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Manicomio
Michela Francesca Cuoco Liceo Ginnasio Statale Ennio Quirino Visconti – IV F Articolo 32 «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.» (Costituzione della Repubblica Italiana) Manicomio Il manicomio [era] un istituto di recupero mentale, non a scopo di lucro. In manicomio [finivano] tutti coloro che [venivano] disconosciuti o disprezzati dalle rispettive famiglie, per qualsiasi motivo: dipendenza da droghe, mania per il gioco d'azzardo, brutti esiti scolastici e altri disparati motivi. (http://nonciclopedia.wikia.com/wiki/Manicomio) Manicomio di Santa Maria della Pietà (Roma) Il manicomio prima si trovava nei pressi di piazza Colonna e fu costruito nel 1548 dal sacerdote sivigliano Ferrante Ruiz e dei due laici Angelo Bruno e il figlio Diego, fu inizialmente preposta all'accoglienza dei numerosi pellegrini attesi per l'Anno Santo del 1550, mentre in seguito si specializzerà nell’aiuto a poveri, vagabondi ma soprattutto nell'accudimento dei matti. Nel 1725 Papa Benedetto XIII accorpò l'ospizio all'arcispedale di Santo Spirito e lo trasferì a via della Lungara, allora ben lontana dal centro della città: l'isolamento del pazzo dal contesto sociale cominciò a richiederne anche l'isolamento fisico dalla società civile. Manicomio di Santa Maria della Pietà (Roma) L'isolamento ed il numero sempre maggiore di ricoverati portarono ad un periodo di decadenza dell'ospedale. Nei secoli successivi seguirono numerosi dibattiti, provvedimenti per il risanamento, nuovi regolamenti e visite apostoliche che videro annetterci alla struttura principale anche Villa Barberini, per i degenti più facoltosi, e Villa Gabrielli sul Gianicolo. Con l'Unità d'Italia Il Santa Maria della Pietà venne riconosciuto come Opera Pia, mentre dal 1907 la sua amministrazione fu affidata completamente alla Provincia. Manicomio di Santa Maria della Pietà (Roma) Nel 1909 per iniziativa del senatore Alberto Cencelli sulla collina di Monte Mario (località S. Onofrio) cominciarono i lavori per il nuovo ospedale psichiatrico progettato da Edgardo Negri e Eugenio Chiesa e denominato Manicomio Provinciale di Santa Maria della Pietà che cominciò a funzionare il 28 luglio 1913 e fu inaugurato ufficialmente da Vittorio Emanuele III il 31 maggio 1914. Il complesso concepito con lo spirito del manicomio-villaggio si estendeva su circa centotrenta ettari e comprendeva quarantuno edifici, di cui ventiquattro erano padiglioni di degenza. Gli edifici, immersi in un grande parco di piante ad alto fusto e collegati l'un l'altro da una rete stradale di circa sette chilometri complessivi costituivano così il più grande Ospedale Psichiatrico d'Europa con una capacità di più di mille posti letto. Il Santa Maria della Pietà si presentava diviso in due sezioni rigidamente separate: l'area maschile e quella femminile che rimarranno differenziate nella gestione fino agli anni '70. Era una piccola città i cui servizi interni erano garantiti dalla presenza di un impianto termico centralizzato, la cucina, la dispensa, lavanderia e in seguito anche una piccola sala operatoria. Vi erano inoltre la fagotteria (dove venivano depositati gli effetti personali dei ricoverati), la chiesa, l'alloggio delle suore, i laboratori dei fabbri e dei falegnami. All'epoca la legge prevedeva il ricovero delle persone sulla base di un certificato attestante uno stato di pericolosità per sé o per gli altri o per atteggiamenti di pubblico scandalo e ben presto si giunse al sovraffollamento con oltre duemila ricoverati. Nei casi incerti si decideva la dimissione o l'internamento dopo un periodo di osservazione. Manicomio di Santa Maria della Pietà (Roma) Ogni padiglione era una realtà a sé stante: la ripartizione dei malati non veniva fatta in base alle patologie psichiatriche dei malati stessi ma esclusivamente in merito al comportamento che questi manifestavano. Il team di infermieri, la suora caporeparto e il medico di ogni padiglione si trovavano così a gestire un insieme disomogeneo di degenti altamente diversi per gravità della patologia, terapia ed età. Comuni erano invece l'inattività, l'abbandono e la regressione dei pazienti che sviluppavano di conseguenza un carattere aggressivo. Tra i diversi padiglioni si ricordano: il XVIII dei criminali con mura di cinta alte quattro metri; il XIV degli agitati; il XXII dei cronici, il XII dei pericolosi per tentativi di fuga e di suicidio; l’VIII e il XX dei bambini; il XXX delle lavoratrici e padiglioni specifici per pazienti con tubercolosi, come il XVI. Il padiglione più grande, il XXII, detto il Bisonte, ospitava più di trecentoventi pazienti tra epilettici, dementi senili e schizofrenici. (https://it.wikipedia.org/wiki/Ex_Manicomio_Santa_Maria_della_Piet%C3%A0) Fagotteria I pazienti, appena entrati in manicomio, venivano portati nella Fagotteria, una stanza dove veniva spogliati di tutto ciò che possedevano, come ad esempio occhiali, foto di famiglia… ritenuti dai dottori e dagli infermieri «pericoli». In realtà volevano annullare la persona, togliendogli tutto ciò che gli era più caro, ritenendolo «una giusta cura» per il malato. Volevano «aiutare» le persone privandoli della loro dignità, e al posto dei loro abiti dovevano indossare la divisa istituzionale, per rendere tutti omologati e uguali, quando invece ciascuno aveva patologie diverse e accadeva che molti ricoverati erano persone sane, ritenute mentalmente instabili non da dottori bensì da giudici in tribunale. (https://vimeo.com/14117465) Legge Giolitti (n.36 del 1904) Nel 1902 Giolitti presentò al Senato un disegno di legge: "Disposizioni intorno agli alienati e ai manicomi”, basato su quattro punti essenziali, che serviva a regolamentare tutte le strutture, senza distinzioni. Veniva previsto: l'obbligo di ricovero in manicomio soltanto per i dementi pericolosi o scandalosi; l'ammissione solo dopo procedura giuridica, salvo casi d'urgenza; l'attribuzione delle spese alle province; l'istituzione di un servizio speciale di vigilanza sugli alienati. La legge n. 36 venne approvata il 14 febbraio 1904 e vennero aggiunte modifiche, quali: Le dimissioni del malato erano consentite solo dopo un decreto del tribunale su richiesta del direttore del manicomio (al quale la legge attribuiva la piena autorità sul servizio sanitario, l'alta sorveglianza sulla gestione economica e finanziaria dei manicomi e il potere disciplinare); il "licenziamento in via di prova", concesso al malato che dimostrava miglioramenti. Esso consisteva nella dimissione temporanea resa definitiva se il malato fosse risultato completamente guarito. Legge Giolitti (n.36 del 1904) La legge Giolitti stabiliva quindi il criterio di internamento: pericolosità sociale e pubblico scandalo. Si entra in manicomio non in quanto malati, ma perché pericolosi improduttivi, di pubblico scandalo. Tale legge, che resterà in vigore fino al 1978, serviva propriamente come strumento di protezione della società dal matto e non considerava i bisogni e i diritti del malato. Essa era innovativa rispetto al passato, ma non teneva in considerazione né la durata di permanenza nella struttura psichiatrica né il malato, che perdeva ogni diritto dopo il ricovero. Negli ospedali psichiatrici venivano utilizzati l'elettroshock, il coma insulinico e farmaci sperimentali come la clorpromazina che permetteva di ridurre le crisi violente dei ricoverati o anche farmaci come il nobrium che, in dosi eccesive, poteva anche causare la morte del paziente. (https://it.wikipedia.org/wiki/Ospedali_psichiatrici_in_Italia) Come si viveva Le persone che sono uscite dai manicomi sono rimaste segnate a vita da ciò che hanno dovuto subire nei padiglioni. Più che matti, erano esclusi dalla società : nessuno li voleva. Subivano ogni tipo di violenza sia fisica che psicologica, gli infermieri potevano esercitare qualsiasi tipo di «cura» sui malati : l’elettroshock oppure la camicia di forza, ma anche un’iniezione di droga oppure il « letto di contenzione» per tranquillizzarli. Ci sono state persone che, per essersi rifiutati di mangiare con il cucchiaio (che era l’unica posata a loro concessa), hanno subito maltrattamenti di ogni genere. Si veniva dichiarati matti se si era orfani, se si andava male a scuola, se si era troppo vivaci oppure se nelle famiglie c’erano troppi figli a cui badare e per questi comportamenti di uno di loro erano «deviati». Gli infermieri non dovevano tenere relazioni con le famiglie dei pazienti, darne notizie, portar fuori senza ordine lettere, oggetti, ambasciate, saluti , né tantomeno potevano recarne agli ammalati . Tutto ciò ci fa capire come potevano vivere quelle persone lì dentro, escluse dal mondo esterno, il loro unico svago era stare dalla mattina alla sera in una stanza comune senza oggetti, senza fare niente, solo loro e le loro tanti pensieri. Come si viveva I ricoverati scrivevano molto spesso lettere, che però non venivano mai inviate, bensì messe nella loro cartella clinica e lasciate lì a ingiallire insieme alle carte che li hanno condannati a vivere in un manicomio. La lettera che mi ha davvero commosso è la seguente, datata 1914. Le parole di un padre costretto all’umiliazione di chiedere ai figli soldi per le sigarette, costretto quasi a supplicare una risposta che possa tranquillizzarlo che possa farlo sperare in un ritorno a casa. Queste parole mai giunte a destinazione ci rendono una straziante testimonianza della sensazione di solitudine che si doveva provare in un luogo come il manicomio: Carissimo figlio, sono con la presente a farti sapere l’ottimo stato di mia salute, così voglio sperare sarà di te e di tutta la famiglia. Io non so proprio cosa pensare di questo tuo ritardo nello scrivermi, che a momenti è un anno che non ricevo più notizie di voi altri e credi che sto molto in pensiero. E mi meraviglio perché per il passato mi avete sempre scritto e mi avete sempre mandato qualche cosa. Ora io non so se vi siete dimenticati di vostro padre, che per il passato mi avete sempre voluto bene e credo di essermelo meritato. Mi farai sapere di Cecchino se si è ingaggiato un’altra volta , perché ancora da lui non ho ricevuto nessuna notizia, sicché per primo mi aveva sempre corrisposto , mi raccomando dunque a te che tu mi faccia tanto la carità di rispondermi perché credimi senza vostre notizie sto molto, ma molto male e spero che mi farai contento. Sai bene che fumo e stare sempre a chiedere a quello o quell’altro mi vergogno e poi sai ti possono dare una fumata una volta poi non te la danno più. Dunque mi raccomando a te , se tu mi puoi assistere col mandarmi qualche cosa , pensa che sono tuo padre ,senti magari ancora Cecchino e fra tutt’e due guarda se mi potete contentare. Poi, credi che quaggiù vengono a trovare gli ammalati di tanto lontano io non so come mai voi non vi rimava mai la coscienza di venirmi a fare una visita, che bramerei tanto di vedervi . Una volta ero vostro padre, ora si vede forse che non lo sarò più, riceverai tanti saluti e baci, ne ripasserai ai bimbi , a Vincenzo, a Cecchino ,a Sandrino e a tutti di casa, tanti saluti a tutti gli amici e chi domanda di me , mi dico tuo affezionatissimo padre, Riccardo B. (https://www.youtube.com/watch?v=lRdwCVgbHXY) Testimonianze Testimonianze su come si viveva nei manicomi ci vengono date per esempio dalla poetessa Alda Merini, "ragazza sensibile e dal carattere malinconico, piuttosto isolata e poco compresa dai suoi genitori ma molto brava ai corsi elementari: ... perché lo studio fu sempre una sua parte vitale". Una dichiarazione molto importante è la sua «Lettera al dottore in manicomio», qui di seguito: «Egregio professore, so che le è stato riferito che io non prendo «regolarmente» le sue medicine. Naturalmente si tratta dei soliti pettegolezzi di ospedale che purtroppo alle volte rovinano con la loro cattiveria la buona fede di chi crede nella lealtà del prossimo. È vero, qualche volta ho omesso il Nobrium perché non volevo cadere nel solito stato di incoscienza e volevo tenermi un po´ desta, un po´ attiva, ma se mai un ammalato non prendesse i medicamenti prescritti la cosa più grave non è nella omissione degli stessi ma nel proposito, assurdo e malato, di non volere guarire. Chi viene a riferirle queste cose dimostra un animo molto meschino ed io nella mia semplicità ed anche nella mia malattia mi rallegro di non essere tra le file di quelli che si chiamano «spie». [...] Vede che in questo momento il mio equilibrio è sano, però prima che io possa accedere ad una certa chiarezza occorre che lasci libero sfogo alle lacrime che comprendono tanti e tanti dispiaceri. Ad esempio proprio ieri ho visto un uccellino che giocava nella sabbia, era così tenero, così patetico, che vi ho visto raffigurata la mia creatura. Le parrà assurdo ma lei non può sapere da uomo cosa significa sentirsi palpitare dentro un altro cuore, sentirselo proprio per dei mesi, donarsi ed essere continuamente gratificata da questo amore nuovo che sorge. Come vorrei farglielo intendere e come vorrei pure che ella capisse che tutta la mia confusione altro non è che un grande contenuto dolore, tanto grande, quanto grande può essere la misura di un sacrificio umano. L´ho stancata per dei mesi e forse lo farò ancora, stamattina mi aveva promesso delle medicine che poi non mi ha prescritte facendomi così intendere che mi trattava da povera esaltata. Ma se il dolore è esaltazione allora posso dire che tutto il genere umano è in questo stato e il mio dolore, il mio lutto per la morte della mia coscienza è il dolore di tutta la nostra povera comunità umana. Non ho fiducia nei medicamenti, no, glielo dico con franchezza, perché in questi mesi non mi sono più rallegrata di nulla e quando una cosa non si prende con quella fiducia che occorre non ha nessun risultato, perché solo la fede è la molla di tutto, guarigioni comprese. Io per avere questa fede dovrei sentirmi amata e invece anche questa mattina mio marito non è venuto da me; adesso posso dirle sinceramente che malgrado la sua ignoranza, il suo poco sapere, lo amo profondamente e tutto questo amore l´ho gettato sopra di lei perché per anni sono stata frustrata, maltrattata, vilipesa. Caro dottore, da lei non mi aspetto proprio nulla, solo mio marito, con un cenno, un assenso, un atto di comprensione potrà guarirmi ed è proprio in questa direzione che io vorrei dirigerla. Solo lui potrà, se vorrà, essere il mio medico, altrimenti la mia fine è già segnata. Se vuole aiutarmi è in questo senso che deve muovere la sua abilità. Adesso la lascio, ma ho passato con lei tante ore di calda fiducia, ho conversato, sono penetrata nel suo animo ed ella è penetrata nel mio come un padre. Quando le chiedo qualche cosa però non mi prenda in non cale perché mi vengono in mente adesso i bei versi di padre Davide Turoldo che dicono: «Io non ho mani che mi accarezzino il volto, duro è l´ufficio di queste mie parole». E se anche ho tanto amato nella mia vita ciò non significa che la società mi debba condannare se nemmeno il Cristo ha condannato Maddalena ma l´ha ammessa fra i suoi seguaci. Perdoni il tempo che le ho rubato. Quando vengo da lei e le do del tu è come se parlassi con un angelo, qualche cosa che solo a me è dato di vedere e di sentire, qualche cosa di incorporeo che non ammette alcun desiderio. Perciò mi tenga per scusata. Alda Merini (http://www.aldamerini.it/lettera-al-medico-in-manicomio) Un’altra testimonianza importante l’hanno datata Annamaria Colapietro , Giovanni Fenu e Roberto Mizzon con la mostra , NOI DIAMO + , dei loro quadri . Molto importante anche il libro «Avevo solo le mie tasche» di Alberto Paolini , dove racconta la sua esperienza nel manicomio. Legge Basaglia (n.180)1978 La Legge 180 è la legge quadro (la prima dal 1904) che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Ciò ha fatto dell'Italia il primo (e al 2016, finora l'unico) paese al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici. Prima della riforma dell'organizzazione dei servizi psichiatrici legata alla legge n. 180/1978, i manicomi erano spesso significativamente connotati anche come luoghi di contenimento sociale, e dove l'intervento terapeutico e riabilitativo scontava frequentemente le limitazioni di un'impostazione clinica che si apriva poco ai contributi della psichiatria sociale, delle forme di supporto territoriale, delle potenzialità delle strutture intermedie, e della diffusione della psicoterapia nei servizi pubblici. La legge voleva anche essere un modo per modernizzare l'impostazione clinica dell'assistenza psichiatrica, instaurando rapporti umani rinnovati con il personale e la società, riconoscendo appieno i diritti e la necessità di una vita di qualità dei pazienti, seguiti e curati anche da strutture territoriali. Legge Basaglia (n.180)1978 La legge n. 180/1978 demandò l'attuazione alle Regioni, le quali legiferarono in maniera eterogenea, producendo risultati diversificati nel territorio. Nel 1978 solo nel 55% delle province italiane vi era un ospedale psichiatrico pubblico, mentre nel resto del Paese ci si avvaleva di strutture private per il 18%, o delle strutture di altre province per il 27%. Di fatto, solo dopo il 1994, con il "Progetto Obiettivo" e la razionalizzazione delle strutture di assistenza psichiatrica da attivare a livello nazionale, si completò la previsione di legge di eliminazione dei residui manicomi. Nonostante critiche e proposte di revisione, le norme della legge n. 180/1978 regolano tuttora l'assistenza psichiatrica in Italia. (https://it.wikipedia.org/wiki/Legge_Basaglia) COMMENTO Trovo che la legge giolittiana sia stata una legge inutile ,utilizzata solo per emarginare e chiudere in una unica struttura tutte le persone che impedivano lo sviluppo dello stato, estraniandoli dal mondo che li circondava. Sono morte molte persone a causa di elettroshock, iniezioni fatte male, suicidi, e nessuno ha mai pagato per questo, dal 1947 c’era un esplicita legge che dichiarava e obbligava di curare le persone senza superare i limiti umani, ma per gli infermieri e i dottori non esistevano limiti. Chiudevano in padiglioni persone di età diverse, con patologie diverse ma che venivano sottoposti a uguali trattamenti . Le domande che mi pongo sono: chi ha mai fatto giustizia per queste persone? Perché nessuno è mai finito in carcere? D’altronde lo stato sapeva tutto, ma non faceva niente. Fino al ‘78 tutti i manicomi d’Italia sono stati aperti continuando le solite routine, consapevoli che c’era una legge in atto. Il Santa Maria della Pietà ha chiuso circa 20 anni dopo la leggo 180, perché non sapevano dove mettere i pazienti , esclusi dalla società e rifiutati dalle famiglie , nessuno più li voleva. Abbiamo avuto nel nostro paese per anni campi di concentramento in piena regola per persone giudicate matte senza perizie mediche. E ciò che trovo più disumano è che nessuno, di quei poveri pazienti morti, abbia mai ottenuto giustizia. Sito/bibliografia Costituzione della Repubblica Italiana Http://nonciclopedia.wikia.com/wiki/Manicomio https://it.wikipedia.org/wiki/Ex_Manicomio_Santa_Mari a_della_Pietà https://vimeo.com/14117465 https://it.wikipedia.org/wiki/Ospedali_psichiatrici_in_Ita lia https://www.youtube.com/watch?v=lRdwCVgbHXY http://www.aldamerini.it/lettera-al-medico-in-manicomio https://it.wikipedia.org/wiki/Legge_Basaglia