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Ribelli e briganti di Toscana
Sandro Matteoni Ribelli e briganti di Toscana Insorgenze e brigantaggio nella storia e nella cultura popolare Le Lettere Sommario Introduzione ......................................................................... p. 9 Parte prima Briganti e ribelli 1. 2. 3. 4. 5. Le campagne toscane tra Settecento e Ottocento ........ I moti contro le Riforme Leopoldine ............................ Le insorgenze anti giacobine: il Viva Maria! ................. La Toscana napoleonica: renitenti e briganti ................ Briganti, e malcontento popolare nella Toscana della Restaurazione e dopo l’Unità ............................... » » » » 19 36 55 75 » 92 » » » » » » » 101 107 119 132 143 155 165 Parte seconda Storie e personaggi: figure di briganti e malfattori in Toscana 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. Uomini e personaggi di un dramma ............................. Il brigante Orcino .......................................................... Federigo Bobini detto Gnicche ..................................... I condannati di Lucca .................................................... Enrico Stoppa detto Righetto ........................................ Fortunato Ansuini: il Re di San magno ......................... Domenico Tiburzi .......................................................... Parte terza L’epopea del brigantaggio nei versi dei cantastorie e nella cultura popolare 13. Il brigantaggio nella cultura popolare toscana............. » 179 14. La storia di Federigo Bobini detto Gnicche nei versi di Giovanni Fantoni ....................................................... p. 183 15. Storia dell’assassino Stoppa, che morì nel carcere delle Murate di Firenze. Del Cirri di Poggio a Caiano ... » 194 16. Domenico Tiburzi celebre bandito. Di Quintilio Cosimi ............................................................................. » 202 17. La poesia del brigante nei versi dell’Anonimo Valentano ........................................................................ » 216 Bibliografia essenziale .......................................................... » 219 2. I moti contro le Riforme Leopoldine Il grande mutamento penetrò in Toscana con l’arrivo del nuovo granduca, Pietro Leopoldo, figlio secondogenito di Francesco I che nel 1765 gli successe sul trono di Toscana. A differenza del genitore, che quasi non si era mosso da Vienna, il nuovo sovrano decise di risiedere nel Granducato dove da subito prese molto sul serio il suo compito di governante, intraprendendo un tentativo di riforma del sistema economico, amministrativo, giuridico e persino religioso dello Stato. Nonostante le buone intenzioni del giovane granduca – quando salì al trono Pietro Leopoldo aveva solamente diciotto anni – e alcuni successi di fondamentale importanza come l’abolizione della pena di morte, non più prevista dal nuovo codice penale del 1786, non ottenne, nel suo complesso, tutti i risultati sperati. Formatosi nel clima di grande fermento intellettuale e di rinnovamento che aveva permeato il regno di sua madre l’imperatrice Maria Teresa d’Austria e che era quindi esploso nel corso di quello di suo fratello maggiore Giuseppe II, il neo-granduca si rese conto, Stemma dei Lorena. 36 Stemma del Granducato. I moti contro le Riforme Leopoldine appena giunto in Toscana, che si trovava nella situazione ideale per mostrare come un sovrano illuminato alla guida di uno Stato pacifico, ordinato e ricco potesse dare inizio a un processo che cambiasse, in modo progressivo, abitudini secolari, che bloccavano lo sviluppo delle società limitandone la crescita e mantenendo in vita antiche disuguaglianze e ingiustizie, superate le quali si poteva perseguire adeguatamente il fine del bene comune e del moderno sviluppo sociale. Forte di queste convinzioni il giovane sovrano, dopo essersi ambientato alla nuova realtà che gli era toccata in sorte, si mise subito all’opera. Le riforme amministrative e istituzionali La riforma amministrativa e istituzionale del Granducato di Toscana, iniziata da Pietro Leopoldo nel 1771, vale a dire sei anni dopo essere salito sul trono, fu un momento di grande importanza nel quadro dell’opera generale di riforma dello Stato, della società e dell’economia promossa dal giovane granduca. Così come nel campo economico l’opera riformatrice Leopoldina mirava a liberalizzare l’iniziativa privata, favorendo il flusso e la circolazione dei capitali, abolendo antichi vincoli e restrizioni, assieme ad anacronistici dazi e privilegi, così nell’assetto dello Stato il granduca si pose l’obiettivo di far convivere uno Stato moderno dal punto di vista amministrativo con momenti di decentramento del potere e ampliamento delle libertà. Si tentò quindi di introdurre una forma di autogoverno, cercando anche di favorire la partecipazione politica alla gestione dello Stato. Il pensiero e l’attività politica di Pietro Leopoldo si ponevano al di là dei limiti del riformismo illuminato, e si potrebbe dire che giungevano persino ad anticipare quelle che saranno le prime costituzioni liberali dell’Ottocento. E infatti il complesso di riforme amministrative doveva, nei progetti del granduca, trovare compimento e organicità in un vero e pro37 Briganti e ribelli Pietro Leopoldo granduca di Toscana (a sinistra) e il fratello Giuseppe II in un dipinto di Pompeo Batoni. prio progetto di Costituzione. Ma l’idea era forse davvero troppo in anticipo sui tempi e il programma fu alla fine accantonato. La riforma amministrativa era comunque resa necessaria dell’organizzazione irrazionale e anacronistica del territorio granducale, al cui interno sopravvivevano antichi usi e ordinamenti legislativi e amministrativi precedenti all’unificazione medicea del territorio e 38 I moti contro le Riforme Leopoldine qualche volta addirittura alla stessa conquista fiorentina dei secoli XIV e XV. Nel disegno di Pietro Leopoldo il mutamento amministrativo e istituzionale, doveva collegarsi necessariamente a una trasformazione della struttura economica delle campagne, che perseguiva l’obiettivo della formazione di un ceto diffuso di piccoli e medi proprietari, che avrebbero dovuto costituire il perno dello sviluppo economico e civile dello Stato offrendo, allo stesso tempo, legittimazione e base sociale alle riforme amministrative. Dal 1771 al 1786 venne quindi elaborata una riforma municipale, che doveva portare all’abrogazione delle antiche e spesso anacronistiche istituzioni locali e alla progressiva estensione alle province toscane dei nuovi consigli generali e delle rispettive magistrature. Per mezzo di questa riforma, iniziata all’interno della comunità di Arezzo e culminata in quella di Siena, Pietro Leopoldo tentava una ridistribuzione di alcuni fondamentali poteri dello Stato, decentrando importanti competenze verso forme di autogoverno locale, prima tra le quali quella delicata e fondamentale della riscossione e ripartizione delle imposte. Nel disegno leopoldino organi fondamentali dell’amministrazione locale erano il Magistrato Comunitativo e il Consiglio Generale. Il primo era una magistratura non elettiva, composta da un gonfaloniere e da un numero variabile di priori che venivano estratti a sorte fra i proprietari di beni, che disponevano di fondi sufficienti a pagare una certa cifra di decima o di tassazione corrispondente. Era al Magistrato Comunitativo che di fatto competeva l’effettiva amministrazione delle comunità. Nel Consiglio Generale sedevano, oltre ai membri del Magistrato Comunitativo, anche i rappresentanti dei possidenti e i contadini, che nel progetto di riforma economica granducale avrebbero dovuto trasformarsi in piccoli proprietari. Anche se i poteri del Consiglio Generale erano in realtà piuttosto limitati, come la la nomina dei medici e chirurghi condotti, la designazione degli impiegati, la valutazione del loro stipendio e cose simili, l’idea di una magi39 Briganti e ribelli stratura gestionale aperta anche a strati relativamente bassi della popolazione era, per i tempi, decisamente all’avanguardia. Il numero dei componenti del Magistrato e del Consiglio variava da luogo a luogo, ma il fatto che i regolamenti fossero analoghi per le varie parti del Granducato superava nei fatti le numerose irrazionalità dell’amministrazione medicea. Il coordinamento tra il centro e la periferia doveva essere assicurato dalla cosiddetta Camera delle Comunità e da un cancelliere comunitativo di nomina centrale e attivo all’interno di ogni comunità. Il progetto di un’architettura istituzionale decentrata fu di fatto smantellato nel corso del XIX secolo, quando dopo l’esperienza accentratrice del periodo napoleonico, il controllo centralistico tornò a essere sempre più forte anche in Toscana. Le riforme ecclesiastiche Quando il granduca prese possesso del trono toscano trovò «gli affari ecclesiastici in generale con grandissima dipendenza e relazione colla Corte di Roma». Questa dipendenza di Firenze rispetto a Roma si era particolarmente allargata e rafforzata nel periodo mediceo durante il quale, peraltro, ben due membri della famiglia granducale erano potuti ascendere fino al Soglio Pontificio. Il problema era già stato individuato dalla Reggenza lorenese che aveva preso una serie di provvedimenti di tipo giurisdizionalistico volti ad affermare le prerogative e i poteri dello Stato rispetto a una serie di privilegi che, a ragione, ritenevano essere stati “usurpati” dalla Chiesa di Roma in Toscana. Ma fu con l’arrivo in Toscana di Pietro Leopoldo che il processo di riforma, probabilmente più ecclesiastica che religiosa, ricevette un nuovo impulso. Il giovane sovrano, infatti, limitò, tra il 1769 e il 1771 i diritti di manomorta ecclesiastica stabilendo poi, nel 1775, che ogni provvedimento preso dalla curia di Roma, per poter entrare in vigore in Toscana, dovesse prima ottenere il Regio Exequatur, vale a dire “il gradimento” del governo toscano. Nel 1728 fu abolito 40 I moti contro le Riforme Leopoldine il Tribunale dell’Inquisizione, nel 1769 i diritti d’asilo di cui godeva la Chiesa toscana, mentre nel 1771 caddero le immunità di cui godevano gli enti ecclesiastici, che a loro volta furono sottoposti alla tassazione sia da parte dello Stato che delle comunità. Fu poi introdotta una rigida normativa che disciplinasse le numerose ordinazioni di sacerdoti, riducendo al contempo, tramite chiusure e incameramento dei beni, molti conventi e congregazioni maschili e femminili. Il granduca poi, memore della sua formazione culturale e religiosa, non limitò la sua attività alle abrogazioni e regolamentazioni del sistema ecclesiale, ma si dedicò anche alla promozione di una religiosità di stampo giansenista, affiancato in questo da personalità importanti come il vescovo Scipione de’ Ricci che nel 1780 fu messo a capo della diocesi di Prato e Pistoia. Fu soprattutto il Ricci il propugnatore di un forte rinnovamento dell’educazione dei parroci in senso giansenista, purgandone quegli elementi culturali che riteneva essere inquinati da forme di religiosità arcaica, quali, ad esempio, l’eccessivo peso dato al culto delle reliquie. In totale accordo con Pietro Leopoldo, il Ricci introdusse, per mezzo di deliberazioni del Sinodo Pistoiese, indetto nel settembre del 1786, una serie di riforme nella sua diocesi che, in seguito, avrebbero dovuto essere adottate anche in tutti gli altri vescovadi toscani. L’elemento più elevato delle Riforme Leopoldine in campo religioso doveva infine essere costituito dai cosiddetti “Cinquantasette Punti Ecclesiastici” nei quali erano previsti l’introduzione dell’uniformità negli studi ecclesiastici e nell’organizzazione della Chiesa toscana, assieme a una devozione ispirata a una pietà di derivazione giansenista, mondata dalle incrostazioni superstiziose della fede tradizionale e controriformata. Il progetto, ambizioso nella sua portata e mirante a imporre una fede “illuminista” limitando nel contempo l’ingerenza ecclesiastica e romana negli affari dello Stato toscano, trovò la ferma opposizione della gran parte dei vescovi toscani, i quali non esitarono, 41 Briganti e ribelli specie nella fase della Reggenza, a mobilitare le masse, soprattutto contadine, ancora legate a forme di religiosità popolari e ingenue che non potevano essere contenute nella costruzione intellettuale e giansenista del granduca e dei suoi consiglieri religiosi. Il fallimento del progetto di riforma religiosa, caduta ancora prima di essere applicata, fu il segnale definitivo della crisi del tentativo leopoldino di riformare in profondità non solo le strutture economiche e amministrative, ma anche i modi di pensare dello Stato che governava. Nel 1790, con la morte del fratello Giuseppe II, il granduca Pietro Leopoldo lasciò definitivamente la Toscana. Il suo progetto di riforma dello Stato e dell’economia era lontano dal dirsi concluso con successo, mentre, al contrario, le opposizioni che aveva suscitato, spesso trasformatesi in vere e proprie insorgenze, lasciarono strascichi di lunga durata con episodi di disordine, quando non di vero e proprio brigantaggio che, negli anni seguenti all’arrivo dei francesi, si legarono ai movimenti reazionari e anti-giacobini come quello del Viva Maria. Le riforme economiche Il nuovo granduca si era formato in un ambiente culturale che dava grande importanza alle innovazioni in campo economico. Le teorie dei fisiocratici francesi e le idee economiche degli illuministi avevano individuato nella rete di vincoli, franchigie e dazi locali un impedimento all’attività economica di svilupparsi perseguendo naturaliter l’obiettivo finale e inevitabile dell’accresciuto benessere comune. Da subito Pietro Leopoldo cercò di rinnovare il sistema economico del Granducato. L’economia in Toscana era ancora avvolta da una rete di protezioni vincolistiche risalenti al Medioevo. Dal punto di vista dell’attività manifatturiera e protoindustriale la scelta politica principale del nuovo sovrano fu sicuramente quella, molto rivoluzionaria, di provvedere alla liquidazione delle corporazioni, 42 I moti contro le Riforme Leopoldine con la loro congerie di norme e barriere, che costituavano di fatto l’ostacolo principale a una vera evoluzione in senso moderno di un sistema industriale che seppure in ritardo rispetto ad altre parti d’Europa (e anche rispetto ad alcune zone d’Italia come il milanese) anche in Toscana stava cercando, con fatica, di venire alla luce. Ma come ovvio, data la struttura economica della Toscana di allora, le più pressanti necessità di intervento erano quelle nel settore dell’agricultura, nel quale Pietro Leopoldo e i suoi consiglieri vedevano concentrati molti ostacoli a uno sviluppo “moderno” del territorio. In questo davvero uomo del suo tempo, Pietro Leopoldo si appoggiò, per avere un supporto teorico alla sua azione economica, all’Accademia dei Georgofili, istituzione di studi agrari fondata a Firenze nel 1759 da Ubaldo Montelatici sulla spinta delle innovative teorie economiche dei fisiocratici che patrocinavano anche in agricoltura la libera circolazione dei prodotti e il superamento degli ostacoli all’investimento di capitali. Forte del sostegno degli studiosi dei Georgofili, il governo granducale iniziò un esteso programma di interventi in agricoltura volti a riformare in senso liberistico il sistema produttivo delle campagne toscane. Fu introdotta la libertà nel commercio dei grani, attraverso l’eliminazione di tutti, o quasi, i vincoli annonari che da secoli bloccavano la crescita delle colture cerealicole inibendo la messa a coltura di nuovi terreni. Nel 1781 si giunse poi a una nuova tariffa doganale in base alla quale abolivano tutti gli antichi divieti di esportazione delle produzioni cerealicole sostituendoli con una serie di dazi protettivi, tenuti sempre a un livello molto basso in confronto a quelli allora in vigore in altre aree della penisola. Nel quadro di questa politica liberista il granduca, raccogliendo l’appello di Sallustio Antonio Bandini, del quale fece pubblicare l’inedito “Discorso sulla Maremma”, promosse il tentativo di bonifica delle aree paludose di Maremma e Val di Chiana dando inizio a un processo di trasformazione del territorio che sarebbe 43 Briganti e ribelli andato avanti per tutto il XIX secolo e per i primi decenni del XX e provocando, verso le aree da bonificare, uno spostamento di manodopera dalle altre zone dello Stato a cui la Toscana non era né abituata né pronta e che avrebbe ben presto causato grandi squilibri sociali ed economici. Fin dai primi anni di regno poi Pietro Leopoldo riformò il sistema fiscale vecchio e inefficiente giungendo, nel 1769, all’abolizione dell’appalto generale delle imposte e dando inizio a un procedimento di riscossione diretta della tassazione. Il sovrano si rivelò invece esitante fra la politica di Angiolo Tavanti, direttore del consiglio economico granducale, che fino al 1782, anno della sua morte, sostenne l’idea di prendere la proprietà fondiaria come termine di misura per l’imposizione fiscale, e quella del suo successore Francesco Maria Gianni, che da quel momento divenne uno dei maggiori collaboratori del granduca in campo economico; quest’ultimo concepiva un piano di eliminazione del debito pubblico attraverso la vendita dei diritti fiscali che lo Stato aveva sulla terra dei sudditi passando poi a un sistema fondato esclusivamente sull’imposizione indiretta; operazione questa che, iniziata nel 1788, non era ultimata nel 1790 quando Leopoldo divenne imperatore. Andò incontro al fallimento il tentativo più ambizioso dell’amministrazione granducale: quello di creare nelle campagne toscane un ceto di piccoli e medi proprietari fondiari, categoria quasi del tutto assente nel panorama economico dello Stato, sul quale appoggiare anche ideologicamente il complesso del sistema di riforme economiche e istituzionali. Pietro Leopoldo sperava, attraverso il sistema di provvedimenti detto “delle Allivellazioni”, di trasferire parte della proprietà della terra ai contadini insediati sui poderi, trasformandoli da mezzadri inchiodati al diritto consuetudinario, in protagonisti dinamici di uno sviluppo economico più equilibrato e moderno. Come era facile aspettarsi il progetto, peraltro mai portato avanti nei territori con la necessaria convinzione, trovò l’opposizione ferma dei 44 I moti contro le Riforme Leopoldine grandi proprietari, tra cui la Chiesa e le istituzioni ecclesiastiche, che trovarono un altro motivo per contrapporsi a un sovrano, per di più giansenista, che già stava cercando di sovvertire le abitudini dei propri sudditi. Occorre dire che l’opera del sovrano lorenese derivava da una sincera convinzione, maturata negli anni della sua formazione nei circoli illuministici e giansenisti viennesi, che solo attraverso una riforma complessiva del sistema amministrativo, economico, istituzionale e persino religioso dello Stato, si potesse perseguire l’obiettivo di una costante crescita del benessere comune e, assieme a questo, del miglioramento delle condizioni di vita delle classi più povere. La robusta attività d’intervento nel campo economico sviluppata dal granduca e dal suo governo ebbe però effetti che, con ogni probabilità, non erano stati previsti nelle tabelle dei Georgofili. I provvedimenti di liberalizzazione del commercio e della produzione dei cereali portarono a una crescita della redditività delle coltivazioni e a un aumento generale dei prezzi che, se da una parte non portarono alcun beneficio, semmai il contrario, alle famiglie dei mezzadri e dei coloni, dall’altra spinsero i proprietari a estendere le coltivazioni anche a quell’area del castagno che da secoli era alla base dell’economia di sussistenza delle popolazioni che vivevano nella fascia appenninica, dando così inizio a un processo di crisi e di movimento delle popolazioni che tanto influì anche sul fenomeno del brigantaggio. Anche proposte progressive come l’inizio dell’impresa di bonifica o la risistemazione del sistema fiscale ebbero come conseguenza indiretta, oggi diremmo danno collaterale, la rottura di un sistema molto antico che era stato capace di garantire la sopravvivenza dei contadini anche nelle aree più marginali della Toscana. Proprio questa rottura di equilibri porterà già dal 1790, anno in cui Pietro Leopoldo partì per Vienna, alla nascita e allo sviluppo dei fenomeni di ribellismo sociale dei quali mi occupo in questo libro. 45 Briganti e ribelli Per la fede e per il pane: le insurrezioni del 1790 Pietro Leopoldo Gran-Duca di Toscana imitando le operazioni del fratello Imperator Giuseppe, e adottando le massime di molti giansenisti che lo circondavano, dopo aver ridotti miserabili tutti i suoi sudditi, partì per Vienna dopo la morte del fratello, e poco dopo, e per la fede e per la fame, si vide sollevata quasi tutta la Toscana, cominciando da Pistoja, e Prato. È questo l’ingeneroso giudizio di Pietro Vigo, cronista livornese, sui fatti del 1790 e sulle insurrezioni che in quell’anno coinvolsero le campagne e le città della Toscana. Come abbiamo visto il programma di riforme granducali in campo economico, sociale, politico, istituzionale e religioso era stato vasto, e senza dubbio il movente che aveva spinto il sovrano e i suoi collaboratori a intraprenderlo era stato il miglioramento generale delle condizioni dello Stato. Cos’era successo allora? Che cosa spingeva un cronista come il Vigo, per altro vicino ai circoli reazionari, a parlare di un popolo che insorgeva per essere stato ridotto alla miseria? Come si può evincere dalle parole del cronista i principali colpevoli dei mali della Toscana in quel volgere di XVIII secolo erano due: le riforme ecclesiastiche e religiose, non a caso il Vigo parla dei giansenisti vicini al granduca, e i provvedimenti che con l’abolizione dei vincoli avevano promosso la libera circolazione dei grani, portando di fatto a un innalzamento del prezzo medio del pane in tutta la regione. Già prima della partenza del granduca per Vienna c’erano state avvisaglie dell’aggravarsi del malcontento popolare, tanto che il 17 febbraio del 1790 Pietro Leopoldo indirizzò alla Reggenza, istituita per governare lo Stato in assenza del sovrano, una serie di istruzioni, nelle quali vietava ogni modifica alla legislazione civile – specialmente a quella parte che tutelava la libertà del commercio dei grani – e a quella religiosa raccomandando in particolare di «non cedere mai, e resistere a tutte le pretensioni della Corte di Roma». 46 I moti contro le Riforme Leopoldine Quello che era successo e stava succedendo non è, in fondo, troppo difficile da comprendere, anche se in gran parte sfuggì ai contemporanei e alla maggioranza della storiografia liberale ottocentesca, come fa notare Gabriele Turi nel suo saggio sulle riforme e le insorgenze in Toscana dal 1790 al 1799 (lavoro a cui questo libro ampiamente si rifà in questo e nel successivo capitolo). L’idea che fosse possibile, anzi necessario, riformare gli Stati, nelle sue strutture politiche, economiche e sociali, attraverso lo strumento del dispotismo illuminato, idea che aveva accomunato i due fratelli Asburgo che si sarebbero succeduti sul trono imperiale, era entrata in crisi, in modo quasi contemporaneo, in tutti i territori soggetti al governo della casa d’Austria. Sicuramente questa crisi era dovuta in parte all’influenza di quanto stava accadendo in Francia; ma soprattutto a cadere era stata la pretesa di riformare un mondo, rompendo antichi equilibri ai quali le popolazioni si erano assuefatte, senza la capacità di offrirne di nuovi e senza, forse proprio qui sta l’origine principale dei fallimenti, riuscire a coinvolgere nel processo strati importanti di popolazione, non dico le masse contadine ma almeno i nascenti ceti produttivi, in modo da creare una base d’appoggio ideologico e politico per il processo di riforma. Come si vide di lì a poco, dove questi ceti e queste classi decisero di diventare protagonisti della vita politica e sociale dello Stato, come nella Francia rivoluzionaria, la strada che scelsero fu completamente diversa da quella ricercata da Giuseppe e Pietro Leopoldo d’Asburgo. La Toscana da questo punto di vista può essere considerata un caso classico. Il vasto programma legislativo compiuto da Pietro Leopoldo, e dai circoli riformatori che gli erano vicini, aveva toccato i due nervi più scoperti di una situazione che da due secoli sembrava stabilmente in equilibrio. Con le riforme ecclesiastiche, si era iniziato a smontare le ingenue certezze religiose di un popolo legato a un credo popolare, basato sulla devozione ai santi, sull’adorazione delle reliquie, sul rapporto quotidiano con le congregazioni religiose onnipresenti sul territorio che, sebbene 47 Briganti e ribelli spesso protagoniste nell’attività di rastrellamento delle risorse delle campagne e altresì non infrequentemente divenute proprietarie di larghe fette del territorio, ancora costituivano il naturale intermediario tra la vita del popolo, specie dei contadini, e il sacro. Occorre anche dire in tutta onestà che al malcontento “religioso” delle campagne toscane non fu estranea l’attività sobillatrice della curia romana, terrorizzata dall’idea che dalla fedele Firenze si irradiasse il germe di una Chiesa “nazionale”, di ispirazione chiaramente giansenista, pronta a mettere in discussione le potestà giurisdizionali della Santa Sede non solo nel campo religioso ma anche in quello politico ed economico. Con le normative anti-vincolistiche in materia di libertà del commercio dei grani e dei cereali in genere, si era poi andati a influire sulla produzione e sul commercio del bene per eccellenza: il pane. La nuova normativa leopoldina, se da un alto, come si è visto, aveva provocato la crisi di sussistenza delle popolazioni della montagna, che avevano visto progressivamente ridursi le aree destinate alla castanicoltura alle quali affidavano le loro possibilità di sopravvivenza, dall’altro avevano anche causato un netto rialzo dei prezzi del pane nelle città, senza che ne traessero alcun beneficio, salvo rare eccezioni, le famiglie contadine stanziate sui poderi. Si era così creata in quegli anni una sorta di geografia dicotomica del malcontento, con le campagne in subbuglio per quello che era vissuto come un attacco alle forme della vera fede e i contadini, capeggiati da alcuni parroci e dai frati delle congregazioni spogliate dei loro possessi, che si preparavano a una mobilitazione perché tutto tornasse come prima e le plebi cittadine, composte da artigiani, operai delle manifatture, facchini e altri lavoratori del “basso popolo”, non più in grado di acquistare la quantità necessaria di pane, base pressoché unica di nutrimento per le classi più umili. Considerando che questa suddivisione del malcontento, anche se alla fine si riunificò nelle insorgenze, avrà un’importanza non trascurabile nella storia di fenomeni successivi, – come le insurrezioni anti-giacobine e anti-francesi e lo stesso brigantaggio –, appare 48 I moti contro le Riforme Leopoldine ovvio anche al lettore meno attento che la situazione sociale che si era venuta a determinare quando il granduca Pietro Leopoldo lasciò la Toscana per Vienna non poteva che essere foriera di guai. I tumulti religiosi La partenza del granduca agì da innesco per i tumulti a sfondo religioso, che per altro avevano già avuto un’anticipazione nella sollevazione anti-giansenista del 1787. Già il 24 aprile a Pistoia si ebbe un violento tumulto condotto da un gran numero di contadini presenti in città in occasione del mercato. La folla chiedeva il ripristino di tutte le pratiche esteriori del culto che il vescovo riformatore Scipione de’ Ricci aveva soppresso nel territorio della sua diocesi. L’agitazione fu così forte che lo stesso Ricci fu costretto a rifugiarsi a Firenze, abbandonando la città-sede della sua cattedra alla quale non avrebbe mai più fatto ritorno. Le sollevazioni si diffusero anche nei distretti di montagna, già provati dalla crisi della castagna, e nel contado di Prato, dove si sparse di nuovo la voce, falsa e con probabilità artatamente diffusa dagli agenti della curia romana, che le autorità avevano intenzione di demolire l’altare che in duomo conteneva la Cintola, antica reliquia mariana al centro della devozione popolare in città e nel contado. Il tumulto che non accennava a placarsi sembrò avere il sostegno di gran parte del clero e della nobiltà più reazionaria tanto che il cronista Basilio Vannucchi scrisse: «…In questo tempo tutto il popolo pistoiese, e pratese avea concepito un gran coraggio e si era messo allo sbaraglio, e comandava e ordinava, e voleva le cose a suo modo. La nobiltà, e gli ecclesiastici erono col cuore dei sentimenti del popolo, e non apparivano ma sottomano si compiacevano, e istigavano il popolo, e lo regolavano….». È verosimile che si dovette anche a questa sottaciuta complicità la debolezza e il ritardo con cui si reagì ai tumulti. La Reggenza addusse questa insufficienza alla mancanza di truppe; proprio pochi mesi prima il granduca aveva sciolto le milizie civiche ritenute inutili e 49 Briganti e ribelli tutti i soldati disponibili si limitavano alla guarnigione di Livorno e alla guardia palatina a Firenze. Dopo qualche giorno furono inviati alcuni soldati a Pistoia, ma con l’ordine di lasciar fare al popolo ciò che voleva senza usare la minima forza. Lo stesso granduca del resto consigliava da Vienna la prudenza e la moderazione, primo segnale forse di un indebolimento nella difesa di quelle riforme “gianseniste” che lui stesso aveva promulgato. Nel mese seguente le insorgenze si diffusero a macchia d’olio in tutta la Toscana, interessando le comunità di Colle Val d’Elsa, Chiusi e Montevarchi per poi estendersi per tutta la Valdinievole e la Val di Chiana, fino a che il 28 maggio, per ordine sovrano, la Reggenza non emise un editto di perdono per coloro che avevano preso parte ai moti di Pistoia e Prato, dando inizio nel contempo al processo di revisione delle leggi che avrebbero portato alla riapertura delle congregazioni religiose e al ritorno delle tradizionali forme esteriori del culto. I tumulti per il grano Del resto quello che preoccupava di più nella lontana Vienna il granduca e a Firenze la Reggenza, di cui faceva parte anche quel Francesco Maria Gianni che abbiamo già incontrato, era la sensazione, per altro corretta, che tra chi protestava per il ripristino delle forme religiose, si stesse diffondendo anche il seme della protesta contro le riforme economiche degli anni precedenti, specialmente quelle sulla libera circolazione dei grani. A confermarci questa idea è lo stesso Pietro Leopoldo che in un dispaccio alla Reggenza datato 6 maggio scriveva: «… presero forsi moto le premure di chi spargeva tra il popolo l’avversione alla libertà frumentaria…». I fatti diedero ragione alle preoccupazioni del sovrano. Il 31 di maggio, festa di Santa Giulia patrona della città, a insorgere (o come si diceva allora a “tumultuare”) fu il popolo livornese. L’azione era iniziata secondo l’ormai tipico schema delle proteste per il ritorno al vecchio culto, le cui pratiche furono ripristinate a 50 I moti contro le Riforme Leopoldine forza ottenendo anche la riammissione della tradizionale processione con le reliquie della santa. Ma fu anche invasa l’ex chiesa della Purificazione, chiusa dagli editti granducali e trasformata in sede delle “stanze dei cassieri” cioè nel luogo dove si recavano gli agenti dei mercanti di prodotti agricoli a effettuare i pagamenti. Finirono bruciati gli arredi, i mobili e i libri delle ricevute, segno questo che il nuovo obiettivo del malcontento popolare era proprio quel libero commercio dei grani che era stato messo al centro dell’azione riformatrice leopoldina in campo economico. Una conferma di questo la si ebbe quando, sebbene il governatore di Livorno Francesco Seratti avesse concesso in nome della Reggenza la riammissione di tutte le antiche confraternite, il tumulto non si placò ma anzi prese nuovo vigore su diversi obiettivi, primo tra i quali il ritorno a quel sistema di vincoli nel commercio granario abolito da Pietro Leopoldo. Il governo rimase sorpreso dalla piega presa dagli eventi e mi pare indicativo il commento del Ricci, il vescovo giansenista cacciato da Pistoia che, in modo un po’ piccato scriveva: «…credendo che il tumulto anco là dovesse terminar in mantelline, e crocifissi, e cose ecclesiastiche, che nulla gli importavano [alla Reggenza], o al più in insulti contro i sudditi più fedeli, o i migliori cristiani; ma egli [ancora il governo] restò ingannato, poiché terminò questo contro il libero commercio, legge che è sempre dispiaciuta agli ignoranti in economia. Di lì si spiegò il malcontento contro questa legge in molti altri luoghi, e città, non meno che in Prato, e Pistoja. È noto oramai l’attentato ed i fatti seguiti in Firenze…». Infatti anche nella capitale il fenomeno si era messo in moto; e anche qui ebbe inizio, all’apparenza per motivi religiosi, con la comparsa nella prima metà di giugno di cartelli che chiedevano il ripristino delle confraternite e del culto all’esterno delle chiese. Ma i cartelli religiosi furono presto seguiti da altri, di diverso tenore, pieni di minacce contro la Reggenza alla quale si intimava di «… far diminuire in tempo di quindici giorni il prezzo del grano e dell’olio…». 51 Briganti e ribelli L’insurrezione scoppiò il 9 giugno, sebbene alcuni forni, avvertendo il pericolo, avessero abbassato il prezzo del pane il giorno precedente. La folla prese d’assalto le case di due borghesi, ritenuti incettatori di grano e quindi usurai, e arrivò persino ad assaltare la casa di Francesco Maria Gianni, membro della Reggenza, il quale fu costretto a riparare a Bologna perché ritenuto responsabile diretto del piano per la libertà di commercio. Per calmare il tumulto la Reggenza dovette pubblicare l’8 giugno due editti, che erano di fatto in contraddizione con le Istruzioni granducali. Nel primo si autorizzavano gli arcivescovi di Firenze, Siena e Pisa a ripristinare tutte le forme esteriori del culto e a riammettere le vecchie confraternite e congregazioni e di istituirne delle nuove, se a loro piaceva. Nel secondo, forse il più significativo, si diceva che per «… prevenire i disordini ed inconvenienti che possono derivare dall’abuso che può farsi della libertà dell’estrazione [esportazione] dei grani, biade, ed olio, si vieta fino a nuovo ordine l’estrazione dal territorio riunito di detti generi…». Questi provvedimenti, che la Reggenza difende nei confronti di un irritato sovrano giustificandoli sia con l’insufficienza di truppe per reprimere l’insurrezione che con la scarsezza di grano nei magazzini fiorentini, non furono però sufficienti a riportare la tranquillità nello Stato. Anche se i prezzi di grano e olio erano stati ribassati come a Firenze, l’11 giugno scoppiarono tumulti a Livorno nel corso dei quali vennero saccheggiate le botteghe dei fornai con manifestazioni fin sotto il Palazzo Pubblico. Le autorità provvidero a un’ulteriore diminuzione dei prezzi del pane, che per altro fu rialzato dopo l’arrivo di rinforzi militari dalla capitale, dando origine a un lungo periodo di malcontento e di disordini in città. Lo stesso accadeva a Pistoia, dove i commentatori del tempo parlano di bande di affamati che percorrevano le campagne dandosi ad «…atti di brigantaggio di ogni sorta…». Le sommosse si erano ormai generalizzate in tutto il Granducato e non furono pochi quelli che videro dietro a tale situazione l’influenza delle idee rivoluzionarie francesi. Ovunque, alle prime 52 I moti contro le Riforme Leopoldine motivazioni di stampo religioso e anti-giansenistico, si erano sostituiti gli obiettivi di tipo economico e varie comunità si videro costrette a porre calmieri ai prezzi dei viveri e a ripristinare, almeno in parte, i sistemi vincolistici e protezionistici precedenti alle riforme. Questo accadde a Cortona, in Val di Chiana, in Val di Nievole e in gran parte della fascia appenninica, mentre più calma rimaneva la situazione nel senese. Da Vienna Pietro Leopoldo, preso dalle questioni del governo imperiale e dai problemi relativi alla situazione nei Paesi Bassi e in Ungheria, fu in un primo momento lento a reagire e anzi aveva dato scarso peso a quanto stava accadendo in Toscana, convinto che qualche concessione sulle questioni religiose ed ecclesiastiche sarebbe stata sufficiente a tranquillizzare gli animi. Quando però gli giunsero le notizie dei tumulti per il pane e dei provvedimenti presi dalla Reggenza il sovrano si rese conto che a essere in pericolo era l’intera architettura del suo sistema di riforme, alla cui attuazione aveva dedicato tanto tempo ed energie. Il granduca si mostrò subito molto severo con l’operato dei suoi reggenti, che criticò senza mezzi termini in un dispaccio datato 17 giugno, e immediatamente tentò di reagire ripristinando la pena di morte per tutti coloro i quali «…ardiranno di sollevare il popolo, o mettersi alla testa del medesimo per commettere eccessi e disordini…», nel contempo vietò alla Reggenza di fare ulteriori concessioni alle norme e alle leggi stabilite, «…essendo già quelle fatte per debolezza e paura più che sufficienti a rovinare il paese, mentre è nelle mani del popolo basso l’autorità di rovesciare tutti i sistemi da Me introdotti, che è quello che si voleva…». Quest’ultima notazione del dispaccio granducale è significativa. Pietro Leopoldo è d’accordo col Gianni nel ritenere i tumulti, specie quelli contro le libertà di commercio, frutto delle trame di funzionari reazionari che, in combutta con la parte più retriva della nobiltà e con il clero romano, avevano aizzato il popolo contro la sua costruzione riformatrice. Il granduca concordava col Gianni anche sul fatto che si potessero fare delle concessioni in campo religioso 53 Briganti e ribelli ed ecclesiastico – Scipione de’ Ricci fu sacrificato sull’altare di questa politica e nel 1791 dovette lasciare il suo vescovato – purché si tenesse ferma la struttura generale delle riforme economiche. Ma anche da questo punto di vista Pietro Leopoldo si mostrò quell’uomo equilibrato che in fondo era, conscio anche della vastità e della pericolosità del malcontento delle classi più basse. Nelle comunicazioni del 19 luglio il granduca convenne con la Reggenza che «…se il toccare quanto fatto da Consiglio può provocare, come pare, un nuovo rumore, sarà prudente l’astenersi dal fare per ora alcun passo in queste materie, finché non sia in un piede conveniente il militare, che va formandosi…». Effettivamente fu solamente dopo che le concessioni in materia ecclesiastica e annonaria, ma soprattutto l’arrivo di rinforzi militari inviati rapidamente dall’amministrazione imperiale della Lombardia, avevano fatto quasi del tutto cessare i tumulti che, alla fine del 1791, Pietro Leopoldo ripristinò la libertà nel commercio dei grani. La Toscana sembrava tornata alla calma e la maggior parte dei contadini e dei lavoratori di città tornavano alle occupazioni abituali, ma la rottura degli antichi equilibri c’era stata e ancora non si era riusciti a raggiungerne uno nuovo e più avanzato. Nelle campagne, specie in quelle delle aree più marginali, continuavano ad aggirarsi “bande”, in gran parte formate da coloro che avevano più apertamente partecipato ai tumulti e che per timore di una punizione o perché avevano assaporato il gusto di una vita diversa fatta anche della possibilità di imporre le proprie idee e le proprie decisioni, avevano rifiutato il ritorno alla normalità mentre il malcontento, specialmente dopo il ripristino delle leggi granarie, continuava a covare sotto la cenere di una apparente tranquillità. Del resto i grandi sconvolgimenti, anche per la Toscana, erano appena agli inizi, e appena sei anni dopo avrebbero assunto la forma ancora più estrema delle idee rivoluzionarie francesi, giunte in Toscana con le baionette della vittoriosa Armata d’Italia. Una nuova fase di tumulti e di disordini, ma anche di sangue e violenza, stava per iniziare per la Toscana e i suoi abitanti. 54