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Ci sono strumenti per impedire o ostacolare le
Convegno Indicam “Liberalizzazione dei mercati e importazioni parallele: ragioni economiche e questioni giuridiche” 2 ottobre 2002 Ci sono strumenti per impedire o ostacolare le importazioni parallele intracomunitarie? Prof. Avv. Luigi Mansani Università di Parma - Lovells Studio Legale, Milano Anche se residua qualche dubbio in ordine all'efficacia di previsioni contrattuali tendenti a disciplinare la condotta dei licenziatari stranieri, la più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia CE appare avere definitivamente risolto la questione dell'illiceità delle importazioni parallele di prodotti di marca da Paesi extracomunitari, affermando a più riprese i seguenti principi: (a) il titolare del marchio o un suo licenziatario possono legittimamente opporsi, facendo leva sui diritti di marchio, alle importazioni parallele da Paesi extracomunitari, anche ove i prodotti siano stati immessi per la prima volta sul mercato con il consenso del titolare del marchio; (b) negli ordinamenti nazionali dei Paesi membri non è possibile introdurre regole nazionali o applicare principi giurisprudenziali che facciano leva sul principio dell'esaurimento internazionale dei diritti di marchio, in quanto simili regole o principi si tradurrebbero in una violazione del principio di libera circolazione intracomunitaria delle merci. A fronte di una simile situazione, che appare destinata a perdurare fino a quando non siano stipulati dall'Unione Europea accordi bilaterali o multilaterali (ad esempio in seno al WTO) di portata diversa, può porsi la questione se le importazioni parallele intracomunitarie dei prodotti di marca siano sempre lecite, o se invece il titolare del marchio (o il suo licenziatario locale) dispongano di strumenti idonei ad impedirle o ostacolarle, facendo leva sulla legge marchi o sulla disciplina della concorrenza sleale, in particolare quando le caratteristiche dei prodotti importati siano difformi da quelle dei prodotti abitualmente diffusi con lo stesso marchio nel mercato d'importazione. La questione sembrerebbe essere stata risolta in senso negativo dalla Corte di Giustizia nella sentenza Ideal-Standard del 22 giugno 1994, ai punti 37 e ss. della cui motivazione è detto: -2- “nell’ipotesi della licenza, il concedente ha la possibilità di controllare la qualità dei prodotti del licenziatario, inserendo nel contratto clausole che impongano il rispetto delle sue istruzioni e gli conferiscano la facoltà di sincerarsene. La provenienza che il marchio è volto a garantire è la medesima: essa non è definita dal fabbricante bensì dal centro di gestione della produzione. Va ancora sottolineato che l’elemento determinante è costituito dalla possibilità di un controllo sulla qualità dei prodotti e non dall'esercizio effettivo del controllo. Pertanto una legge nazionale che consentisse al licenziante di avvalersi della cattiva qualità dei prodotti del licenziatario per opporsi alla loro importazione dovrebbe essere disapplicata in quanto contraria agli artt. 30 e 36: se il licenziante tollera la fabbricazione di prodotti di cattiva qualità mentre ha i mezzi contrattuali per evitarlo, deve assumersene la responsabilità. Parimenti, se la fabbricazione dei prodotti è decentralizzata all’interno del medesimo gruppo societario e le consociate stabilite in ogni Stato membro fabbricano prodotti la cui qualità corrisponde alle specificità di ogni mercato nazionale, la legge nazionale che consentisse a una società del gruppo di invocare queste differenze di qualità per opporsi nel suo territorio alla distribuzione di prodotti fabbricati da una consociata, andrebbe anch’essa disapplicata. Gli artt. 30 e 36 impongono che il gruppo subisca le conseguenze della sua scelta. Gli artt. 30 e 36 ostano pertanto all’applicazione di leggi nazionali che consentano di avvalersi del diritto di marchio per impedire la libera circolazione di un prodotto contrassegnato da un marchio il cui uso è soggetto a controllo unico”. Quest'affermazione, che costituisce un'applicazione molto rigorosa del principio dell'esaurimento (in tempi successivi alla sentenza espressamente enunciato dagli artt. 7.1 della Direttiva e 13.1. del Regolamento), deve tuttavia essere delimitata nella sua effettiva portata, in due diverse prospettive: (a) l'art. 7.2 della Direttiva e l'art. 13.2 del Regolamento stabiliscono che “il paragrafo 1 non si applica quando sussistono motivi legittimi perché il titolare si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato dei prodotti è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio”; (b) l'affermazione conclusiva della Corte di Giustizia nel punto sopra riportato della sentenza Ideal-Standard è, come si è visto, che "gli artt. 30 e 36 ostano all’applicazione di leggi nazionali che consentano di avvalersi del diritto di marchio per impedire la libera circolazione di un prodotto contrassegnato da un marchio il cui uso è soggetto a controllo unico", rendendo chiaro che principi diversi possono valere in relazione a normative nazionali differenti da quelle in tema di marchi. Esiste dunque la possibilità per il titolare del marchio, in certe ipotesi, di opporsi legittimamente all'importazione parallela intracomunitaria di -3- prodotti di marca, facendo leva sia sulle norme nazionali introdotte in applicazione dell'art. 7.2 della Direttiva, sia su normative diverse (come ad esempio quelle sulla concorrenza sleale o la pubblicità ingannevole). I due casi possono essere esaminati separatamente. Opposizione in base al diritto di marchio Nella sua giurisprudenza relativa soprattutto alle importazioni parallele di medicinali riconfezionati o rietichettati, la Corte di Giustizia ha individuato una serie di casi costituenti motivi legittimi di opposizione alle importazioni parallele intracomunitarie: (a) ove lo stato originario del prodotto sia modificato o alterato; (b) ove la presentazione del prodotto riconfezionato o rietichettato sia tale da poter nuocere alla reputazione del marchio o del suo titolare, in particolare ove la confezione o la rietichettatura siano difettose, di cattiva qualità o inadeguate; (c) ove la persona che effettua il riconfezionamento o la rietichettatura, ovvero l'importatore, non ne abbia avvertito il titolare del marchio prima della messa in commercio dei prodotti riconfezionati o rietichettati. Nella sentenza relativa al caso Dior, la Corte di Giustizia si è poi occupata dei motivi legittimi di opposizione all'importazione diversi dall'alterazione dello stato fisico del prodotto, ribadendo il principio secondo cui il pregiudizio arrecato alla reputazione del marchio, essendo connesso all’oggetto specifico del diritto di marchio, può costituire un motivo legittimo, e stabilendo che ove i prodotti importati siano “di lusso e di prestigio”, sull'importatore parallelo che reclamizza i prodotti importati grava l’onere di “adoperarsi per evitare che la sua pubblicità comprometta il valore del marchio, danneggiando lo stile e l’immagine di prestigio dei prodotti in oggetto nonché l’aura di lusso che li circonda". Questo principio, che dovrà essere compiutamente elaborato dalla Corte di Giustizia (che peraltro non ha ancora sufficientemente chiarito l'effettiva portata delle disposizioni che assicurano protezione alla reputazione del marchio), sembra offrire interessanti prospettive di protezione per l'industria di marca. In particolare, esso potrebbe costituire la premessa per l'affermazione, da parte degli organi comunitari, di un principio di portata più generale, secondo il quale costituisce motivo legittimo di opposizione all'importazione il fatto che lo stato anche "immateriale", e non solo fisico, del prodotto sia stato modificato o alterato dopo la sua prima messa in commercio, così da ledere la reputazione del marchio o del suo titolare. Un simile principio consentirebbe ad esempio di ritenere illecite comunicazioni pubblicitarie o modalità di commercializzazione non conformi agli standard di qualità seguiti dal titolare del marchio. -4- Opposizione in base alla disciplina della concorrenza sleale Nelle ipotesi di difformità qualitative dei prodotti importati rispetto a quelli usualmente distribuiti sul mercato del Paese di importazione che non dipendano da modifiche dello stato originario del prodotto, ma da scelte del titolare o dei licenziatari locali, l’illiceità della condotta appare risiedere non tanto nell’uso del marchio (che, venendo effettuato su prodotti non modificati o alterati rispetto al loro stato originario, risulta in sé considerato legittimo), quanto piuttosto nella mancata segnalazione delle difformità qualitative dei prodotti e nel conseguente inganno che può crearsi al riguardo nel pubblico. Si tratta dunque essenzialmente di un illecito concorrenziale, che può essere represso attraverso l’applicazione sia delle norme nazionali in materia di concorrenza sleale sia, in Italia, in base all’art. 11 l. marchi nonché, ove i prodotti importati siano stati realizzati da un licenziatario, agli artt. 15.2 e 15.4 l. marchi. Al sesto considerando premesso alla Direttiva si afferma d’altro canto che “la presente direttiva non esclude che siano applicate ai marchi d’impresa norme del diritto degli Stati membri diverse dalle norme del diritto dei marchi di impresa, come le disposizioni sulla concorrenza sleale, la responsabilità civile o la tutela dei consumatori”. Ed anche la Corte di Giustizia, in una sentenza precedente l’emanazione della versione definitiva della Direttiva (C. Giust. CEE, 25 novembre 1971, relativa al caso Béguelin), ha chiaramente stabilito che “il diritto comunitario non ha, in linea di principio, l’effetto d’impedire l’applicazione, in uno Stato membro, alle merci importate da altri Stati membri, delle norme in materia di commercio vigenti nello Stato d’importazione. Ne consegue che la distribuzione delle merci importate può essere vietata quando le condizioni in cui la loro messa in vendita viene attuata costituiscono una trasgressione degli usi commerciali ritenuti corretti e leali nello Stato membro d’importazione”. La condotta dell’importatore che non segnali adeguatamente l’esistenza di significative differenze, idonee a trarre in inganno il pubblico, fra i prodotti da lui posti in commercio e quelli venduti nel Paese d’importazione dal titolare del marchio potrebbe dunque essere ritenuta concorrenzialmente illecita, sempre che quelle differenze non risultino essere state attuate al fine di isolare artificiosamente i mercati nazionali nell’ambito della Comunità o comunque di ostacolare la libera circolazione intracomunitaria delle merci. Le modalità attraverso le quali l’onere di informazione di cui si è detto può essere assolto andranno determinate caso per caso dai giudici nazionali, -5- tenendo conto dei principi generali elaborati dalla Corte di Giustizia, fra i quali merita di essere menzionato quello, espresso nella sentenza C-362/88 del 7 marzo 1990 (GB-INNO-BM), secondo cui "il diritto comunitario in materia di protezione dei consumatori considera l’informazione di questi ultimi come una delle esigenze principali”. Può infine aggiungersi che le ampie nozioni di pubblicità e di pubblicità ingannevole di cui rispettivamente agli artt. 2.1) e 2.2) della Direttiva n. 84/450/CEE e l’elevato numero di criteri, indicati al successivo art. 3 di quella Direttiva, sulla scorta dei quali può essere accertata l’ingannevolezza della pubblicità, potrebbero far ritenere che la mancata indicazione, sulla confezione del prodotto importato o nelle comunicazioni che lo riguardano, di informazioni in grado di condizionare in modo rilevante le scelte d’acquisto del pubblico, costituisca anche una forma di pubblicità ingannevole.