha aggiunto:
“Anche se hai i tuoi grandi problemi”», racconta. E la sua caparbietà si scioglie ancora una
volta in commozione se pensa
all’amico Francesco Falco e al
professor Giovanni Boccia, che
gli hanno fatto assaporare la
possibilità di ricominciare una
vita sociale, dalla partecipazione
alle partite del Napoli allo stadio
alle pedalate ecologiche in bicicletta, fino alle mostre delle sue
opere artigianali di cui va tanto orgoglioso. «Sono riuscito a
mettere un altro tassello per il
completamento del puzzle della
mia vita: nessun obiettivo è irraggiungibile, grazie a tutti i veri amici che mi danno la carica»,
riferisce Antonio. Il suo entusiasmo contagioso non si spegne e
lo sguardo da “scugnizzo” si riaccende quando gioca con i suoi
figli. Perché «la vita non finisce
con l’invalidità». [L.B.]
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SuperAbile INAIL
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La vita dopo l’incidente. dieci storie
Ho aiutato tanti giovani a incontrare
lo sport. Le medaglie più belle di Nino
Antonella Patete
È
una storia che comincia male
e finisce bene quella di Nino
Lisotta, siciliano di Carini in
provincia di Palermo, oggi campione di tiro con l’arco, in grado
con la sua forza e il suo coraggio di indicare la strada a tanti
giovani infortunati sul lavoro e
non solo, che possono superare il trauma attraverso lo sport.
Tutto ha inizio nel 2002, quan-
do Nino esce come ogni mattina per andare a lavorare e resta
sulla strada, vittima di un incidente di cui non ha nessuna colpa. Ha 37 anni, un impiego come
guardia giurata, una moglie e
una figlia piccola, il cui pensiero e il cui amore rischiarerà anche i momenti più bui. Quelli
successivi all’incidente, quando
sente che il mondo gli è caduto
addosso e non riesce ad abituar-
si alla vita in sedia a ruote. «Mi
ha aiutato tanto la famiglia, soprattutto la vicinanza della mia
bambina», dice.
Poi un incontro fortunato, di
quelli che ti cambiano ancora
una volta il corso dell’esistenza. Avviene nel Centro di riabilitazione “Villa delle ginestre”, a
Palermo: «Ho conosciuto Willy Fuchsova, allenatore di tiro
con l’arco per il Comitato italiano paralimpico. Ha detto che mi
avrebbe aiutato a ricominciare. Per me è stato un padre, uno
psicologo, un fratello». Viene da
un anno duro, Nino: si muove
senza certezze in un quotidiano che non sembra promettergli
più niente di buono. Per questo
afferra l’arco che Willy gli tende,
incredulo che in quell’attrezzo
possa nascondersi la chiave di
volta di un destino che sembra
averlo condannato. Invece le cose vanno diversamente.
Così oggi, insieme ai tanti successi sportivi e medaglie, ti rac-
conta soprattutto di quella
riscossa personale che gli ha
permesso di ripartire da zero, e
di aiutare tanti altri con il suo
esempio. Perché c’è Nino Lisotta,
il campione che ha partecipato a
tre Mondiali e una ParalimpiaSuperAbile INAIL
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SuperAbile INAIL
43 Agosto Settembre 2014
La vita dopo l’incidente. dieci storie
de, quella di Pechino nel 2008. E
c’è Nino che incontra gli studenti delle scuole, ha tanti amici in
sedia a ruote e, soprattutto, incoraggia i giovani che arrivano al
Centro “Villa delle ginestre” dopo un infortunio a rimettersi in
gioco attraverso l’attività sportiva. «Abbiamo scritto una pagina
della storia paralimpica a Palermo – spiega –. Sono orgoglioso
dei tanti ragazzi che siamo riusciti a catapultare nello sport, tirandoli fuori dalle case. In pochi
anni siamo passati da 89 a 1.000
iscritti al Cip regionale».
Non si stanca mai di raccontare
quanto lo sport abbia portato una
ventata positiva nella sua vita.
Come quella volta che vinse una
medaglia d’oro in un confronto con Oscar De Pellegrin, stella
del tiro con l’arco paralimpico e
portabandiera italiano ai Giochi
di Londra 2012.
«Quel giorno mia figlia ha
portato a scuola il ritaglio di
giornale. Per dire che il suo papà non è un handicappato, ma
un campione». E tutto questo lo
deve a Willy, che lo ha estratto
a mani nude dalla melma della
depressione. Ma la sua gratitudine va anche ai tanti amici in
sedia a ruote che gli hanno sa-
puto dare i consigli giusti per
tornare a fare le cose di tutti i
giorni e all’Inail che lo ha concretamente sostenuto nello sforzo di reinventarsi un progetto
esistenziale e di recuperare l’autonomia. Una ventata di fortuna
dopo l’accanirsi della malasorte.
Perché quella maledetta mattina del 2002 neanche ci doveva
andare a lavorare. Sostituiva un
SuperAbile INAIL
44 Agosto Settembre 2014
collega. «Mi hanno tamponato da dietro, dopo l’urto non riuscivo a muovere le gambe: ho
capito subito che era successo
qualcosa di grave».
Da lì il giro degli ospedali:
prima Palermo, poi Messina, infine la riabilitazione a “Villa delle ginestre”. «Ma il momento più
brutto è arrivato tre mesi dopo,
quando mi hanno detto che non
avrei più camminato». Come se
non bastasse, il ritorno a casa è
stato drammatico. «Abitavo al
primo piano senza ascensore,
era come stare agli arresti domiciliari». Poi l’acquisto di una
casa più adeguata nel 2006, al
piano terra e senza barriere architettoniche, dove Nino, tra alti
e bassi, ha ricostruito una nuova vita.
Oggi l’arciere di Palermo è un
uomo nuovo. Ha rifiutato il la-
voro in ufficio perché si sentiva «mortificato» e ha investito
tutte le sue energie nello sport.
Dopo una dolorosa separazione dalla moglie, vive solo e ha
una nuova compagna che pratica anche lei il tiro con l’arco. «Il
2013 è stato un anno fantastico
– dice –. Al termine di un perioSuperAbile INAIL
do difficile sono riuscito a tornare in gara». Per la seconda
volta è stato il suo arco a salvarlo. E anche in questo caso c’era
Willy a rassicurarlo e a incoraggiarlo. «Da subito questo sport
mi è entrato dentro. A ottobre
2004 la prima gara regionale e
due anni dopo la partecipazione
al campionato italiano. A volte
mi ritengo fortunato, perché
grazie alla mia disabilità sono
diventato una persona importante. Rappresento la Nazionale italiana nel mondo e sono tra
gli otto arcieri paralimpici più
forti d’Italia». Nel frattempo le
sue giornate trascorrono ricche
di impegni: si allena ogni giorno tre ore, è consigliere del Cip
regionale, referente del Comitato
italiano paralimpico per sport e
disabilità, ma fa anche attività di
volontariato a “Villa delle ginestre”, dove trasmette innanzitutto la sua fiducia incrollabile nel
valore rivoluzionario dello sport.
Ogni volta che un giovane scommette sulla pratica sportiva per
superare il trauma dell’infortunio, per Nino è come una medaglia appuntata sul petto. Una
freccia scoccata verso il futuro,
dall’esito imprevisto. Simbolo
della vittoria sul destino e della
vita ritrovata.
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La vita dopo l’incidente. dieci storie
Come un arco ti aiuta
a guarire.
La missione di Willy
A
llenatore nazionale di tiro
con l’arco e commissario
tecnico degli Azzurri paralimpici, Willy Fuchsova trascorre molto del suo tempo
all’interno del presidio ospedaliero palermitano di “Villa delle ginestre”, dove i pazienti in
sedia a ruote per via di un incidente possono praticare – oltre
al tiro con l’arco – la scherma e
il tennis tavolo. Ed è stato anche,
e soprattutto, grazie a lui che
Nino Lisotta (vedi pagg. 42-45)
e tanti altri hanno ritrovato l’energia positiva per costruirsi un
nuovo futuro.
Nel ruolo volontario di responsabile della riabilitazione
sportiva della struttura, Willy incontra ogni anno decine di
giovani. E proprio così ha conosciuto per la prima volta l’arciere palermitano. Poteva essere
uno come tanti, invece quell’incontro fortuito si rivelò speciale per entrambi. Forse perché
Willy credeva con tutto se stesso nella forza strepitosa dello sport, forse perché Nino non
era un tipo facile, ma si intesero
nel profondo e col tempo strin-
sero un’alleanza fatta di amicizia e continui traguardi sportivi.
«All’epoca Nino era molto depresso, non credeva che sarebbe
potuto diventare un campione –
racconta l’allenatore –. Quando
finisci in carrozzina perdi tutto: gli amici, i parenti, la casa in
cui non riesci più a vivere. Ti restano solo la mamma e il papà,
gli unici che non ti abbandonano mai. È lo sport che ha rimesso in moto tutto».
Freccia dopo freccia, il rapporto tra i due è diventato qualcosa
di veramente speciale. Per Willy,
Nino è più di un amico, quasi un
fratello. «Abbiamo un rapporto
che va al di là dell’arco. Ci vediamo fuori, la sera, il week-end. Ci
aiutiamo tutte le volte che possiamo». Quando nei mesi scorsi
l’allenatore ha avuto seri problemi di salute, è stato lui, Lisotta
a stargli vicino, a fargli sentire
forte la sua presenza anche se
non riusciva a essergli accanto
fisicamente. «Non poteva raggiungermi perché nel mio condominio non c’è l’ascensore»,
confida l’allenatore.
SuperAbile INAIL
46 Agosto Settembre 2014
Si ritiene uno fortunato, Willy Fuchsova. Magari non naviga nell’oro come gli allenatori
di calcio, ma vive del lavoro che
ha scelto tanti anni fa quando è
uscito dalla Nazionale italiana di
tiro con l’arco. Da allora la scommessa è stata quella di far conoscere una disciplina considerata
ancora elitaria e, da 16 anni a
questa parte, anche di diffonderla tra chi ha subito un infortunio. Perché è stato oltre tre lustri
fa che ha messo per la prima volta piede a “Villa delle ginestre”,
chiamato dal responsabile sanitario dell’epoca: arrivava dalla
Svizzera, dove il tiro con l’arco
veniva usato in funzione riabilitativa. «A quei tempi l’unico
spazio disponibile era la camera
mortuaria – sorride oggi –. Ma
io ho subito detto sì, perché mi
sembrava un’occasione da cogliere al volo».
Un giorno da quelle parti passò un ragazzo di nome Salvatore
che aveva subito una grave lesione vertebrale durante una gita a Stromboli. Scivolando da
uno scoglio era diventato tetra-
SuperAbile INAIL
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La vita dopo l’incidente. dieci storie
plegico. «La sua aspirazione era
tirare con l’arco – ricorda l’allenatore –. Il suo fisioterapista era
contrario, perché temeva che si
potesse illudere. Ma io non vedevo ostacoli insormontabili».
Così, giorno dopo giorno, con
l’aiuto di ausili autoprodotti,
Salvatore è riuscito a sostenere
l’arco e a tirare. «Oggi è un ingegnere informatico: ha un lavoro,
una ragazza e la patente. Ma tutto è ripartito in quel momento,
anche se oggi ha posato l’arco.
Lo sport – assicura – raggiunge
delle aree del nostro cervello dove né la medicina né la fisioterapia possono arrivare».
Attualmente Fuchsova sta allenando la squadra italiana per
le Paralimpiadi di Rio de Janeiro 2016, ma a Palermo non ha
un campo di tiro con l’arco dove preparare gli atleti. «Ci alleniamo nelle campagne come
banditi, eppure ho tre siciliani
in Nazionale». A “Villa delle ginestre”, invece, segue 15 giovani
con disabilità, di cui sei assistiti
Inail. Un traguardo non da poco per il responsabile tecnico paralimpico della Fitarco e per uno
sport di così antiche origini. Che
in Sicilia presenta una potenzialità ancora tutta da scoprire.
Io, disabile, non mi
fermo dinanzi a niente.
L’entusiasmo di Salvo
[A.P.]
SuperAbile INAIL
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I
nfortunato Inail, ex maratoneta e da un anno fan sfegatato dell’handbike, Salvo
Campanella è pieno di vita, di
passione, di entusiasmo sfrenato: 40 anni, una moglie, due
figli, è vivo per miracolo. Il 2 luglio del 2012 è precipitato da sette metri di altezza a causa della
rottura del piantone di sicurezza della gru, nel cantiere dove
lavorava. «Facevo l’impermeabilizzatore – racconta –. Ero
uno di quelli che mettono le
guaine in galleria. Sono caduto
con tutta la cesta». Un vero miracolo, insomma, di cui Salvo
non finisce mai di gioire. «Cosa ho provato dopo l’incidente?
Mi sono fatto una risata. Intanto sono rimasto vivo, e poi poteva andare peggio».
Non dimenticherà mai, infatti, quei momenti. Prima,
durante e dopo è rimasto perfettamente vigile e cosciente: il
cestello che cade a precipizio e
si ferma a 50 centimetri da terra,
bloccato dai tubi dell’alta pressione «che hanno un carico di
rottura pari a 1.500 chili contro
i 3mila del cestello fermo, senza contare l’accelerazione di gravità. Che significa un totale di
6mila chili complessivi».
Non sorprende, dunque, che si
ritenga fortunato. «Quando ho
toccato terra non sentivo più le
gambe – ricorda –. Non mi sono fatto niente, dicevo tra me e
me, perché non avvertivo dolore. Ma ero già paraplegico». La
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consapevolezza però arriva già
nel tragitto in ambulanza verso
l’ospedale. E così Salvo chiama
la moglie e le dice: «Ho avuto
un incidente sul lavoro, mi sono fatto male alla schiena, non
mi funzionano le gambe, la maratona di New York me la vado a
fare in handbike».
Il resto della storia è una corsa
sfrenata verso la libertà: 18 gior-
ni dopo l’incidente Salvo viene trasferito all’Unità spinale
di Palermo e, alla fine del mese, comincia la riabilitazione
a “Villa delle ginestre”, dove si
ferma ancora un paio di mesi. «E poi scappo da qui e vado
a cercare una handbike di seconda mano – continua –. Incontro Stefano Rametta e Luigi
Palì e cominciamo a correre insieme. A settembre del 2013 vengo convocato dalla Federazione
ciclistica italiana, che mi nomina unico responsabile regionale
del settore paralimpico».
E il bilancio di questa esperienza di vita? «Il mio scopo
principale non è diventare famoso – risponde Salvo –, ma
quello di fare da esempio. Per
tirare fuori dalle prigioni domestiche altri ragazzi disabili
dimostrando, con i fatti e non
con le parole, che l’handicap sta
solo nella tua testa e non nel tuo
corpo. Come ha giustamente
scritto mio nipote nella sua tesi di laurea – conclude –: la disabilità è uno status mentale del
normodotato». [A.P.]
49 Agosto Settembre 2014
La vita dopo l’incidente. dieci storie
E a un certo punto ho smesso
di piangere. L’ospitalità siciliana
nella cucina di Caterina
S
ono passati più di sette anni
dal giorno della «disgrazia».
E solo da qualche tempo Caterina Randazzo ha imparato a
farci i conti con quella sua nuova
vita che non aveva messo in preventivo. Le viene ancora da piangere a pensarci, ma si tira su al
pensiero di quante cose riesce
a fare ogni giorno per vivere in
maniera normale nella sua casa
di Montelepre, a 20 minuti d’auto da Palermo.
Aveva 51 anni quel 19 giugno
del 2007, quando cadde salendo
le scale della clinica privata dove
lavorava come ausiliare. Era una
giornata come un’altra e faceva
caldo. Forse l’afa, forse un calo di
pressione, fatto sta che Caterina
si accasciò proprio quando non
avrebbe dovuto. Sbattendo la
schiena. Magari un’altra persona
avrebbe capito, quando si risvegliò con le gambe rigide e come
di legno. Ma non lei, che non aveva nessuna intenzione di rassegnarsi. «Ci ho messo due anni a
rendermi conto – ricorda –. Due
anni per abituarmi all’idea di ritrovarmi in sedia a rotelle. Gli altri me lo facevano capire in tutti
i modi, ero io che non volevo accettarlo». Non ricorda Caterina il
momento in cui tutto è divenuto
buio intorno a sé, sa solo che a un
SuperAbile INAIL
50 Agosto Settembre 2014
certo punto si è trovata per terra
a domandarsi cosa le fosse successo. «Non muovevo le gambe,
ma non sapevo che se la schiena
si rompe non è possibile tornare
a camminare».
Si ricorda però dei tanti ospedali che ha girato come un’anima in pena. Prima correndo
d’urgenza al “Civico” di Palermo, poi nelle varie cliniche per
i diversi cicli di riabilitazione.
Che Caterina ha iniziato tre mesi dopo l’incidente presso il presidio ospedaliero di “Villa Sofia”,
sempre nel capoluogo siciliano. «Ricordo quelle lacrime che
scendevano da sole, senza volersi fermare. E se ci penso mi viene da piangere anche ora – dice
–. Ho dovuto impormelo e dirmi: basta, ora non piango più».
Per fortuna non era sola: nel momento del bisogno e della massima disperazione la famiglia ha
fatto cerchio intorno a lei. «C’erano proprio tutti: il marito, le
sorelle, le cognate. Quando c’era bisogno di restare la notte con
me non si sono mai tirati indietro, non mi hanno abbandonata».
E soprattutto c’erano i figli Giuseppe, Gioacchino e Giulia, che si
sono assunti compiti e responsabilità che non avevano mai avuto
in precedenza.
Ma Caterina non si dava pace. Cercava e sperava, sperava e
cercava. Forse poteva trovare un
nuovo centro, una nuova terapia
o un medico che esprimesse un
parere inedito. E mentre cercava senza sosta, imparava, senza
neppure accorgersene, ad affrontare la sua nuova condizione.
«Partii per l’Istituto di Montecatone, a Imola, dove fui sottoposta
a due operazioni. E lì ho imparato
a diventare più autonoma». Però
che non avrebbe più camminato non lo voleva proprio accettare. «Cominciai a capire qualcosa
qualche mese dopo all’Unità di
riabilitazione di Sciacca – prosegue –. C’era un ragazzo che aveva subìto un incidente due mesi
prima. Era giovane, si era appena
sposato, e cominciava a muovere qualche passo». A quella vista
Caterina interrogava i suoi familiari: «Perché non mi avete portato qui prima?», chiedeva. Non
le andava giù l’idea di aver perso
del tempo prezioso, magari anche l’opportunità di tornare in
piedi. Allo stesso tempo iniziavano ad affacciarsi i primi dubbi.
«Fu la moglie del medico a parlare chiaro», ricorda. L’affrontò
a viso aperto e le disse: «Caterina, rassegnati. Piangi se vuoi, ma
piangi una volta per tutte». E lei
reagì arrabbiandosi, e gridando.
Tornò a casa desolata, andò a vivere nella bella abitazione in cam-
pagna che affaccia sul golfo di
Palermo e cercò di nascondere
il suo stato d’animo ai familiari.
Continuava a vivere in quell’appartamento al piano terra ed
evitava di farsi vedere in sedia a
ruote in giro per Montelepre. Nel
pieno della disperazione, però,
cominciava a farsi strada il desiderio di ritornare alla sua vecchia
vita. Le mancavano la sua casa e
le sue occupazioni, riemergeva in nuove forme quello spirito
combattivo che dopo l’incidente
le aveva impedito di rassegnarsi
all’idea di non poter più camminare. «All’inizio andavo al centro commerciale con mia sorella,
SuperAbile INAIL
51 Agosto Settembre 2014
La vita dopo l’incidente. dieci storie
mi distraevo facendo la spesa.
Poi cominciai a fare tutto quello
che potevo fare, e dove non arrivavo mi fermavo». Presto tornarono nella casa in paese, al primo
piano, collegata alla strada da
una lunga scala. La quotidianità non era facile. Intervenne l’Inail, dotando l’appartamento di
una piattaforma elevatrice che
permetteva a Caterina di entrare e uscire comodamente di casa. Attraverso il Centro protesi
di Vigorso di Budrio ha ottenuto
la patente speciale e poi, sempre
grazie all’Istituto, è riuscita ad
adeguare la cucina alle sopraggiunte necessità. Con il top cottura e il lavello adattati e i pensili
a elevazioni elettrica, Caterina ha
ripreso a preparare da mangiare
per la famiglia e la sua cucina è
tornata a essere il cuore pulsante
della casa. È qui che nei giorni di
festa si riuniscono tutti: il marito,
i figli, le nuore. Ed è qui che Caterina torna a sentirsi pienamente a suo agio, dopo la tensione di
un’intervista che la costringe ancora una volta a fare i conti con
gli ultimi anni della sua vita.
Tolto di mezzo il taccuino, si
rilassano anche i figli e le nuore
che facevano capolino inquieti
mentre lei raccontava la sua storia. Sul tavolo compaiono gli album delle loro recenti nozze e le
paste buonissime portate a casa
dal marito Vincenzo. È la manifestazione più sincera dell’ospitalità siciliana, il momento
più atteso del pomeriggio. Hai la
sensazione che il peggio sia passato, davanti la famiglia, l’affetto
dei figli, la ritrovata quotidianità
della vita domestica. [A.P.]
Dio mi ha salvato,
l’Inail mi ha rimesso
in piedi. La seconda
vita di Thomas
SuperAbile INAIL
52 Agosto Settembre 2014
A
ma ridere, andare in giro,
trascorrere il tempo con
gli amici, Thomas Freeman. Trentanove anni, liberiano
di Monrovia, è arrivato in Italia
nel 2002 attraversando il Mediterraneo a bordo di un barcone per fuggire dalla guerra che
dal 2000 al 2004 ha devastato il
suo Paese. Ma la sua gamba sinistra l’ha persa in Italia a causa
di quello che oggi definisce uno
«stranissimo» infortunio sul lavoro. Di quelli che ti lasciano a
lottare tra la vita e la morte, e
ti cambiano per sempre il corso
dell’esistenza. Giunto a Palermo
con un permesso di soggiorno
come richiedente asilo politico,
grazie alla sua straordinaria voglia di vivere Thomas è riuscito
rapidamente a integrarsi nel tessuto economico e sociale cittadino: tanti amici italiani e africani,
una fidanzata siciliana e soprattutto un lavoro come meccanico
e gruista all’interno di un’officina. Fino a quando, un lunedì
sera del 2003, andando a prendere un’automobile da demolire
è rimasto vittima dell’incidente che gli è costato quasi la vita.
«La macchina è caduta dalla gru
e io sono stato schiacciato sotto
il suo peso – ricorda –. Mi sono
svegliato dopo due mesi di coma
e quando ho visto che mi mancava una gamba l’ho presa molto male. È stata la mia fidanzata
Loredana a firmare per l’amputazione».
Si sentiva disperato Thomas: dopo essere scampato alla guerra e al deserto della Libia,
SuperAbile INAIL
dopo aver visto i suoi compagni di viaggio morire a bordo
di una carretta del mare mentre solcava furtiva il Mediterraneo, non gli sembrava possibile
che il peggio dovesse arrivare in
Italia. Proprio quando gli pareva di aver ritrovato tutto (o quasi): l’amicizia, il lavoro e l’amore.
«Non accettavo la situazione –
prosegue –. Sono stato sempre
un tipo molto attivo, ero disperato. Fino a che non ho incontrato l’Inail, che mi ha restituito
la speranza: “Dio ti ha aiutato,
noi ti rimetteremo in piedi”, mi
hanno detto». Poco tempo dopo
a Vigorso di Budrio è arrivata la
protesi che oggi gli permette di
camminare, guidare lo scooter e
insegnare kick-boxing.
Oggi che la sua vita è ripartita, Thomas ancora si sente ferito
dal comportamento del suo datore di lavoro, con cui è entrato in causa per una complicata
faccenda di risarcimenti e diritti negati. Per il resto prova a giostrarsi in una complicata vita
familiare, fatta di tre figli di cui
uno ancora in Ghana con la zia
e gli altri due a Pordenone con la
madre ed ex compagna. Ma soprattutto Thomas ha tanti amici,
che non lo lasciano mai solo. «A
Palermo mi trovo bene – conclude –. Parlo quattro lingue e
aiuto tante persone africane, soprattutto a trattare con i loro datori di lavoro. Il mio sogno per il
futuro? Aprire un’attività di import ed export, che unisca l’Africa all’Italia». [A.P.]
53 Agosto Settembre 2014
La vita dopo l’incidente. dieci storie
Ostia, gli albori
dello sport paralimpico
O
ggi è ancora possibile incontrarli il martedì mattina, specie se il tempo è
bello, sotto i porticati che fronteggiano la stazione “Stella polare”, a Ostia, patria dello sport
paralimpico italiano e non solo. Le vecchie glorie dei Giochi
per disabili si danno appuntamento dinanzi alla sede dell’Ascip, l’Associazione sportiva
culturale italiana paraplegici,
nata nel 1975 per promuovere
il grande valore dello sport come strumento di riabilitazione e
reinserimento nella società.
Approdati giovanissimi al
Centro per paraplegici (Cpo)
dell’Inail diretto dal professor
Antonio Maglio, pioniere italiano della sport-terapia, tra gli
anni Cinquanta e Sessanta del
secolo scorso si trasferirono a
Ostia, alle porte di Roma, per
rimettere in moto le proprie vite.
Erano operai, agricoltori, pastori provenienti da varie regioni
italiane che il neuropsichiatra
Maglio riuscì a coinvolgere in
un progetto rivoluzionario. Fino a farne campioni nazionali
e mondiali nelle diverse discipline: scherma, nuoto, tennis
tavolo, tiro con l’arco, per dirne solo alcune. «Dobbiamo tut-
to all’Inail – afferma il maestro
Vittorio Loi, schermidore d’eccezione, cinque Giochi come atleta e altrettanti come tecnico
della Nazionale azzurra –. L’Istituto ci ha permesso di praticare lo sport, tornando a essere
persone come le altre. Grazie alla pratica sportiva abbiamo girato l’Italia e il resto del mondo,
recuperando tutto quanto pensavamo di aver perso».
«Il dottor Maglio è stato un
pioniere e forse lo sarebbe ancora oggi: quello dello sportterapia è infatti un concetto
estremamente moderno», dichiara David Fletzer direttore
dell’Unità operativa complessa
(Uoc) Centro spinale del Centro paraplegici di Ostia (Cpo),
in capo alla Asl Roma D. Il Cpo
è nato nel 1957 come la prima
struttura italiana dedicata alla
cura delle persone con lesione
midollare per iniziativa dell’Inail e dal 1978 è sotto l’egida del
Servizio sanitario nazionale e
regionale. «Ma noi continuiamo
a credere nel valore della pratica sportiva: ancora oggi si esercita la scherma, il tiro con l’arco,
il tennis tavolo e il calcio balilla.
Inoltre abbiamo un medico e un
fisioterapista completamente
dedicati alla sport-terapia. È im-
SuperAbile INAIL
54 Agosto Settembre 2014
pressionante il valore terapeutico dello sport: a volte l’attività
sportiva permette di conservare l’autonomia e, nel tempo, di
allungare la vita». Un concetto,
quest’ultimo, di cui era profondamente convinto il dottor Maglio, che nel 1960 organizzò a
Roma la prima vera Paralimpiade della storia.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale Maglio
aveva avuto modo di apprezzare
l’operato del neurologo tedesco
Ludwing Guttmann, il promotore dei Giochi di Stoke Mandeville, che si tennero per la
prima volta alle porte di Londra
del 1948. Fuggito in Inghilterra
dopo l’inizio delle persecuzio-
ni naziste degli ebrei, il neurologo fu messo a capo dell’Unità
spinale dove venivano ricoverati i reduci di guerra che avevano
subito lesioni midollari. E subito si rese conto che per guarire
le ferite non solo fisiche riportate sul campo di battaglia occorreva aiutare i soldati a tornare a
una vita normale. Obiettivo che
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Guttmann raggiunse attraverso
l’esercizio fisico e l’organizzazione dei Giochi di Stoke Mandeville.
Questa straordinaria intuizione fu ripresa da Maglio
qualche anno dopo e servì a restituire la speranza a tanti che
consideravano la propria vita finita. E che a Ostia ritrovarono
55 Agosto Settembre 2014
La vita dopo l’incidente. dieci storie
uno scopo, una socialità, una famiglia. Come Aroldo Ruschioni,
classe 1932, che approdò sul litorale romano nel 1957, all’età di
25 anni. Originario di Macerata,
era rimasto infortunato mentre
lavorava come elettromeccanico tornitore nella ditta del padre. «Non avevo mai praticato
sport prima – racconta oggi –.
Ma qui a Ostia ti sentivi quasi
obbligato a sperimentarti nelle
varie discipline. Le soddisfazioni e le medaglie sono arrivate in
un secondo momento».
Oggi Aroldo è il più anziano del
gruppo di Ostia e l’unico ad aver
preso parte alla Paralimpiade romana, da cui riportò un
oro, un argento e un bronzo, rispettivamente nel tennis tavolo
doppio, nella sciabola a squadra e nel dorso. Erano però solo
le prime medaglie di una lunga
carriera internazionale, culminata con il ruolo di tedoforo alle Olimpiadi invernali di Torino
2006, dove ebbe l’onore di portare la fiaccola cerimoniale.
Olver Venturi, invece, è un
simpatico signore di quasi 70
anni, molti dei quali trascorsi
a Ostia dove arrivò per la prima
volta l’8 giugno del 1961, reduce da un incidente sul lavoro
mentre assemblava le cassette
di frutta. Aveva appena 16 anni
e mezzo quando giunse al Cpo
direttamente da Lugo di Romagna, in provincia di Ravenna,
dove era nato e cresciuto. «Dopo
SuperAbile INAIL
56 Agosto Settembre 2014
le prime cure al Centro traumatologico di Bologna, l’alternativa era tra Vigorso di Budrio e
Ostia – ricorda –. Ma al Centro
protesi non c’era posto e così mi
hanno mandato qui: ed è stato
un bene perché ho conosciuto
mia moglie, che all’epoca faceva
l’infermiera». Insieme all’amore Olver conobbe lo sport e, dopo poco più di un anno, era già
a Stoke Mandeville dove si guadagnò la prima medaglia d’oro
nella scherma a squadre. Non
male per uno come lui, che appena qualche mese prima aveva
dovuto rimettere in discussione
un’intera esistenza. E che oggi
vanta la partecipazione a cinque
Olimpiadi e il titolo di campione italiano di tennis tavolo per
undici anni. «Attualmente insegno ping pong al Cpo due volte a
settimana, il martedì e il giovedì», dice. Dedica le sue energie
a quelli che arrivano, provando a spiegare loro, con l’esempio
concreto, che se qualcosa è finito per sempre qualcos’altro può
ancora cominciare.
Una lezione che anche Francesco Deiana ha dovuto imparare sulla propria pelle, quando nel 1960
giunse a Ostia dalla sua Sardegna. Aveva 27 anni e fino a quel
momento aveva fatto il pastore:
viveva a Olbia, in provincia di
Sassari, ed era caduto dalla bicicletta mentre trasportava il latte
al deposito. Lo portarono di corsa all’ospedale cittadino e una
SuperAbile INAIL
settimana dopo lo trasferirono
a Iglesias, dove rimase sei mesi.
«Gli altri se ne andavano e io restavo sempre là – afferma –. Poi
sono arrivato a Ostia e mi sono
un po’ tranquillizzato, perché
vedevo che c’era anche chi stava
peggio di me».
Nelle corsie del Cpo Francesco incontrò il dottor Maglio.
Gli domandò se avesse mai praticato qualche disciplina e lui rispose che gli piacevano il calcio
e la pesca sportiva. «Qui potrai
fare sport», sentenziò il medico.
E così cominciò un’avventura
imprevista e fulminante, come
arciere e nuotatore: nel 1961 era
a Stoke Mandeville e tre anni
dopo alle Olimpiadi di Tokio, da
cui tornò a casa con un oro stile
libero, un argento rana e una fidanzata giapponese. Che lo raggiunse in Italia alla fine di tre
lunghi anni di fitta corrispondenza epistolare per sposarlo e
restare con lui per oltre un decennio, fino a quando un «brutto male» non se la portò via.
Per fortuna c’era il percorso
che Antonio Maglio aveva indicato e che ha accompagnato
la sua esistenza anche nei momenti più bui. Regalandogli la
partecipazione a quattro diverse Olimpiadi, di cui l’ultima a
Toronto nel 1976. «Ho avuto la
possibilità di viaggiare, andare
ovunque, conoscere il mondo –
tira le somme oggi –. Senza lo
sport la mia vita non sarebbe
stata la stessa». [A.P.]
57 Agosto Settembre 2014
La vita dopo l’incidente. dieci storie
Non tutti i giorni nasce
un campione. La tenacia di Vittorio
È
stato imbattibile Vittorio
Loi con la sua spada. Rapido, agile, determinato. Non
c’era nessuno o quasi che potesse tenergli testa. Perché attraverso quella spada che gli era
piovuta tra le mani un po’ per
caso si riprendeva la vita che
pensava di aver perso. Quando arrivò al Centro paraplegici
di Ostia era distrutto nel corpo e, soprattutto, nello spirito.
Era nato a Nurri, in provincia
di Nuoro, nel 1942 e non aveva
ancora compiuto 20 anni quel 9
settembre del 1961 quando cadde dal camion mentre caricava la legna. Faceva l’agricoltore,
ma voleva cambiare vita e due
giorni dopo sarebbe partito per
la Germania, dove la sua richiesta di lavoro era stata accolta da
una fabbrica. Le cose andarono
diversamente. «Eravamo zappatori – dice –. Pensavo che tutto
fosse finito».
Nei momenti di disperazione
che seguirono l’incidente prese in
considerazione tutto, anche l’idea di farla finita. A Ostia l’incontro con il dottor Maglio fu
decisivo. «Parlavano di fare
sport, a me sembravano matti»,
dice oggi, col senno di poi. Ma
quella proposta lentamente si
SuperAbile INAIL
58 Agosto Settembre 2014
insinuò in lui, fino ad assumere
la forma vaga di una speranza.
Nel frattempo nacque l’amicizia
con Francesco Deiana, sardo come lui, che era arrivato a Ostia
l’anno precedente e con cui a
partire dal 1965 condivise un
appartamento. «Francesco era
come un fratello, chiacchieravamo a lungo e lui mi raccontava le sue imprese sportive. A me
pareva impossibile». Gli sembrava tutto troppo difficile, ma
quel modo di affrontare la vita
lo affascinava. «Mi sono buttato sulla scherma e ce l’ho fatta:
sono diventato imbattibile. Avevo l’istinto di vincere. Ho partecipato a cinque Olimpiadi come
atleta e a cinque come tecnico
della Nazionale di scherma disabili. Ho perso il conto delle
medaglie». La prima Olimpiade
è a Tokio nel 1964, poi a Tel Aviv
nel 1968 vince due ori e due argenti nel fioretto e spada a squadre. Nel 1972 a Heidelberg porta
a casa tre ori e nel 1974 a Toronto un argento e due bronzi. Ma
è anche campione mondiale di
scherma dal 1962 al 1974 e campione italiano dal 1974 al 1979.
Le ultime medaglie arrivano nel 1980 ad Arnhem, in Olan-
da, dove conquista un bronzo
nell’individuale a sciabola e un
argento nel fioretto a squadra.
Da quel momento Loi abbandona l’agonismo, ma non la passione per la spada. Nello stesso
anno, infatti, consegue il brevetto di istruttore e il diploma
di maestro di scherma all’Accademia nazionale di Napoli e
dodici mesi dopo diventa tecnico della Nazionale italiana di
scherma disabili. Può insegnare
SuperAbile INAIL
a tutti, in piedi o in sedia a ruote: non ci sono distinzioni. «Ma
la vera sfida è da seduti – spiega
–. In piedi hai più vie di fuga, in
carrozzina non puoi arretrare».
E il suo contributo resterà nella storia di questa disciplina paralimpica. Perché oltre a essere
un maestro e un campione, Vittorio ha progettato le pedane di
scherma conosciute nel mondo
come “italiane”, che consentono
maggiore autonomia allo schermidore attraverso un sistema di
ancoraggio che non fa perdere
l’equilibrio.
Oggi Vittorio ha 72 anni, ma
quello che può dare allo sport
paralimpico è ancora tanto. È
membro della Commissione internazionale per la scherma in
carrozzina (Iwfc), organo tecnico della Federazione internazionale di sport disabili nella quale
ricopre il ruolo di responsabile
per il regolamento e per il materiale dal 1981. Ma ama ancora venire al Cpo per insegnare
scherma due mattine a settimana, il martedì e giovedì. In quel
Centro dove la sua vicenda di
uomo e di atleta ha avuto inizio
e dove altri campioni possono
nascere. Con la forza dell’esempio, della volontà e della speranza. [A.P.]
59 Agosto Settembre 2014
La vita dopo l’incidente. dieci storie
Dopo 40 anni è ancora amore.
L’ironia di Uber e Irene
L
ei è affilata, intelligente, incisiva. Lui bonario, ironico,
incline a prendere la vita così come viene. Se questa è la realtà o l’apparenza poco importa,
fatto sta che i coniugi Uber Sala e Irene Monaco insieme sono
una spasso. Una vita l’una accanto all’altro all’insegna dell’amore
e dello sport. E di un dialogo irridente e serrato, che vince la noia
e consolida la tolleranza reciproca, pane quotidiano per una coppia di lunga data.
Vivono in una villa alle porte
di Ostia, fatta di ampi spazi accessibili e di pareti tappezzate
di coppe e medaglie. Che parlano da sole della loro storia e della loro comune passione. Perché,
come dice Irene, «noi ci siamo
conosciuti nello sport». E nello
sport hanno imparato ad amarsi e ad apprezzarsi, per poi unire
i loro destini in un matrimonio
solido come l’impegno sportivo che ha contrassegnato le loro esistenze. Lei è nata nel 1940,
lui sei anni dopo, nel 1946. Lei
è un’invalida civile, lui un infortunato sul lavoro, arrivato a
Ostia a 18 anni a causa di una
caduta da un’impalcatura. «Lavoravo in cantiere come elettromeccanico. Sono finito sotto a
un montacarichi. Pensavo che la
SuperAbile INAIL
60 Agosto Settembre 2014
storia fosse finita lì, e invece...».
Irene era figlia di un dirigente
Inail, è nata a Roma, ma i suoi
arrivavano dalla Sicilia. «A cinque anni e mezzo ho contratto
la poliomielite, fino al 2000 ho
camminato con il tutore, poi sono passata alla carrozzina. Nel
1963 ho cominciato con lo sport,
praticando nel tempo undici discipline diverse». Uber, invece,
ha scelto il tiro con l’arco. «Si
provava di tutto prima di scegliere. Ho sperimentato anche il
nuoto, ma alla fine sono diventato un arciere». Un arciere che,
dopo essersi messo alla prova
nelle varie competizioni nazionali e internazionali, è diventato
prima allenatore e poi commissario tecnico della Nazionale paralimpica.
Irene sembrava tagliata per la
competizione e ancora oggi pun-
zecchia Uber: «Tiravamo insieme di scherma, ma vincevo
sempre io». Lavorava e si allenava: aveva un impiego presso l’azienda dei telefoni di Stato, ma
soprattutto amava le sfide con
se stessa. Tiro con l’arco, atletica
leggera, scherma, tennis tavolo e
nuoto sono state solo alcune delle sue passioni. Che a fine carriera le hanno regalato una trentina
SuperAbile INAIL
di medaglie. «Ho tenuto a lungo
il record nel lancio del disco – ricorda –. Uber mi ha introdotto
nel mondo del tiro con l’arco, che
mi ha riservato grandi soddisfazioni. Ho gareggiato anche con i
normodotati. Poi sono passata al
compound, un tipo di arco molto
usato nei Giochi olimpici».
Nel 1999 Irene ha smesso di
praticare sport, mentre Uber ha
continuato ancora per un po’. Di
quella lunga fase della loro vita in
comune non restano però solo i
tanti riconoscimenti che rivestono le pareti di casa Sala. Rimane
anche la sensazione di aver costruito un patrimonio di esperienze condivise che cementano
un’unione durata quasi mezzo
secolo. E che rimane forte anche
oggi che la loro vita risente degli acciacchi dell’età. Da quando
Uber non guida più, trascorrono tanto tempo nel loro giardino pianeggiante e pieno di fiori.
La sera, specie d’inverno, guardano lo sport in tv: anche quello paralimpico, ma non solo. E
così, anche se le cose cambiano,
loro continuano a volersi bene.
«Lo sport ci ha dato un motivo di
spensieratezza», dice Uber. Sua
moglie lo guarda di sottecchi, e
questa volta lo sguardo tradisce
affetto piuttosto che ironia. [A.P.]
61 Agosto Settembre 2014
L’intervista. angela goggiamani
Malattie professionali:
un fenomeno da non sottovalutare
In aumento le denunce per le patologie di origine lavorativa: oggi
sono oltre 50mila, il doppio di cinque anni fa. Un’emergenza
“nascosta”, che può condizionare fortemente la vita dei lavoratori
«N
on esiste lavoro il quale, per
le condizioni in cui si effettua, non possa essere causa
di danno alla salute», scriveva nel diciassettesimo secolo Bernardino Ramazzini, il padre della medicina del
lavoro. E infatti non solo gli infortuni ma anche le malattie professionali
colpiscono i lavoratori: un fenomeno
che non sempre emerge nella sua evidenza, ma che può condizionare fortemente la vita di chi ne rimane vittima.
La dottoressa Angela Goggiamani attualmente è responsabile della Sovrintendenza sanitaria centrale dell’Inail e
da oltre 30 anni è impegnata sui temi
della medicina del lavoro, in qualità
di medico presso l’Istituto. Le abbiamo chiesto di aiutarci a fare luce su un
aspetto che, in forma lieve o grave, minaccia tutti i lavoratori.
Partiamo dai numeri: qual è oggi la situazione delle malattie professionali nel
nostro Paese?
Nel 2013 le denunce sono state circa
51.900, vale a dire circa 5.500 in più rispetto al 2012. Ma se si guarda al 2009
sono aumentate di poco più del 47%.
Inoltre il medesimo lavoratore può
essere colpito da più malattie professionali, per cui abbiamo circa 39.300
“ammalati”. Tuttavia, il fenomeno potrebbe essere sottostimato per molti motivi, tra cui il fatto che – viste
le problematiche della crisi del mondo del lavoro – i lavoratori potrebbero
evitare di denunciare l’insorgere della
patologia per paura di perdere la propria occupazione.
Questo il presente. Ma cosa accadeva
in passato?
Nel periodo dell’accellerazione
dell’industrializzazione post-bellica, quindi a partire dagli anni Cinquanta, l’Italia ha vissuto delle vere e
proprie epidemie di malattie professionali quali, per esempio, le silicosi,
le emopatie benzoliche, le ipoacusie
da rumore e il saturnismo, ovvero una
patologia causata dall’esposizione al
piombo. Negli anni Settanta, dunque,
si contavano circa 80mila denunce
l’anno, effetto di azioni di prevenzione non sufficientemente efficaci. Successivamente il quadro è cambiato per
l’intervento di nuovi fattori: da un lato, una maggiore prevenzione in ambito industriale; dall’altro, la riduzione
del confine tra la “fabbrica” e l’ambiente esterno. Ciò significa che l’aumento dei rischi extralavorativi, cioè
legati agli stili di vita, ha prodotto una
riduzione del confine tra il rischio
dell’ambiente di lavoro e il rischio
dell’ambiente di vita, producendo
una sorta di sommatoria degli effetti
di tali fattori sulla salute dei lavoratori. In questo senso, il caso dell’amianSuperAbile INAIL
62 Agosto Settembre 2014
to è emblematico: non si tratta più di
un problema legato solo alle patologie professionali a esso correlate, ma
è diventato un’emergenza ambientale.
Dopo averne vietato l’estrazione, l’utilizzo e la commercializzazione agli
inizi degli anni Novanta, a tutt’oggi
rimane il problema dello smaltimento, con ricadute anche sulla salute dei
non lavoratori.
Quali sono le patologie maggiormente invalidanti?
Sono sicuramente i tumori prima
causa di morte per malattia professionale nei lavoratori, ma anche alcune
patologie respiratorie per la loro ingravescente evoluzione. Esistono, tuttavia,
delle malattie all’apparenza “poco invalidanti”, ma in realtà con notevoli
ripercussioni rispetto all’attività svolta dal lavoratore. Pensiamo a un muratore con un’ernia discale: non si
tratta di una patologia di per sé generalmente grave sotto il profilo clinico,
ma questo lavoratore certamente avrà
grandi difficoltà a espletare i compiti
che normalmente è chiamato a svolgere. Occorre, dunque, invertire l’ottica e modificare l’ambiente di lavoro
non solo per prevenire il “danno”, ma
per adattarlo in maniera tale da permettere il proseguimento dell’attività
lavorativa a chi è portatore di una disabilità.
Vengono riconosciute anche patologie come lo stress e l’ansia?
Le malattie professionali di natura
psichica sono giunte alla nostra osservazione alla fine degli anni Novanta: il
caso ben noto riguardava alcuni lavoratori dell’Ilva sui quali venne operato
un vero e proprio “mobbing strategico”, al fine di portarli all’estromissione dalla azienda. A partire da questi
primi casi l’Inail ha intrapreso uno
studio approfondito su come l’organizzazione del lavoro possa incidere
sul benessere psicofisico dei lavoratori.
Tuttavia, dopo un periodo di boom, attualmente questo tipo di denunce sono circa 500 all’anno, con percentuali
di indennizzo mediamente di poco
inferiori al 10%. Ciò accade perché l’Istituto non riesce a trovare degli elementi oggettivi di prova sull’esistenza
di un rischio lavorativo per il riconoscimento della patologia. Si spera che
la valutazione dello stress lavoro-correlato negli ambienti di lavoro, così
come previsto dalla attuale normativa, sia uno strumento valido per prevenire tali malattie.
Esistono malattie invalidanti che colpiscono in primo luogo le lavoratrici?
La prima cosa da dire è che meno
di un terzo delle malattie professionali
denunciate riguardano il genere femminile. Se poi andiamo a guardare la
SuperAbile INAIL
63 Agosto Settembre 2014
tipologia di malattie professionali a
cui le donne sono più frequentemente
esposte, scopriamo che nella stragrande maggioranza dei casi (oltre l’85%)
sono malattie osteoarticolari e muscolo-tendinee, come tendiniti, sindromi
del tunnel carpale, patologie dei dischi intervertebrali. Quindi si tratta
di malattie che possono non essere di
per sé particolarmente invalidanti, ma
che possono comunque avere una forte ripercussione non solo nella vita lavorativa, ma anche in quella sociale e
familiare, visto che l’universo femminile costituisce un “capitale umano”
che si spende per la cura dei bambini, degli anziani e della casa. Va ricordato però che anche le donne vengono
colpite da malattie estremamente gravi: pensiamo per esempio alle vittime
dell’amianto dell’industria tessile.
Ci sono delle malattie emergenti che
possono essere sottovalutate?
Il caso dell’amianto ci ha insegnato che qualsiasi sostanza o qualsiasi
nuova tecnologia deve essere attentamente esaminata anche prima di essere impiegata. Oggi si parla molto di
nanotecnologie e si studiano attentamente le ripercussioni che potrebbero
avere sulla salute. È questa la lezione
che abbiamo appreso.
Si parla molto di reinserimento lavorativo dopo l’infortunio. E dopo la malattia professionale?
Dal punto di vista sanitario e normativo, infortuni sul lavoro e patologie professionali sono sullo stesso
piano. In realtà anche per queste malattie esiste un problema di ritorno al
lavoro: bisogna fare in modo che il rientro avvenga cercando di rimuovere
i fattori che hanno causato la patologia
e operando ogni intervento possibile
nell’adattamento dell’ambiente con
azioni riguardanti anche l’organizzazione del lavoro.
L’intervista. margherita caristi
Servizio sociale: dall’assistenza
all’autonomia degli infortunati
Figure centrali nel processo di reinserimento sociale e lavorativo, gli assistenti
sociali dell’Inail svolgono un ruolo di prima linea nella presa in carico.
Con una consapevolezza precisa: viene prima il progetto di vita, poi l’ausilio
O
ltre 100 figure su tutto il territorio nazionale, età media
45 anni, prevalentemente donne senza l’esclusione di alcuni uomini, ma soprattutto con un obiettivo
preciso: aiutare gli infortunati sul
lavoro a elaborare nuovi progetti
esistenziali, ritornando per quanto
possibile alle loro abitudini di vita
e di lavoro. È questo l’identikit degli assistenti sociali dell’Inail, figure chiave nel processo riabilitativo
delle persone che hanno subito
un incidente sul luogo di lavoro.
Abbiamo chiesto a Margherita Caristi, assistente sociale presso la Direzione Centrale Prestazioni Sanitarie
e Reinserimento, di spiegarci il ruolo, i compiti, le sfide di questa professione.
Come funziona il servizio sociale
dell’Inail?
Attualmente gli assistenti sociali sono 112 a fronte dei 139 previsti.
L’Istituto sta provvedendo, infatti,
all’assunzione delle figure mancanti sulla base delle graduatorie ancora attive dopo l’ultimo concorso. Si
tratta di figure collocate soprattutto
nelle diverse Sedi territoriali dell’Inail, nelle Direzioni regionali, nella
Direzione Centrale Prestazioni Sanitarie e Reinserimento e presso il
Centro protesi di Vigorso di Budrio
e la sua filiale di Roma.
Com’è cambiato negli anni il ruolo
dell’assistente sociale?
Si è modificato notevolmente non
solo in conformità all’evoluzione
delle normative di riferimento, ma
anche sulla base di una diversa prospettiva culturale che riguarda la
disabilità e che ha modificato sensibilmente approcci, strumenti e modalità. Oggi la questione della tutela
e dell’esigibilità dei diritti ha sostituito l’approccio di tipo assistenziale, che un tempo caratterizzava in
modo prevalente il sistema di welfare. Lo stesso Regolamento per l’erogazione agli invalidi del lavoro di
dispositivi tecnici e di interventi per
il reinserimento nella vita di relazione, emanato nel 2011, promuove il ritorno della persona nei propri ruoli
sociali. E questo ritorno deve essere attivo. Quindi non ci si limita
più ad assistere l’infortunato, ma
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64 Agosto Settembre 2014
si vuol fare in modo che la persona
possa gestire autonomamente la propria vita e progettarla secondo i propri desideri.
Un passaggio dall’assistenzialismo
all’autonomia, in altre parole...
Sì, perché se prima le modalità di
risposta erano soprattutto di natura
economica e assistenziale, oggi prevale un’ottica di erogazione di servizi ed elaborazione di progetti per la
persona. È un lavoro che va costruito dal basso e che deve nascere sia
da una concertazione territoriale, sia
da una volontà condivisa all’interno
dell’équipe multidisciplinare composta dall’assistente sociale, dal dirigente medico e dal responsabile
dell’area lavoratori.
A parte la relazione con gli assistiti,
esiste un rapporto con gli enti locali, le
strutture sanitarie e le organizzazioni
di promozione sociale dei territori?
Il rapporto col territorio fa parte del lavoro dell’assistente sociale,
che si occupa della persona all’interno del suo contesto di appartenenza. Questo rapporto si concretizza
soprattutto nella realizzazione di
progetti comuni e, in particolar modo, nelle azioni per il reinserimento sociale e lavorativo. Per esempio,
esistono raccordi con i Comuni laddove sono necessari interventi di sostegno e di assistenza domiciliare e
altri servizi necessari alla persona
e al suo nucleo familiare ma non di
competenza Inail. Inoltre importanti sinergie sono state stipulate con le
Province per quanto riguarda la predisposizione di tutti quegli interventi mirati a permettere la ricerca
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di un’occupazione più idonea. Anche con il Terzo settore, che spesso
è convenzionato con le Regioni, esistono relazioni di grande interesse e
ricchezza.
Quali sono le problematiche principali con cui si confronta il servizio sociale?
L’infortunio sul lavoro è un evento improvviso e traumatico, che
piomba nelle vite delle persone spezzando le loro attività quotidiane e i
loro progetti per il futuro. Si tratta
di un trauma sia per il diretto interessato che per la sua famiglia. Non
a caso il nuovo Regolamento, attualmente in fase di revisione, amplia
ai familiari la platea dei destinatari
degli interventi di sostegno. Inoltre
all’erogazione degli ausili e delle protesi, tradizionalmente di competenza dell’Istituto, sono state aggiunte
azioni di supporto e sostegno all’autonomia e al reinserimento nel contesto familiare, sociale e lavorativo.
Un altro aspetto fondamentale è poi
il rapporto di fiducia con l’assistente sociale, che spesso diventa il punto di riferimento sia degli utenti che
dei familiari. E questo è un motore
importantissimo: una relazione fiduciaria aumenta notevolmente le possibilità di realizzare nel concreto un
progetto di autonomia e di reinserimento sociale e lavorativo. [A.P.]
dulcis in fundo
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66 Agosto Settembre 2014
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