Profili interpretativi del licenziamento per giustificato motivo
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Profili interpretativi del licenziamento per giustificato motivo
Profili interpretativi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo tra vizi formali e obbligo di repêchage Alice Biagiotti FONTE Argomenti Dir. Lav., 2014, 3, 798 L’ordinanza in epigrafe concerne il caso di un lavoratore impiegato dal proprio datore nell’ambito di un appalto di servizi di pulizie e licenziato per risoluzione del contratto di appalto ad opera della società appaltante. Alla consegna della lettera di licenziamento il prestatore si era rifiutato di sottoscriverla e il giorno seguente, presentandosi sul luogo di lavoro, ne era stato allontanato. A fronte di ciò, il lavoratore decideva di impugnare il licenziamento in forza di una serie di motivi, tra cui quelli dell’esser stato irrogato in forma orale e dell’esser privo di un giustificato motivo oggettivo, non avendo la società datrice di lavoro provveduto a reimpiegarlo in una delle altre sedi, una volta cessato il contratto di appalto. Rimessa la questione davanti al Tribunale, il giudice di prime cure ha respinto il ricorso del prestatore sul presupposto che il rifiuto del lavoratore di ricevere l’atto scritto di recesso non costituisce vizio formale tale da inficiarne la legittimità. Ha altresì ritenuto, a fronte della violazione dell’onere di repêchage, l’insussistenza, sia pur non manifesta, degli estremi del giustificato motivo oggettivo, con applicazione della sola tutela economica ex art. 18, comma 5, Stat. Lav. L’ordinanza de qua induce ad un doppio ordine di considerazioni, emerse dalla formulazione del “nuovo” art. 18 Stat. Lav. Innanzitutto, si pone la questione se il rifiuto di ricevere la comunicazione di licenziamento possa determinarne l’illegittimità sul piano formale. La problematicità del quesito si pone a maggior ragione dopo l’introduzione del regime sanzionatorio dei vizi di forma di cui all’art. 18 Stat. Lav., come novellato dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, che ha stabilito “ la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, (...) quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro ” e la corresponsione di un risarcimento pari a tutte le mensilità che il prestatore avrebbe dovuto percepire dalla data del licenziamento fino a quella dell’effettiva reintegra e in ogni caso non inferiore a 5 mensilità. Pertanto, dopo la novella dell’art. 18 Stat. Lav., al lavoratore destinatario di un licenziamento intimato in forma orale non si applica più la tutela c.d. di diritto comune, ma quella, ben più rigida, prevista per il licenziamento nullo o illecito. Nel caso in esame, il giudice ha, anzitutto, sottolineato il principio civilistico secondo cui, essendo il licenziamento un atto unilaterale recettizio, esso si perfeziona nel momento in cui giunge nella sfera di conoscenza del destinatario, acquisendo in tal modo l’idoneità necessaria alla produzione dell’effetto voluto (in dottrina G. Giampiccolo, Dichiarazione recettizia, in Enc. Dir., vol. XXII, Milano, 1964, pag. 384 e segg.; L. Carraro, Dichiarazione recettizia, Noviss. Dig. It., vol. V, Torino, 1960, pag. 597 e segg.). Certo a tale principio non sembra che possa attribuirsi una validità assoluta dal momento che non esiste un obbligo o onere incondizionato del destinatario di ricevere comunicazioni, e in particolare, di accettare la consegna da parte di chicchessia e in qualunque situazione. (Cass. 5 novembre 2007, n. 23061, in Not. Giur. Lav., 2008, II, pag. 141 e segg.; Cass. 5 giugno 2001, n. 7620, in Mass. Giur. Lav., 2001, pag. 877 e segg., con nota di M. Papaleoni, Licenziamento: comunicazione, impugnazione, decadenza; S.C., a fronte del tentativo di consegna di una lettera di licenziamento, compiuto dal fattorino del datore di lavoro sulla strada pubblica nei pressi dell’abitazione della lavoratrice, ha ritenuto legittimo il rifiuto opposto dalla medesima). Ma nel caso concreto il giudice ha ritenuto che la comunicazione “inerisca” ad un rapporto contrattuale specie quello di lavoro subordinato, ove è riscontrabile una soggezione del prestatore al datore. In tale contesto sussiste in capo al lavoratore un vero e proprio obbligo di ricevere comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al quale egli è sottoposto (così come non può escludersi un obbligo di ascolto, e quindi anche di ricevere comunicazione, da parte dei superiori del lavoratore); mentre un obbligo analogo non sarebbe prospettabile al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro (Cass. 5 giugno 2001, n. 7620, in Riv. It. Dir. Lav., II, 2002, pagg. 145-146, con nota di M. Vincieri, Sull’obbligo di ricevere la comunicazione di licenziamento). La questione è controversa in dottrina: al riguardo, parte della dottrina sostiene infatti che i suddetti limiti di tempo e di spazio entro cui viene circoscritto il comportamento delle parti negoziali nello svolgimento del contratto, siano inammissibili se si considera che la consegna di una comunicazione di tal genere sia espressione di un diritto potestativo previsto a favore del datore (D. Frecchia, Comunicazioni tra datore e prestatore di lavoro: inerenza al vincolo contrattuale, estensione dell’obbligo di ricezione e problemi partici, in Giur. Piemontese, 2008, pagg. 317-333). E se si ammettessero tali delimitazioni, a sacrificarsi sarebbe l’obbligo di collaborazione, i cui effetti si produrrebbero al momento dello svolgimento della prestazione lavorativa. Ipotesi questa da respingersi, in quanto le obbligazioni che discendono dal rapporto di lavoro non possono esaurirsi all’interno dei limiti di spazio e di tempo. A sostegno del proprio convincimento, il giudice di primo grado ha invocato, altresì, il principio fondamentale, secondo cui il rifiuto di una prestazione o di un adempimento da parte del destinatario non possa risolversi a danno dell’obbligato, inficiandone l’adempimento. In questo senso, le norme sulla mora credendi prescrivono che il rifiuto dell’adempimento non possa nuocere al debitore. Ancora più chiaramente, tale principio è desumibile, sul piano sostanziale, dal combinato disposto degli artt. 1334 e 1335 Cod. Civ. i quali introducono la presunzione di conoscenza per cui gli atti si reputano conosciuti con il semplice arrivo all’indirizzo del destinatario, salvo che quest’ultimo dimostri di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne avuto conoscenza (Cass. 14 gennaio 2005, n. 689, in Impresa, 2005, pag. 686 e segg.; Cass. 19 gennaio 2005, n. 971, in Riv. It. Dir. Lav., 2005, II, pagg. 929-931, con nota di L. Vinciguerra, Sulla presunzione di conoscenza della comunicazione del licenziamento all’indirizzo indicato dal lavoratore ai fini della reperibilità; Cass. 23 dicembre 2002, n. 18272, in Riv. It. Dir. Lav., 2003, II, pagg. 616-619, con nota di A. Sitzia, Sulla comunicazione della lettera di licenziamento presso l’indirizzo fornito dal datore di lavoro per la reperibilità); con la conseguenza che diventa irrilevante il rifiuto di accettarli. Sul piano processuale, il medesimo principio è evocato dal comma 2 dell’art. 138 Cod. Proc. Civ., in base al quale, se il destinatario rifiuta di ricevere la notifica, questa si considera fatta a mani proprie. Dalla lettura congiunta delle norme citate deriva che il principio sopra enunciato si applica anche alla comunicazione di un atto recettizio, quale è il licenziamento; pertanto il rifiuto di ricevere l’atto scritto di recesso non impedisce che la relativa comunicazione sia avvenuta regolarmente (ex pluris, Cass. 18 settembre 2009, n. 20272, in Riv. It. Dir. Lav., 2010, II, pag. 349 e segg., con nota di D. Comandé, Prima di tutto l’ambiente di lavoro: giusta causa di licenziamento per i molestatori; Cass. 3 novembre 2008, n. 26390, in Riv. It. Dir. Lav., 2009, II, pag. 570 e segg., con nota di M. Borzaga, I recenti orientamenti della Cassazione con riguardo alla regolarità della comunicazione degli addebiti disciplinari alla legittimità del licenziamento conseguentemente irrogato; Cass. 12 novembre 1999, n. 12571, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2009, pag. 209 e segg., con nota di A. Ianniello, Ancora sul licenziamento dei dirigenti intermedi. Una svolta?; ibid., in Riv. It. Dir. Lav., 2000, II, pag. 746 e segg., con nota di L. Venditti, Recesso ad nutum e licenziamento del dirigente; ibid., in Mass. Giur. Lav., 2000, pag. 73 e segg., con nota di G. Gramiccia; Cass. 23 marzo 1981, n. 1671 in Foro It., 1981, I, col. 2762). Tuttavia, sul datore di lavoro incombe l’onore di provare l’avvenuta consegna dell’atto di licenziamento, utilizzando gli ordinari mezzi probatori (specificatamente mediante presunzioni, purché caratterizzate dai requisiti legali della gravità, concordanza e precisione cfr. Cass. 4 marzo 2003, n. 3195, in Guida Dir., 2003, pag. 447). Il che è dato per vero nel caso di specie, alla luce del fatto che i delegati del datore di lavoro avevano fatto presente per iscritto, che a fronte dell’esibizione della lettera di licenziamento il lavoratore aveva rifiutato di sottoscriverla. Rimane, tuttavia, da capire quale sia il fondamento di tale obbligo. Al riguardo, vengono richiamati, nella pronuncia che si annota, espressamente il potere direttivo e disciplinare cui è sottoposto il lavoratore, e il vincolo fiduciario. Per dottrina consolidata, il potere direttivo è inerente lo svolgimento dell’attività lavorativa, conformemente al contenuto dell’obbligazione di prestazione, che si costituisce, in virtù del contratto di lavoro, in capo al prestatore (M. Marazza, Sull’organizzazione di lavoro, Padova, 2002). A fronte di ciò, il soggetto passivo versa in una situazione giuridica di obbedienza, nel duplice senso di soggezione e obbedienza, strumentale all’attuazione del rapporto di lavoro (M. Grandi, Riflessione sul dovere di obbedienza nel rapporto di lavoro subordinato, in Arg. Dir. Lav., 2004, pagg. 724-748). Pertanto il richiamo del potere direttivo e disciplinare, volto a giustificare nel caso di specie una determinata condotta pretesa dal lavoratore, non è da considerarsi corretto, in quanto questi poteri sottostanno ad una logica meramente contrattuale (F. Santoro-Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1999, pagg. 199-200). Così come appare eccessivo “scomodare” il vincolo fiduciario, che viene leso solo nel momento in cui il lavoratore pone in essere comportamenti ingannevoli o fraudolenti nei confronti del datore (da ultimo Cass. 4 marzo 2014, n. 4983, in De Jure ha respinto il ricorso di un lavoratore avverso il licenziamento intimatogli, in quanto aveva timbrato il cartellino di un suo collega nonostante lo stesso si trovasse al di fuori del posto di lavoro). Piuttosto, un tale obbligo di collaborazione sarebbe esigibile dal parte del soggetto passivo in virtù dei criteri della buona fede (art. 1375 Cod. Civ.) e correttezza (art. 1175 Cod. Civ.). Tali regole presiedono non solo alla fase in cui si estrinseca la prestazione lavorativa ma accompagnano sempre il contratto (Cass. 18 ottobre 2004, n. 20399, in Guida Dir., 2008, pag. 59 e segg.), a titolo di clausole generali. A tal stregua, ciascuna parte del rapporto di lavoro, a prescindere da specifici obblighi contrattuali, e dal dovere generale del neminem ledere, si adopera per la realizzazione dell’interesse dell’altra, con il solo limite di non comportare un sacrificio rilevante a suo carico (in dottrina C.M. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. Dir. Civ., 1983, III, pagg. 205-216; M. Bessone, A. D’Amico, Buona fede, in Enc. Giur., Vol. V, Roma, pagg. 1-8; in giurisprudenza Cass. 18 ottobre 2004, n. 20399, in Guida Dir., 2004, pag. 44 e segg.; Cass. 5 novembre 1999, n. 12310, in Foro Padano, 2000, I, pag. 349 e segg.). Una volta respinta la richiesta di dichiarazione di inefficacia del licenziamento orale, il Tribunale è passato ad esaminare l’incidenza dell’obbligo di repêchage nella valutazione della legittimità del licenziamento. Preliminarmente occorre considerare se la cessazione di un appalto da parte di una società che gestisce servizi c.d. labour intensive (come quello di pulizie), giustifichi o meno il licenziamento, alla stessa stregua della cessazione di un’unità produttiva (sul tema si veda M. Aimo, D. Izzi (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, in Diritto del lavoro diretto da F. Carinci, Torino, 2014, pagg. 110-130). In caso affermativo, si pone il problema di qualificare l’atto di recesso, nel senso di individuarne la natura che può essere collettiva ai sensi dell’art. 24, l. n. 223 del 1991 o individuale per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3, l. n. 604 del 1966, tenuti conto i requisiti dimensionali, numerici, e temporali. Posto che ai fini della stabilità dei posti di lavoro, ogni cessazione d’appalto dovrebbe garantire il turn over dei lavoratori impiegati, la dottrina maggioritaria sostiene che il turn over del personale non costituisca un effetto fisiologico ed automatico nelle ipotesi di avvicendamento dell’appaltatore (F. Scarpelli, Cessazione degli appalti di servizi e licenziamenti collettivi, in Dir. Prat. Lav., 2001, pag. 2063 e segg.; secondo C. Buoncristiani, Forme di tutela del lavoratore ereditato nel cambio di gestione di appalti labour intensive, in Riv. It. Dir. Lav., 2007, II, pag. 179, “ la previsione di un licenziamento seguito da nuova assunzione serve soprattutto a negare un rapporto negoziale tra vecchio e nuovo appaltatore ”) e che pertanto trovino applicazioni le regole in materia di licenziamento. Di diverso avviso è chi ritiene (A. Vallebona, Successione nell’appalto e tutela dei posti di lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 1999, II, pagg. 217-221) che, in caso di riassunzione del lavoratore da parte di un nuovo aggiudicatario dell’appalto, il contratto di lavoro con il precedente datore sia da ritenersi estinto per risoluzione consensuale. Ma si tratta di ipotesi in cui non si pone il problema se licenziare o meno quei lavoratori non più ricollocabili nella nuova organizzazione, in quanto la continuità dell’occupazione viene garantita dalla tutela legale dell’appaltatore subentrante che va a sostituirsi a quella dell’imprenditore uscente (M.T. Carinci, Gli appalti nel settore privato, in Dir. Merc. Lav., 2006, pagg. 441-442). Al riguardo è intervenuto anche l’organo ministeriale, con l’interpello del 1 agosto del 2001, n. 22, affermando che i licenziamenti avvenuti a seguito della cessazione di un appalto si configurano come licenziamenti individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo, sottratti, pertanto, alla disciplina prevista dalla l. n. 223 del 1991 e dunque a qualsiasi procedura di consultazione sindacale. La Suprema Corte ha smentito fermamente tale posizione, sostenendo la diversità tra le due tipologie di licenziamenti (per g.m.o. e collettivo) solo da un punto di vista meramente quantitativo e non qualitativo, precisando che “ i due tipi di recesso si distinguono non per la diversa tipologia delle ragioni di impresa addotte, ma per il numero di lavoratori impiegati ” (Cass. 22 aprile 2002, n. 5828, in Mass. Giur. Lav., 2002, pag. 695; Cass. 26 aprile 1996, n. 3896, in Mass. Giur. Lav., 1996, pag. 633). Da ultimo, la legge Fornero (art. 2, comma 31, così come modificato dall’art. 31, comma 250, della legge di stabilità 2013) ha previsto che nel caso di licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appaltatori ai quali hanno fatto seguito assunzioni per effetto di clausole sociali, non è dovuto al datore di lavoro il contributo per interruzione dei rapporti a tempo indeterminato a decorrere dal 1 gennaio 2013. Pertanto in mancanza di una disciplina ad hoc, e a prescindere dai casi in cui vi sia un trasferimento d’azienda, per cui si applicano le tutele di cui all’art. 2112 Cod. Civ., o nel caso di clausole di riassorbimento che prevedono la riassunzione dei lavoratori presso il nuovo appaltatore, rimane comunque irrisolto il problema del mantenimento dell’occupazione. Valutato che la cessazione di appalto costituisce valido motivo di recesso, come considerare l’obbligo di repêchage? La rilevazione del giustificato motivo oggettivo (secondo l’art. 3 della l. n. 604 del 1966, le “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”) rimanda necessariamente alla valutazione delle esigenze aziendali, da intendersi come esigenze ispirate a criteri oggettivi di ordinato svolgimento dell’attività economica (cfr. M. Napoli, La stabilità reale del rapporto, 1980, Milano, pag. 303) che devono effettivamente sussistere e come tali comportare la soppressione del posto di lavoro. Il che implica una verifica giudiziale della sola veridicità e non pretestuosità del riassetto organizzativo divisato (cfr. recentemente App. Roma, 8 novembre 2012 in Lav. Giur., 2013, pag. 22; e in senso analogo anche Trib. Milano 19 febbraio 2008, in Lav. Giur., 2008, pag. 960; App. Roma 13 settembre 2006, in Pluris) escluso il controllo giudiziale circa l’opportunità delle scelte tecnico – organizzative, che sono rimesse alla mera valutazione del datore di lavoro, in quanto espressione della sua libertà di iniziativa economica privata ex art. 41 Cost. In questa direzione, l’art. 30 della l. n. 183 del 2010 (c.d. Collegato lavoro), ha ribadito che “ il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente ” (corsivo mio). Un tale controllo si tradurrebbe anche in una violazione delle norme di diritto, come tale ricorribile in Cassazione (art. 30, comma 1, della l. 4 novembre 2010, n. 183, così come modificato dall’art. 1, comma 43, della l. 28 giugno 2012, n. 92). Ciò detto, resta che il datore di lavoro ha l’onere di provare in giudizio l’insussistenza, al momento del licenziamento di alcuna posizione di lavoro utile, cui adibire il lavoratore per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle che svolgeva in precedenza o, in mancanza, anche inferiori, col solo limite del rispetto della dignità del prestatore (cfr. Cass. 15 marzo 2012, n. 7515, in Riv. It. Dir. Lav., II, 2013, pag. 67; Cass. 13 giugno 2012, n. 9656, in Riv. It. Dir. Lav., II, 2013, pagg. 67-72, con nota di M. Falsone, Sul c.d. obbligo di repêchage la “dequalificazione contrattata”; Cass. 18 marzo 2009, n. 6552, in Arg, Dir. Lav., pag. 1176 e segg., con nota di E. Villa, La “tensione” tra inderogabilità dell’articolo 2103 Cod. Civ. ed il patto di demansionamento come alternativa al licenziamento; Cass. 5 aprile 2007, n. 8596, in Dir. Prat. Lav., 2008, pag. 1424 e segg.). Tale onere è solo parzialmente compensato da quello in carico al lavoratore di dimostrare la possibilità di un suo reimpiego all’interno dell’azienda (Cass. 16 giugno 2000, n. 8207, in Orient. Giur. Lav., 2000, pag. 907 e segg.). In base a questa ricostruzione, è acquis giurisprudenziale considerare l’obbligo di repêchage insito nella prova del giustificato motivo oggettivo, il che equivale a collocare il licenziamento economico nell’area dei comportamenti datoriali costituenti una extrema ratio (da ultimo dopo la l. n. 92 del 2012, Trib. Chieti 9 gennaio 2013, Trib. Taranto 16 gennaio 2013, Trib. Brindisi 28 febbraio 2013, pubblicate in M. Barbieri, D. Dalfino, Il licenziamento individuale nell’interpretazione della legge Fornero, Bari, 2013, rispettivamente pagg. 149, 215, 146). La questione del collegamento tra l’obbligo di repêchage e la sussistenza del motivo di licenziamento economico (o per g.m.o.), fa allora perno nell’interpretazione del c.d “fatto” posto a base del licenziamento. Se si parte dall’assunto secondo cui il repêchage è “ un attributo normativo sostanziale nella definizione di giustificato motivo oggettivo ” (Trib. Reggio Calabria 3 giugno 2013, cit., in V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra law and economics e giurisprudenza, in WP C.S.D.L.E “Massimo D’Antona”.IT – 190/ 2013, pag. 43), il “fatto” del licenziamento non può essere distinto dalla valutazione e connotazione giuridica del fatto stesso, secondo quella corrente dottrinale che riconduce tutti i requisiti del giustificato motivo oggettivo (s’intende quelli richiesti dall’art. 3 della l. n. 604 del 1966) all’espressione utilizzata dal legislatore al comma 7 dell’art. 18 Stat. Lav. (così in dottrina C. Ponterio, Il licenziamento per motivi economici, in Arg. Dir. Lav., 2013, pag. 73 e segg.; V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra law and economics e giurisprudenza, in WP C.S.D.L.E “Massimo D’Antona”.IT – 190/ 2013; A. Perulli, Fatto e valutazione giuridica del fatto nella nuova disciplina dell’art. 18 St. lav. Ratio ed aporie dei concetti normativi, in Arg. Dir. Lav., 2012, pag. 800 e segg.). Ne deriva nel caso di specie, che il datore di lavoro non può limitarsi ad addurre la scadenza dell’appalto quale giustificato motivo oggettivo (la prova della perdita di appalto non è sufficiente a concretare g.m.o, ma deve essere accompagnata dalla mancata conclusione o mancato rinnovo di altri contratti, cfr. Cass. 26 luglio 2004, n. 14034, in Oss. Giur. Lav., 2004, I, pag. 678 e segg.) ove non abbia provveduto ad adempiere all’obbligo di riutilizzare il lavoratore. Il fatto sarebbe insussistente anche eventualmente in modo manifesto. Se invece il “fatto” addotto al licenziamento lo si interpreta nella sua nuda materialità, ovvero con quello indicato esplicitamente dal datore di lavoro nella comunicazione del recesso, coincidente, nel caso sottoposto alla nostra attenzione, alla cessazione dell’appalto a cui era adibito il lavoratore licenziato (cfr. A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 Statuto dei lavoratori, in Riv. It. Dir. Lav., 2012, I, pag. 416 e segg.; M. Ferraresi, Il licenziamento per motivi oggettivi in M. Magnani, M. Tiraboschi (a cura di), La nuova riforma del lavoro – Commentario alla legge 28 giugno 2012, n. 92 recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, Milano, 2012, pag. 256 e segg.; S. Brun, Le prime applicazioni del “nuovo” art. 18 Stat. Lav. al licenziamento economico, in Arg. Dir. Lav., 2013, pag. 158 e segg.; M. Marazza, L’art. 18, nuovo testo dello Statuto dei lavoratori, in Arg. Dir. Lav., 2012, pag. 628 e segg.; P. Tullini, Riforma della disciplina dei licenziamenti e nuovo modello giudiziale di controllo, in Riv. It. Dir. Lav., I, pag. 147 e segg.), il fatto sussiste ed è certo. E nonostante sia stato violato l’obbligo di “ripescaggio” saremmo comunque al cospetto di un licenziamento illegittimo ma per insussistenza non manifesta del g.m.o., con applicazione al lavoratore della sola tutela indennitaria. A corroborare tale interpretazione sono due pronunce di primo grado, una del Tribunale di Milano del 20 novembre 2012 (si tratta di licenziamento per cessazione dell’appalto presso cui il lavoratore licenziato prestava la sua opera, in Lav. Giur., 2013, pag. 581 e segg., con nota di D. Zanetto, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repechage dopo la Riforma Fornero; in Riv. It. Dir. Lav., 2013, II, pag. 657 e segg. con nota di C. Zoli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo tra reintegra e tutela indennitaria) e l’altra del Tribunale di Milano del 29 marzo 2013 (riguarda l’ipotesi di un licenziamento per avvenuta esternalizzazione del servizio aziendale in cui era impiegata una lavoratrice, in Boll. Adapt., n. 21 del 2013), le quali, in controtendenza, hanno ritenuto che l’obbligo di repêchage “ esuli propriamente dal fatto posto a fondamento del licenziamento ” costituendone, in verità, una “ conseguenza ” (dello stesso avviso in dottrina cfr. G. Santoro Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo e l’ambito della tutela risarcitoria, in Arg. Dir. Lav., 2013, pag. 237 e segg.; e in giurisprudenza Trib. Varese 4 settembre 2013, in Foro It., 2013, I, col. 3333). Questo ordine di ragionamento ha sorretto anche la sentenza che si annota, dal momento che il giudice ha ribadito come la prova del repêchage da parte del datore di lavoro non faccia parte della valutazione relativa alla sussistenza del fatto posto a base del licenziamento. E nel caso in cui essa si riveli infruttuosa, il rimedio è quello di un mero risarcimento omnicomprensivo tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità, tenuto conto dei criteri di cui all’art. 8, legge n. 604 del 1966, nonché “delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di conciliazione obbligatoria di cui all’art. 7 della legge n. 604 del 1966” (art. 18, comma 7, Stat. Lav.). Inoltre, la prova del repêchage è correttamente assolta solo quando la dimostrazione circa l’esistenza di altri posti di lavori liberi si estenda a tutte le sedi e unità produttive in cui è dislocata l’attività lavorativa, investendo l’azienda nella sua totalità (cfr. Cass. 4 settembre 1997, n. 8505, in Dir. Lav., 1998, II, pag. 178). Nel caso di specie, la società convenuta, pur avendo altre sedi di lavoro, dislocate sul territorio italiano, non ha proceduto ad una verifica esaustiva del suo onere probatorio, limitandosi ad affermare che non esistevano altre pozioni disponibili nel sol luogo in cui era ubicata una delle sedi di lavoro, quella appunto dove il ricorrente prestava la sua opera. Alla fine di questa disamina si può convenire come il c.d. repêchage abbia perso quella “incrostazione paternalistica” (F. Carinci, Ripensando il “nuovo” art. 18, in Dir. Rel. Ind., I, 2013, pag. 331 e segg.) affibbiatali dalla giurisprudenza, che lo ha identificato come elemento costitutivo della fattispecie del giustificato motivo oggettivo. Piuttosto, il ripescaggio viene letto in una prospettiva che privilegia l’oggetto dello scambio negoziale (U. Gargiulo, Il licenziamento “economico” alla luce del novellato articolo 18, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 203/2014, pag. 32). Ciò significa che il licenziamento è valido nella misura in cui il datore di lavoro decida di non volere utilizzare la professionalità di quel lavoratore, in quanto essa non è più in grado di soddisfare gli interessi della sua nuova realtà aziendale. La sua inosservanza, infatti, viene ricondotta ora nell’ambito dell’insussistenza “semplice” del fatto giustificativo del recesso, e non in quella “manifesta”, prevedendosi all’uopo tutele sanzionatorie di intensità differenti. Nell’attuare la l. n. 92 del 2012 la pronuncia dà atto della portata applicativa della riforma sotto la prospettiva in base alla quale la reintegrazione cessa di essere l’unica soluzione al licenziamento invalido, costituendo solo “uno” dei possibili rimedi, la cui applicazione è rimessa peraltro, alla decisione discrezionale del giudice.