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Autori vari
DIVERGENTEMENTE
Realizzato in collaborazione con
il Festival Internazionale di Poesia di Genova
“Caleidoscopi”
letteratura per bambini
a cura di Liuba Cardaci
Divergentemente
© 2015 Autori vari
© 2015 Matisklo Edizioni
Prima edizione, Ottobre 2015
ISBN: 978-88-98572-62-5
Immagine di copertina di Gisella Germano
Matisklo Edizioni S.N.C.
di Oddera Cesare & Vico Francesco
Via Eremita 14
17045 Mallare (SV)
[email protected]
www.matiskloedizioni.com
Indice
Introduzione
di Liuba Cardaci
Nota a margine
di Cesare Oddera
DIVERGENTEMENTE
IL SEGRETO DI NONUR
Claudio Pozzani
IL PAESE DEL TEMPO
Alberto Calandriello
IL RE DEL TEMPO
Jaime Andrés De Castro
IL DONO DI LU
Sabina Bruzzone
L'ELEFANTE E LA FARFALLA
Barbara Garassino
GIOVANNINO E I NUMERI
Sara Albarello
ZAFFIRO
Luigi Siccardi
DI QUA
Annamaria Altomare
BOLLICINA
Gisella Germano
IL RE SERPENTE
Miriam Coccari
IL DONO DELLA GROTTA INCANTATA
Stefania Fiore
LE ROSE DEL RICORDO
Silvia Rosa
LIBERO
Simona Rossi
I GAEWINK
Lorenzo Carbone
IL LUPO E CAPPUCCETTO ROSSO
Giovanna Olivari
IL MANGIAFAVOLE
Roberto Marzano
IL REGNO SENZA SOGNI
Laura Maccagno
EROICA LUNA
Andrea Borrelli
IL TRASLOCO
Antonella Vannucchi
I PESCI SMERALDINI
Fabrizio Casapietra
PAOLA, PACO E POCO VERSO IL PORTO DI
CHIMICHANGA
Vera Bonaccini
Introduzione
di Liuba Cardaci
Se c'è una cosa che amo delle idee è che quando le condividi si
animano quasi di vita propria e cominciano a correre nel cielo
come grandi aquiloni portati dal vento. La gente parla, discute, si
confronta. Ed ecco, che una manciata di parole, lasciata a
riposare, comincia a crescere. È una magia!
L'anima dell'artista si declina quotidianamente in
innumerevoli, fluide, originali soluzioni di pensiero che, in
continuo divenire, trovano parte del loro compimento nell'opera
d'arte generando altri pensieri. Il processo creativo delle menti è
linfa che rinvigorisce e alimenta il benessere sociale a patto che
sia condiviso e tramandato.
Il progetto Divergentemente si propone lo scopo di
sensibilizzare, coinvolgere e avvicinare gli artisti ai bambini per
fornire loro spunti d'interpretazione da rielaborare a seconda
dell'esperienza e del vissuto del singolo individuo. Ora la sfida
passa a voi, leggete ai vostri bambini, criticate, commentate,
giocate con le parole, illustrate, drammatizzate, cercate
significati e significanti, interpretate i simboli, viaggiate con e
tra le parole. Abbassate la luce ed entrate nel mondo di fantasia e
realtà emozionale di Divergentemente oppure godetevi
tranquillamente il piacere di leggere ed essere ascoltati.
Un sentito ringraziamento a tutti gli autori, i collaboratori e
a chi deciderà di leggere le pagine a seguire.
Nota a Margine
di Cesare Oddera
Sei una favola, Sara
La prima volta che sento la frase ho diciotto anni e me ne sto
appoggiato ad un muro scrostato, il fianco leggermente in fuori e
un piede contro la parete, in una posa che ha la pretesa di essere
molto maschia e invece ho il sospetto sia solo vagamente
ridicola. Non distante da me c'è un ragazzo biondo, seduto al
tavolino di un bar, e nessun altro. Sono le sette di sera e il
ragazzo ha l'aria nervosa: si alza, si guarda attorno, torna a
sedersi. Sta aspettando qualcuno di importante. No, non un
cardinale o un presidente, qualcuno di davvero importante,
importante per lui.
Attorno a noi l'estate del Novantacinque rovescia su quella
briciola d'Italia una luce ed un calore feroci, in attesa dei
temporali d'agosto, tanto frequenti da condannarla ad essere
ricordata come “l'estate che non c'era”. Il juke-box suona “When
I Come Around”, quell'estate. Suona “She's a River” e “What's
The
Frequency,
Kenneth?”.
Suona
incessantemente
“Meravigliosa creatura” e “La mia storia tra le dita”, mentre
qualche chilometro più ad est si consuma l'alba tragica di
Srebrenica.
Il ragazzo, sempre più agitato, tormenta il collo della camicia
nuova, poi si alza nuovamente e sbircia di sfuggita nella porta a
specchio di quel bar di provincia: tutto a posto, perfino i capelli
possono andare.
E all'improvviso lei fa il suo ingresso, nella stanza e nella
nostra vita, ed è la cosa più bella ch'io abbia mai visto, con i suoi
sandali e il vestitino leggero. Va verso di lui, sorride e gli dice
ciao, guardandolo dritto negli occhi. E il ragazzo, imbarazzato
dal ritrovarsi colto proprio nel momento di debolezza dello
specchiarsi, nonostante tutto trova la forza di resistere allo
sguardo e pronunciare la frase la cui straordinaria potenza mi ha
tormentato fino ad oggi. “Sei una favola, Sara”, le risponde,
semplicemente.
Confesso che, in preda a pensieri più prosaici – Sara è
davvero bellissima, quella sera – sul momento non ho dato
troppo peso al prodigioso segreto celato in quelle parole.
Immagino lo stesso valga per il ragazzo, e per Sara stessa,
certamente rapiti da questioni molto più urgenti, per le quali,
ancora a distanza di vent'anni, non posso fare a meno di provare
una punta d'invidia. E non ci ho dato peso nemmeno in tempi più
recenti, quando mi è capitato a volte di sentirle nuovamente o
addirittura di pronunciarle a mia volta.
Eppure sono certo – ed è cosa difficile per uno che ha
bazzicato le parole per tanti anni raccogliendone solo dubbi –
che il nocciolo dell'intera letteratura fantastica sia contenuto
proprio in quel “Sei una favola, Sara”. Attorno ruota tutto il resto,
un tutto il resto che è storia, o favola, o ancora fiaba, racconto,
quel che preferite.
A scuola, sulla favola, ci hanno insegnato molto. Sappiamo
che si tratta di genere antichissimo – sia favola sia fiaba hanno il
medesimo fondamento etimologico nel verbo latino fari, parlare
– e che probabilmente la radice “bha” che chiude il termine fiaba
è ancora più antica e si perde nella notte dei tempi. È assai
probabile che la favola sia nata insieme alla parola e che con la
parola andrà a morire, quando sarà il momento, ma non certo
qui e ora. Abbiamo anche imparato a distinguere fra fiaba e
favola, somiglianti per certi aspetti ma diverse per
caratteristiche e per finalità.
Quel che però non ci hanno insegnato – probabilmente
perché nessuno lo sa e quindi non lo si può insegnare – è dove
nascono le fiabe. Non è tanto il quando ad interessarci, ma
proprio il dove. Tanto varrebbe domandarsi dove comincia e
finisce un arcobaleno, dove corrono a nascondersi le nuvole in
un giorno di sole o ancora dove vanno a finire i sogni quando ci
svegliamo.
Domande senza senso, sentenzieranno alcuni. Eppure se
nessuno non si fosse posto queste domande, noi di fatto non
avremmo le favole. Perché coloro che evitano queste domande
sono gli stessi che vi diranno che le slitte non possono volare, gli
animali parlare, le zucche trasformarsi in carrozze e i ranocchi in
principi. Sono quelli che cercheranno di persuadervi che il
tempo sta negli orologi e scorre per tutti allo stesso modo e che
le storie nascono nei libri e dai libri non possono uscire. In altre
parole, vogliono convincervi che la magia non esiste e che
dovete vivere la vostra vita come la vivono loro: davanti ad un
orologio fermo alle sei del pomeriggio di un lunedì.
Di fronte a questi personaggi viene da domandarsi se valga la
pena, in questo secolo votato all'incorporeità, dare corpo a
favole e fiabe o addirittura raccoglierne una manciata in
un'opera come quella che vi accingete a leggere. Ancora
recentemente qualcuno ha provato a mettere al bando la celebre
“Cappuccetto Rosso”, etichettandola come “sessista”, una parola
che, se siete bambini potrebbe anche farvi ridere, ma se siete
adulti dovrebbe farvi ridere ancora di più.
E che c'entra questo con il dove, vi starete chiedendo. E
soprattutto cosa ha a che fare con Sara e con quel ragazzo
biondo di tanti anni fa? Ma come, non l'avete ancora capito? È
presto detto: Sara è il dove e anche il quando, perfino il perché.
Sara è una favola, ma è anche l'origine delle favole, il motivo per
cui ogni fiaba è scritta o raccontata, non solo quella sera del
Novantacinque, ma prima e dopo.
E quella frase, quella attorno a cui ruota tutto il resto –
comprese le false certezze dei personaggi di cui sopra – quel “sei
una favola”, altro non è se non una formula magica, un
abracadabra che funziona sempre.
Perché non solo Sara ma tutti noi siamo il principio e la fine
di ogni storia, indipendentemente dalla morale che contiene. Ciò
che importa ad una storia è raccontare ed essere raccontata,
sempre. Una fiaba è la realtà dentro la fantasia e la verità è una
sola: la magia esiste, proprio come esistiamo voi ed io.
E adesso girate pagina, oggi siete bellissimi e siete felici. Oggi
siete una favola.
Autori vari
DIVERGENTEMENTE
Realizzato in collaborazione con
il Festival Internazionale di Poesia di Genova
“... il vero viaggio della scoperta non è
cercare nuove terre, ma avere nuovi
occhi...”
M. Proust
Claudio Pozzani
IL SEGRETO DI NONUR
Questa fiaba è stata scritta durante il soggiorno presso la residenza per
scrittori a Ventspils (Lettonia)
Ventospillo era una cittadina simpatica e accogliente con una
buffa piccola chiesetta nella piazza principale.
Alla domenica mattina tutto il paese la riempiva, mentre le
sue campane rimbombavano per tutta la vallata, raggiungendo
sia i contadini che stavano sulle colline a coltivare le vigne, sia i
pescatori che riparavano le reti sulle spiagge.
Le stradine che portavano alla chiesetta si riempivano allora
di colori e di rumori e sembrava sempre una festa anche quando,
d'inverno, i tuoni erano così forti che pareva quasi che l'intera
valle fosse un'astronave sul punto di partire per la luna.
In mezzo al paese passava anche un fiume che si chiamava
Gato e che proprio a Ventospillo si gettava fra le braccia del
mare; a volte in autunno usciva dagli argini e inondava le strade
sterrate trasformandole in piccole paludi per la gioia dei bambini
che potevano schizzarsi l'uno con l'altro e per la disperazione
delle mamme che dovevano poi lavare i loro vestiti sporchi di
fango.
Proprio alla fine di uno di questi lungofiume sorgeva la casa
della famiglia Cavallino, un simpatico quartetto composto da
papà Tino e da mamma Titti, che gestivano una pasticceria e dai
due figli, i gemelli Ginevra e Luca.
Le giornate scorrevano tranquille, con i due bambini che
andavano a scuola con buon profitto e si facevano compagnia
anche nei giochi, soprattutto quando i genitori andavano al
lavoro e veniva in casa una zia un po' sorda e che si
addormentava spesso sul divano davanti alla televisione.
In uno di quei pomeriggi invernali e un po' bui,
approfittando della zia che come al solito si era appisolata, i due
bambini andarono nella loro cameretta per finire un puzzle sui
castelli della Loira e per caso scoprirono quello che sarebbe stato
il loro segreto più grande, una vera e propria magia.
Successe infatti che all'improvviso il faretto della camera
lampeggiò fino a spegnersi, chiaro segnale di una lampadina che
aveva terminato di sorridere luce.
Luca si alzò nella penombra e accese la nuova abat-jour
accanto al letto a castello e... rimase a bocca aperta nel vedere
che in tutta la stanza prendeva vita un vero e proprio villaggio,
abitato da bambole, peluche, animaletti di gomma, soldatini
medievali, astronauti che si muovevano in strade lastricate di
moquette e con case dalle forme più bizzarre costruite con
mattoncini di plastica.
Bobo, il vecchio orsacchiotto di Luca che stava camminando
nella via principale, si arrestò di colpo vedendo l'espressione di
stupore dei due bambini:
–Benvenuti a Nonur! Ora non posso accompagnarvi a visitare
la nostra città, devo andare a un ricevimento all'Armadio 4
Stagioni.
Nel frattempo la zia, che si era svegliata, entrò nella
cameretta:
–Ma cosa fate al buio?– disse continuando a schiacciare
invano l'interruttore della luce.
I due bambini, ancora sotto choc per ciò che stavano
vedendo, non si accorsero neanche della loro zia che nel
frattempo era andata a recuperare un nuovo faretto.
Poi Luca, quasi risvegliandosi da un sogno, scosse la sorellina,
spense l'abat-jour e uscì dalla stanza.
Mentre la zia cambiava la lampadina rischiando più volte di
cadere dalla sedia sulla quale era salita, i due bambini si
ritrovarono in cucina, dove Luca prese la mano di Ginevra e, con
una voce solenne e guardandola fissa, le disse che quello sarebbe
stato il loro grande segreto, che non doveva essere rivelato a
nessuno.
Da quel giorno, appena finiti i compiti, Luca e Ginevra
correvano nella loro stanza e iniziavano a fare i soliti giochi a
carte ma poi, quando i loro genitori uscivano per andare in
negozio e la zia si appisolava rumorosamente, chiudevano le
persiane, spegnevano la luce e accendevano l'abat-jour, restando
ad aspettare che quel piccolo villaggio prendesse vita.
Quella fioca luce diventava poco a poco un caldo sole che
illuminava e intiepidiva il paesino di Nonur.
Dopo alcune volte, i due bambini avevano imparato a
conoscere il paesino.
Verso la periferia c'erano fabbriche ricavate da vecchie
scatole da scarpe, dove centinaia di piccoli soldatini
producevano energia e prodotti di prima necessità per tutta la
comunità; Bobo era il capo riconosciuto, una sorta di sindaco
della città, ma non c'erano lotte di potere o invidie e tutti
vivevano in armonia.
Bobo, in ogni caso, era colui che dall'alto della sua esperienza
(era stato il primo orsacchiotto di Luca) era capace di risolvere
qualsiasi controversia che poteva nascere a causa, per esempio,
di qualche delusione d'amore o di qualche malinteso.
Bobo, inoltre, era anche l'incaricato di tenere i rapporti tra
Nonur e i due bambini e infatti Luca dormiva con lui.
Questa era una funzione molto importante per la
sopravvivenza di Nonur: a volte mamma Titti, stanca del
disordine della cameretta, voleva portare in solaio o addirittura
gettare via qualche vecchio giocattolo quando i due bambini
erano a scuola e Bobo poteva raccogliere le informazioni dagli
amici sparsi per la casa sul malsano proposito della genitrice e
avvertire Luca del pericolo.
Nella comunità di Nonur c'era un'altra figura si spicco, Maya,
la bambola preferita di Ginevra, che era anche la più anziana e
che, per la cronaca, era follemente innamorata di Bobo.
Quando Bobo usciva dal letto di Luca per andare a fare una
passeggiata per le vie di Nonur, Maya con una scusa qualsiasi si
calava dal letto di Ginevra, che era quello sottostante e,
balbettando per l'emozione, tentava di farsi invitare dal suo
amato orsacchiotto.
Bobo non era rimasto a lungo insensibile alla bellezza di
quella bambola e così un giorno la invitò a pranzo al rinomato
Ristorante “La Scrivania”, tenuto dall'Omino della Michelin, dal
quale si dominava tutto il paese.
Quel giorno il sole era particolarmente caldo, perché papà
Tino aveva cambiato la lampadina dell'abat-jour, e Maya arrivò
all'appuntamento bella come mai, con uno splendido abitino
bianco di pizzo.
Dopo un ottimo pranzo a base delle specialità locali come
grigliata di gommapiuma, ovatta in agrodolce e plastichetta con
fogli di carta, Bobo accompagnò Maya verso il belvedere e la
baciò.
Il giorno del loro matrimonio ci fu una festa enorme.
Tutta la cittadinanza di Nonur era eccitata già dalla
settimana prima.
Le bambole avevano riempito i due parrucchieri del paese
per farsi delle pettinature degne dell'occasione, mentre i peluche
erano andati a farsi lucidare il pelo dalla Beauty Farm "La
spazzola", sita nel terzo cassetto del comò, uno dei quartieri più
chic di Nonur.
Durante la settimana precedente il matrimonio, tutta Nonur
sembrava un formicaio impazzito: i negozi erano presi d'assalto
per i regali e i vestiti per la cerimonia, le strade erano piene di
porcellini-operai che mettevano addobbi e striscioni in onore dei
due sposi e in tutte le case ci si dava da fare per acconciare i
balconi e terrazzi con fiori di seta o di carta.
Perfino le Barbie, di solito così distaccate e aristocratiche, si
erano fatte travolgere dall'euforia dei festeggiamenti e insieme
ai loro cavalieri si facevano vedere spesso nei caffè più esclusivi
di Viale dei Giardini, sfoggiando vestiti e scarpe all'ultima moda.
Il giornale più letto della città, "Il Diario Scolastico", ogni
giorno traboccava di retroscena e notizie sui preparativi della
cerimonia e del successivo banchetto.
Si sapeva che lo chef più noto, il già citato Omino della
Michelin, aveva preparato i suoi prelibati soufflé alla matita
temperata, palline da ping pong ripiene, e una torta gigantesca
di gommapiuma e vinavil e che per l'intrattenimento danzante
era stato addirittura invitato il complesso del Muppets Show.
Il Museo dei Telefonini di Papà Tino, gestito da un gufo di
pezza e da un gadget dei Mondiali '90, aveva indetto un concorso
per la storia d'amore più bella e il vincitore sarebbe stato
premiato da Bobo e Maya in persona.
E i due promessi sposi cosa facevano nell'attesa?
Maya aveva già deciso di indossare l'abito del primo
appuntamento con delle scarpe rosa e un cappellino a forma di
tappo a corona, all'ultima moda. Aveva pregato Ginevra di
stirarle il vestito e di aiutarla nell'acconciatura perché non
poteva andare da un parrucchiere senza che decine di curiosi la
fermassero per strada.
Bobo invece, dopo essersi consigliato con Luca, aveva deciso
per un completo a strisce verticali bianche e verdi che fu dato a
Ginevra per la messa in piega.
Bobo pregò Luca di far mettere una luce più potente
nell'abat-jour affinché il matrimonio si svolgesse con un sole più
caldo e ridente e fu così che papà Tino, pur senza capire, fu
costretto da suo figlio a cambiare la lampadina.
Il giorno della vigilia tutto era pronto.
Nonur pareva brillare come una pietra preziosa: le strade di
moquette erano state pulite da mamma Titti con l'aspirapolvere
e anche i tappeti erano stati sbattuti.
Mentre faceva questi lavori, la mamma non si riusciva a
spiegare l'improvviso amore di sua figlia per la pulizia e perché
avesse insistito così tanto per avere la stanza perfettamente
fresca e pulita, quando di solito doveva alzare la voce per
ottenere un po' di ordine.
Sia papà Tino che mamma Titti avevano notato la strana
eccitazione che pervadeva i due figli e non si spiegavano il
perché della loro fretta di andare in camera quando tornavano
da scuola, ma in tutti i casi non domandarono niente, intuendo
che fosse un gioco o una sorpresa.
Il matrimonio era fissato per il martedì pomeriggio e la notte
prima Bobo e Maya non riuscivano a dormire per l'agitazione.
L'orsacchiotto con Luca e la bambola con Ginevra,
confessarono tutte le loro paure e chiesero consigli.
Per di più, anche i due bambini erano un po' agitati perché
l'indomani a scuola ci sarebbe stato un compito di aritmetica e
così quella notte passò senza che nessuno dei quattro amici
riuscisse a chiudere occhio.
La mattina, nonostante il sonno e la paura, Luca e Ginevra
riuscirono a risolvere bene il problema.
Appena arrivati a casa, i due bambini mangiarono alla svelta
rispondendo evasivamente alle domande dei genitori sull'esito
del compito in classe, non vedendo l'ora che il pranzo finisse e
che quindi, approfittando dell'assenza dei genitori e della
presenza della zia dormigliona, potessero accendere l'abat-jour e
quindi la vita a Nonur.
Lo spettacolo che si mostrò ai loro occhi fu meraviglioso:
Nonur sembrava veramente un gioiello.
Le case, le strade e anche la chiesetta a forma di scatola di
Caprice des Dieux erano bellissime e adornate con tantissimi
fiori a quadretti o a righe.
Nella strada principale, Corso degli Orsi e Bambole, era stato
costruito un palchetto con delle scatole vuote di fiammiferi, dal
quale i due sposi avrebbero assistito alla sfilata dei concittadini
in loro onore.
La banda delle scimmiette a carica era già pronta per iniziare
la processione, ma i due sposi non c'erano ancora.
Un mormorio di apprensione serpeggiò fra la folla, ma ad un
tratto si notò un movimento intorno al palchetto e, preceduta da
un Bobo elegantissimo e sorridente, apparve Maya col suo
splendido vestitino e il cappellino stile tappo a corona, che fu
invidiato da tutte le bambole.
Maya era emozionata e stringeva il braccio di Bobo per
l'enorme felicità di vedere tutti quei peluche, bambole, giocattoli
e oggetti che condividevano la sua gioia.
La banda iniziò a intonare l'inno di Nonur scritto a scuola da
Luca e Ginevra durante la ricreazione e la sfilata cominciò.
Via via passarono tutti salutando la coppia festeggiata:
soldatini medievali, astronauti e alieni, animali da fattoria, le
penne e matite, motoscafi telecomandati, auto a pila, peluche,
bambole, gomme da cancellare, astucci, quaderni, caramelle, e
tanti altri, per un serpentone allegro che pareva infinito.
Alla fine, un vecchio elefante di pezza prese il microfono e
fece un discorso molto ispirato, raccontando della sua lunga
amicizia con Bobo e si interruppe varie volte per l'emozione,
aggiustandosi un pezzo di ovatta che fuoriusciva dalle sue
vecchie cuciture.
Poi venne il momento di Bobo, che senza mai lasciare la
mano di Maya, volle per prima cosa ringraziare i due bambini,
Luca e Ginevra, che avevano reso possibile tutto quanto e che da
tanti anni ormai avevano scelto lui e Maya come compagni per
farsi accompagnare nei sogni la notte e per risvegliarsi la
mattina.
Il breve discorso dell'orso fu interrotto da frequenti applausi
e grida di gioia e tutti non vedevano l'ora di dare il via al pranzo
e alle feste.
Piazza Antico Triciclo fu prescelta per ospitare l'enorme
balera e la lunga tavolata del banchetto nuziale.
Le varie portate di soufflé e delle altre leccornie furono
servite da indiani e cowboy, mentre animali di vetro iniziavano
le danze, con unicorni impegnati in vorticosi balli accanto a
modellini della seconda guerra mondiale e scorze d'arancio che
ballavano tanghi con il casqué.
Dopo il lauto pranzo anche Bobo e Maya raggiunsero la
balera e fu allora che l'orchestrina iniziò un lento, la lampadina
dell'abat-jour si fece più fioca e tutti gli invitati si misero in
cerchio ai bordi della pista dove, stretti in un abbraccio infinito,
l'orsacchiotto e la bambola si lasciavano cullare da quella musica
da sogno.
Passo dopo passo, i due innamorati sentivano sparire la terra
sotto i loro piedi, come se le scarpe rosa di Maya e le zampette di
peluche di Bobo avessero messo un paio di ali che, leggere, li
trasportavano lontano... lontano... lontano da un mondo che
permetteva loro di vivere e di amarsi solo nel cuore di quei due
bambini che si erano addormentati nei loro lettini in compagnia
di un piccolo orsacchiotto e di una bambola con i capelli mossi.
Mamma Titti e papà Tino, rientrando dal lavoro, evitarono di
svegliare i loro figlioletti anche perché, in quei visi di bambini
addormentati, videro un sorriso e una felicità senza fine, come
quella di due sposini che in un mondo lontano eppure tanto
vicino, stavano ballando sulle note di un vecchio valzer lento.
Illustrazione: Gianfranco Uber
Alberto Calandriello
IL PAESE DEL TEMPO
C'era una volta il paese del Tempo, un posto meraviglioso.
Se qualcuno si ammalava veniva portato nella Casa del
Tempo della Salute e stava subito meglio, tutti i ragazzi
andavano alla Casa del Tempo dello Studio e imparavano le cose
importanti, poi andavano al Parco del Tempo del Gioco e si
divertivano insieme.
Il Re e la Regina ebbero un bambino che venne chiamato
PocoTempo, perché era appena nato.
PocoTempo imparava velocemente grazie al suo Maestro
ColtivaTempo. Sapeva distinguere il Tempo del Gioco dal Tempo
dello Studio, il Tempo del divertimento dal Tempo dell'impegno,
il Tempo di Parlare dal Tempo di Ascoltare.
Un brutto giorno però, arrivarono nel Paese del Tempo due
furfanti: PerdiTempo e RubaTempo.
Subito iniziarono ad imbrogliare la gente. PerdiTempo
fermava le persone che avevano fretta e le faceva arrivare tardi
al lavoro o a casa o dal dottore; quando poi queste si accorgevano
del ritardo, si offriva di accompagnarle e le rapinava. Ogni giorno
PerdiTempo si mascherava in un modo diverso e nessuno lo
riconosceva, un giorno era una vecchina che doveva attraversare
la strada, un giorno un signore che non trovava un posto, oppure
un bambino che aveva perso i genitori. Gli abitanti del Paese del
Tempo erano persone buone e gentili e lui se ne approfittava e
faceva perdere loro un sacco di tempo, per poterli ingannare e
truffare.
RubaTempo colpiva di notte, entrava nelle case e portava via
il Tempo. Così al mattino le mamme non trovavano più il tempo
per fare colazione con i figli, i papà il tempo per giocare con i
bambini, gli sposi il tempo per parlarsi, i ragazzi il tempo di
studiare, gli adulti il tempo per aiutare gli anziani. Tutti erano
sempre agitati ed arrabbiati e trovavano solo il tempo per
litigare, perché un po' di tempo glielo rubava RubaTempo ed un
po' glielo faceva perdere PerdiTempo.
Il Paese del Tempo stava diventando un posto triste e cattivo;
qualcuno già pensava di andarsene; per paura di essere
imbrogliato, nessuno era più disponibile ad aiutare gli altri, le
vecchine rischiavano di essere investite dalle macchine, per
paura che fosse PerdiTempo, i turisti vagavano per le vie del
Regno senza che nessuno si fermasse ad indicare loro la strada
giusta ed in breve tempo nessuno volle più andare in vacanza nel
Regno del Tempo; i bambini piangevano disperati ai bordi delle
strade e nessuno li consolava, perché pensavano fosse un
ennesimo travestimento, così iniziarono tutti a litigare tra di
loro e nessuno passava più del BuonTempo.
PocoTempo in breve capì la situazione ed andò a parlare col
Re e la Regina: –Papà, mamma, non possiamo permettere che il
nostro Regno venga rovinato, bisogna fare qualcosa!–
Il Re e la Regina, ormai anziani, non sapevano però che pesci
pigliare, –come faremo figliolo? Non abbiamo più forze! Il nostro
Tempo sta per finire!–
Così, PocoTempo escogitò un piano.
Iniziò a girare per il regno senza farsi riconoscere e ad ogni
bambino che piangeva, ad ogni turista smarrito, ad ogni
vecchina spaventata portava aiuto, dedicando a loro il meglio del
suo Tempo.
Un giorno, mentre stava aiutando una signora anziana, iniziò
a spiegarle che il Tempo dedicato ad aiutare gli altri non è mai
tempo sprecato e anzi, quel Tempo aiuta a crescere ed a sentirsi
più buoni; la vecchina, che era PerdiTempo travestito, rimase
molto colpita da quelle frasi.
Una mattina invece parlò con una mamma a cui RubaTempo
aveva portato via il Tempo della colazione con i figli e le spiegò
che quel tempo doveva per forza essere sostituito e la convinse a
rinunciare al Tempo delle Pulizie, per una volta e a dedicare quel
tempo ai suoi bambini; poi convinse un papà a rinunciare ogni
tanto al Tempo del Lavoro Straordinario per portare i figli al
Parco del Tempo del Gioco ed alcuni ragazzi a spegnere i
computer un pomeriggio alla settimana per fare due chiacchiere
con i nonni nel Circolo del Tempo della Memoria.
Piano piano tutti compresero quali erano le cose davvero
importanti a cui dedicare del Tempo. RubaTempo intanto si
accorse che del tempo rubato non se ne faceva più niente,
perché era un furfante ed i furfanti non hanno amici con cui
passare il Tempo. Allora lui e PerdiTempo decisero di chiedere
perdono a tutti ed insieme a PocoTempo andarono a scusarsi
anche con il Re e la Regina. I Reali del Regno del Tempo capirono
che i due avevano imparato la lezione e li perdonarono.
PocoTempo divenne così l'eroe del Regno del Tempo e a lui
venne affidata la creazione di un esercito del Tempo: i
SalvaTempo.
I SalvaTempo aiutavano chi non voleva sprecare nemmeno
un minuto delle loro giornate in cose sciocche, negative o inutili.
In pochi anni il Regno del Tempo tornò al suo antico
splendore, tutti erano amici e si rispettavano, perché non c'è
nulla di peggio che perdere tempo ad arrabbiarsi con gli altri!
Tutti capirono quindi come usare il loro Tempo e da quel
momento per loro fu il Tempo di vivere felici e contenti.
Jaime Andrés De Castro
IL RE DEL TEMPO
Tanto tempo fa, in un regno irraggiungibile, sorgeva un piccolo
castello. L'unica torre sarebbe dovuta servire per i prigionieri
ma, ormai, nessuno ci veniva incarcerato, tanto che la torre era
vuota da almeno cento anni.
Il re passava la mattinata a stare seduto sul suo piccolo trono
e i pomeriggi a farsi bello perché, essendo senza regina, sperava
un giorno di incontrare una principessa dolce e gentile che
volesse sposarlo. Un pomeriggio, mentre il barbiere pettinava i
capelli del re, ne trovò uno bianco e lo mostrò al sovrano, questi
si accorse di quanto stesse invecchiando e andò di corsa verso lo
specchio. Osservandosi attentamente la folta barba notò alcuni
peli grigi tra quelli rossicci e cercando fra i capelli ne trovò altri
bianchi, mentre sul volto vide tante piccole rughe attorno agli
occhi, alla bocca e sulle guance, per non parlare di quanto fosse
diventato rugoso il collo! Iniziò a preoccuparsi seriamente e
cominciò a sospirare, sbuffare e sussurrare quanto avrebbe
amato che il tempo si fermasse per permettergli di trovare una
principessa da sposare, senza dover invecchiare triste e solo.
Chiamò a sé il suo consigliere più fidato e gli disse:
«Consigliere, voglio che trovi al più presto un modo per
farmi conoscere una principessa! Ormai sto invecchiando e
vorrei che il tempo non passasse mai, ma siccome non posso
fermarlo, mi devo sposare, al più presto!».
«Mio sire, non conosco una maniera per oltrepassare il bosco
inesplorato che circonda il nostro regno, ma so come non farla
più invecchiare, faremo rapire il Tempo.»
«Il tempo?» disse il re.
«Sì, il Tempo!».
«E come si può rapire il tempo?».
«Vede, mio signore, il Tempo vive in una grotta, fra queste
montagne, so di per certo dove si nasconde, è un uomo molto
piccolo e indossa sempre un grande cappello rosso a punta, non
si ciba di verdure e frutti, come noi umani, ma di ore e minuti e
secondi che vengono prodotti dall'orologio gigante che continua
a muovere con le sue mani, giorno e notte, senza mai dormire».
«Dici davvero o mi prendi in giro?» chiese il re, preoccupato.
«Non le mentirei mai, sire, anzi, aggiungo che quando è
particolarmente affamato gira più velocemente il suo orologio
gigante e quando è stanco se ne dimentica e si riposa».
«Ecco perché a volte, quando sono solo, mi sembra che il
tempo non passi mai! Invece quando ricevo visite gradite passa
in un lampo!».
«Avete ragione, sire!».
«Bene, consigliere, i tuoi consigli sono in assoluto i migliori
consigli che un consigliere possa consigliare! Guardie! Portatemi
qui il Tempo!» ordinò il già felice re.
Le guardie si mossero su indicazione del fidato consigliere e
in una grotta trovarono il Tempo, intento a girare le grandi
lancette del suo gigantesco orologio. Lo arrestarono e lo
portarono nella torre vuota che ora, finalmente, veniva
ripopolata. Il Tempo cercò di convincere le guardie di quanto
potesse succedere senza lui alla guida dell'orologio, ma queste si
limitarono a eseguire gli ordini del re. Allora fu costretto a
rassegnarsi e si mise a osservare dall'alto il piccolo regno, tutto
racchiuso in poche casette e qualche bottega. Non aveva mai
avuto l'occasione di ammirare la bellezza di quel paesino, anche
se sapeva bene quanto fosse importante il suo lavoro, non solo
per il piccolo regno, ma per tutto il mondo. Il re fu avvisato della
cattura del Tempo e sentendosi rincuorato, tornò dal barbiere e
si fece spazzolare i capelli, notando con piacere che non gli era
cresciuto nessun altro capello bianco. Si ispezionò per bene le
rughe del volto e del collo, ma non ne erano spuntate di nuove.
Era soddisfatto di poter per sempre rimanere in quello stato di
bellezza e gioventù.
Passarono dei giorni senza ore né minuti, tutto era rimasto
come al momento della cattura del Tempo. I bambini non
crescevano e il sole era fermo sempre nello stesso punto, la notte
che era rimasta bloccata dall'altra parte del mondo; i raccolti
non crescevano più e anzi, con tutto quel sole si erano rovinati; il
tic-tac degli orologi si era bloccato, così anche le campane della
chiesa non rintoccavano più.
Il re era soddisfatto, ma la popolazione del piccolo regno non
lo era di certo, così decisero di mandare il giovane più
intelligente a chiedere la liberazione del Tempo al sovrano. Il
giovane venne ricevuto durante una mattina o un pomeriggio o
una notte in cui il regnante era seduto sul suo piccolo trono. Si
inchinò al cospetto del re che gli diede il permesso di parlare,
dopo le dovute reverenze e cordialità, il ragazzo disse: «Sire,
vengo in nome della popolazione, abbiamo bisogno che liberi il
Tempo, altrimenti i raccolti non cresceranno più e così i
bambini, non sappiamo quando dormire e quando svegliarci,
quando cenare e quando fare colazione!».
«No, non libererò mai il Tempo! Altrimenti la mia bellezza
verrà compromessa e non troverò una regina!» sentenziò il re.
«Sua maestà, la principessa arriverà un giorno, ma noi ora
abbiamo bisogno che il Tempo lavori sulle sue lancette giganti!».
Il re si prese qualche minuto per pensare e disse:«Non ho
intenzione di aspettare, se troverai un modo per collegare questo
regno ad altri, allora libererò il Tempo!».
Non fu molto difficile per il giovane creare un sentiero
diretto al castello più vicino, bastò la sua buona volontà e l'aiuto
di tutti gli abitanti. La fortuna volle che nel regno vicino una
principessa non trovasse il re di cui essere la regina. Fu
l'occasione per celebrare le nozze e liberare il Tempo che da
allora non è più solo fra le sue lancette, ma per volere del
sovrano viene aiutato a muoverle da delle guardie, ovviamente
solo quando queste non devono vigilare sulle rughe del re.
Sabina Bruzzone
IL DONO DI LU
In una città come tante, né troppo grande né troppo piccola,
senza grattacieli ma senza fattorie; uno di quei posti dove le
persone non si salutano perché troppo occupate a correre dietro
a mete invisibili; c'era una volta una bambina che aveva tutto... o
almeno così le dicevano la mamma, il papà, la nonna.
La mamma, il papà e la nonna facevano lunghi discorsi su
altri bambini, di altri posti meno fortunati che lei non conosceva.
Certo aveva molti giochi e libri e una casa calda e
accogliente, non le mancava il cibo né la voglia di fare capricci se
qualcosa non le piaceva, aveva abiti e scarpe per tutte le
stagioni,aveva tutto tranne qualcuno con cui condividere il
tempo e i pensieri.
Giulia, infatti, aveva una mamma e un papà proprio speciali
che i suoi compagni di scuola le invidiavano: Eleonora, snella e
sorridente era un chirurgo, Giovanni alto e brizzolato un vigile
del fuoco. Insomma quasi due supereroi!
I loro cellulari squillavano in continuazione e, spesso, nel bel
mezzo del pranzo o della cena o nel cuore della notte uscivano
per salvare qualcuno o spegnere un incendio. Così Giulia restava
sospesa ad aspettare il loro rientro con la nonna che per
consolarla preparava torte e biscotti che erano il loro piccolo
segreto perché la mamma glieli aveva vietati!
Nonna Lu aveva grandi occhi grigi e mani lunghe e ossute
che trasformavano i semplici gesti del cucinare in una specie di
danza che Giulia facendo capolino in cucina sbirciava come
ipnotizzata.
Gli anni passarono fra lezioni di piano e mille altre attività
che Eleonora e Giovanni erano soliti definire costruttive, ma che
in realtà occupavano le giornate di Giulia senza minimamente
riuscire ad attenuare il senso di vuoto che albergava nel suo
cuore come un ospite silenzioso e crudele.
Un giorno di marzo nella cucina illuminata da pochi timidi
raggi di sole improvvisamente calò un silenzio quasi surreale,
Giulia che era nella stanza accanto, non sentendo più la nonna
cantare, corse a vedere cosa fosse accaduto e la trovò accasciata
a terra immobile davanti ai fornelli. Eleonora che aveva salvato
con il suo bisturi migliaia di estranei uscì sconfitta dalla sala
operatoria.
Dopo la morte di Lu Giulia smise di mangiare come se l'unico
vero cibo che potesse saziarla fosse svanito per sempre.
Se solo la nonna le avesse insegnato le sue ricette!
Un mese dopo rovistando nel comò di Lu trovò un piccolo
porcospino di coccio che aveva visto tante volte e che credeva di
aver rotto da bambina, aveva un muso buffo e l'attraeva in modo
particolare perché la nonna non voleva che lo toccasse, come
tutte le cose proibite era diventato un gioco bellissimo che
prendeva di nascosto mentre Lu non guardava.
Nella penombra della stanza il sorriso del riccetto sembrava
vero, anzi era vero! Cominciò a parlarle e a raccontarle storie che
aveva dimenticato, era diventato il custode dei suoi segreti.
Quando Giulia conobbe Alessandro il piccolo riccio fu il primo a
saperlo, faceva il pasticcere davanti alla scuola di Giulia e sembrò
sin da subito determinato a renderla felice. Il ragazzo, per
mostrarle il suo amore, decise di prepararle un dolce, avrebbe
voluto che per lei fosse speciale, ma come? Nessuno conosceva le
ricette della nonna, nessuno tranne il porcospino che comparve
nella cucina di Alessandro e gli regalò passo passo le istruzioni
per il dessert preferito di Giulia . Quando il giovane arrivò con il
dolce Giulia mangiandolo pianse e ogni lacrima sembrò liberarla
da un anello della catena che aveva legato la sua anima, la
ragazza capì finalmente che poteva essere felice.
Barbara Garassino
L'ELEFANTE E LA FARFALLA
C'era una volta in una verde radura alle spalle di un placido
laghetto, un elefante di nome Duccio; Duccio era il primo ed
unico figlio di due vecchi e saggi elefanti che, data la loro vita
ricca di impegni ed una lunga serie di acciacchi, non trovavano
molto tempo per giocare con lui.
Così Duccio aveva imparato a divertirsi da solo, correndo
sulla fresca erba della radura o sguazzando nell'azzurra acqua
del limpido laghetto; aveva anche incominciato a capire che per
un elefante non è tanto facile muoversi, considerate le notevoli
dimensioni ed il peso tutt'altro che leggero.
Un giorno, mentre sdraiato sul prato ancora inumidito dalla
pioggia recente guardava le nuvole giocare col sole, Duccio vide
una bellissima farfalla e ne rimase completamente affascinato: il
piccolo insetto aveva sottili ali variopinte che parevano di seta e
due lunghe mobili antenne luccicanti con le quali sembrava
assaporare l'aria circostante. Il suo volare pieno di grazia da un
fiore all'altro e il suo posarsi soave sulle fragili gocce di pioggia
senza nemmeno scalfirle, stupì e commosse fino alle lacrime il
piccolo elefante, in bisticcio continuo con il suo corpo goffo e la
sua indomabile distrazione.
Mai lui avrebbe avuto quella leggerezza, mai avrebbe potuto
muoversi nel mondo con quella leggiadra armonia e soprattutto
mai avrebbe potuto essere amico di quella splendida creatura;
infatti qualsiasi suo gesto l'avrebbe spaventata e qualsiasi
tentativo di contatto sarebbe stato impossibile, se non
addirittura pericoloso per quella delicata vita così diversa dalla
sua pesante esistenza.
Questi erano i pensieri dell'infelice Duccio mentre guardava
rapito quelle colorate membrane, che si aprivano e si chiudevano
nel tepore del meriggio.
Passarono giorni e trascorsero notti durante le quali il
povero cucciolo si lambiccava la grossa testa grigia per trovare il
modo di fermare anche soltanto per un attimo l'amata farfalla,
mostrarle tutta la sua ammirazione e comunicarle lo struggente
e ridicolo desiderio di essere come lei.
Ma un pomeriggio di fine estate Duccio, mentre stava
sonnecchiando sulla sponda del laghetto, fu sorpreso da un forte
e spaventoso temporale; alzatosi di scatto ancora confuso da un
sogno bruscamente interrotto, cominciò a correre con passi
pesanti e distratti verso le grida della madre, che lo chiamava
con preoccupati barriti.
Nella furia dell'improvviso risveglio e nella paura dei lampi e
dei tuoni, l'elefantino non si accorse della fragile farfalla che si
era posata sotto la sua zampa, forse per trovare riparo dalla fitta
pioggia o forse per lo spavento della tempesta in arrivo e,
inavvertitamente, la calpestò.
Soltanto il mattino dopo, quando il sole ridente era tornato a
splendere nel cielo, Duccio si avvide della terribile disgrazia ed il
suo dolore fu talmente grande e la sua disperazione talmente
autentica che risvegliarono gli dei della foresta e le fate dei
laghetti, i quali decisero di realizzare il più grande desiderio del
piccolo elefante, quel desiderio ardente e sognante che gli aveva
fatto trascorrere ore ed ore a guardare volteggiare nel cielo la
sua amata farfalla.
Così improvvisamente Duccio, ancora immerso nella sua
cupa tristezza, si sentì sollevare: il suo pesante corpo perse
consistenza, le sue grandi orecchie diventarono ali colorate e nei
suoi occhi sparirono le lacrime per lasciare il posto alla
meraviglia di decine di altre ali variopinte che, allegre e festanti,
lo accompagnarono nel suo volo leggero.
Illustrazione: Gianfranco Uber..
Sara Albarello
GIOVANNINO E I NUMERI
Vi ricordate il c'era una volta delle fiabe di Andersen?
Cenerentola, Hansel e Gretel, Cappuccetto Rosso.
Quelle che finiscono tutte con un vissero felici e contenti.
Questa è la storia del c'è.
Non del Che. Personaggio rivoluzionario che amava il
prossimo e ha sovvertito il paese volendo cambiare il mondo.
Questa è la storia, non una favola, non una fiaba, di
Giovannino.
Potreste anche voi incontrare Giovannino.
Magari è il vostro vicino di banco. Se state un po' attenti.
Piccolo, magrino con due grossi occhiali stravaganti sul naso.
Naso.
E che naso! Farebbe invidia al dottor Balanzone.
Quello con un'enorme pancia e un cipollotto nel taschino.
O magari il Cyrano di Francia ne vorrebbe uno come il suo.
Giovannino era un ragazzino che andava a scuola
controvoglia.
La scuola non piace ai più piccini sopratutto se ti obbligano a
startene incollato alla sedia tutto il tempo, senza mangiarti il tuo
panino in santa pace.
Finché un giorno scoprì la magia dei numeri.
Enormi nebulose di coppiette o triplette di numeretti messi n
fila quasi gli facessero un dribbling alla testa.
Come potevano combinarsi insieme e dare come somma una
nuova creaturina.
Come la vita e il suo mistero.
Moltiplicati erano tantissimi.
Quasi da capogiro.
Pensava anche lui che se avesse trovato una formula avrebbe
potuto scoperchiare il mondo e rigirarlo come un calzino
riportando l'ordine in quei paesi dove c'erano bambini poveri e
la guerra e avrebbe riportato l'amore proprio come il Che di cui
tanto gli parlava papà.
Papà Saverio,agli occhi di Giovannino, era un mito.
Come ogni padre, lavorava sodo, partiva da casa con la sua
tuta da lavoro la mattina, un bacio a mamma se non era troppo
di fretta e poi via! In fabbrica.
La sera tornava sempre stanco ma non si lasciava mai
scappare una parola con il suo figliolo.
Sempre affascinato da questo magico mondo matematico e
della noiosa maestra che non lo lasciava mai parlare.
Il papà di Giovannino era anche sindacalista e si batteva per i
suoi amici lavoratori cosicché pensò anche Giovannino di fare
qualcosa. Si! Doveva fare qualcosa!
Si mise tanto a studiare sui libri di storia e scoprì che Ernesto
Che Guevara venne ucciso.
Capì che bisognava andare fino in fondo in ciò cui si crede e
non si lasciò abbattere.
Un giorno, facendo ritorno da scuola, vide, in un negozio di
libri, una chitarra.
Pensò che con i soldi della paghetta, se li metteva un po' da
parte, nel giro di un mese facendo un rapido calcolo avrebbe
potuto comprarsela.
E così fu.
Scoprì che gli serviva per suonare tutta la sua conoscenza
matematica: il tempo e le battute divise in frazioni, il ritmo è una
danza matematica.
"Perfetto" pensò.
"Posso cambiare il mondo con la musica!"
Si mise a studiare i più grandi chitarristi classici: Segovia,
Tommy Emmanuel per citarne alcuni e nel giro di un anno seppe
riconoscere i più grandi artisti e ad emularli fino ad arrivare a
scrivere qualcosa per sé.
L'avrebbe poi mandato ai politici pensando che la voce di un
bambino sarebbe stata ascoltata.
Cantava di latte per i più piccini, di una casa calda, di un papà
con un lavoro come quello del suo e di tante scuole dove
imparare a leggere e suonare.
Mandò una lettera al Presidente della Repubblica che dopo
un mesetto gli rispose.
A Giovannino Coscienzioso,
ho ascoltato le tue richieste.
Sei un bambino molto arguto e coraggioso.
Manderò una squadra di lavoratori per costruire in Africa e
America Latina le più prestigiose scuole per i bambini della zona. Se
volessi partire per l'estate con i genitori passa al Quirinale e troveremo
accordi.
Giovannino non stava più nella pelle.
Giugno era alle porte e la partenza per Roma anche.
Ora sapeva che poteva cambiare qualcosa.
Forse una piccola goccia sommata a tante altre può creare un
oceano.
Luigi Siccardi
ZAFFIRO
C'era una volta, in una vecchia casa, una sedia a dondolo ricavata
da un'antica quercia sulla quale non si sedeva mai nessuno.
Eppure sembrava comoda, aveva un aspetto confortevole e
rassicurante ed era ben collocata vicino ad una finestra dalla
quale si poteva vedere un grande prato antistante ad un bosco.
Il suo legno pregiato, intarsiato dallo scorrere naturale del
tempo, mostrava fiero profonde venature dalle quali si riusciva
quasi a scorgere l'odore muschiato del suo ambiente d'origine.
Un dolce cigolio ne accompagnava il lento movimento dal ritmo
fluido e regolare come il sussurrare del vento fra le foglie
d'autunno.
Apparentemente non veniva usata perché nessuno ne aveva
il tempo o la voglia; in realtà non c'era anima viva che osasse
occuparla poiché non appena la si avvicinava si poteva avvertire
chiaramente la sensazione di disturbare qualcuno e un forte
disagio.
Così la sedia era passata di generazione in generazione,
silenziosa, indisturbata da un proprietario all'altro che non si
osava di venderla o spostarla, timoroso dell'antica leggenda che
l'accompagnava. Si diceva, infatti, che sul dondolo fosse
comodamente adagiato un cavaliere delle fate, anticamente alla
corte del re Oberon, signore della Terra di Mezz'Estate. Costui
era molto vecchio, la sua argentea armatura era ormai
impolverata e la sua barba bianca era così lunga da ricoprirlo
come un lenzuolo. Il suo vero nome era perduto, nemmeno lui lo
ricordava, sapeva solo che, un tempo, veniva chiamato Zaffiro
per il colore dei suoi occhi.
Zaffiro era molto stanco, nessuno parlava più di lui e la sua
energia andava spegnendosi. La magia era morta, nessuno
credeva più nei sogni e come dargli torto? La realtà era dura e
difficile, la guerra infuriava seminando atroci veleni che
intossicavano gli animi, macchiando indelebilmente ogni forma
di purezza. Eppure sarebbe bastato così poco per destare dalla
sua lenta agonia il cavaliere. Sebbene non fosse del tutto
cosciente, rimaneva in uno stato di quiescenza, che gli
permetteva di percepire il mondo intorno a lui.
Quando bussarono alla porta la signora Marta stava
impastando il pane su una grande madia di legno, con quel poco
di farina che conservava con parsimonia. Coprì con cura la
piccola pagnotta scura con un canovaccio pulito e con le mani
ancora sporche di farina si diresse verso il portoncino. Abbozzò
un sorriso nel vedere sull'uscio sua sorella Gemma
accompagnata dalle due figlie: Michela, la più grande, doveva
avere all'incirca tredici anni, Lisa, la piccolina, si teneva nascosta
dietro la gonna della madre.
Superando l'imbarazzo di chi non si vede da molto tempo e
ha paura di sbagliare le parole, Marta abbracciò la sorella.
–Ben arrivate!– disse invitandole ad entrare.
Gemma accolse l'invito. Lisa strabuzzò gli enormi occhi
nocciola quando vide un grande atrio davanti a sé, dominato da
una maestosa scala che portava al piano superiore; eleganti
tappeti ornavano i pavimenti lucidissimi, sulle pareti spiccavano
i vuoti lasciati dai quadri che un tempo dovevano impreziosirne
l'aspetto. Dalla cristalliera mancavano numerosi oggetti
d'argento ma, a lei, sembrò comunque di essere entrata in una
reggia fantastica; la curiosità prese il sopravvento e pian, piano
lasciò la gonna della mamma e sgattaiolò su per le scale.
–Devi scusarla,– disse Gemma a Marta passandosi un
fazzoletto sugli occhi –da quando c'è stata la disgrazia non parla
più, non si riesce a farla ridere o piangere.
–Lascia che si ambienti e vieni a prendere una tazza di caffè,
non è dei migliori, purtroppo le provviste stanno terminando,
ma l'ho tenuto da parte quando ho saputo che saresti arrivata.
Le due donne e la giovane Michela entrarono in cucina dove
la caffettiera era già sulla stufa in attesa del loro arrivo.
Lisa percorse il corridoio che odorava di mobili vecchi
guardandosi intorno, quando uno scricchiolio leggero in una
stanza attirò la sua attenzione: in fondo a un vecchio salottino,
vicino ad una finestra senza tende, l'unica nella casa, c'era un
bellissimo dondolo.
La bimba varcò la porta aperta, nella stanza aleggiava una
lieve fragranza d'erba , la sedia ondeggiava leggermente, come
se qualcuno si stesse cullando. Lisa si avvicinò cautamente, il sole
di mezzogiorno entrava dalla finestra illuminando le assi della
vecchia sedia. A Lisa parve di scorgere, come attraverso strati di
organza, una figura adagiata sul quel dondolo. La bimba fece un
passo indietro impaurita, ora che teneva fisso lo sguardo su quel
prezioso oggetto la figura aveva preso consistenza: era un
vecchino rattrappito, con una barba lunga e candida che lo
copriva come un lenzuolo. Qua e là, tra i ciuffi di peli, si
intravedeva del metallo, la bimba, dapprima, pensò che fosse
morto, ma poi, si accorse che le narici del vecchio fremevano
leggermente del regolare respiro del sonno. Aveva
un'espressione così dolce sul viso che le strappò un sorriso,
seppure imbevuto di tristezza. Quel piccolo scintillio vivificò
Zaffiro che riuscì a scuotersi dal sonno abbastanza da cominciare
a mormorare alla bambina e siccome questa non gli rispondeva
iniziò a raccontarle le sue avventure:
–C'era una volta un cavaliere, vecchio e stanco, ma non era
sempre stato così! Da giovane, sir Zaffiro in groppa al suo
destriero fatato, cavalcava tra le stelle, per gioco caricava le
maree, e quando il suo signore non lo mandava a caccia di draghi
malvagi o pericolose manticore, attraversando il Portale del
Sonno entrava nei sogni dei bambini per combattere gli incubi
più spaventosi.
Lisa rapita ascoltava in silenzio, il cavaliere aveva letto nella
sua tristezza e visto chiaramente l'ombra che l'affliggeva. Una
figura maschile ossessionava la mente della piccola, ora
sorridente, ora cadaverica con il sangue fresco che le colava dalle
labbra livide. Era il ricordo di suo padre morto nella guerra nella
quale anche i bambini diventavano cenere.
La piccola prese a frequentare il vecchietto tutti i giorni e i
lori incontri erano benefici per entrambi.
–Erano trascorse, cinquanta primavere da quando la sedia di
sir Zaffiro era stata portata nella casa vicino al bosco e lui ne era
contento perché almeno sarebbe morto in un luogo dal quale
poteva sentire parlare gli alberi. Si sarebbe disciolto in
frammenti di sogno come accade a chi è costretto a lasciare
questo mondo mia dolce principessa, ma chi se ne va rimane nei
ricordi, l'amore è la più grande delle magie.
A queste parole gli occhi della piccola si riempirono di
lacrime, le sue manine cercarono le grandi mani ossute del
cavaliere e le strinsero forte.
Un brutto giorno quattro soldati senza insegne e senza patria
entrarono con la forza nella grande casa di zia Marta. Distrussero
e derubarono. Quando videro che la casa era abitata da due
donne sole e due bimbe divennero crudeli e spietati.
Lisa al solo vederli cominciò ad urlare, la paura le gelava il
sangue, non c'era più nessun luogo sicuro, tutto era avvolto
dall'orrore del caos e nessuno poteva farci niente.
A nulla valsero le preghiere delle due donne che umiliate in
terra fra i singhiozzi invocavano pietà.
–Fatemi il favore, tagliate la gola alla marmocchia– ringhiò il
più grosso dei quattro.
–Certo capo– rispose il più brutto, inseguendo la bimba che si
era gettata a capofitto su per le scale rifugiandosi nella stanza di
Zaffiro.
–Aiuto, signore, gli uomini cattivi mi vogliono fare male!–
singhiozzò Lisa gettandosi ai suoi piedi.
Il soldato era già entrato nella stanza, aveva preso la
bambina per i capelli ed estratta la baionetta si preparava a farla
tacere per sempre.
–Ti prego Oberon, mio signore, aiutami a fare ciò che è
giusto, concedimi la forza!– supplicò il cavaliere disperato. Era
tutto inutile, Oberon non esisteva più, ma Zaffiro non poteva
arrendersi, guardò dentro di sé e vide il dolce sorriso di Lisa
sfavillare come un fuoco.
Allora sentì una nuova energia scorrergli le vene, tutto
avvenne in un attimo: il suo corpo vecchio e avvizzito tornò a
riempire l'armatura, giovane e forte, la barba cadde a terra come
un sudario inutile e i capelli grigi tornarono biondi e sfavillanti.
La magia lo riempì tutto e quando riaprì gli occhi nel destro
scintillava la costellazione di Orione, suo mentore, e nel sinistro
quella del Sagittario, il suo segno. Nonostante la furia che lo
pervadeva non poté fare a meno di sorridere a Lisa, quindi,
divenuto visibile, si voltò verso il soldato che terrorizzato non
riuscì nemmeno ad implorare, in un'istante al suo posto non
c'era che un mucchietto di ossa consumate dal tempo.
Il suo sguardo si addolcì nuovamente carezzando la paura di
Lisa che flebilmente sussurrava: –Pietà.– Allora il cavaliere fissò
lo sguardo sul pavimento e nel vedere ciò che stava accadendo al
piano di sotto lo attraversò come un bastone che entra
nell'acqua. I manigoldi nel vederlo rimpicciolirono fino a
diventare tre piccoli scarafaggi e fuggirono via.
La magia era finita, il cavaliere iniziò a svanire, fino a
rimanere un'armatura vuota che collassò a terra. Tra i resti si udì
un vagito, nel pettorale della corazza giaceva un infante biondo.
Nel suo occhio destro scintillava la costellazione di Orione,
nel sinistro quella del Sagittario.
Annamaria Altomare
DI QUA
Tutto sarebbe parso strano agli occhi di un adulto ma non a
quelli di un bambino: quella spessa nebbiolina che oscurava la
visuale e il gracidare delle rane che, comodamente a pancia
all'aria, chiacchieravano con un grillo in frac.
Tutto presagiva l'inizio di un'avventura.
Il sentiero di pietre si insinuava tra gli alberi che, all'arrivo
dell'omuncolo dai folti e scompigliati capelli grigi, si scostavano.
Ad ogni passo l'aria era meno densa e il profumo di mille
fiori gli solleticava il nasone –Bentornata Primavera!– soleva dire
ad ogni starnuto.
Gli uccelli si fermarono per osservare l'allegro incedere
dell'omuncolo dai grandi piedi e gli alberi si allargarono ancora
di più mostrando allo straniero un paesaggio mozzafiato.
Il forestiero si fermò incantato dai colori che lo
circondavano: l'azzurro limpidissimo del cielo, il verde brillante
della campagna, il marrone caldo della terra. Per vedere meglio
unì le mani a formare un piccolo cannocchiale. Guardò. Tolse gli
occhialini rotondi, li pulì e tornò a guardare.
Pareva cercasse qualcosa o qualcuno.
Laggiù, proprio sotto la montagna c'era un villaggio di
piccole case dal tetto aguzzo, tutte graziosamente curate,
contornate da un piccolo giardino di erba verdissima.
L'aria era calda, come una giornata che preannuncia l'arrivo
dell'estate, e si sbottonò il lungo cappotto nero.
–Ben tornata Primavera!– ripeté dopo l'ennesimo starnuto.
Il sole stava già salendo a mezzogiorno –Strano, molto
strano– borbottò tirando fuori dal taschino del panciotto un
orologio a forma di cipolla.
Si guardò intorno e ritornò a controllare l'orologio.
Il villaggio pareva addormentato, le finestrelle erano tutte
chiuse.
Lo straniero si sedette su un grosso masso grigio macchiato
di muschio soffice.
Forse, stava aspettando qualcuno o qualcosa? Mah, non lo so!
Come dicevo, si sedette sul grande masso e sospirando si
guardava attorno.
Un sospiro, uno sguardo all'orologio, uno alle casette, un
sospiro, uno sguardo all'orologio e uno alle casette, un sospiro...
Il sole adesso era alto nel cielo e l'omuncolo cominciava a
sudare sotto il suo pesante pastrano nero che attirava i caldi
raggi.
–Dovrò andare da solo– si disse a malincuore.
Si alzò, prese un lungo ramo nodoso da usare come bastone,
e riprese il cammino.
La strada si snodava in mezzo a lussureggianti campi e i fiori
sul ciglio della strada si inchinavano al suo passaggio come a
rendergli omaggio.
La strada era lunga e silenziosa, stranamente silenziosa.
Nessun rumore, nessun latrato di cane o muggito e ancora,
nessuna parola di uomo. Avvertiva un'aria strana che lo
invadeva e lo rendeva nervoso. Sembrava quasi che il villaggio
fosse abbandonato. Ma come poteva essere? Tutto era
perfettamente in ordine. Tutto era al posto giusto! Una leggera
brezza, adesso, lo accompagnava nel suo cammino. La brezza si
trasformò in un allegro venticello, che a sua volta si trasformò in
un freddo vento. Lo straniero chiuse il bavero e si strinse nel suo
pastrano. Sentiva il vento freddo pungergli le mani e gli occhi
cominciarono a lacrimare.
SBAM! Una finestra sbatteva. Si fermò attento. Silenzio,
adesso non si sentiva più nulla. Il villaggio era a pochi metri. Le
case dipinte di bianco parevano finte, sembravano un bel quadro
appeso alla parete della montagna. Tutto era fermo e immobile.
Ma cosa stava succedendo? Adesso era pervaso da mille domande
e i pensieri vorticavano nella sua testa. –Eppure era oggi, ne sono
sicuro– si disse dubbioso –Il nostro incontro era in questo
villaggio alle quattro precise. Sono in anticipo!
Le case erano disposte a raggiera intorno a un grande pozzo
dal quale penzolava un secchio. Bevve un po' di acqua e si rimise
in attesa. Il campanile troneggiava con il suo grande orologio.
–È esatto.– Disse rimettendo il suo orologio nel taschino.
Stare in mezzo alla piazza da solo lo metteva a disagio e si
addentrò tra le case che rivelarono strette viuzze che si
perdevano nella montagna. Magicamente, qualcosa di luccicante
attirò il suo sguardo, era una freccia che indicava: DI QUA. La
viuzza si infilava risoluta dentro la pancia della montagna e lui si
fermò indeciso sul da farsi. Poi, incuriosito si avvicinò all'antro
della montagna. Un'altra freccia “PROSEGUI FINO IN FONDO”.
–Strano modo di dare le indicazioni– pensò.
Il sole filtrava illuminando il grande antro, il sole lasciò il
posto a delle fiaccole collocate sulla parete di roccia della fredda
caverna. Si addentrò sempre più incuriosito. La terra era umida
sotto i suoi piedi e il percorso accidentato. All'improvviso si
trovò nel buio più buio. –Torno indietro– pensò spaventato. Ma
dal nero più nero vide avvicinarsi una luce tremula.
–Ma cosa stava succedendo?
–SORPRESA!– Urlarono mille voci
–TANTI AUGURI!– Sentiva il battito del suo cuore nella testa.
–BUON COMPLEANNO!
La caverna, si illuminò mostrando una grande sala imbandita
a festa. Tra la folla che lo contornava, riconobbe il volto dei suoi
amici:
–Tanti auguri Jack!
–Questa sì che è una grande sorpresa!– esclamò colmo di
emozione.
Gisella Germano
BOLLICINA
È autunno e sulle colline, tinte delle più belle sfumature, gli
alberi iniziano a spogliarsi della loro veste arlecchina.
È il primo freddo, ma le foglie ammucchiate nascondono il
manto erboso ancora verde acceso. Sul terrazzo di casa, una
frizzante brezza arrossa le gote paffute di Carlotta, mentre i
boccoli scuri, che le scendono fin sulle spalle, si scompigliano.
La mamma la osserva silenziosa, dalla poltrona del suo
angolo da cucito, sta preparando alla sua piccina una bella
sciarpa colorata, Micio gioca con gomitoli e rocchetti.
A Carlotta piace stare sul terrazzino, seduta in terra, col naso
all'insù e soffiare bolle di sapone per guardarle volare. Vorrebbe
farsi piccola piccola ed infilarsi dentro ad una di quelle!
Il tepore del sole la rilassa, socchiude gli occhi e tutto si
colora, si deforma: “ma cosa... dove sono? Nella bolla? Come ho
fatto? È una magia!” pensa e, all'improvviso, sente una vocina
flebile che dolcemente le sussurra: “Carlotta? Sono io, la bolla dei
tuoi sogni! Ti ho fatto un incantesimo e ti ho accolta nella mia
trasparenza colorata. Posso portarti dove vuoi. Andiamo?”
La bambina, non credendo alle proprie orecchie, cerca di
sturarsele col ditino, e dopo un primo attimo di sbalordimento,
risponde: “mi piacerebbe tantissimo visitare un posto che mi
ricordi i suoni del mio paese, ma che allo stesso tempo sia...
diverso, come ehm....”. Si fa silenziosa per ascoltare, ed ecco, che
in quell'istante, Luciana alza la saracinesca della botteguccia di
frutta e verdura proprio sotto la sua portafinestra, mentre le
loquaci paesane, pronte a riempire le borse della spesa,
chiacchierano per ingannare l'attesa.
“Illustrazione: Gisella Germano
Bolla vibra, in sintonia con i pensieri e i desideri di Carlotta,
pian piano inizia a sollevarla. Scorrono immagini di davanzali,
ante di persiane, finestre con gerani, tendine bianche al
macramè ai vetri e corde da stendere; scorrono cornicioni,
gronde, tegole, comignoli; si fanno sempre più piccoli i tetti, le
vie, le piazze, i campi arati; dall'alto campeggiano i boschi, i
versanti, i fiumi, i colli.
Calotta vede il paese rimpicciolirsi:
“sembra tutto così lontano!”
E, lassù, Bolla inizia ad ondeggiare in direzione del Bosforo,
attraversando mari e monti, arrivando al Kapaliçarşi, il Gran
Bazar di Istanbul, uno dei mercati coperti più grandi e antichi al
mondo, tanto che per immaginarselo bisognerebbe pensare ai
campi di fronte a casa di Carlotta, oltre il fiume, quelli che
vengono tagliati in estate, imballati e raccolti per il fieno
dell'inverno.
Carlotta, che si era assopita durante il viaggio cullata dallo
sferico dondolio, si risveglia sopra ad una distesa di piccoli
cupolotti bianchi, disposti tutti in righe e colonne:
“Che ordine! Che precisione!” pensa e vede tutt'intorno delle
strane file di lunghissimi tetti rosso-mattone, fuori dai quali
impera il caos urbano della città. È così che il mercato appare
dall'alto.
Un mulinello d'aria risucchia Bolla e Carlotta attraverso lo
spiraglio di una delle finestre di questa grandiosa costruzione.
Entrano e discendono dolcemente sopra una bancarella di tessuti
fermandosi in un angolo riparato. “Adesso io devo scoppiare”
afferma Bolla sospirando, poi con con tono calmo e pacato
aggiunge: “tu tornerai alle tue dimensioni reali, ma continuerai a
restare sotto il mio incantesimo, grazie ad esso riuscirai a
comunicare con le persone, perché loro ti ascolteranno come se
tu parlassi la loro lingua e a te sembrerà che loro parlino la tua.
Mi raccomando non perdere il tuo barattolino di acqua e sapone,
perché sono il biglietto di ritorno per casa: quando vorrai
concludere la visita ad Istanbul, soffia nella bacchetta ed io
arriverò.”
La bambina, ancora leggermente frastornata per il lungo
viaggio e per il pisolino, si ritrova sola in una lunga via di
colonne e pilastri, coperta da soffitti voltati e affrescati di un
giallo carico, decorati d'arabeschi, come le navate di una
moschea. Non c'è sole, ma un intenso sberluccichio. Dalle
finestre delle unghie del soffitto, scende poca luce, che però si
riflette sui drappi colorati appesi, sulle dinanderies d'ottone
esposte nei banchetti, sugli ori delle vetrine e sui lastroni chiari
di pietra liscia della pavimentazione. Qui si vende ogni genere di
spezie, tessuti e dolci, e si possono anche trovare botteghe di
artigiani come calzolai o fabbri.
Quasi risucchiata da questo vortice di colori, Carlotta si
guarda la scarpe distinguendole appena. Si sente tirare per una
manica, perde l'equilibrio e scivola tra montagne di tappeti,
foulard, sciarpe, pashmine e cuscini.
“Appena salva! La folla ti avrebbe travolta e portata via!”
Tufan la guarda e sorride:
“Qui puoi stare tranquilla. Sembri stanca... hai sonno? Vuoi
riposarti un po'?” Carlotta prontamente lo ringrazia: “...ehm...
sto bene, grazie. Chi sei?”.
Intanto la vista si fa sempre più nitida, lo osserva: è un
bambino come lei di circa sette anni, ha la pelle ambrata, i
sopraccigli scuri e folti, indossa una semplice maglietta turchese,
in testa porta uno di quei particolari berretti infeltriti color
nocciola, di lana grezza, da ripiegare sotto al braccio quando non
lo si indossa, il kalpak.
“Se non ti avessi acchiappata saresti caduta! Come ti
chiami?”
Illustrazione: Gisella Germano
“Carlotta. Sono venuta a visitare il tuo paese, ricco di suoni,
colori e profumi! Nonno mi racconta sempre delle sue avventure
per mare e degli sbarchi nei porti di tutto il mondo! Tu... come ti
chiami?”
“Sono Tufan, figlio di Adil. Aiuto papà a fare ordine in
negozio, e intanto gioco a biglie. Ti va di giocare con me?”
“Non so come si fa? Me lo spieghi?”
“Vedi nel negozio qui di fronte quello scatolone con sopra la
pila di magliette? Sotto c'è un piccolo buco: se riesco a far
entrare la biglia là dentro, vinco! È da un po' che ci provo e non
ci sono ancora riuscito. Stavo per fare un lancio, quando tu sei
cascata proprio lì in mezzo. Ma da dove arrivi?”
“Dall'Italia. Vivo in un paese di campagna, nell'entroterra
ligure. Mia mamma dice sempre che è un paese di quattro gatti.
Ma penso che si sbagli, perché con Micio, Righette, Puntini, Miao
Miao e Tigre, io, mio fratello, mamma, papà e tutti i bambini che
vanno a scuola... siamo già più di quattro!”
Carlotta si rende improvvisamente conto di quanto sia
diverso il mondo del bazar da quello di casa sua, e le piace!
Appena tornerà a casa chiederà a papà di colorare di giallo il
soffitto della sua cameretta! E alla mamma di appendere delle
belle tendine colorate di rosso e rosa alle finestre!
Intanto il via vai della folla di turisti e Tufan la scrollano:
“Se riesci a fare centro, poi da là devi tirare verso le
ceramiche di Aslan e colpire la ciotola di ceramica blu e gialla.
Basta toccarla per vincere. Il bersaglio successivo sarà la
cassetta di plastica rossa che Akay usa come sgabello per far
mangiare i suoi clienti. Conosco tutti qui, io!” Carlotta inizia a
giocare e dopo il primo lancio andato storto sbotta:
“Che strano nome che hai! Non avevo mai sentito un nome
così prima d'ora!”
“È un nome turco e significa Tifone. I miei genitori me
l'hanno dato perché il giorno che sono nato c'era stato un brutto
temporale.”
Curiosa allunga il collo per vedere meglio dove si trova, come
una tartaruga cerca di brucare il dente di cane troppo alto
“Attenta a dove vai, potresti perderti! Questo mercato è enorme
e pieno di gente!” Solo allora si accorge del pericolo: che folla
immensa! Come alle feste patronali di San Marco e Santa
Margherita, quando si riversa una tale quantità di persone tra le
viuzze ed i campi.
“Centro!” urla Tufan, esultando, “il prossimo bersaglio sarà...
la ciotola giallo-azzurra! Adesso devo colpire quella per andare
avanti. Ma... preferisco aspettarti. Dai! Tocca a te! ...ma dove sei
con la testa?” Carlotta fatica a lasciare i suoi pensieri e il suo
amico capisce che non si è ancora ripresa dal lungo viaggio e
dalla confusione del mercato, così la porta a Zincirli han, un
tranquillo e verde cortile sempre dentro al Gran Bazar. Qui una
fontanella, costruita per abbeverare le bestie trainanti i carri che
rifornivano un tempo il grande magazzino del caravanserraglio,
rinfresca la fronte a Carlotta, che alzando lo sguardo vede un
grande ippocastano fare ombra su di lei. Tufan le chiede di
raccontargli qualcosa del suo paese e di dirle se anche lì ci sono
grandi mercati come il suo.
“Di così grandi no, ma una volta alla settimana i vari paesi, a
turno, ne fanno uno, ma all'aperto e per poche ore. I venditori
arrivano su furgoncini super-accessoriati in piazza, spalancano
le porte e velocemente montano tenda e banchetto con tutto
sopra esposto.” Racconta anche al suo amichetto di come sia
arrivata fin da lui, di Bolla e dell'incantesimo.
“Vorrei tanto conoscere meglio la tua città, che è molto bella,
ma sono stanca e ho un po' nostalgia di casa. Che ne dici se torno
un'altra volta?” “Si, vorrei portarti anche a vedere le piantagioni
di bachi da seta fuori città. Ne hai mai visti?”
“No... e... si mi piacerebbe davvero tanto!”
Così Carlotta con il cuore colmo di entusiasmo nel sapere che
Tufan l'aspetterà per svelarle tutte le altre meraviglie della sua
terra, soffia nella bacchetta per far ritorno dalla sua mammina.
Bolla arriva, la raccoglie e la riporta attraverso il Bosforo, lo
stretto dei Dardanelli, il canale d'Otranto, sormontando
Appennini e prealpi Liguri, a casa.
Si ritrova così sul suo amato terrazzino, è ora di cena. Mamma
come sempre si è superata preparando quel delizioso pollo al
curry che le piace tanto.
Illustrazione: Gisella Germano
Miriam Coccari
IL RE SERPENTE
Nella piccola e modesta abitazione di comare Annina, la debole
fiammella che ardeva nel camino non era sufficiente a riscaldare
le stanche ossa dell'anziana donna. La cena era stata raccattata
con gli avanzi del pranzo, il brontolio dello stomaco era stato
messo a tacere, ma i brividi di freddo non le davano tregua. Fu
così che comare Annina decise di uscire fuori per andare in cerca
di qualche passuillu in grado di alimentare il fuocherello di casa.
Indossò il logoro cappotto di lana nera, afferrò un paio di sacchi
di iuta, con la speranza di riempirli entrambi, si chiuse la porta
alle spalle e si avviò per il sentiero che conduceva nella
campagna appena fuori paese. Il vento di marzo soffiava forte e
rumoroso, i piccoli vortici di aria le smuovevano il cappotto da
ogni lato, lasciando penetrare nelle calze consumate il freddo di
un inverno che stentava a terminare. Giunta sotto l'arco, in cima
alla lunga scalinata che dava immediatamente accesso agli orti,
comare Annina fu colpita di vedere un giovane dall'aspetto
distinto che le veniva incontro con passo pacato ma deciso.
L'anziana donna non poteva nascondere il timore che questa
grossa e alta figura maschile le suscitava, ma non indietreggiò di
un passo. Era immobilizzata, il suo sguardo era impietrito, il
respiro si era fatto fievole e la sua figura sembrava quasi
rimpicciolirsi man mano che l'uomo si avvicinava al suo
cospetto. Fu allora, proprio nel momento in cui la povera comare
Annina credeva che il suo cuore si sarebbe fermato, che il
giovane accennò un timido sorriso, tanto bastò a placare un poco
la tremenda sensazione di terrore che aveva invaso la donna.
“Dove vi recate, gentile signora?” chiese l'uomo con tono
tranquillo.
“Ho bisogno di qualche legnetto per alimentare il mio fuoco”
rispose lei con aria dimessa, e animo rasserenato.
“Ma non è prudente che un'anziana signora vada in giro da
sola a quest'ora della sera e poi con questo freddo...” riprese lui,
e continuò “a breve sarà buio pesto, fareste meglio a tornarvene
a casa.”
“Oh gentile giovane, me ne sarei stata volentieri a casa, ma se
non trovo qualche pezzetto di legno, stanotte morirò di freddo.”
Dovette confessare la donna.
Il giovane, a quelle parole, si impietosì e parve deciso a
offrirle il suo aiuto.
“Gentile signora, mi è concesso conosce il vostro nome?”
chiese.
“Il mio nome è Anna, ma per tutti sono comare Annina.”
Rispose la donna un po' imbarazzata per il fatto che qualcuno si
interessasse a lei.
“Mi piacerebbe sapere, gentile comare Annina, cosa ne
pensate di Marzo?” continuò a interrogare il giovane.
“Beh, marzo è un mese che tutti chiamano pazzo, ma io lo
immagino con l'aspetto di un bel giovane, robusto, alto e gentile,
proprio come siete voi...” Rispose lei senza esitazione.
Il giovane, compiaciuto, voltò le spalle alla donna e andò a
sedersi sul gradino alto di una casa, che a giudicare dalle erbacce
che la circondavano doveva essere disabitata da molto tempo.
A quel punto comparvero, come dal nulla, altri giovani,
saranno stati undici in tutto, tanto che in pochissimo tempo,
comare Annina si trovò attorniata, ma non ebbe paura questa
volta, sentiva in cuor suo che nulla di brutto le sarebbe accaduto.
I giovani presero a interrogarla a turno, e ciascuno di loro voleva
conoscere il giudizio della donna circa un mese dell'anno in
particolare, così furono passati in rassegna tutti e per ognuno
comare Annina ebbe parole buone e dolci, come era la sua indole.
Il giovane che era rimasto, fino a quel momento, seduto sul
gradino della casa abbandonata, si alzo, si avvicinò alla donna e
afferrò i sacchi che questa aveva tenuto stretti tra le mani per
tutto il tempo, poi esclamo:
“Gentile comare, se non vi dispiace, andremo noi a riempire i
vostri sacchi.”
Tutta imbarazzata, comare Annina tirò a sé i sacchi e disse:
“Non potrei mai pretendere tanto...”
E il giovane riprese: “Mi vedo costretto a insistere, non posso
permettere che una signora se ne vada da sola a quest'ora e con
questo freddo, noi siamo in tanti, giovani e forti, saremo di
ritorno in men che non si dica.”
La donna dovette accettare, cedette i sacchi al giovane che li
afferrò e scomparve insieme con tutti gli altri. Non ebbe il tempo
di riflettere su quanto le era accaduto che il gruppo fu di ritorno
con i sacchi che sembravano davvero colmi, chiusi con una
cordicella che rendeva impossibile valutarne il contenuto.
Il giovane si offrì di accompagnare la donna fin davanti
l'uscio della porta di casa. Così Annina fu scortata da una galante
brigata di affascinanti giovanotti, che scomparve nel nulla come
dal nulla era comparsa.
Dalla finestra della cucina che dava nella ruga in cui si
trovava l'ingresso dell'abitazione di comare Annina, comare
Giduzza, che era solita spiare ogni minimo spostamento della sua
vicina di casa, aveva osservato l'accaduto, che aveva destato in
lei una tale curiosità da renderla ancora più inquieta del solito.
Intanto comare Annina, ancora incredula e alquanto confusa,
era indaffarata a spostare i sacchi pieni di legna da ardere nel
piccolo ripostiglio attiguo al cucinotto. Pensò di essere diventata
veramente vecchia, le forze la stavano abbandonando, quei
sacchi le sembravano incredibilmente pesanti, impiegò un tempo
che le parve lunghissimo a trascinarli nel posto a loro destinato,
ma finalmente ci riuscì. Afferrò le forbici per tagliare la
cordicella con cui erano stati legati e... proprio in quel momento
si dischiuse davanti ai suoi occhi un'incredibile sorpresa. Non
riusciva a credere allo straordinario spettacolo che si trovava
davanti. Doveva trattarsi di un miracolo. Di legna da ardere non
ce ne era neanche l'ombra, i sacchi erano pieni sì, ma di oro in
tutte le fattezze: lingotti, anelli, collane, bracciali, pendenti, tutto
oro puro e brillantissimo. In quel momento comare Annina
realizzò che era stata la protagonista di uno straordinario
prodigio, non sapeva chi era l'artefice di quel dono: forse un
angelo del Paradiso che si era impietosito di lei o più
semplicemente un benefattore segreto, di una cosa era certa, il
tempo delle ristrettezze era terminato, avrebbe potuto
permettersi tutta la legna che le sarebbe occorsa fino alla fine dei
suoi giorni, pasti abbondanti a pranzo e cena, avrebbe
finalmente potuto aiutare i sui figli e le loro famiglie. Questo
pensiero la spinse a voler quantificare l'inaspettata ricchezza.
Decise, allora, di andare a chiedere in prestito il mezzo tomolo
alla sua dirimpettaia.
Comare Giduzza era una donna avanti negli anni, ma non
ancora vecchia. Anche lei abitava da sola, nella casa che era stata
dei sui genitori, non aveva mai avuto buone occasioni di
matrimonio, a sua detta, i due fratelli maggiori erano partiti per
l'America da ragazzi e non erano mai più tornati, dunque, viveva
in totale solitudine, da quando anche la madre era morta,
qualche anno prima quasi novantenne. Appena comare Annina
bussò alla porta, comare Giduzza fu pronta ad aprirla.
“Gidu' ti sono venuta a chiedere una gentilezza...”
“Che cosa ti occorre?” rispose Giduzza sfoderando il suo
solito atteggiamento indagatorio.
“Mi servirebbe il mezzo tomulo. Dovrei pesare della cenere
che donna Assunta mi ha richiesto per la lissia” Rispose comare
Annina arrossendo per la bugia appena detta, cosa a cui non era
affatto avvezza.
Comare Giduzza, più maliziosa dell'anziana comare,
rammentando la scena a cui aveva assistito poco prima dalla
finestra di casa sua, non credette nemmeno per un attimo alla
versione della donna, ma decise di sfruttare l'occasione per
riuscire a scoprire cosa bolliva in pentola.
“Se è così te lo vado a prendere subito” rispose la donna con
tono alquanto arcigno.
Ciò detto, si precipitò nel ripostiglio, prese il mezzo tomulo
conservato sopra una mensola e cosparse un angolo del fondo di
pece, così che questa avrebbe potuto rivelarle il misterioso
materiale di cui comare Annina intendeva conoscere il peso. Lo
stratagemma si rivelò azzeccato, perché appena l'anziana
signora ritornò a consegnare il prestito concesso, comare
Giduzza poté, finalmente, soddisfare la sua irrefrenabile
curiosità. In fondo al mezzo tomulo, appiccicato alla pece,
spalmata ad arte, era rimasta una monetina d'oro, e di cenere
neanche un granello. In preda all'ira più nera, Giduzza uscì di
casa come una furia, sbattendosi la porta alle spalle, trattenendo
a stento le urla che le sgorgavano dalle viscere, un po' per la
menzogna che le era stata raccontata, un po' per l'invidia
nascente nei confronti della sua vicina di casa, si diresse decisa
alla porta di comare Annina e bussò con forza, pronta a chiedere
conto di quello che lei considerava un grave torto. A nulla
valsero le motivazioni addotte, le scuse, le lacrime dell'anziana
signora, terrorizzata dalla collera della sua vicina di casa. C'era
solo un modo, concluse comare Giduzza a termine della sua
infinita sfuriata, per placare le acque: avrebbe dovuto rivelarle
come era riuscita a procurarsi tutto quell'oro. Senza pensarci
due volte comare Annina le raccontò tutto per filo e per segno,
desiderosa di far cessare quella incredibile piazzata che era
sopraggiunta a rovinarle la bella sorpresa ricevuta poco prima. A
parer suo, si trattava senz'altro di una punizione divina per
quella fiammella d'avidità che l'aveva spinta a mentire.
Ascoltato lo straordinario racconto di comare Annina,
comare Giduzza si precipitò a casa sua, per fare scorta di tutti i
recipienti che fosse riuscita a reperire e correre verso il luogo
indicato dalla vicina di casa come il posto del propizio incontro.
La schiera dei dodici giovani l'attendeva come se si fossero dati
appuntamento. Giduzza li scorse da lontano e, senza esitazione
alcuna, continuò a procedere con fierezza, certa dell'imminente
fortuna che l'avrebbe baciata.
“Dove vi recate, gentile signora?” chiese lo stesso uomo che
per primo aveva accolto comare Annina.
“È inutile che vi risponda, sapete bene dove mi reco” ribatté
lapidaria.
“Non è prudente che una signora se ne vada a quest'ora della
notte in giro da sola...” continuò il giovane, cercando di non
badare allo sgarbo appena ricevuto dalla donna.
“Tu sai cosa voglio, dammelo e me ne andrò subito” incalzò,
sempre più decisa Giduzza.
“Potrei conoscere il vostro nome, signora?” interrogò il
giovane, ignorando l'atteggiamento pretenzioso della sua
interlocutrice.
“Mi chiamo Giduzza.”
“Mi piacerebbe sapere, Giduzza, cosa pensate di Marzo.”
“Cosa dovrei pensare, tutto il male del mondo, è un pazzo,
con quel vento che ci scompiglia e quella pioggia che ci
inzuppa... Non vedo l'ora che se ne vada” rispose la donna con un
tale sdegno da azzittire definitivamente il giovane che per primo
aveva parlato con lei.
Dopo di lui, presero la parola a turno tutti gli altri e vollero
sapere il giudizio della donna sui restanti mesi dell'anno. Per
ognuno Giduzza aveva solo brutti pensieri e parole villane.
Sconsolati e afflitti, i dodici giovani, si decisero, infine, a
raccogliere i numerosi recipienti che la donna aveva portato con
sé e riconsegnarglieli pieni zeppi, come avevano fatto con
comare Annina.
Giunta alla soglia dell'abitazione, punto fino al quale era
stata scortata, così come era accaduto alla sua vicina di casa,
Giduzza ricevette una ferma raccomandazione: appena dentro,
ancor prima di aprire i contenitori, avrebbe dovuto chiudere
porte e finestre e otturare accuratamente ogni singola crepa e
anche la più piccola fessura della casa, buco della serratura
compreso, insomma tutto quanto avrebbe potuto rappresentare
un punto di contatto, seppur minimo, con il mondo esterno.
Detto fatto. Giduzza entrò in casa e si affaccendò per seguire
i consigli ricevuti. Appena ebbe terminato, soddisfatta e
trepidante, si accinse ad aprire il primo sacco.
Afferrò quello più grosso e lo posizionò proprio al centro
della stanza, pronta a degustare il momento in cui sarebbe
diventata una donna ricca. Ma appena tagliato il laccio che
teneva chiuso il sacco, uno spettacolo spaventoso le si presentò
davanti agli occhi: mille e mille serpenti di tutte le dimensioni
esplosero dal contenitore che li aveva tenuti costretti. A decine
saltavano fuori dal sacco e aggrovigliati raggiungevano il
pavimento con un tonfo e si dirigevano in ogni angolo della casa,
strisciando e stridendo. Giduzza lanciò un urlo disperato,
terrorizzata, con un solo balzo raggiunse la poltrona che era alle
sue spalle, vi saltò sopra con i piedi continuando a gridare e
cercando di liberarsi dai serpenti che le si erano avviluppanti
intorno alle caviglie. In poco tempo tutti i sacchi si svuotarono e
la casa si era trasformata in un brulicante covo di rettili. Giduzza
piangeva, raggomitolata sulla poltrona e aspettava il momento
della morte. Quando all'improvviso una serpe più grande e
maestosa delle altre, uscita per ultima dal sacco più grande, si
erse sulle altre e cominciò a parlare alla donna: “Posso liberarti
in un istante da questo inconveniente... Basta solo che tu mi aiuti
a realizzare il mio desiderio”.
Giduzza era impietrita, non riusciva a proferire parola, poté
solo annuire con un movimento della testa, pronta a tutto pur di
uscire al più presto da quell'incubo terrificante.
“Voglio sposare la figlia del re...” fu la rivelazione del
serpente, che continuò a spiegare per filo e per segno quanto
Giduzza era chiamata a fare per aiutarlo nel suo intento.
Ottenuta la promessa dell'assistenza desiderata, il serpente
se ne andò da casa di Giduzza portandosi dietro il numeroso
seguito.
Rimasta sola, Giuduzza, in preda allo sconforto, cercava di
studiare un modo per salvarsi dalla sventura che le era piombata
sul groppone. Come riuscire a farsi ascoltare dal re? Come
raccontargli quella storia strampalata? L'avrebbe sicuramente
ritenuta una pazza e fatta rinchiudere per sempre nelle secrete
del Palazzo.
Il re che era buono, non solo diede udienza alla donna, ma
ascoltò attentamente il suo racconto. La donna allora cominciò a
narrare quanto le era accaduto: dell'incontro con i giovani che le
avevano riempito i sacchi di serpenti, di come tutte quelle serpi
avessero invaso la sua casa e, infine, del colloquio con la più
grande, la quale si definiva il loro re e che aveva preso la parola
per dichiarare la volontà di sposare la figlia di sua maestà. Il re
serpente aveva rivelato di essere stato vittima di un sortilegio e
che la donna che sarebbe diventata sua moglie sarebbe stata
l'unica a poterlo vedere nelle sue reali fattezze, quelle di un
bellissimo giovane.
Il re ascoltò attentamente la donna, e quando ebbe
terminato, con garbo, come era suo costume, la invitò a lasciare
il castello, e a riferire a colui che l'aveva mandata che mai e poi
mai avrebbe dato la sua unica figlia in sposa a un serpente.
Giduzza, che aveva già previsto l'esito di quel colloquio,
senza azzardare alcuna ulteriore azione di convincimento, dopo
aver ossequiosamente salutato, voltò le spalle al re e si avviò
verso l'uscita. Ma all'improvviso, la principessina che, da dietro
di una delle porte d'accesso alla sala, aveva ascoltato tutto,
irruppe nella stanza pronunciando le seguenti parole:
“Padre, concedetemi di conoscere il serpente.”
“Figlia mia, ma ti ha forse dato di volta il cervello, io non
posso consentirlo” replicò il re adirato.
“Padre, io credo alle parole di quella donna e voglio
incontrare il serpente” continuò la principessina, intenzionata
ad avere la meglio.
Intanto Giduzza che alle prime parole della principessina, si
era bloccata al centro della sala, ebbe l'ardire di riprendere la
parola e disse:
“Vi prego Sire, accogliete la richiesta della principessina,
d'altronde vi chiede solo di poterlo incontrare, nel castello ci
sono tante guardie, niente di male potrà mai accadere a vostra
figlia.”
Dopo molto tentennare e svariati tentativi di dissuadere la
caparbia principessina, il re diede il suo assenso all'incontro a
patto che sarebbe avvenuto alla presenza sua e di due delle
guardie reali.
Così avvenne, il giorno seguente il serpente si presentò al
castello e al cospetto del re confermò la ferma intenzione di
sposare la principessina. Questa, lusingata dalle belle parole che
il serpente riuscì a spendere e affascinata dall'intera singolare
vicenda, si disse intenzionata a prendere in considerazione la sua
richiesta solo dopo aver assistito alla trasformazione.
Il serpente si disse disposto a soddisfare la volontà della
principessina a patto che nessuno oltre a lei avrebbe assistito al
momento in cui, spogliatosi dalle sette spoglie, si sarebbe
trasformato in un uomo dal magnifico aspetto.
Il re continuava a essere fortemente contrariato da tutta la
vicenda, ma dovette nuovamente cedere davanti alla
determinazione della figlia. Così, il giorno seguente, una delle
stanze del castello fu allestita per l'avvenimento. Ogni più
piccola fessura fu accuratamente sigillata, così come aveva
disposto il serpente, anche il buco della serratura, perché
nessuno avrebbe dovuto cedere alla tentazione di spiare quanto
sarebbe accaduto in quella stanza, altrimenti cose terribili
sarebbero accadute.
Il fatidico momento arrivò, la principessina e il serpente si
trovarono da soli nella stanza e la trasformazione ebbe inizio.
Una luce fortissima avvolse il corpo del serpente che,
volteggiando rapidamente su se stesso, si liberava dalle sue
spoglie per lasciare il posto al giovane uomo che si nascondeva
sotto le fattezze del rettile. La principessina fu stravolta da
quella straordinaria bellezza e si innamorò perdutamente. Uscita
dalla stanza, si diresse di filato nella sala del trono, dove il re
aspettava trepidante l'esito della trasformazione, intenzionata a
convincere il padre di concedere al serpente la sua mano. Ancora
una volta, vinto dalla ferrea volontà della principessina, il re si
vide costretto a cedere. Riuscì solo a estirpare alla figlia una
promessa: durante la prima notte di nozze avrebbe dovuto
trovare il modo di lasciare uno spiraglio della stanza aperto. Il re
si premunì di tranquillizzare la principessina che nessuno
sarebbe mai venuto a conoscenza della cosa e che il segreto
sarebbe stato da lui conservato gelosamente fino alla morte, ma
il re non poteva esimersi dal conoscere le sembianze dell'uomo a
cui aveva dato in moglie la figlia e a cui un giorno avrebbe
ceduto il suo trono.
Le nozze furono celebrate con lo sfarzo degno del
matrimonio della figlia di un re, ma la principessina contava i
minuti che la separavano dal momento in cui, finalmente soli,
suo marito si sarebbe trasformato in un meraviglioso principe.
Quando tutti gli invitati lasciarono il castello e i festeggiamenti
ebbero termine, i novelli sposi si congedarono dal re e si
ritirarono nelle loro stanze.
Giunti nella camera che le ancelle avevano allestito per la
prima notte di nozze, cominciò il rituale della chiusura di ogni
fessura della stanza, ma la principessina non dimenticando la
promessa fatta al re e approfittando di un momento di
distrazione del serpente, lasciò libero il buco della serratura così
che il padre avrebbe potuto vedere l'aspetto umano del serpente,
come desiderava.
La luce cominciò a irradiare la stanza. Il re come convenuto
spiava da dietro la porta. Ma proprio nel momento in cui riuscì a
intravedere il bellissimo uomo che si nascondeva sotto le sette
spoglie del serpente, un terribile boato, che sembrava provenire
dal centro della terra, si diffuse per tutto il castello, il pavimento
cominciò a tremare, le pareti si contorcevano e i vetri delle
finestre cominciarono a infrangersi e a precipitare sul
pavimento. Tutti gli abitanti del castello rimasero impietriti,
paralizzati dal terrore, mentre nella camera degli sposi si
consumava la tragedia: come attirati dalla luce che il corpo del
serpente emanava, ogni frammento di vetro andò a conficcarsi
nelle carni del giovane sposo che in men che non si dica
scomparve in un'esplosione di luce.
In una sola notte si consumò così il sogno di una principessa
e quella di un serpente che sarebbe voluto diventare re.
passuillu : pezzetto di legno
ruga : vicolo
lissia: bucato.
Stefania Fiore
IL DONO DELLA GROTTA INCANTATA
C'era una volta un uomo saggio dalla lunga barba bianca e dagli
abiti lisi, che incantava con le sue parole folle di grandi e piccini.
Egli abitava in una grotta nel punto più alto della montagna,
e tutti dovevano affrontare un lungo viaggio per andarlo a
trovare. La grotta aveva le pareti lisce e levigate dall'acqua
piovuta per secoli e molte piante trovavano riparo e nutrimento
al suo interno, tanto che, anche quando sulla montagna il caldo
diventava insopportabile, giunti all'interno della grotta ci si
poteva dissetare alla fonte che vi scorreva e ritemprarsi al fresco
per recuperare le forze. Per questo chiunque avesse affrontato il
viaggio scalando la montagna avrebbe trovato sollievo e magiche
parole una volta giunto nella grotta. Questo era il dono incantato
che l'uomo saggio dispensava: le parole erano custodite in uno
scrigno tempestato di preziose pietre di roccia che brillavano
ogni volta che il sole le toccava. Quando a un cuore puro veniva
consentito di sfiorare lo scrigno esso magicamente si apriva per
svelare il suo contenuto: ogni parola era incisa sulla pietra, su un
piccolo sasso che la montagna aveva donato e che diventava un
talismano per quanti avevano l'onore di possederlo. Molti
animali abitavano la grotta insieme all'uomo saggio e non
avevano paura di mostrarsi: sapevano che nessuno avrebbe fatto
loro male perché quel luogo fatato era il posto dove ognuno
poteva trovare rifugio e pace. Per questo in tanti affrontavano il
viaggio cercando la via sulla montagna, e accadeva che i bambini
trovassero per primi la strada perché il loro cuore pulito vedeva,
al di là delle nubi, lo scintillio dello scrigno che brillava di pura
luce. Nel viaggio sulla montagna i bimbi diventavano quindi la
guida per i loro genitori ed essi si affidavano a loro sicuri di poter
trovare il cammino, poiché sapevano che mai un cuore malvagio
avrebbe potuto vedere la strada giusta. Le folle venute da ogni
dove riempivano gli anfratti della grotta, rifocillandosi con le
erbe, dissetandosi con l'acqua della fonte e riposavano al fresco
accanto ad animali fatati, attendendo pazientemente di potersi
avvicinare allo scrigno.
L'uomo saggio trovava tempo per tutti e non riposava mai,
sembrava che egli stesso facesse parte della montagna; quando
era il momento egli chiamava a sé grandi e piccini che, uno per
uno, potevano avere in dono la magica pietra della parola. Come
per incanto lo scrigno si apriva rivelando il suo contenuto di
roccia: una moltitudine di pietre che la montagna aveva donato e
che avevano incisa la sola parola destinata ad ognuno di loro e il
segreto della vita, che solo il vecchio saggio poteva svelare. Cosi
accadeva che le folle si intrattenessero ancora nella grotta prima
di intraprendere il viaggio del ritorno, poiché la montagna era
diventata la loro casa e solo la missione di portare tra le genti la
parola poteva spingerli a lasciarla. Ma un giorno accadde ciò che
nessuno avrebbe potuto immaginare: lo scrigno scomparve dalla
grotta per non farvi più ritorno, e tutti sapevano che una volta
lontano dalla montagna si sarebbe tramutato in polvere. Colui
che lo aveva trafugato tuttavia non conosceva questo segreto, e
dopo avere trovato la grotta solo grazie ai bambini che avevano
tracciato la via giusta, ora trascinava faticosamente lo scrigno
giù per le pendici del monte, credendo di poter avere solo per sé
quel tesoro straordinario. “Ciò che non è donato diventa
polvere” diceva la scritta sullo scrigno, ma il ladro non sapeva
leggere perché ancora non aveva avuto il dono della parola e non
poteva sapere ciò che stava per accadere. Alle pendici della
montagna il ladro si trovò con un mucchio di polvere che il
vento portò lontano e a nulla valse chiedere perdono poiché egli
non ritrovo mai la strada perduta. L'uomo saggio aveva lasciato
che il ladro compisse il suo furto e con esso il suo destino ed ora
abbracciava la folla che gli si faceva intorno timorosa poiché
tutti avevano paura che le parole fossero per sempre perdute.
Una notte passò, la montagna circondata da nubi nere e
minacciose faceva piovere un'acqua fitta e scura. In quella notte
venne acceso un grande fuoco nella grotta e nessuno dormì
perché l'uomo saggio aveva chiesto di vegliare per la montagna e
di pregare perché venisse concesso ancora il dono della parole
magica a tutti i presenti e a coloro che sarebbero arrivati in
futuro. E alle prime luci del giorno tutti seppero che la loro
preghiera non era stata vana, perché l'uomo saggio disse loro di
cercare un sasso e decidere quale parola avrebbe dovuto esservi
incisa. Lo scrigno non aveva più ragione di esistere perché la
parola veniva tramandata e donata da un essere all'altro
mantenendo la magia e l'incanto della prima parola donata.
Ora la folla poteva andare per il mondo portando doni di
pietra per ricordare a tutti che veniamo dalla terra, e doni di
parola per ricordare a tutti che la magia è nel dare sé stessi in
una storia, come quella che narriamo oggi e che porta scritta su
una pietra la parola “cammino”. Come il cammino dei bimbi che
trovarono la strada, degli adulti che impararono da loro,
dell'uomo saggio che per prima l'aveva tracciata, o del ladro che
la perse per sempre. Perché il cammino è divenire, è cercare la
strada giusta, i compagni del nostro viaggio, ricordando sempre,
nel nostro cuore, che il cammino non finisce. Mai.
Silvia Rosa
LE ROSE DEL RICORDO
C'era una volta laggiù, e forse c'è ancora, un Regno Incantato,
così lontano che per raggiungerlo bisognava attraversare foreste
di villaggi dai comignoli rossi e prati e colline e tutti gli oceani,
girare intorno al mondo cento curve strette e arrampicarsi in
cima a un monte appuntito di ghiaccio e di neve, poi tuffarsi in
una cascata di acqua tuonante e saltellare su un milione di sassi
lisci e bianchi, passare per un bosco fitto di alberi giganti,
camminare sette inverni, svoltare l'angolo a destra ed ecco, si
era infine arrivati.
In questo Regno viveva un Re coraggioso e valente, che aveva
combattuto più di una guerra senza essere mai sconfitto, onesto
e molto rispettato dai suoi sudditi e dalla Regina sua moglie.
Quando nacque la loro primogenita, per trenta giorni e
trenta notti tutti festeggiarono con balli e canti, banchetti di
pietanze prelibate e ogni squisitezza, giochi e risate, ché la
tristezza era stata bandita. La piccola principessa era così bella
che il Sole per un po' decise di non tramontare, impigliandosi nei
suoi capelli e la Luna chiese il permesso di non ritirarsi in cielo,
specchiandosi in una goccia di rugiada, con la quale le damigelle
reali bagnarono il volto della neonata. Per trovare un nome che
potesse essere all'altezza della piccina vennero convocate a corte
le Fate e le Streghe più sapienti, i due vecchi eremiti che
vivevano dove-non-si-sa, e tutti gli gnomi del bosco, finché dopo
lunghe dispute e segrete consulte, la principessina venne
chiamata Rubinia.
Rubinia cresceva sana, allegra e forte, e il Re suo padre era
così felice che decise di non partire mai più per la guerra. Come
tutti i bimbi anche Rubinia era assai vispa e curiosa. Un giorno,
mentre era in giardino a giocare in compagnia della sua nutrice e
della Regina, trovò nell'erba un ciuffo di peli corvini, poi un altro
e un altro ancora un poco più in là, così cominciò ad allontanarsi
seguendo quegli strani fili neri setosi e scomparve lungo il
sentiero che conduceva alle stalle reali. All'improvviso le si parò
di fronte il possente e selvaggio cavallo dalla criniera di carbone
con cui il Re andava in battaglia. Il purosangue era scappato,
scalciando e nitrendo, furioso, ché a lui la guerra piaceva tanto e
tranquillo a ruminare paglia si sentiva impazzire. In un attimo
Rubinia si trovò sotto gli zoccoli della bestia, che schiumava e
soffiava dal naso, orribilmente. La Regina sopraggiunse appena
in tempo a salvare la figlioletta, gettandosi fra le zampe
nerborute del destriero e perdendo così la vita. Quando il Re
venne a sapere della disgrazia, fece tagliare la testa al suo fedele
compagno di guerra, cacciò la nutrice dal Regno, colpevole di
non aver protetto la principessa, proibì alla Primavera di
risvegliare boschi e giardini e chiuse Rubinia in una torre d'oro
tempestata di diamanti, per custodirla da ogni male, dando
ordine che tutti i suoi desideri venissero esauditi.
Per molti anni la principessa visse nella ricchezza e nello
sfarzo, tra preziosi gioielli, splendidi abiti di broccato, di seta e di
pizzi, giocattoli e dolci di ogni tipo, musiche composte solo per
lei, e damigelle pronte a servirla di tutto punto. Ma arrivò il
giorno in cui nulla le parve più interessante. Si adagiò su un
cuscino trapuntato di gemme e sospirando smise di giocare,
vestirsi e mangiare. Le servitrici, preoccupate, andarono a
chiamare il Re.
“Figlia mia, che cos'hai? Non sei contenta? Dimmi che cosa
vuoi e quanto è vero che sono il Re, l'avrai!”
Rubinia pigramente gli rispose in un soffio: “Un bel niente”.
Allora il Re convocò tutti i suoi consiglieri, affinché
trovassero “un bel niente”. I poverini, imbarazzati e spaventati
al tempo stesso, provarono a far ragionare il Sovrano, ma fu
tutto inutile. Il Re chiedeva a gran voce che “un bel niente” fosse
portato al suo cospetto per regalarlo alla figlia.
La notizia si sparse in tutti i Regni confinanti e quando
sembrava che nessuno riuscisse a trovare ciò che Rubinia
desiderava, arrivò a Palazzo una misteriosa Signora, avvolta in
una mantello viola, con gli occhi di trasparente cristallo e le
mani pallide e affusolate.
“Chiedo di essere ricevuta dal Re: sono la Signora del Niente”.
Il Re accolse l'ospite con tutti gli onori e la mattina seguente
la condusse nella torre, da Rubinia.
“Cara principessa, eccomi qui per accontentarti. Mi dicono
che hai chiesto 'un bel niente' e io del Niente sono Sovrana. Ma
che bellissimi capelli hai, lascia ch'io ti pettini... vedrai,
diventeremo amiche e tu avrai ciò che vuoi...” e prese a muovere
le magre dita nella folta chioma della fanciulla, che cadde
addormentata.
“Sire, vostra figlia è stanca, lasciamola riposare. Questa sera,
col vostro permesso, tornerò da lei e le farò dono del Niente.”
Quando la Signora lasciò Rubinia, nella stanza calò una
nebbia di silenzi spettrali, l'aria si fece gelida e la fiammella delle
lampade si affievolì. Allora correndo giunse dalle cucine la
vecchia cuoca. “Rubinia, svegliati, per carità... sono la tua
nutrice.” La principessa riconobbe nel sonno la voce della donna
che l'aveva allevata e a sua insaputa, disubbidendo al Re, le era
rimasta vicina in tutti quegli anni; tentò invano di alzarsi, ma il
suo corpo pareva di marmo.
“La Signora del Niente, pettinandoti, ti ha fatto un
incantesimo fatale. Io non sono tanto potente da annullarlo, però
ti posso aiutare a metterti in salvo. Dovrai tagliare i capelli corti,
come quelli di un uomo e poi rifugiarti in un albero dalla
corteccia gialla, nel bosco. L'albero è stregato: ti condurrà fuori
dal Regno. Ma bada bene di non tornare mai più e di non farti
ricrescere i capelli, o la Signora del Niente ti troverà e ti porterà
con sé... e allora sarai perduta per sempre.”
Con una forbicina d'argento tagliò a una a una le lunghe,
bionde ciocche della principessa, che cadevano al suolo come
spighe di grano lucente; le fece indossare i vestiti sdruciti di un
domestico e le consegnò la chiave per aprire il cancello della
torre d'oro e fuggire.
Rubinia corse più veloce che poteva, senza voltarsi mai
indietro e si fermò soltanto quando arrivò davanti all'albero che
la nutrice le aveva indicato. Avvicinatasi al tronco vide una larga
fessura che lo spaccava in due e si infilò al suo interno,
precipitando nel vuoto e perdendo i sensi.
Al suo risveglio le parve d'esser rimasta svenuta per secoli.
Le doleva il capo e non sapeva dove si trovasse. Era un bosco,
certo, ma molto differente da quello del suo Regno; tra le fronde
degli alberi baluginava il cielo, a schegge. Era tutto un
cinguettare di uccellini e ovunque c'erano fiori e lussureggiante
vegetazione. Si incamminò per una stradina di ciottoli,
scrutando i cespugli e le piante dalle insolite forme, vagando
senza sosta per un giorno intero prima di scorgere una casetta
con un camino fumante.
Bussò alla porta tre volte e finalmente questa si aprì. Il
padrone di casa era un vecchio con la barba bianca, la pelle
arricciata come la cartapesta, l'espressione severa e uno sguardo
pungente di giada. Osservò Rubinia attentamente, ma così vestita
e coi capelli corti la scambiò per un ragazzo.
“Giovanotto, che cosa cerchi nella mia casa?”
“Buon uomo la prego, mi lasci entrare. Ho tanta fame.”
La principessa pensò di non rivelare chi fosse, rinnegando il
suo nome, perché la Signora del Niente avrebbe potuto trovarla.
Così disse al vecchio di chiamarsi Fino, di essere un orfano e di
aver vissuto chiedendo l'elemosina di paese in paese.
“Adesso sei grande abbastanza per guadagnarti il pane. E io
ho bisogno di un aiutante. Sono il giardiniere della Regina e
questo è il Regno di Primavera. Ci sono così tanti fiori da curare,
che le mie povere mani di vecchio non hanno pace. Ti insegnerò
l'antica arte di cui sono maestro. Ubbidiscimi senza lamentarti e
non ti mancherà mai il cibo. Puoi restare a dormire qui, c'è un
giaciglio di piume d'oca in soffitta. Domattina al primo canto del
gallo, inizierai a lavorare.”
E così fu. Rubinia faticava duramente, senza fiatare. “Fino,
vieni qui, pianta questi bulbi. Strappa quelle erbacce. Raccogli
cento margherite per la tavola della Regina... Fino, portami
l'acqua del pozzo di mattoni rossi, per annaffiare le viole...” e lei
obbediva svelta. Le sue mani divennero callose e scure, ricamate
di graffi e piccole ferite, come quelle del vecchio giardiniere.
Il tempo prese a scorrere come un fiume impetuoso in un
letto di tenera argilla, così rapido da sembrare quasi immobile,
così rumoroso da confondersi con il quieto respiro dei gigli e
delle camelie. A ogni luna piena la principessa si tagliava i capelli
e ben presto finì col dimenticarsi chi era davvero.
Una notte senza stelle il maestro decise che era giunto il
momento di svelare a Fino il segreto più importante. Alla luce
flebile di una candela lo condusse in una radura desolata e qui
disse sottovoce: “Ragazzo, io presto lascerò questo Regno per
riposare le mie ossa stanche nel vento dell'Arcobaleno. Ma prima
voglio insegnarti qualcosa che solo a pochi è dato di conoscere.”
Soffiò sulla tremula lingua di fuoco e il buio piombò su di
loro.
“Non chiedo e non voglio e niente non so, nell'ombra mi trovo e paura
non ho,
se colgo la rosa la spina non temo, se tutto è perduto il Ricordo è più
vero del Vero”.
Non appena il giardiniere pronunciò la formula magica, un fascio
di luce lattiginosa investì Rubinia che chiuse gli occhi,
abbagliata. Al riaprirli si trovò in un rigoglioso giardino di rose di
tutti i colori e di tutte le fogge, che svettavano leggere e
fruscianti o si attorcigliavano ordinate in archi di petali e foglie
ammaestrate. Il profumo era così penetrante che dava il
capogiro. Le rose erano raggruppate in chiazze dense di rosso e
di rosa, di bianco e di giallo, con le corolle che si agitavano in
fluidi girotondi e i boccioli che danzavano ondeggiando.
“Maestro, che cosa sono questi splendidi fiori?”
“Sono le Rose del Ricordo, belle e pericolose. Hanno spine
così aguzze che possono lacerare la carne e far sanguinare il
cuore. Per stringerne una sola, occorre l'esperienza di una vita.
Sono delicatissime e insieme resistenti, tanto che possono perire
in un secondo o sopravvivere in eterno. Vanno custodite con
cura e dedizione, ma non bisogna esagerare, perché troppe
attenzioni rischiano di farle appassire. Bisogna accarezzarle di
tanto in tanto, ma non molto spesso, o le spine si fanno più
robuste ed evitarle diventa impossibile. Se sarai coraggioso
abbastanza da non temere di ferirti, le Rose del Ricordo non ti
tradiranno mai. Anche quando tutto avrai perduto, se crederai
nel loro valore, le Rose del Ricordo non ti abbandoneranno.”
Poco dopo quella notte, il giardiniere sparì, lasciando Rubinia a
occuparsi di tutti i fiori del Regno.
E venne il giorno in cui la Regina in persona andò da lei.
“Giovane Fino, sono qui per affidarti un compito speciale: fra
sette settimane sarà la Festa dei Cavalieri Erranti, che dopo lungo
tempo ritornano alle loro case. Addobba il Castello e la Via
Grande con i fiori più rari e prepara coroncine di freschi boccioli
per le damigelle reali. Tutti i giardini devono essere fioriti.”
Rubinia si mise subito all'opera e non si risparmiò, perché mai
avrebbe voluto deludere la Regina. Quando tutto fu pronto era
già l'alba del giorno di Festa.
La fanciulla aveva conservato una ghirlanda di orchidee per
sé e volle provarla. Pensò dispiaciuta che a lei non sarebbe stato
possibile partecipare alle danze, e sospirando ricordò i vestiti
sontuosi che aveva indossato quando era una principessa e non
doveva nascondersi. Si toccò la fronte ch'era stata incorniciata
da sottili capelli dorati e adesso era scoperta e vuota. Si tolse i
pantaloni sgualciti e la camicia rattoppata e ristette a osservare
la propria immagine riflessa nello specchio di un laghetto,
immergendosi infine nell'acqua tiepida e frizzante.
In quel mentre passava di là a cavallo il più valoroso dei
Cavalieri Erranti, che tutti chiamavano Teodoro, di ritorno dal
pellegrinaggio nel Deserto di Sale. L'uomo rimase affascinato alla
vista della bionda fanciulla con la pelle di luna, nuda col capo
coperto di fiori, e grande fu la sua sorpresa quando la vide
indossare gli abiti di un uomo e dileguarsi nel bosco.
Con la sua sfavillante armatura, al galoppo, il Cavaliere le
andò dietro, deciso a svelare il mistero della sua identità.
Raggiunta che l'ebbe, sguainò la spada e con voce imperiosa le
ordinò di fermarsi.
“Dimmi chi sei o ti uccido!”
“Sono Fino, il giardiniere della Regina.”
“Non mentirmi! Ti ho visto! Tu sei una donna!”
“Nobile Cavaliere, ti sbagli... non sono una donna...”
“Dunque sei una strega, ma di sicuro non sei chi dici di
essere!”
Allora Rubinia d'un fiato raccontò al Cavaliere la sua storia e
gli parlò del malefico sortilegio della Signora del Niente.
“Ebbene, se questa è la verità sconfiggerò io per te la Signora
del Niente. Ma se quello che mi hai rivelato è una menzogna, se
altro non sei che una strega furba e maligna, assaggerai la lama
tagliente della mia spada! Ti porto nel mio Palazzo e finché non
avrò stabilito chi sei, rimarrai mia prigioniera. Quando ti saranno
ricresciuti i capelli vedremo se questa Signora del Niente ti verrà
a cercare.”
Tutti i giorni, prima del tramonto, il Cavaliere Teodoro indossava
la sua pesante armatura e si recava nella stanza del Palazzo in cui
aveva rinchiuso Rubinia. La interrogava ripetutamente, per farla
cadere in contraddizione. Ma finiva con l'essere sempre più
confuso: a volte era sicuro che si trattasse di una principessa,
altre si convinceva che fosse una strega. Intanto la chioma della
ragazza era tornata fluente e la sua bellezza era tale che uno solo
dei suoi sguardi gli accendeva il corpo come la febbre. Rubinia
dal canto suo, pur non avendo mai visto il Cavaliere senza
armatura, se ne era perdutamente innamorata e quasi sperava
che la Signora del Niente la trovasse, per dimostrare all'amato
che era sincera.
Si affacciarono in cielo molte lune nuove prima che Teodoro
smise in un angolo la sua corazza e si presentò a Rubinia
chiedendola in sposa, ché verità o bugia, ormai non contavano
più: chiunque ella fosse, lui l'amava.
Alle nozze seguirono giorni intensi di sole e di gioia, finché
nel Regno di Primavera si ebbe notizia di una sanguinosa guerra,
che intorno al Mare dei Pesci di Fango aveva già mietuto
centinaia di vittime innocenti. Teodoro divenne irrequieto,
combattuto com'era tra il desiderio di partire, per compiere il
suo dovere di Cavaliere, e l'amore per Rubinia, dalla quale non
aveva la forza di separarsi. La principessa vedeva il suo sposo
sempre più infelice, agitarsi tra le stanze del Palazzo come
un'aquila dalle ali spezzate, in una stretta gabbia di legno. Così
un mattino di brina gli lucidò l'armatura e fece sellare il cavallo,
lo baciò sulle labbra un'ultima volta e lasciò che partisse,
incontro al suo destino.
Per un anno intero Rubinia attese il ritorno di Teodoro, senza
sapere che cosa fosse stato di lui, quando, senza preavviso, arrivò
a Palazzo un uomo avvolto in un mantello viola.
“Vengo a consegnare la spada del grande Teodoro, che con
prodezza si è sacrificato per difendere l'onore dei Cavalieri
Erranti.”
Perduta ogni speranza di poter riabbracciare il suo sposo,
Rubinia si gettò in terra con la spada tra le mani, piangendo tutte
le sue lacrime. Una fitta lancinante aveva sostituito il battito
impazzito del cuore e le bruciava in petto. Sentiva la lama come
una fresca carezza lenitiva contro il suo corpo tramutato in
marmo. Aprì gli occhi sbarrati di sale e accostò la punta
dell'arma al centro di sé, sotto il seno. Ma in quell'istante, dalla
vetrata della finestra più grande, filtrò uno spicchio
d'Arcobaleno, schizzando sulla lucida spada.
Allora Rubinia si ricordò del suo vecchio maestro giardiniere
e del segreto di cui, tanto tempo prima, le aveva fatto dono. Con
un filo di voce ripeté:
“Non chiedo e non voglio e niente non so, nell'ombra mi trovo e paura
non ho,
se colgo la rosa la spina non temo, se tutto è perduto il Ricordo è più
vero del Vero”.
All'udire quelle parole magiche, l'uomo dal mantello viola cacciò
un urlo disumano, la coltre gli scivolò via e apparve per quello
che era: la Signora del Niente, dagli occhi di trasparente cristallo
e le mani pallide e affusolate, con un corpo scheletrico divorato
da ripugnanti vermi e insetti spaventosi. “Non ti resto che io,
Niente... vieni con me e non sentirai più dolore!”
Ma l'incantesimo era ormai spezzato, Rubinia non
l'ascoltava, circondata dai profumi e dai colori sgargianti delle
meravigliose Rose del Ricordo. In un angolo se ne ergeva una più
maestosa delle altre, color del sangue, con petali carnosi e
vellutati, e uno stelo sinuoso di spine acuminate e verdeggianti
foglie. Senza timore Rubinia la sfiorò e seppe allora che, in quel
giardino segreto sbocciato dentro di lei, Teodoro non l'avrebbe
lasciata mai più.
Si mise in viaggio camminando sette inverni, passò per un
bosco fitto di alberi giganti, saltellò su un milione di sassi lisci e
bianchi, poi si tuffò in una cascata di acqua tuonante, si
arrampicò in cima a un monte appuntito di ghiaccio e di neve,
girò intorno al mondo cento curve strette, attraversò tutti gli
oceani, colline e prati e foreste di villaggi dai comignoli rossi,
svoltò l'angolo a sinistra ed ecco, infine, ritornò nel suo Regno
Incantato, caduto in disgrazia dopo la morte del padre.
Divenne una saggia Regina, molto amata dai suoi sudditi, e
governò lungamente con giustizia e con cuore, coltivando mille
Primavere nel vento caldo dell'Arcobaleno.
Simona Rossi
LIBERO
C'era una volta, in un paese non molto lontano da qui, un
bambino di nome Libero. Ma se tu fossi andato in quel paese per
cercarlo chiedendo di Libero be'... in pochi avrebbero capito chi
stavi cercando. Eh sì, perché in realtà tutti... o quasi lo
conoscevano come "Lo Strano". Lo chiamavano così i compagni
di scuola, glielo gridavano dietro ridacchiando gli altri bambini
al parchetto, lo sussurravano per strada gli adulti che lo
vedevano passare. Dal canto suo Libero il termine "strano" non
sapeva neanche cosa volesse dire e anche se lo avesse saputo,
non avrebbe saputo definire cosa o come fosse la normalità.
Anzi, ripensandoci, forse di cosa fosse la normalità ne aveva
una vaga idea: normalità era ciò che gli altri si aspettavano da
lui.
Gli altri bambini, ad esempio, si aspettavano che quella palla
che prendeva regolarmente in faccia lui la calciasse come
facevano loro, o che quanto meno gli corresse dietro. Gli
insegnanti si aspettavano che scrivesse ordinatamente sul
quaderno o che imparasse a memoria le poesie e, figuriamoci un
po', le recitasse davanti a tutta la classe! I suoi genitori poi...ah i
suoi genitori... si aspettavano che parlasse con loro, che gli
raccontasse... che gli spiegasse quello che provava, quello che
sentiva dentro. In particolare la sua mamma, gli prendeva la
mano, e lo guardava con quel sorriso pieno di... pieno di
mamma... e aspettava, aspettava in silenzio, qualcosa.
Ogni tanto Libero la sorprendeva a fissarlo di nascosto, e in
quei momenti quella mamma sorridente era così seria e così
triste che... oh che avrebbe dato qualsiasi cosa per farla felice. Ma
come poteva? Lui che dentro di se aveva un fiume in piena ed il
mare in tempesta? Lui che dentro sentiva il temporale e la
pioggia scrosciante. Non sapeva come dirle che per la maggior
parte del tempo era troppo impegnato a tenere a bada tutto
questo e davvero, davvero! Non rimaneva spazio per altro.
Un giorno... eh ma non un giorno qualsiasi però...
Quello fu un giorno strano davvero, strano quasi come
Libero. Fu un giorno di tempesta, dove pioggia, grandine lampi e
saette si inseguirono per ore e tormentarono il paese di Libero ed
i suoi abitanti che erano terrorizzati dalla furia della tempesta.
Ma non Libero, perché quel giorno quel che lui sentiva sempre
dentro di sé, lo sentivano anche gli altri e allora il piccolo provò
un piacevole sentimento di serenità, di sicurezza. E fu in quel
momento, in quel piccolo angolo di pace che Libero percepì
dentro di sé qualcos'altro, diverso da tutto il resto, debolissimo e
lontano ma sì, c'era, c'era eccome ed era... era la cosa più bella
che avesse mai sentito dopo la voce della mamma. Cosa fosse non
lo sapeva ma forse non era così importante dargli un nome, la
cosa importante era non perderla, ma accidenti! Era così debole
e in mezzo a tutto quel frastuono era così faticoso ascoltarla e
allora, per non lasciarsela sfuggire iniziò a seguirla con le mani e
con le dita, battendosi sulle gambe e su tutte la superfici a sua
disposizione, e con i piedi, e con il capo. Inutile dirvi che tutti
quei movimenti che dall'esterno risultavano davvero senza
senso non migliorarono certo la situazione di Libero. Adesso tutti
non si limitavano a chiamarlo “Lo Strano”, ma lo evitavano
proprio e non ci fu molto da attendere prima che le maestre
mandassero a chiamare i suoi genitori. E che questa non fosse
una cosa buona lo aveva capito persino Libero. Quella sera,
sdraiato al buio nel suo lettino, mentre muoveva nell'aria le sue
piccole dita, non seppe spiegarsi come ma riuscì a sentire
perfettamente dalla stanza accanto i sussurri dei suoi genitori e
il pianto della mamma. E aspettò perché qualcosa, ormai era
chiaro, doveva succedere. La mattina dopo non fu accompagnato
a scuola. Sedette al tavolo della colazione, ad osservare la
mamma ed il papà parlare di una nuova scuola, più lontana ma
più adatta a lui, di camere da letto per dormirci e di grandi tavoli
per mangiarci insieme agli altri bambini. Il primo momento
Libero lo passò provando la sconosciuta sensazione del vuoto
assoluto, ma subito dopo sentì gli occhi bagnati e una dolorosa
sensazione al petto e, lui non poteva saperlo ma i suoi occhi,
quando li alzò per incontrare quelli della mamma erano
imploranti. Come avrebbe fatto, lontano da casa, dai suoi
genitori, in mezzo a sconosciuti per i quali anche lui sarebbe
stato non solo sconosciuto ma strano e sconosciuto?
Quel giorno, per la prima volta, Libero pianse.
Ma insomma, ve lo dico, sembrava che non ci fosse proprio
null'altro da fare. Nei giorni successivi, a casa del piccolo Libero
mamma e papà si aggiravano per le stanze radunando oggetti
che immaginavano potessero servirgli nella nuova scuola, ma a
lui, come potete immaginare, non importava un granché.
Una cosa che attirava la sua attenzione o almeno una parte di
essa, era quello che stava accadendo fuori, nella casa accanto alla
sua: un via vai di persone, grandi furgoni pieni di cose che
venivano scaricate e un oggetto dal quale non riusciva a staccare
gli occhi che aveva le gambe ed era, nero e lucido.
Che fosse un grande animale? Era vivo! Era legato ed
emetteva dei suoni mentre quattro uomini cercavano
faticosamente di trascinarlo in casa.
Quando ci riuscirono andarono via con i loro furgoni e sulla
soglia di casa rimase solo la signora con il fermaglio rosso tra i
capelli. Anche libero era sulla soglia di casa sua, con gli occhi fissi
e le dita in movimento. La signora col fermaglio rosso lo
guardava, lo vedeva, e stava sorridendo, non ridendo, badate
bene. Sorrideva proprio a Libero e lui non poteva fare a meno di
pensare che quella signora doveva essere ben strana. La signora
rientrò in casa e Libero rimase a fissare la porta di casa rimasta
aperta, poi successe. Libero pensò di essere impazzito, i suoni
che era abituato a sentire dentro di sé adesso arrivavano da
fuori, un po' deboli forse ma sì, Liberò sapeva, doveva essere la
signora dal fermaglio rosso ,con il suo grosso animale a produrli.
Libero si mosse, noi sappiamo bene che entrò in quella casa
vicina camminando, ma lui giura ancora adesso che ci arrivò
fluttuano nell'aria e poi li vide, la vide, vide le mani della donna,
le sue dita che danzavano e correvano su quei... così bianchi e
neri. Per la prima volta nella sua vita fu investito a pieno non da
ciò che aveva dentro ma da ciò che c'era fuori: Libero guardava,
Libero vedeva, Libero sentiva, Libero ascoltava. In quel momento
la signora fermo le sue mani, si spostò un tantino e gli fece posto
sullo sgabello accanto a sé, Libero era ipnotizzato, obbediva. Lei
gli parlò: appoggia le mani Libero e resta fermo, chiudi gli occhi
Libero. È il momento di lasciare uscire tutto, lascia andare.
Ascolta per un momento il silenzio adesso, è puro, è morbido, è
sicuro, è dolce. E adesso muovi le dita, lascia andare tutto e
ascolta chi sei Libero. Apri gli occhi, ora sai chi sei. Eh sì, Liberò
adesso sapeva, e sorrideva. Continuava a credere che la signora
col fermaglio rosso fosse davvero strana. E sapete una cosa?
Anche lei lo pensava e anche a me piace pensare che fosse
proprio così.
Illustrazione: Gisella Germano
Lorenzo Carbone
I GAEWINK
Sicuramente nella tua vita avrai sentito parlare del popolo dei
Gaewink. No? Allora ti racconterò io la storia.
Il popolo dei Gaewink è un popolo magico, si trovano
ovunque, magari ce ne è uno vicino a te che se la sta ridendo di
come sei buffo stando su due zampe. Si, è proprio così, i Gaewink
non hanno mai due zampe, possono averne quattro, una, tre,
cinque, cento, ogni combinazione possibile! Ma mai e poi mai ne
avranno due, e non venite a chiedermi il perché, ma loro sono
fatti così, che ci potete fare? Sono i Gaewink. Ce ne sono miliardi
e miliardi in questo mondo, non di più non di meno. Alcuni sono
enormi e forti, altri sono piccoli piccoli, così piccoli che una tua
unghia ne può tenere più famiglie.
Ci sono Gaewink che volano, altri che saltano, altri che
nuotano, ma sono tutti Gaewink, dal primo all'ultimo. Popolo
affascinante il loro, si rispettano anche quando combattono tra
loro, e bisogna dire la verità, se combattono, lo fanno per una
giusta causa, il divertimento nero non è presente nella loro dolce
e luminosa mente.
Probabilmente tu starai dicendo “ma narratore, ti sei fumato
il cervello” Pazienza, caro lettore, pazienza, anche se non lo sai,
tu conosci già da tanto il popolo dei Gaewink. Loro si che fanno
fare dei bei trucchetti magici! Sono capaci di ogni meraviglia! Si
trasformano, si allungano, si ricompongono, si accorciano, si
gonfiano, si sgonfiano, gustano, vedono, odono, annusano e
toccano molto meglio di noi. Alcuni sono più veloci di Flash, altri
più forti di Superman. I Gaewink amano molto la loro famiglia, e
anche se possono sembrare “traditori” non lo fanno di certo per
offendere alcun essere. I loro sentimenti sono puri e travolgenti,
il perfido Lord Mammona, nostro maligno gerarca, non ha alcun
carisma su di loro. Artisti di successo i Gaewink, ci sono quelli
che danzano come fate, ci sono coloro che cantano come la musa
più talentuosa, altri ancora sono nati acrobati e muoiono da
showman o attori. Alcuni di loro ti sanno raccontare la storia più
bella della tua vita, di tutto il tuo mondo, con un semplice
sguardo.
Perché non li hai mai visti? Ma certo che li hai visti, è che
loro non si fanno vedere... a dire il vero siamo noi che a volte
non li vediamo... Molte volte. Violiamo come un demone del
disonore la loro terra, giovane e vergine che vuole concedersi
solo a chi ama davvero il suo popolo. Sporchiamo con i figli di
Nergal tutto ciò che hanno creato e a cui tengono. Il re dei
cadaveri immonda i loro corpi, le loro vite, il loro futuro. Nel
passato li sacrificavamo a dei distanti e mostruosi, oggi li
sacrifichiamo per la nostra smania di piacere, dono della
perversa e crudele Lilith, vera sposa dell'umano. Piangi per
questo destino vero? Se sì vedrai sempre i Gaewink, vedrai il loro
sorridere e il loro esserti riconoscenti. Se salvi un cane che
prende botte vedrai il regno dei Gaewink, se lotti per fare in
modo che le ossa delle tigri non diventino medicine , sentirai la
forza dei Gaewink, se ostacolerai il principe nero e i suoi servi,
ascolterai la cultura dei Gaewink.
Tutti noi siamo Gaewink, ma ce lo siamo dimenticati!
Contaminati da diavoli e angeli della perdizione. Ricordiamo
chi siamo, ricordiamo la magia che scorre in noi, sentiamoci
Gaewink.
Giovanna Olivari
IL LUPO E CAPPUCCETTO ROSSO
–Basta umiliazioni! Basta prese per il culo dei miei compagni!
Basta castighi dei miei genitori! Gliela faccio vedere io! Non sarò
capace di rubare galline nei pollai, embè? Vedranno di cosa sono
capace! E allora sì che dovranno strisciare ai miei piedi e tirare
fuori le loro maledettissime lingue salivose e leccarmi il pelo, e
anche il culo, se vorranno vedermi rientrare nel loro
fottutissimo branco!–
Lulù, un giovane lupo dal pelo rossiccio, tutto pelle e ossa, si
aggirava nel “bosco delle fiabe”(così chiamato dai cacciatori che
ogni stagione salivano nell'entroterra di Lumarzo per le loro
battute di caccia) con l'aria sempre più incazzata.
Come tutti i lupacchiotti della sua età, per diventare grande
ed essere ammesso nel branco dei lupi, doveva superare la
prova-pollaio, cioè, avventurarsi nottetempo nel vicino villaggio,
entrare in un pollaio, brancare una gallina e portarla, viva o
morta, al gruppo degli adulti.
Ma tutte le volte che ci aveva provato, il cane abbaiava, il
gallo cantava, la gallina starnazzava, la luce si accendeva, il fucile
sparava, il sasso arrivava, e lui finiva per darsela a gambe levate
e rifugiarsi nel bosco con la coda tra le gambe!
–Non sono un “ruba-polli” come gli altri lupi? Ah sì? Userò
l'astuzia! Non riesco a vincere nel pollaio? E nel villaggio?
Vincerò nel bosco! Giocherò “in casa”! Glielo farò vedere a quei
luridi sapientoni di cosa è capace Lulù “l'imbranato”! Dal
villaggio arriverà la mia preda! E non sarà una gallina!!!–
La rabbia a volte può più della fame. La voglia di rivincita fa
trovare stratagemmi, che neanche il più lucido e consumato
stratega riesce a trovare.
Lulù aspetta paziente nel bosco. Ed ecco arrivare una bella e
paffuta bambina allegra e canticchiante: trecce bionde, occhi
azzurri, mantellina rossa con cappuccio, al braccio un panierino
di vimini coperto da un tovagliolo a quadretti bianco e rosso
emanante un delizioso aroma di focaccia ancora calda.
Lulù sente l'acquolina scendere prepotente lungo le fauci. Ma
resiste. E con l'aria più umana possibile:
–Ciao, bella bambina. Come ti chiami?
–Non ti rispondo. Non sta bene fermarsi a parlare con degli
sconosciuti.
–Ma io ti conosco. Tu non mi sei sconosciuta. Ti vedo ogni
mattina, quando esci di casa e vai nel pollaio a dar da mangiare
alle galline!
–Che ne so se dici la verità?
–Ecco la prova. Ti vedo giocare anche col tuo cagnolino. Sei
così tenera con gli animali! Cosa c'è in quel bel panierino?
–Ah beh. Se è così. Tutti mi chiamano Cappuccetto Rosso.
Porto la focaccia alla mia nonnina, che sta nella casa nel bosco,
ed è malata. Anche una bella fetta di torta e del buon vino.
–Ma come sei premurosa! E perché non le porti anche un bel
mazzolino di fiori? Sai come sarebbe contenta!
–Non posso fermarmi. L'ho promesso alla mia mamma. Devo
andare.
–Che fretta! La mamma non poteva sapere che proprio
stamattina sono sbocciate le margheritine! Guarda come sono
belle! Come sarà fiera di te quando saprà che le hai portate alla
nonna!
E mentre Cappuccetto Rosso, ormai convinta, si china a
cogliere le margheritine, Lulù in un batter d'occhio è già alla
porta della casetta della nonna.
Facendo la voce da bambina, inganna la povera vecchietta,
che lo lascia entrare. Il lupo con un balzo si avventa sulla donna e
ne fa un solo boccone. Poi si mette la camicia da notte e la cuffia
della nonnina, inforca gli occhiali, si infila sotto le coperte e
aspetta Cappuccetto Rosso.
Poco dopo la bimba arriva e Lulù, ancora una volta con
l'inganno, riesce a carpirne la fiducia, a farla avvicinare e a
farsene un solo boccone.
–Obiettivo raggiunto!– dice tra sé e sé il giovane lupo. –E ora
voglio vedere la faccia che faranno i lupi del branco!
Anche se un po' appesantito, si dirige più svelto che può
verso la tana.
–Ah ah ah!– cominciano a ridere i lupi più giovani –Dove le
hai messe questa volta le galline? Che pancia che hai! Non ci
dirai che le hai mangiate ?!
Intanto si fanno avanti anche gli altri lupi, gli adulti e i
vecchi, incuriositi da quel gran vociare.
Lulù non parla, guarda tutti con aria di sfida, poi, con un
unico enorme possente conato, vomita Cappuccetto Rosso e la
nonna, che, vive e vegete, anche se un po' stropicciate e
imbrattate di succhi gastrici, si abbracciano.
I lupi, giovani, adulti e vecchi, restano senza parole di fronte
a tale prova di coraggio e di generosità. Per un lupo, ingurgitare
ben due “umani” senza “mangiarli”, ma solo per
“dimostrazione”, è davvero una super prova!
E fu proprio così che Lulù riuscì a conquistarsi il rispetto di
tutta la comunità dei lupi e la simpatia della comunità degli
“umani”.
Roberto Marzano
IL MANGIAFAVOLE
Il Vermone Puzzone è grosso e peloso, e talmente ignorante da
essere convinto che cibandosi di parole possa anche lui avere
finalmente una cultura. A parte che è da dimostrarsi che nutrirsi
di vocaboli sia la strada giusta per diventare intelligenti, il suo
antipatico vizio fa solo scempio delle pagine dei libri lasciando
dei desolanti vuoti bianchi che rendono storie e favole
praticamente incomprensibili. Speriamo di essere ancora in
tempo a leggere questa, prima che arrivi a divorarla. Ma ci vorrà
la collaborazione di tutti per contrastarlo.
Così allora, presto, formiamo un bel gruppetto per provare a
difenderla. L'unione di tutti è l'unica forma di difesa che può
funzionare con questo mostro, che lo faccia desistere dal suo
malefico intento. Però bisogna stare attenti perché mandato via
da una parte può ritornare dall'altra, più aggressivo e affamato
di prima, avventandosi su tutti i monosillabi, molto più facili da
catturare delle parole più lunghe, facendone un ghiotto
antipasto. Improvvisamente i “se”, i “ma”, i “già” e i “sì”
spariscono dalle righe, e questo sarebbe niente... essendo
analfabeta il vermone non distingue "azioni" da "qualità", i
"nomi" dalle "virgole" e li bruca a caso senza nessuna regola,
così le favole vengono mozzate in maniera assurda:
Un
convinto di
intelligente, mangiava
libri. Così
tutte le storie
niente. Giulia e
un trucco
se stesso
giù
per il gabinetto.
tutti
liberi
qualsiasi
santa pace.
Puzzone nessuno
mancanza. con calma gamba, non serve a nulla
leggere storie
tutte intere...
Eh no, non possiamo tollerare tutto questo! Dobbiamo
formare un cerchio intorno a queste parole che sono state
mangiate, per respingerlo via.
«Non potremmo provare a cantare una ninna-nanna tutti in
coro?» propone Davide «Una cosa molto potente che lo faccia
addormentare almeno il tempo di leggere questa benedetta
storia...».
Sì! E allora tutti cantano: «Fai la ninna, fai la nanna, verme
sporco della mamma... ninna-ih, ninna-oh, il puzzone chi lo
vuol? Fai la ninna, fai la nanna...».
Fortunatamente lo stratagemma funziona, e il vermone pian
piano si addormenta come uno sciocco tra le pagine di un elenco
del telefono. Forza, dobbiamo fare veloci finché dorme!
Prendiamo ago e filo e tentiamo di aggiustarla, a riattaccare le
parole mancanti una dietro l'altra e a formare qualche frase
leggibile. Ma purtroppo la fretta non è l'ideale quando si
vogliono fare le cose per bene:
Un di con calma Giulia e un trucco Per poter diventare se stesso
convinto verme E Vermone del puzzone. Nessuno sentiva la gamba
intelligente, mangiava e non ci si capiva più di qualsiasi storia in santa
pace. Ora erano in mancanza di leggere non serve a nulla leggere, le
libri. Così tutte le storie qualsiasi tutte intere vanno lette e gustate giù
per il gabinetto. Ma i suoi amici trovarono un Puzzone e per fargli
mangiare le parole a casaccio, diventare nessuno rovinava niente, tutti
liberi...
Eh no! Così non si capisce un bel niente... cosa abbiamo
combinato! Adesso proviamo a scucirle di nuovo e a prestare più
attenzione, che il vermone potrebbe svegliarsi da un momento
all'altro. Facciamo tutto con calma:
Un verme puzzone, convinto di poter diventare intelligente,
mangiava le parole scritte nei libri. Così rovinava tutte le storie e non ci
si capiva più niente. Ma Giulia... ma Giulia... ma Giulia... Cosa succede?
Non si riesce a completare la frase! Ecco cosa succede:
all'improvviso il vermone si risveglia affamato come non mai e
comincia a divorare le parole cominciando dalla fine. Così i
bambini spaventatissimi cominciano a leggerla tutti assieme a
voce alta e si accorgono che in quel modo le parole magicamente
si riformano diventando più forti di prima.
Fatta la scoperta, qualcuno esclama: «Bisogna soffiare forte e
all'improvviso gridare "Vai via Puzzone!"». Buona idea, ma a
Giulia ne viene una davvero geniale: «Perché non proviamo a
scrivere che il vermone mangia la sua coda?».
Approvata da tutti Giulia prende una bomboletta spray e
scrive sul muro "IL VERMONE PUZZONE MANGIA LA SUA STESSA
CODA!". Viste quelle parole, sottolineate dal coro di tutti i
bambini, –"Il vermone puzzone mangia la sua coda!"–, lui
comincia stupidamente a inseguirsi la coda che gli sfugge via
sempre più veloce. Più ci prova e più la faccenda si fa difficile. Un
un ultimo disperato balzo felino riesce infine a catturarla mentre
i bambini ripetono ancora «Il vermone puzzone mangia la sua
coda! Il vermone puzzone mangia la sua coda!». Puzzone, allora,
con la vorace bocca comincia a inghiottirla ignorando che sia
proprio la sua, la ingoia sempre di più finché non la deglutisce
del tutto trasformandosi in una viscida e schifosa palla
puzzolente. A questo punto non resta altro che buttarla
direttamente nel gabinetto e tirare lo sciacquone – anche più di
una volta – e farla finita con questa storia. O, meglio, leggerla
tutta intera tranquillamente... il Vermone Puzzone non ci darà
più alcun problema:
Un verme puzzone, convinto di poter diventare intelligente,
mangiava le parole scritte nei libri. Così rovinava tutte le storie e non ci
si capiva più niente. Ma Giulia e i suoi amici trovarono un trucco per
fargli mangiare se stesso e lo buttarono giù per il gabinetto. Ora tutti
erano liberi di leggere qualsiasi storia in santa pace. E del Vermone
Puzzone nessuno sentiva la mancanza. Per diventare in gamba, non
serve a nulla leggere, o mangiare, le parole a casaccio, le storie vanno
lette e gustate con calma tutte intere.
Laura Maccagno
IL REGNO SENZA SOGNI
C'era una volta, in un piccolo reame custodito in uno scrigno di
montagne innevate, una giovane fata di nome Clippy che portava
i sogni ai bambini.
Il Re e la Regina di quel regno, erano molto amati dai sudditi,
purtroppo però, dopo la nascita della Principessa Allegra, non
sorridevano più come prima. La piccola, infatti, non dormiva mai
e passava le notti a fare giochi rumorosi, che impedivano ai
sovrani di riposare. Non sapendo più cosa fare, convocarono a
corte la fata e le domandarono: –Per quale motivo, porti la
polvere dei sogni a tutti i bambini tranne che alla Principessa?
Clippy rispose: –Maestà, mi dispiace, la principessa, ogni
sera, fa sprangare tutte le porte e le finestre della sua camera. Io
sono ancora troppo giovane, non posso aprire porte e finestre
serrate.–
I sovrani, allora, tentarono di convincere la Principessa a
lasciare almeno una finestra socchiusa per far entrare la fatina,
ma non ci fu niente da fare.
Così, stanchi e scoraggiati, mandarono a chiamare Amelia,
una fata molto potente che viveva ai confini del regno. Quando
arrivò il Re le spiegò ogni cosa e infine le chiese:
–Allora Amelia puoi aiutarci?–.
La fata, un po' stizzita, rispose:
–Certo che posso! Questa notte farò un incantesimo ad una
finestra che rimarrà socchiusa. In cambio, però, voglio un
regalo–.
–E cosa vorresti?– domandò la regina.
–Voglio in dono ogni sogno che Allegra farà d'ora in poi–
Il Re e la Regina, un po' stupiti da quella strana richiesta,
accettarono e quella stessa notte Amelia si presentò davanti alla
torre, che dava accesso alla stanza di Allegra e fece il suo
incantesimo:
–Suvvia! Ti ordino, non esser maldestra, rimani socchiusa da
adesso finestra!–
La finestra si aprì e Clippy poté, finalmente, entrare e
cospargere Allegra della sua polvere magica. La piccola si
addormentò e sognò di essere in un prato bellissimo fra fiori di
mille colori che incantavano le sue narici con fragranze fresche e
intense, poi vide arrivare un nugolo di farfalle variopinte e, fra
loro, una enorme e dorata che le si posò accanto invitandola a
salire sul suo dorso. Allegra volò in alto, nel cielo sfumato di rosa
e da lassù tutto era ancora più bello, profumato e inebriante.
Al suo risveglio la principessa era felice. La mattina stessa
Amelia si presentò a corte per avere il compenso pattuito. Il Re e
la Regina l'accolsero un po' seccati da tanta insistenza,
–Ricordiamo la nostra promessa– dissero –Ti concediamo i
sogni di nostra figlia–.
Amelia sogghignò e recitò a mezza voce:
–La scatoletta bella del tè, si riempia dei sogni che servono a
me!– poi, svanì.
Quella notte Allegra andò a dormire felice al pensiero dei bei
sogni che la attendevano, ma non sognò niente di bello. Riuscì
solo a vedere se stessa in una stanza buia, seduta su di una sedia,
incapace di muoversi e di parlare. La stessa cosa si verificò, notte
dopo notte, per molti giorni. Alla fine la piccola era pallida,
triste, non mangiava e piangeva sempre. A quel punto i suoi
genitori, adirati, convocarono di nuovo Clippy
–Per quale motivo Allegra non sogna più nulla di bello?–
chiesero.
La fatina trasecolò.
Illustrazione: Gisella Germano
–Non capisco Maestà! Porto la polvere dei sogni alla
Principessa tutte le sere, perciò questo non dovrebbe accadere!–
disse mortificata –Ma ho intenzione di scoprire cosa sta
succedendo!– dichiarò e usci volando da una finestra della sala
del trono.
Gironzolò per il reame all'imbrunire, prima di iniziare il suo
solito giro e ciò che sentì la spaventò. Moltissimi dei suoi
bambini non sognavano più e tutti, senza eccezione, avevano
avuto a che fare con Amelia e le avevano regalato i loro sogni.
Pensò, quindi, di Andare da lei per chiederle spiegazioni.
Una volta arrivata, sbirciò da una finestra e vide una stanza
con le pareti ricoperte da scaffali pieni di centinaia di scatolette
di ogni forma e colore. In un angolo c'era un grosso armadio,
mentre al centro stavano un tavolo ed una sedia. Mentre
guardava incuriosita, Amelia entrò nella stanza, prese una delle
tante scatolette, la posò sul tavolo, si sedette e la aprì. Clippy
rimase a bocca aperta, dalla scatola uscirono le immagini di
quattro bellissimi cavalli bianchi al galoppo in riva al mare. La
giovane fata ebbe l'impressione che, mentre Amelia le fissava
intensamente, quelle immagini sbiadissero. Il giorno dopo, alla
stessa ora, la fata riaprì la scatoletta e si rimise a contemplare
quei cavalli che, dopo poco, scomparvero. Clippy non sapeva
cosa pensare, così decise di volare fino a Picco Ardito, la vetta più
alta di Magilandia, sulla quale abitava Biancomago, il capo delle
Federazione dei maghi e delle fate. Arrivata in cima entrò nella
grotta e si trovò in un antro buio e silenzioso. Pareva non esserci
nessuno, la fatina chiamò:
–Biancomago!, Biancomago!
All'improvviso una voce tonante le rispose:
–Chi sei tu che disturbi il mio riposo?
–Sono Clippy, la fata dei sogni–, rispose intimorita, –Amelia
si fa regalare i sogni dai bambini, loro adesso sono tristi e...
Illustrazione: Gisella Germano
Non riuscì a finire la frase perché ci fu un boato, seguito da
una luce accecante. Comparve un vecchio con la barba argentea
che disse con tono severo:
–Raccontami di Amelia!– Clippy raccontò di Amelia e dei
bambini che non sognavano più e mentre raccontava il mago
diventava sempre più irrequieto ed accigliato. Poi Biancomago
recitò una formula magica:
–Orsù unicorni non esitate, venite da me svelti volate!–.
In un attimo comparse una slitta d'argento, trainata da
quattro unicorni alati. Il mago vi salì ed ordinò a Clippy di fare lo
stesso. Lei fece appena in tempo a sedersi che la slitta sfrecciò
nel cielo grigio, diretta a casa di Amelia. Arrivati a destinazione il
vecchio mago bussò con forza alla porta, la fata aprì riluttante
balbettando: –Bi... Biancomago che che piacere vederti!–
–Bando alle ciance–, le intimò lui –So benissimo che stai
rubando i sogni ai bambini di Cimagelata! E tu sai che è
assolutamente proibito dalle nostre leggi!–. Amelia ammutolita,
fissava il mago sempre più adirato e il suo bastone d'argento che
mandava bagliori sinistri ogni qualvolta lo puntava verso di lei.
Anche Clippy stava lì impalata, spaventata dalla rabbia di
Biancomago e dalla potente magia che lui emanava. –Amelia!–
tuonò il mago –attraverso l'enorme magia contenuta nei sogni
dei bambini, volevi diventare sempre più potente per prendere il
mio posto a capo della nostra Federazione. Ma così facendo ti sei
macchiata di un crimine orrendo. Privare i bambini dei loro
sogno equivale a privarli dell'infanzia, quindi ora io ti punirò in
maniera altrettanto crudele– detto ciò mormorò: –Adesso!
Subito! Obbedite a me, tutti i poteri fuori da te!– Udite quelle
parole, la fata lanciò un urlo disperato, mentre dal suo corpo
uscivano tantissime sfere luminose, che si misero a roteare in
aria. Clippy non capiva cosa stesse succedendo e Biancomago la
rassicurò –Non temere mia piccola fata, i nostri poteri, una volta
fuori dal corpo che li controlla, hanno volontà propria e
rimangono in aria fino a che non trovano un altro mago o
un'altra fata a cui affidarsi e la loro, è sempre la scelta giusta–. In
quel momento le luci si bloccarono poi, una ad una, si diressero
verso Clippy, dissolvendosi a contatto del suo corpo. Intanto
Amelia, rannicchiata in un angolo, piangeva supplicando:
–Ti prego! Perdonami! Ti supplico!–. Quando tutto finì,
Biancomago parlò nuovamente: –Bene Clippy, ora i poteri di
Amelia sono tuoi perché hai dimostrato di avere a cuore gli
esseri umani che ti erano stati affidati. Perciò ora sei una fata
molto potente e quando io andrò nel regno degli unicorni, tu
prenderai il mio posto a capo della federazione. Fino ad allora
torna dai tuoi bambini e rendili felici. In quanto a te, indegna
creatura!– disse rivolto ad Amelia –Da ora in poi non avrai più
nessun potere magico ma farai pozioni ed elisir da fattucchiera
quale adesso sei– Amelia scappò urlando nel bosco e di lei non si
seppe più nulla. Clippy tornò a far sognare i bambini di
Cimagelata e la loro principessa e, molti anni dopo, diventò il
capo della Federazione magica.
Illustrazione: Gisella Germano
Andrea Borrelli
EROICA LUNA
Perché c'è quella grossa palla luminosa in cielo anche se è buio e
il sole non c'è più?
Si chiedeva Elena sdraiata sul tappetino della cameretta
mentre la fissava attraverso il vetro della porta finestra che dava
sul balcone e si affacciava alla sera, poi ad un tratto si alzò di
scatto e corse nell'altra camera a chiedere.
Perché?
Ti diranno, quando crescerai, altre cose, ma, per adesso, è
giusto che tu sappia questo, da lassù ci protegge quella grossa
palla luminosa, come la chiami tu e noi che le siamo grati,
ripaghiamo tutto il suo coraggio alzando ogni volta la testa al
cielo stregati da quella luce.
Perché è coraggiosa? Cosa ha fatto?
Molto tempo fa salvò la notte e i nostri sogni, dal giorno e dal
sole che prepotenti volevano averla vinta su ogni ora con la
propria luce.
Quando è cominciata questa storia?
Tutto ebbe inizio all'alba, il sole che ci illumina dalla mattina
fino al tramonto, non voleva più scendere e capriccioso com'era
non gli bastava più splendere fino al pomeriggio ma gonfio di
tutti i suoi raggi e pieno di sé, pretendeva che tutti ammirassero
la sua luce ad ogni ora del giorno e della notte, niente più buio,
gli uomini avrebbero dovuto conoscerlo per sempre. Questo però
non era giusto perché come la luce anche il buio ha bisogno di
esistere ma il sole non ne voleva proprio sapere. Allora si
sforzava ogni volta di più e ogni giorno il buio diminuiva piano
piano per far posto solo alla luce, e lui si gonfiava e buttava con
potenza i suoi raggi in modo che arrivassero sempre più forti e
potenti a cancellare ogni ombra o tenebra che fosse. Tutto
questo non fece bene a noi, né agli animali e le piante e con
fatica ci spostavamo per ripararci senza poter riuscire più a
riposar bene ma soprattutto a sognare. La luna incuriosita si
avvicinò a vedere tutta quella stanchezza e sofferenza fino a
farle tremare il cuore, nel vedere tutti quei piccoli esseri patire
così tanta luce senza che potesse fare niente per aiutarli. Decise
perciò di andare a parlare con il sole ma lui sempre di più preso
dalla sua follia e dalle sue smisurate manie, le disse di farsi da
parte altrimenti avrebbe bruciato anche lei. Al passare di un
altro giorno e mentre la siccità ormai e la mancanza d'aria e
d'acqua si faceva preoccupante, la luna decise di andare di nuovo
a parlare con lui:
“Scusami se ti disturbo ancora ma non puoi pretendere di
cancellare la notte, tutti quelli che abitano lì col passare del
tempo e con tutta la forza che ci metti, scompariranno e non ci
sarà più nessuno ad ammirare la tua energia, e allora poi come
farai? Rimarrai a guardarti da solo?”
“Forse hai ragione ma come posso fare?”
“Ho io una soluzione che permetta loro di riposarsi e faccia
in modo di attenuare la tua luce, quel tanto che possa comunque
arrivare a loro ma senza far male”
“E come? Spiegati dai”
“Illumina me, io di riflesso porterò la tua luce di notte in
modo che loro la potranno conoscere e i tuoi raggi saranno
sempre apprezzati, io lavorerò per te e per il tuo grande
splendore”
Il sole rimase un po' perplesso, pensava che nessuno
l'avrebbe più visto di notte e questo avrebbe ridimensionato la
sua grandezza ma d'altra parte continuando in quella maniera
non ci sarebbe stato più nessuno che lo avrebbe potuto
ammirare
La luna sapeva che intaccando la vanità del sole e la paura di
non riuscire più a farne sfoggio con nessuno l'avrebbe messo in
difficoltà.
Il sole tentennò ancora non sapendo che fare, ripensando a
quello che sarebbe potuto accadere, accettò.
Ma la luna non c'è sempre in cielo di notte, quando non c'è, il
sole non si arrabbia? E perché non c'è sempre, non ci vuole poi
così bene?
Tu vuoi bene a lei?
Io sì, mi piace tanto.
Anche la luna soffre per la forza dei raggi del sole e allora per
un periodo ha bisogno di riposarsi e scomparire per poi tornare
più forte di prima a riflettere su di noi la luce del sole.
E al sole sta bene?
Fino a quando potrà continuare a vantarsi di sé sarà sempre
contento e riuscirà ad accettare questo compromesso.
Ma noi quando guardiamo al cielo di notte e vediamo la luna
splendere non pensiamo mai al sole ma solo a lei.
Sì è vero ma questo è un segreto che rimane solo tra lei e noi,
quando alziamo gli occhi per guardarla e con il nostro sguardo di
ammirazione la ripaghiamo di tutti i suoi sforzi, se la guardi con
attenzione ti sembra che sorrida sempre, anche se sta soffrendo
e alle volte la vedi più luminosa, è sempre contenta perché ci
siamo noi a guardarla.
E il sole non è geloso di questo?
Il sole, un giorno andò dalla luna a chiederle: “Perché quando
ti illumino con forza tu continui a sorridere sempre e non cedi
mai, cosa nascondi?
E la luna: “ Sono contenta di poter servire te e la tua luce”,
mentre si girò verso la terra.
Mamma credo che la luna mi abbia fatto l'occhiolino.
Sì Elena è proprio così.
E rimasero affacciate alla sera, sul balcone ad ammirare la
luna.
Antonella Vanucchi
IL TRASLOCO
Lele montò su un albero di mele deciso a mangiarsene una.
Aveva scelto la più bella, fece l'atto di staccarla, quando udì un
urlo: “Basta! Non si può mai dormire in pace!”. Il bimbo guardò
da una parte e dall'altra ma non vide nessuno. Tentò
nuovamente di staccare il frutto. Un altro grido gli assordì un
orecchio. Esterrefatto, vide uscire dalla mela un bruco tutto
arrabbiato.
Bruco: Come si permette di disturbarmi, ho avuto una
giornata terribile!
Lele: Io, veramente...
Bruco: Zitto! Ho fatto 30 traslochi in una settimana, e cinque
questa mattina! E li ho fatti tutti da solo! Mai che si trovi un
amico a darti una mano! Sono esausto! Mi ero appena assopito e
lei, dico lei mi ha svegliato!
Lele: Ma...
Bruco: Zitto! Lei non sa come è diventata difficile oggi, la vita
per un bruco! Belli i tempi di mio nonno. Entravi in una mela, te
la succhiavi senza fretta e ci stavi settimane!
E poi i traslochi erano ridotti al minimo: un letto, e uno
spazzolino da denti. Ora, invece, oltre al letto e allo spazzolino,
c'è l'armadio, le coperte, il divano, il televisore, la vasca
d'idromassaggio! Se poi hai qualche passione musicale, è ancora
peggio! Io suono il flauto, per cui non ho grossi problemi, ma chi
suona il pianoforte? Muore durante il trasloco, tanta è la fatica!
Che stress!!
Lele: Scusi...
Bruco: Zitto! Non mi interrompa! Noi bruchi, NON NE
POSSIAMO PIÙ! Le mele sono diventate sempre più piccole, più
elaborate, le mangi e non sanno di nulla. Vuoi mettere le mele di
una volta! Grosse, saporite, una polpa morbida, non faticavi
nemmeno a mangiarla! Guardi! Guardi i miei denti sono tutti
sciupati! Mi sono dovuto mettere la dentiera! Che vergogna! E i
veleni!... Quanti amici ho perso asfissiati da quel micidiali
insetticidi... Oh! Oh! Mi scusi il pianto... Iiiihhh!! Non ci posso
pensare... scusi, ho una crisi di panico! Non riesco a respirare...
Per favore, mi faccia un po' di vento! Grazie, molto gentile...
Insomma, le dicevo... Sì!
Sono proprio sconvolto da questa era moderna e da questi
continui traslochi!
Il mio psichiatra mi dice sempre di pensare positivo! Ma dico
io, come si fa!
Lele: Forse...
Bruco: Zitto! Non mi interrompa! Maleducato! Lo sa cosa ho
dovuto fare? Ho dovuto inventare un allarme portatile. Ci sono i
ladri di mele! Sono piccoli vermi, entrano dappertutto e ti
portano via ogni cosa! Ma io so difendermi! Li caccio fuori con la
musica! Altri sistemi non uso, sono un non-violento! Ah... che
vita penosa fra gli uomini, le macchine agricole, gli insetticidi,
l'invasione di vermi e le galline, sì proprio loro, quelle orribili
bestiacce! Spesso siamo il loro pasto! Guardi, preferirei finire nel
becco di una gallina che fare un ENNESIMO TRASLOCO!
Lele: Zitto!! Ora, stia zitto lei! Signor Bruco mi ascolti, tra
pochi giorni, le mele di questo albero saranno tutte raccolte,
quindi, le toccherà fare un ALTRO TRASLOCO! Le propongo la
soluzione di vivere con me, in un piccolo contenitore di vetro.
L'aiuterò a portare le sue cose, le darò da mangiare mele
buone. Insomma, le creerò una casa degna di un Signor Bruco,
potrà andarsene quando vorrà! Non sono, poi, così cattivi gli
esseri umani!
Il bruco ci rifletté e disse: “Affare fatto! Qua la mano amico!”
Lele, perplesso, pensò “Ma... i bruchi hanno le mani?”
Fabrizio Casapietra
I PESCI SMERALDINI
Ho chiuso gli ultimi ricordi nel vecchio armadio puzzolente di
naftalina: erano ormai ospiti indesiderati; ho guardato le mie
scarpe sul tappeto, provando per loro una gioviale riconoscenza,
intrisa di un leggero paternalismo da proprietario: poverine,
hanno sempre ubbidito senza protestare per centinaia di
chilometri, di cui non hanno mai indagato le cause o i fini.
Tuttavia, ero agitato: tutto, nella mia vita, oscillava, e i punti
di riferimento che mi creavo diventavano subito evanescenti;
nessuno, neanche una donna rubiconda, mi sembrava tanto
interessante da dover essere coinvolta nel vapore caotico della
mia vita: Marcella, la mia ex fidanzata; gli amici veri e quelli falsi,
che consideravo amici solo per abitudine; la mia casa sonnolenta:
tutto questo era schiuma che si frangeva sugli scogli.
Un giorno, sognai di trovarmi in un fondovalle, denso e
soleggiato, in cui ogni albero sembrava contento solo della sua
briosa inclinazione ad esistere: tanto che anche il suo piegarsi
diventava un gesto dettato da una rapita pienezza di vita.
Sotto il solleone, pescavo in un laghetto; ad un tratto, il
fondo del lago balenò di una luce che screziava l'acqua, dando
l'idea di un cristallo fatto di movimenti lingueggianti e isterici.
Allora provai a lanciare un amo ad uncino là dove il brillio
era più fitto: quando lo tirai su, mi apparve un cesto pieno di
esseri quasi smeraldini che ballonzolavano disinvolti e poi si
fermavano all'unisono, come se qualcosa di visibile soltanto a
loro li avesse spaventati: o suggestionati soltanto. Quando posai
il cesto per terra, i pesci, attoniti, mi guardavano, come se si
aspettassero qualcosa da me: era come se fossero convinti che ad
un mio cenno avrebbero potuto liberarsi di un peso, mettersi a
ballare gioiosi fra le pietre porose disseminate sulla riva.
Poi, all'improvviso, mi sembrò che la bocca di uno di quei
pesci si aprisse per dirmi qualcosa con un balbettio nascosto, uno
stridìo parlante che sembrava annunciato da un ventriloquo. Era
un messaggio cifrato che decrittavo inconsapevolmente, con
l'aiuto di un'intelligenza che atterrava nelle piste del mio
cervello da lande sconosciute.
Mi svegliai con l'impressione che le lenzuola fossero il lago
su cui avevo galleggiato supino, e il cuscino una nuvoletta
riflessa dall'acqua; un foglietto che avevo lasciato sul comodino
mi stupì: oltre al promemoria di un appuntamento lavorativo,
c'era una scritta che non avevo mai tracciato, con lettere aguzze
che si perdevano in strani sbuffi. Dicevano: “Alzati e riposati alla
fine della visione di Petzalcoatl”.
Proprio per la prossima settimana avevo progettato un
viaggio in Perù.
Quando arrivai a Lima, pensai più a cercare informazioni su
questo leggendario re nelle biblioteche pubbliche che a godermi
la vacanza con i consueti spassi per i turisti. Cosa c'era in questa
visione? Cosa poteva simboleggiare? In quale circostanza si era
prodotta?
Dopo vari tentativi, mi imbattei in una pagina un po' storica,
un po' leggendaria, che riguardava una visione che ebbe questo
re mitico, Petzalcoatl, famoso a causa delle sue guarigioni di folte
schiere di tubercolotici, blenorragici, diabetici, ammalati di
cancro e di enfisemi: esse consistevano nel cospargere i corpi
degli ammalati di estratti di scaglie tratte da misteriosi pesci, che
irradiavano piccoli raggi smeraldini; le scaglie venivano poi
mischiate a trucioli di palissandro, a cinnamomo e aloe. La foto
di una pittura illustrava il re che sfiorava, con un gesto
benedicente, i pesci ingranditi alla misura del suo capo,
ringalluzzendoli di adorazione.
Ricordai subito gli stessi raggiolini che tanto mi avevano
incuriosito nei pesci che avevo pescato: inoltre, mi balenò in
mente quella sorta di domanda saggia che avevano negli occhi
pellucidi, percorsi da fatiche insondabili: queste domande erano
anche briciole di certezze prelibate, che si crogiolavano in
spicchi di paradisi che solo loro potevano annusare.
Avrei voluto chiedere ai pesci il loro nome, fare conoscenza
con loro. Nel libro, al di sotto della didascalia, c'era una scritta
che diceva: “Coloro che hanno visioni si sentono guardiani della
Conoscenza, immaginandola in loro: poi imparano a donarla,
senza temere che si esaurisca: allora possono davvero riposare e
il loro riposo è vittorioso”.
Vera Bonaccini
PAOLA, PACO E POCO VERSO IL PORTO DI
CHIMICHANGA
Per il suo ottavo compleanno la nonna aveva regalato a Paola
una copia de “L'Isola del tesoro”.
La mamma, come al solito, si era arrabbiata perché, secondo
lei, i regali della nonna erano sempre regali da maschiaccio, ma
Paola quel libro lo aveva adorato! Le avventure di Jim Hawkin, di
Long John Silver, di Billy e del Capitano Flint l'avevano stregata!
Sognava di trovarsi alla guida di un galeone, circondata da
una ciurma di pirati, a veleggiare nel mar dei Caraibi in cerca di
tesori sepolti in qualche isola misteriosa piena di avventure.
Era riuscita a convincere il papà a costruirle una piccola
spada di legno, mentre la nonna le aveva cucito un bellissimo
tricorno in feltro da cui non si separava mai.
Ogni pomeriggio, dopo la scuola, prendeva il libro
sottobraccio e andava a leggere accanto al piccolo fiume che si
trovava vicino a casa, la cosa più simile al mare nelle vicinanze.
Avrebbe voluto vivere sulla costa, davanti al mare, invece
che in quel piccolo paesino di montagna tanto noioso.
Quella Domenica, Paola si recò al fiume subito dopo pranzo.
Poggiò la spada accanto a sé e, col tricorno ben calato sulla testa,
si appoggiò al tronco di un abete, iniziando a leggere: “Essendomi
stato chiesto dal nobile Trelawney, dal dottor Livesey e dagli altri
gentiluomini, di scrivere con ogni dettaglio dell'Isola del Tesoro,
dall'inizio alla fine, senza tralasciare nulla...”
Si interruppe quasi subito, distratta da uno strano fruscio
proveniente da un gruppo di canne poco distante. Cercando di
fare meno rumore possibile, poggiò il libro accanto a sé,
sostituendolo prontamente con la spada; era cresciuta in quei
boschi, sapeva che non erano pericolosi, ma, come diceva
sempre la nonna: “La prudenza non è mai troppa.”
Dopo poco, tendendo le orecchie, sentì due vocine provenire
dal canneto.
“È lei, ti dico, è sicuramente lei. Indossa anche il tricorno,
guarda.”
“Allora vai a parlarle, no?”
“No, vacci tu. Io ti aspetto qui.”
Incuriosita dalla strana situazione, Paola si alzò e, tendendo
la spada di fronte a sé, la utilizzò per scostare le canne che le
ostruivano la visuale. Le apparve una buffa coppia di scoiattoli
dal pelo rossiccio che, colta alla sprovvista, restò a fissarla
immobile con la bocca spalancata.
“E voi chi siete?” chiese, meravigliata. Da quando gli
scoiattoli sapevano parlare?
La reazione dei due la lasciò, ancor più, senza parole.
Ripresisi dallo spavento, infatti, si gettarono entrambi in
ginocchio, incrociando le zampine superiori come se stessero
pregando.
“Capitano! Finalmente l'abbiamo ritrovata! È un miracolo!
Dobbiamo imbarcarci subito! Non c'è tempo da perdere!
Dobbiamo raggiungere l'isola di Tapioca entro sera!”
Paola sgranò gli occhi per la sorpresa. Osservandoli meglio si
accorse che entrambi indossavano piccoli stivali che arrivavano
a coprire quasi del tutto la zampe posteriori e dei cinturoni in cui
erano infilati, a mo' di spada, dei grossi spilloni con la capocchia
colorata, identici a quelli che usava la nonna quando cuciva. Lo
scoiattolo di destra portava poi una minuscola benda di cuoio
sull'occhio sinistro, mentre l'altro aveva un piccolo uncino al
posto di una zampa.
“Siete scoiattoli pirati?” domandò Paola, sempre più stupita
ed eccitata.
“Ci può giurare, Capitano! Io sono Paco e lui è Poco,
rispettivamente Quartiermastro e Timoniere della Taccola, il suo
onorevole brigantino, attualmente ormeggiato nel porto di
Chimichanga in attesa di salpare al suo comando!” le rispose con
un inchino lo scoiattolo con la benda.
“È... è bellissimo, ma non credo di poter partire...” disse
Paola, voltandosi verso la casa “La mamma si preoccuperebbe e
poi...”
“Le prometto che saremo di ritorno per l'ora di merenda,
Capitano.” la rassicurò Poco.
Paola era combattuta; stava succedendo quello che aveva
sempre desiderato ma ora non sapeva se partire sarebbe stata
una buona idea. Si voltò di nuovo verso casa; la nonna era uscita
a stendere il bucato e, scorgendola, le sorrise, agitando un
braccio in segno di saluto, quasi ad augurarle buon viaggio.
Questo le diede coraggio. Si sistemò bene il tricorno sulla
testa. “Ok, partiamo, ma per merenda dobbiamo essere qui!”
Paco e Poco applaudirono, saltellando felici.
“Solo... come ci arriviamo al porto di Chimichanga da qui?”
chiese, piena di gioia e di aspettative.
“Con quello.” rispose Paco, indicando un mezzo guscio di
noce che galleggiava poco distante.
Paola lo guardò dubbiosa. “Ma è piccolo... non credo ci
staremo.”
“Si fidi, Capitano. Ci staremo eccome.”
E, in effetti, magicamente, ci stettero. E anche comodi.
Mentre Paola, Paco e Poco veleggiavano sereni verso
Chimichanga, la mamma raggiunse la nonna fuori di casa.
“La bambina dov'è?”
“È andata al fiume” rispose la nonna “Guarda, è lì che dorme,
accanto all'abete.”
La mamma si girò e vide Paola poggiata al tronco, il libro
aperto abbandonato sulla pancia ed il tricorno mezzo calato sugli
occhi. Sorrise.
“Guarda che espressione beata, chissà cosa starà sognando...”
“ Chimichanga.” sussurrò la nonna.
“Hai detto qualcosa?”
“Niente, niente. Tra poco la sveglio io per portarle la
merenda.”
“D'accordo.” disse la mamma rientrando in casa.
Wendy riprese a stendere il bucato, sorridendo tra sé e sé. La
passione per i pirati era proprio di famiglia.
Illustrazione: Vera Bonaccini
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