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Autori vari DIVERGENTEMENTE Realizzato in collaborazione con il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Caleidoscopi” letteratura per bambini a cura di Liuba Cardaci Divergentemente © 2015 Autori vari © 2015 Matisklo Edizioni Prima edizione, Ottobre 2015 ISBN: 978-88-98572-62-5 Immagine di copertina di Gisella Germano Matisklo Edizioni S.N.C. di Oddera Cesare & Vico Francesco Via Eremita 14 17045 Mallare (SV) [email protected] www.matiskloedizioni.com Indice Introduzione di Liuba Cardaci Nota a margine di Cesare Oddera DIVERGENTEMENTE IL SEGRETO DI NONUR Claudio Pozzani IL PAESE DEL TEMPO Alberto Calandriello IL RE DEL TEMPO Jaime Andrés De Castro IL DONO DI LU Sabina Bruzzone L'ELEFANTE E LA FARFALLA Barbara Garassino GIOVANNINO E I NUMERI Sara Albarello ZAFFIRO Luigi Siccardi DI QUA Annamaria Altomare BOLLICINA Gisella Germano IL RE SERPENTE Miriam Coccari IL DONO DELLA GROTTA INCANTATA Stefania Fiore LE ROSE DEL RICORDO Silvia Rosa LIBERO Simona Rossi I GAEWINK Lorenzo Carbone IL LUPO E CAPPUCCETTO ROSSO Giovanna Olivari IL MANGIAFAVOLE Roberto Marzano IL REGNO SENZA SOGNI Laura Maccagno EROICA LUNA Andrea Borrelli IL TRASLOCO Antonella Vannucchi I PESCI SMERALDINI Fabrizio Casapietra PAOLA, PACO E POCO VERSO IL PORTO DI CHIMICHANGA Vera Bonaccini Introduzione di Liuba Cardaci Se c'è una cosa che amo delle idee è che quando le condividi si animano quasi di vita propria e cominciano a correre nel cielo come grandi aquiloni portati dal vento. La gente parla, discute, si confronta. Ed ecco, che una manciata di parole, lasciata a riposare, comincia a crescere. È una magia! L'anima dell'artista si declina quotidianamente in innumerevoli, fluide, originali soluzioni di pensiero che, in continuo divenire, trovano parte del loro compimento nell'opera d'arte generando altri pensieri. Il processo creativo delle menti è linfa che rinvigorisce e alimenta il benessere sociale a patto che sia condiviso e tramandato. Il progetto Divergentemente si propone lo scopo di sensibilizzare, coinvolgere e avvicinare gli artisti ai bambini per fornire loro spunti d'interpretazione da rielaborare a seconda dell'esperienza e del vissuto del singolo individuo. Ora la sfida passa a voi, leggete ai vostri bambini, criticate, commentate, giocate con le parole, illustrate, drammatizzate, cercate significati e significanti, interpretate i simboli, viaggiate con e tra le parole. Abbassate la luce ed entrate nel mondo di fantasia e realtà emozionale di Divergentemente oppure godetevi tranquillamente il piacere di leggere ed essere ascoltati. Un sentito ringraziamento a tutti gli autori, i collaboratori e a chi deciderà di leggere le pagine a seguire. Nota a Margine di Cesare Oddera Sei una favola, Sara La prima volta che sento la frase ho diciotto anni e me ne sto appoggiato ad un muro scrostato, il fianco leggermente in fuori e un piede contro la parete, in una posa che ha la pretesa di essere molto maschia e invece ho il sospetto sia solo vagamente ridicola. Non distante da me c'è un ragazzo biondo, seduto al tavolino di un bar, e nessun altro. Sono le sette di sera e il ragazzo ha l'aria nervosa: si alza, si guarda attorno, torna a sedersi. Sta aspettando qualcuno di importante. No, non un cardinale o un presidente, qualcuno di davvero importante, importante per lui. Attorno a noi l'estate del Novantacinque rovescia su quella briciola d'Italia una luce ed un calore feroci, in attesa dei temporali d'agosto, tanto frequenti da condannarla ad essere ricordata come “l'estate che non c'era”. Il juke-box suona “When I Come Around”, quell'estate. Suona “She's a River” e “What's The Frequency, Kenneth?”. Suona incessantemente “Meravigliosa creatura” e “La mia storia tra le dita”, mentre qualche chilometro più ad est si consuma l'alba tragica di Srebrenica. Il ragazzo, sempre più agitato, tormenta il collo della camicia nuova, poi si alza nuovamente e sbircia di sfuggita nella porta a specchio di quel bar di provincia: tutto a posto, perfino i capelli possono andare. E all'improvviso lei fa il suo ingresso, nella stanza e nella nostra vita, ed è la cosa più bella ch'io abbia mai visto, con i suoi sandali e il vestitino leggero. Va verso di lui, sorride e gli dice ciao, guardandolo dritto negli occhi. E il ragazzo, imbarazzato dal ritrovarsi colto proprio nel momento di debolezza dello specchiarsi, nonostante tutto trova la forza di resistere allo sguardo e pronunciare la frase la cui straordinaria potenza mi ha tormentato fino ad oggi. “Sei una favola, Sara”, le risponde, semplicemente. Confesso che, in preda a pensieri più prosaici – Sara è davvero bellissima, quella sera – sul momento non ho dato troppo peso al prodigioso segreto celato in quelle parole. Immagino lo stesso valga per il ragazzo, e per Sara stessa, certamente rapiti da questioni molto più urgenti, per le quali, ancora a distanza di vent'anni, non posso fare a meno di provare una punta d'invidia. E non ci ho dato peso nemmeno in tempi più recenti, quando mi è capitato a volte di sentirle nuovamente o addirittura di pronunciarle a mia volta. Eppure sono certo – ed è cosa difficile per uno che ha bazzicato le parole per tanti anni raccogliendone solo dubbi – che il nocciolo dell'intera letteratura fantastica sia contenuto proprio in quel “Sei una favola, Sara”. Attorno ruota tutto il resto, un tutto il resto che è storia, o favola, o ancora fiaba, racconto, quel che preferite. A scuola, sulla favola, ci hanno insegnato molto. Sappiamo che si tratta di genere antichissimo – sia favola sia fiaba hanno il medesimo fondamento etimologico nel verbo latino fari, parlare – e che probabilmente la radice “bha” che chiude il termine fiaba è ancora più antica e si perde nella notte dei tempi. È assai probabile che la favola sia nata insieme alla parola e che con la parola andrà a morire, quando sarà il momento, ma non certo qui e ora. Abbiamo anche imparato a distinguere fra fiaba e favola, somiglianti per certi aspetti ma diverse per caratteristiche e per finalità. Quel che però non ci hanno insegnato – probabilmente perché nessuno lo sa e quindi non lo si può insegnare – è dove nascono le fiabe. Non è tanto il quando ad interessarci, ma proprio il dove. Tanto varrebbe domandarsi dove comincia e finisce un arcobaleno, dove corrono a nascondersi le nuvole in un giorno di sole o ancora dove vanno a finire i sogni quando ci svegliamo. Domande senza senso, sentenzieranno alcuni. Eppure se nessuno non si fosse posto queste domande, noi di fatto non avremmo le favole. Perché coloro che evitano queste domande sono gli stessi che vi diranno che le slitte non possono volare, gli animali parlare, le zucche trasformarsi in carrozze e i ranocchi in principi. Sono quelli che cercheranno di persuadervi che il tempo sta negli orologi e scorre per tutti allo stesso modo e che le storie nascono nei libri e dai libri non possono uscire. In altre parole, vogliono convincervi che la magia non esiste e che dovete vivere la vostra vita come la vivono loro: davanti ad un orologio fermo alle sei del pomeriggio di un lunedì. Di fronte a questi personaggi viene da domandarsi se valga la pena, in questo secolo votato all'incorporeità, dare corpo a favole e fiabe o addirittura raccoglierne una manciata in un'opera come quella che vi accingete a leggere. Ancora recentemente qualcuno ha provato a mettere al bando la celebre “Cappuccetto Rosso”, etichettandola come “sessista”, una parola che, se siete bambini potrebbe anche farvi ridere, ma se siete adulti dovrebbe farvi ridere ancora di più. E che c'entra questo con il dove, vi starete chiedendo. E soprattutto cosa ha a che fare con Sara e con quel ragazzo biondo di tanti anni fa? Ma come, non l'avete ancora capito? È presto detto: Sara è il dove e anche il quando, perfino il perché. Sara è una favola, ma è anche l'origine delle favole, il motivo per cui ogni fiaba è scritta o raccontata, non solo quella sera del Novantacinque, ma prima e dopo. E quella frase, quella attorno a cui ruota tutto il resto – comprese le false certezze dei personaggi di cui sopra – quel “sei una favola”, altro non è se non una formula magica, un abracadabra che funziona sempre. Perché non solo Sara ma tutti noi siamo il principio e la fine di ogni storia, indipendentemente dalla morale che contiene. Ciò che importa ad una storia è raccontare ed essere raccontata, sempre. Una fiaba è la realtà dentro la fantasia e la verità è una sola: la magia esiste, proprio come esistiamo voi ed io. E adesso girate pagina, oggi siete bellissimi e siete felici. Oggi siete una favola. Autori vari DIVERGENTEMENTE Realizzato in collaborazione con il Festival Internazionale di Poesia di Genova “... il vero viaggio della scoperta non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi...” M. Proust Claudio Pozzani IL SEGRETO DI NONUR Questa fiaba è stata scritta durante il soggiorno presso la residenza per scrittori a Ventspils (Lettonia) Ventospillo era una cittadina simpatica e accogliente con una buffa piccola chiesetta nella piazza principale. Alla domenica mattina tutto il paese la riempiva, mentre le sue campane rimbombavano per tutta la vallata, raggiungendo sia i contadini che stavano sulle colline a coltivare le vigne, sia i pescatori che riparavano le reti sulle spiagge. Le stradine che portavano alla chiesetta si riempivano allora di colori e di rumori e sembrava sempre una festa anche quando, d'inverno, i tuoni erano così forti che pareva quasi che l'intera valle fosse un'astronave sul punto di partire per la luna. In mezzo al paese passava anche un fiume che si chiamava Gato e che proprio a Ventospillo si gettava fra le braccia del mare; a volte in autunno usciva dagli argini e inondava le strade sterrate trasformandole in piccole paludi per la gioia dei bambini che potevano schizzarsi l'uno con l'altro e per la disperazione delle mamme che dovevano poi lavare i loro vestiti sporchi di fango. Proprio alla fine di uno di questi lungofiume sorgeva la casa della famiglia Cavallino, un simpatico quartetto composto da papà Tino e da mamma Titti, che gestivano una pasticceria e dai due figli, i gemelli Ginevra e Luca. Le giornate scorrevano tranquille, con i due bambini che andavano a scuola con buon profitto e si facevano compagnia anche nei giochi, soprattutto quando i genitori andavano al lavoro e veniva in casa una zia un po' sorda e che si addormentava spesso sul divano davanti alla televisione. In uno di quei pomeriggi invernali e un po' bui, approfittando della zia che come al solito si era appisolata, i due bambini andarono nella loro cameretta per finire un puzzle sui castelli della Loira e per caso scoprirono quello che sarebbe stato il loro segreto più grande, una vera e propria magia. Successe infatti che all'improvviso il faretto della camera lampeggiò fino a spegnersi, chiaro segnale di una lampadina che aveva terminato di sorridere luce. Luca si alzò nella penombra e accese la nuova abat-jour accanto al letto a castello e... rimase a bocca aperta nel vedere che in tutta la stanza prendeva vita un vero e proprio villaggio, abitato da bambole, peluche, animaletti di gomma, soldatini medievali, astronauti che si muovevano in strade lastricate di moquette e con case dalle forme più bizzarre costruite con mattoncini di plastica. Bobo, il vecchio orsacchiotto di Luca che stava camminando nella via principale, si arrestò di colpo vedendo l'espressione di stupore dei due bambini: –Benvenuti a Nonur! Ora non posso accompagnarvi a visitare la nostra città, devo andare a un ricevimento all'Armadio 4 Stagioni. Nel frattempo la zia, che si era svegliata, entrò nella cameretta: –Ma cosa fate al buio?– disse continuando a schiacciare invano l'interruttore della luce. I due bambini, ancora sotto choc per ciò che stavano vedendo, non si accorsero neanche della loro zia che nel frattempo era andata a recuperare un nuovo faretto. Poi Luca, quasi risvegliandosi da un sogno, scosse la sorellina, spense l'abat-jour e uscì dalla stanza. Mentre la zia cambiava la lampadina rischiando più volte di cadere dalla sedia sulla quale era salita, i due bambini si ritrovarono in cucina, dove Luca prese la mano di Ginevra e, con una voce solenne e guardandola fissa, le disse che quello sarebbe stato il loro grande segreto, che non doveva essere rivelato a nessuno. Da quel giorno, appena finiti i compiti, Luca e Ginevra correvano nella loro stanza e iniziavano a fare i soliti giochi a carte ma poi, quando i loro genitori uscivano per andare in negozio e la zia si appisolava rumorosamente, chiudevano le persiane, spegnevano la luce e accendevano l'abat-jour, restando ad aspettare che quel piccolo villaggio prendesse vita. Quella fioca luce diventava poco a poco un caldo sole che illuminava e intiepidiva il paesino di Nonur. Dopo alcune volte, i due bambini avevano imparato a conoscere il paesino. Verso la periferia c'erano fabbriche ricavate da vecchie scatole da scarpe, dove centinaia di piccoli soldatini producevano energia e prodotti di prima necessità per tutta la comunità; Bobo era il capo riconosciuto, una sorta di sindaco della città, ma non c'erano lotte di potere o invidie e tutti vivevano in armonia. Bobo, in ogni caso, era colui che dall'alto della sua esperienza (era stato il primo orsacchiotto di Luca) era capace di risolvere qualsiasi controversia che poteva nascere a causa, per esempio, di qualche delusione d'amore o di qualche malinteso. Bobo, inoltre, era anche l'incaricato di tenere i rapporti tra Nonur e i due bambini e infatti Luca dormiva con lui. Questa era una funzione molto importante per la sopravvivenza di Nonur: a volte mamma Titti, stanca del disordine della cameretta, voleva portare in solaio o addirittura gettare via qualche vecchio giocattolo quando i due bambini erano a scuola e Bobo poteva raccogliere le informazioni dagli amici sparsi per la casa sul malsano proposito della genitrice e avvertire Luca del pericolo. Nella comunità di Nonur c'era un'altra figura si spicco, Maya, la bambola preferita di Ginevra, che era anche la più anziana e che, per la cronaca, era follemente innamorata di Bobo. Quando Bobo usciva dal letto di Luca per andare a fare una passeggiata per le vie di Nonur, Maya con una scusa qualsiasi si calava dal letto di Ginevra, che era quello sottostante e, balbettando per l'emozione, tentava di farsi invitare dal suo amato orsacchiotto. Bobo non era rimasto a lungo insensibile alla bellezza di quella bambola e così un giorno la invitò a pranzo al rinomato Ristorante “La Scrivania”, tenuto dall'Omino della Michelin, dal quale si dominava tutto il paese. Quel giorno il sole era particolarmente caldo, perché papà Tino aveva cambiato la lampadina dell'abat-jour, e Maya arrivò all'appuntamento bella come mai, con uno splendido abitino bianco di pizzo. Dopo un ottimo pranzo a base delle specialità locali come grigliata di gommapiuma, ovatta in agrodolce e plastichetta con fogli di carta, Bobo accompagnò Maya verso il belvedere e la baciò. Il giorno del loro matrimonio ci fu una festa enorme. Tutta la cittadinanza di Nonur era eccitata già dalla settimana prima. Le bambole avevano riempito i due parrucchieri del paese per farsi delle pettinature degne dell'occasione, mentre i peluche erano andati a farsi lucidare il pelo dalla Beauty Farm "La spazzola", sita nel terzo cassetto del comò, uno dei quartieri più chic di Nonur. Durante la settimana precedente il matrimonio, tutta Nonur sembrava un formicaio impazzito: i negozi erano presi d'assalto per i regali e i vestiti per la cerimonia, le strade erano piene di porcellini-operai che mettevano addobbi e striscioni in onore dei due sposi e in tutte le case ci si dava da fare per acconciare i balconi e terrazzi con fiori di seta o di carta. Perfino le Barbie, di solito così distaccate e aristocratiche, si erano fatte travolgere dall'euforia dei festeggiamenti e insieme ai loro cavalieri si facevano vedere spesso nei caffè più esclusivi di Viale dei Giardini, sfoggiando vestiti e scarpe all'ultima moda. Il giornale più letto della città, "Il Diario Scolastico", ogni giorno traboccava di retroscena e notizie sui preparativi della cerimonia e del successivo banchetto. Si sapeva che lo chef più noto, il già citato Omino della Michelin, aveva preparato i suoi prelibati soufflé alla matita temperata, palline da ping pong ripiene, e una torta gigantesca di gommapiuma e vinavil e che per l'intrattenimento danzante era stato addirittura invitato il complesso del Muppets Show. Il Museo dei Telefonini di Papà Tino, gestito da un gufo di pezza e da un gadget dei Mondiali '90, aveva indetto un concorso per la storia d'amore più bella e il vincitore sarebbe stato premiato da Bobo e Maya in persona. E i due promessi sposi cosa facevano nell'attesa? Maya aveva già deciso di indossare l'abito del primo appuntamento con delle scarpe rosa e un cappellino a forma di tappo a corona, all'ultima moda. Aveva pregato Ginevra di stirarle il vestito e di aiutarla nell'acconciatura perché non poteva andare da un parrucchiere senza che decine di curiosi la fermassero per strada. Bobo invece, dopo essersi consigliato con Luca, aveva deciso per un completo a strisce verticali bianche e verdi che fu dato a Ginevra per la messa in piega. Bobo pregò Luca di far mettere una luce più potente nell'abat-jour affinché il matrimonio si svolgesse con un sole più caldo e ridente e fu così che papà Tino, pur senza capire, fu costretto da suo figlio a cambiare la lampadina. Il giorno della vigilia tutto era pronto. Nonur pareva brillare come una pietra preziosa: le strade di moquette erano state pulite da mamma Titti con l'aspirapolvere e anche i tappeti erano stati sbattuti. Mentre faceva questi lavori, la mamma non si riusciva a spiegare l'improvviso amore di sua figlia per la pulizia e perché avesse insistito così tanto per avere la stanza perfettamente fresca e pulita, quando di solito doveva alzare la voce per ottenere un po' di ordine. Sia papà Tino che mamma Titti avevano notato la strana eccitazione che pervadeva i due figli e non si spiegavano il perché della loro fretta di andare in camera quando tornavano da scuola, ma in tutti i casi non domandarono niente, intuendo che fosse un gioco o una sorpresa. Il matrimonio era fissato per il martedì pomeriggio e la notte prima Bobo e Maya non riuscivano a dormire per l'agitazione. L'orsacchiotto con Luca e la bambola con Ginevra, confessarono tutte le loro paure e chiesero consigli. Per di più, anche i due bambini erano un po' agitati perché l'indomani a scuola ci sarebbe stato un compito di aritmetica e così quella notte passò senza che nessuno dei quattro amici riuscisse a chiudere occhio. La mattina, nonostante il sonno e la paura, Luca e Ginevra riuscirono a risolvere bene il problema. Appena arrivati a casa, i due bambini mangiarono alla svelta rispondendo evasivamente alle domande dei genitori sull'esito del compito in classe, non vedendo l'ora che il pranzo finisse e che quindi, approfittando dell'assenza dei genitori e della presenza della zia dormigliona, potessero accendere l'abat-jour e quindi la vita a Nonur. Lo spettacolo che si mostrò ai loro occhi fu meraviglioso: Nonur sembrava veramente un gioiello. Le case, le strade e anche la chiesetta a forma di scatola di Caprice des Dieux erano bellissime e adornate con tantissimi fiori a quadretti o a righe. Nella strada principale, Corso degli Orsi e Bambole, era stato costruito un palchetto con delle scatole vuote di fiammiferi, dal quale i due sposi avrebbero assistito alla sfilata dei concittadini in loro onore. La banda delle scimmiette a carica era già pronta per iniziare la processione, ma i due sposi non c'erano ancora. Un mormorio di apprensione serpeggiò fra la folla, ma ad un tratto si notò un movimento intorno al palchetto e, preceduta da un Bobo elegantissimo e sorridente, apparve Maya col suo splendido vestitino e il cappellino stile tappo a corona, che fu invidiato da tutte le bambole. Maya era emozionata e stringeva il braccio di Bobo per l'enorme felicità di vedere tutti quei peluche, bambole, giocattoli e oggetti che condividevano la sua gioia. La banda iniziò a intonare l'inno di Nonur scritto a scuola da Luca e Ginevra durante la ricreazione e la sfilata cominciò. Via via passarono tutti salutando la coppia festeggiata: soldatini medievali, astronauti e alieni, animali da fattoria, le penne e matite, motoscafi telecomandati, auto a pila, peluche, bambole, gomme da cancellare, astucci, quaderni, caramelle, e tanti altri, per un serpentone allegro che pareva infinito. Alla fine, un vecchio elefante di pezza prese il microfono e fece un discorso molto ispirato, raccontando della sua lunga amicizia con Bobo e si interruppe varie volte per l'emozione, aggiustandosi un pezzo di ovatta che fuoriusciva dalle sue vecchie cuciture. Poi venne il momento di Bobo, che senza mai lasciare la mano di Maya, volle per prima cosa ringraziare i due bambini, Luca e Ginevra, che avevano reso possibile tutto quanto e che da tanti anni ormai avevano scelto lui e Maya come compagni per farsi accompagnare nei sogni la notte e per risvegliarsi la mattina. Il breve discorso dell'orso fu interrotto da frequenti applausi e grida di gioia e tutti non vedevano l'ora di dare il via al pranzo e alle feste. Piazza Antico Triciclo fu prescelta per ospitare l'enorme balera e la lunga tavolata del banchetto nuziale. Le varie portate di soufflé e delle altre leccornie furono servite da indiani e cowboy, mentre animali di vetro iniziavano le danze, con unicorni impegnati in vorticosi balli accanto a modellini della seconda guerra mondiale e scorze d'arancio che ballavano tanghi con il casqué. Dopo il lauto pranzo anche Bobo e Maya raggiunsero la balera e fu allora che l'orchestrina iniziò un lento, la lampadina dell'abat-jour si fece più fioca e tutti gli invitati si misero in cerchio ai bordi della pista dove, stretti in un abbraccio infinito, l'orsacchiotto e la bambola si lasciavano cullare da quella musica da sogno. Passo dopo passo, i due innamorati sentivano sparire la terra sotto i loro piedi, come se le scarpe rosa di Maya e le zampette di peluche di Bobo avessero messo un paio di ali che, leggere, li trasportavano lontano... lontano... lontano da un mondo che permetteva loro di vivere e di amarsi solo nel cuore di quei due bambini che si erano addormentati nei loro lettini in compagnia di un piccolo orsacchiotto e di una bambola con i capelli mossi. Mamma Titti e papà Tino, rientrando dal lavoro, evitarono di svegliare i loro figlioletti anche perché, in quei visi di bambini addormentati, videro un sorriso e una felicità senza fine, come quella di due sposini che in un mondo lontano eppure tanto vicino, stavano ballando sulle note di un vecchio valzer lento. Illustrazione: Gianfranco Uber Alberto Calandriello IL PAESE DEL TEMPO C'era una volta il paese del Tempo, un posto meraviglioso. Se qualcuno si ammalava veniva portato nella Casa del Tempo della Salute e stava subito meglio, tutti i ragazzi andavano alla Casa del Tempo dello Studio e imparavano le cose importanti, poi andavano al Parco del Tempo del Gioco e si divertivano insieme. Il Re e la Regina ebbero un bambino che venne chiamato PocoTempo, perché era appena nato. PocoTempo imparava velocemente grazie al suo Maestro ColtivaTempo. Sapeva distinguere il Tempo del Gioco dal Tempo dello Studio, il Tempo del divertimento dal Tempo dell'impegno, il Tempo di Parlare dal Tempo di Ascoltare. Un brutto giorno però, arrivarono nel Paese del Tempo due furfanti: PerdiTempo e RubaTempo. Subito iniziarono ad imbrogliare la gente. PerdiTempo fermava le persone che avevano fretta e le faceva arrivare tardi al lavoro o a casa o dal dottore; quando poi queste si accorgevano del ritardo, si offriva di accompagnarle e le rapinava. Ogni giorno PerdiTempo si mascherava in un modo diverso e nessuno lo riconosceva, un giorno era una vecchina che doveva attraversare la strada, un giorno un signore che non trovava un posto, oppure un bambino che aveva perso i genitori. Gli abitanti del Paese del Tempo erano persone buone e gentili e lui se ne approfittava e faceva perdere loro un sacco di tempo, per poterli ingannare e truffare. RubaTempo colpiva di notte, entrava nelle case e portava via il Tempo. Così al mattino le mamme non trovavano più il tempo per fare colazione con i figli, i papà il tempo per giocare con i bambini, gli sposi il tempo per parlarsi, i ragazzi il tempo di studiare, gli adulti il tempo per aiutare gli anziani. Tutti erano sempre agitati ed arrabbiati e trovavano solo il tempo per litigare, perché un po' di tempo glielo rubava RubaTempo ed un po' glielo faceva perdere PerdiTempo. Il Paese del Tempo stava diventando un posto triste e cattivo; qualcuno già pensava di andarsene; per paura di essere imbrogliato, nessuno era più disponibile ad aiutare gli altri, le vecchine rischiavano di essere investite dalle macchine, per paura che fosse PerdiTempo, i turisti vagavano per le vie del Regno senza che nessuno si fermasse ad indicare loro la strada giusta ed in breve tempo nessuno volle più andare in vacanza nel Regno del Tempo; i bambini piangevano disperati ai bordi delle strade e nessuno li consolava, perché pensavano fosse un ennesimo travestimento, così iniziarono tutti a litigare tra di loro e nessuno passava più del BuonTempo. PocoTempo in breve capì la situazione ed andò a parlare col Re e la Regina: –Papà, mamma, non possiamo permettere che il nostro Regno venga rovinato, bisogna fare qualcosa!– Il Re e la Regina, ormai anziani, non sapevano però che pesci pigliare, –come faremo figliolo? Non abbiamo più forze! Il nostro Tempo sta per finire!– Così, PocoTempo escogitò un piano. Iniziò a girare per il regno senza farsi riconoscere e ad ogni bambino che piangeva, ad ogni turista smarrito, ad ogni vecchina spaventata portava aiuto, dedicando a loro il meglio del suo Tempo. Un giorno, mentre stava aiutando una signora anziana, iniziò a spiegarle che il Tempo dedicato ad aiutare gli altri non è mai tempo sprecato e anzi, quel Tempo aiuta a crescere ed a sentirsi più buoni; la vecchina, che era PerdiTempo travestito, rimase molto colpita da quelle frasi. Una mattina invece parlò con una mamma a cui RubaTempo aveva portato via il Tempo della colazione con i figli e le spiegò che quel tempo doveva per forza essere sostituito e la convinse a rinunciare al Tempo delle Pulizie, per una volta e a dedicare quel tempo ai suoi bambini; poi convinse un papà a rinunciare ogni tanto al Tempo del Lavoro Straordinario per portare i figli al Parco del Tempo del Gioco ed alcuni ragazzi a spegnere i computer un pomeriggio alla settimana per fare due chiacchiere con i nonni nel Circolo del Tempo della Memoria. Piano piano tutti compresero quali erano le cose davvero importanti a cui dedicare del Tempo. RubaTempo intanto si accorse che del tempo rubato non se ne faceva più niente, perché era un furfante ed i furfanti non hanno amici con cui passare il Tempo. Allora lui e PerdiTempo decisero di chiedere perdono a tutti ed insieme a PocoTempo andarono a scusarsi anche con il Re e la Regina. I Reali del Regno del Tempo capirono che i due avevano imparato la lezione e li perdonarono. PocoTempo divenne così l'eroe del Regno del Tempo e a lui venne affidata la creazione di un esercito del Tempo: i SalvaTempo. I SalvaTempo aiutavano chi non voleva sprecare nemmeno un minuto delle loro giornate in cose sciocche, negative o inutili. In pochi anni il Regno del Tempo tornò al suo antico splendore, tutti erano amici e si rispettavano, perché non c'è nulla di peggio che perdere tempo ad arrabbiarsi con gli altri! Tutti capirono quindi come usare il loro Tempo e da quel momento per loro fu il Tempo di vivere felici e contenti. Jaime Andrés De Castro IL RE DEL TEMPO Tanto tempo fa, in un regno irraggiungibile, sorgeva un piccolo castello. L'unica torre sarebbe dovuta servire per i prigionieri ma, ormai, nessuno ci veniva incarcerato, tanto che la torre era vuota da almeno cento anni. Il re passava la mattinata a stare seduto sul suo piccolo trono e i pomeriggi a farsi bello perché, essendo senza regina, sperava un giorno di incontrare una principessa dolce e gentile che volesse sposarlo. Un pomeriggio, mentre il barbiere pettinava i capelli del re, ne trovò uno bianco e lo mostrò al sovrano, questi si accorse di quanto stesse invecchiando e andò di corsa verso lo specchio. Osservandosi attentamente la folta barba notò alcuni peli grigi tra quelli rossicci e cercando fra i capelli ne trovò altri bianchi, mentre sul volto vide tante piccole rughe attorno agli occhi, alla bocca e sulle guance, per non parlare di quanto fosse diventato rugoso il collo! Iniziò a preoccuparsi seriamente e cominciò a sospirare, sbuffare e sussurrare quanto avrebbe amato che il tempo si fermasse per permettergli di trovare una principessa da sposare, senza dover invecchiare triste e solo. Chiamò a sé il suo consigliere più fidato e gli disse: «Consigliere, voglio che trovi al più presto un modo per farmi conoscere una principessa! Ormai sto invecchiando e vorrei che il tempo non passasse mai, ma siccome non posso fermarlo, mi devo sposare, al più presto!». «Mio sire, non conosco una maniera per oltrepassare il bosco inesplorato che circonda il nostro regno, ma so come non farla più invecchiare, faremo rapire il Tempo.» «Il tempo?» disse il re. «Sì, il Tempo!». «E come si può rapire il tempo?». «Vede, mio signore, il Tempo vive in una grotta, fra queste montagne, so di per certo dove si nasconde, è un uomo molto piccolo e indossa sempre un grande cappello rosso a punta, non si ciba di verdure e frutti, come noi umani, ma di ore e minuti e secondi che vengono prodotti dall'orologio gigante che continua a muovere con le sue mani, giorno e notte, senza mai dormire». «Dici davvero o mi prendi in giro?» chiese il re, preoccupato. «Non le mentirei mai, sire, anzi, aggiungo che quando è particolarmente affamato gira più velocemente il suo orologio gigante e quando è stanco se ne dimentica e si riposa». «Ecco perché a volte, quando sono solo, mi sembra che il tempo non passi mai! Invece quando ricevo visite gradite passa in un lampo!». «Avete ragione, sire!». «Bene, consigliere, i tuoi consigli sono in assoluto i migliori consigli che un consigliere possa consigliare! Guardie! Portatemi qui il Tempo!» ordinò il già felice re. Le guardie si mossero su indicazione del fidato consigliere e in una grotta trovarono il Tempo, intento a girare le grandi lancette del suo gigantesco orologio. Lo arrestarono e lo portarono nella torre vuota che ora, finalmente, veniva ripopolata. Il Tempo cercò di convincere le guardie di quanto potesse succedere senza lui alla guida dell'orologio, ma queste si limitarono a eseguire gli ordini del re. Allora fu costretto a rassegnarsi e si mise a osservare dall'alto il piccolo regno, tutto racchiuso in poche casette e qualche bottega. Non aveva mai avuto l'occasione di ammirare la bellezza di quel paesino, anche se sapeva bene quanto fosse importante il suo lavoro, non solo per il piccolo regno, ma per tutto il mondo. Il re fu avvisato della cattura del Tempo e sentendosi rincuorato, tornò dal barbiere e si fece spazzolare i capelli, notando con piacere che non gli era cresciuto nessun altro capello bianco. Si ispezionò per bene le rughe del volto e del collo, ma non ne erano spuntate di nuove. Era soddisfatto di poter per sempre rimanere in quello stato di bellezza e gioventù. Passarono dei giorni senza ore né minuti, tutto era rimasto come al momento della cattura del Tempo. I bambini non crescevano e il sole era fermo sempre nello stesso punto, la notte che era rimasta bloccata dall'altra parte del mondo; i raccolti non crescevano più e anzi, con tutto quel sole si erano rovinati; il tic-tac degli orologi si era bloccato, così anche le campane della chiesa non rintoccavano più. Il re era soddisfatto, ma la popolazione del piccolo regno non lo era di certo, così decisero di mandare il giovane più intelligente a chiedere la liberazione del Tempo al sovrano. Il giovane venne ricevuto durante una mattina o un pomeriggio o una notte in cui il regnante era seduto sul suo piccolo trono. Si inchinò al cospetto del re che gli diede il permesso di parlare, dopo le dovute reverenze e cordialità, il ragazzo disse: «Sire, vengo in nome della popolazione, abbiamo bisogno che liberi il Tempo, altrimenti i raccolti non cresceranno più e così i bambini, non sappiamo quando dormire e quando svegliarci, quando cenare e quando fare colazione!». «No, non libererò mai il Tempo! Altrimenti la mia bellezza verrà compromessa e non troverò una regina!» sentenziò il re. «Sua maestà, la principessa arriverà un giorno, ma noi ora abbiamo bisogno che il Tempo lavori sulle sue lancette giganti!». Il re si prese qualche minuto per pensare e disse:«Non ho intenzione di aspettare, se troverai un modo per collegare questo regno ad altri, allora libererò il Tempo!». Non fu molto difficile per il giovane creare un sentiero diretto al castello più vicino, bastò la sua buona volontà e l'aiuto di tutti gli abitanti. La fortuna volle che nel regno vicino una principessa non trovasse il re di cui essere la regina. Fu l'occasione per celebrare le nozze e liberare il Tempo che da allora non è più solo fra le sue lancette, ma per volere del sovrano viene aiutato a muoverle da delle guardie, ovviamente solo quando queste non devono vigilare sulle rughe del re. Sabina Bruzzone IL DONO DI LU In una città come tante, né troppo grande né troppo piccola, senza grattacieli ma senza fattorie; uno di quei posti dove le persone non si salutano perché troppo occupate a correre dietro a mete invisibili; c'era una volta una bambina che aveva tutto... o almeno così le dicevano la mamma, il papà, la nonna. La mamma, il papà e la nonna facevano lunghi discorsi su altri bambini, di altri posti meno fortunati che lei non conosceva. Certo aveva molti giochi e libri e una casa calda e accogliente, non le mancava il cibo né la voglia di fare capricci se qualcosa non le piaceva, aveva abiti e scarpe per tutte le stagioni,aveva tutto tranne qualcuno con cui condividere il tempo e i pensieri. Giulia, infatti, aveva una mamma e un papà proprio speciali che i suoi compagni di scuola le invidiavano: Eleonora, snella e sorridente era un chirurgo, Giovanni alto e brizzolato un vigile del fuoco. Insomma quasi due supereroi! I loro cellulari squillavano in continuazione e, spesso, nel bel mezzo del pranzo o della cena o nel cuore della notte uscivano per salvare qualcuno o spegnere un incendio. Così Giulia restava sospesa ad aspettare il loro rientro con la nonna che per consolarla preparava torte e biscotti che erano il loro piccolo segreto perché la mamma glieli aveva vietati! Nonna Lu aveva grandi occhi grigi e mani lunghe e ossute che trasformavano i semplici gesti del cucinare in una specie di danza che Giulia facendo capolino in cucina sbirciava come ipnotizzata. Gli anni passarono fra lezioni di piano e mille altre attività che Eleonora e Giovanni erano soliti definire costruttive, ma che in realtà occupavano le giornate di Giulia senza minimamente riuscire ad attenuare il senso di vuoto che albergava nel suo cuore come un ospite silenzioso e crudele. Un giorno di marzo nella cucina illuminata da pochi timidi raggi di sole improvvisamente calò un silenzio quasi surreale, Giulia che era nella stanza accanto, non sentendo più la nonna cantare, corse a vedere cosa fosse accaduto e la trovò accasciata a terra immobile davanti ai fornelli. Eleonora che aveva salvato con il suo bisturi migliaia di estranei uscì sconfitta dalla sala operatoria. Dopo la morte di Lu Giulia smise di mangiare come se l'unico vero cibo che potesse saziarla fosse svanito per sempre. Se solo la nonna le avesse insegnato le sue ricette! Un mese dopo rovistando nel comò di Lu trovò un piccolo porcospino di coccio che aveva visto tante volte e che credeva di aver rotto da bambina, aveva un muso buffo e l'attraeva in modo particolare perché la nonna non voleva che lo toccasse, come tutte le cose proibite era diventato un gioco bellissimo che prendeva di nascosto mentre Lu non guardava. Nella penombra della stanza il sorriso del riccetto sembrava vero, anzi era vero! Cominciò a parlarle e a raccontarle storie che aveva dimenticato, era diventato il custode dei suoi segreti. Quando Giulia conobbe Alessandro il piccolo riccio fu il primo a saperlo, faceva il pasticcere davanti alla scuola di Giulia e sembrò sin da subito determinato a renderla felice. Il ragazzo, per mostrarle il suo amore, decise di prepararle un dolce, avrebbe voluto che per lei fosse speciale, ma come? Nessuno conosceva le ricette della nonna, nessuno tranne il porcospino che comparve nella cucina di Alessandro e gli regalò passo passo le istruzioni per il dessert preferito di Giulia . Quando il giovane arrivò con il dolce Giulia mangiandolo pianse e ogni lacrima sembrò liberarla da un anello della catena che aveva legato la sua anima, la ragazza capì finalmente che poteva essere felice. Barbara Garassino L'ELEFANTE E LA FARFALLA C'era una volta in una verde radura alle spalle di un placido laghetto, un elefante di nome Duccio; Duccio era il primo ed unico figlio di due vecchi e saggi elefanti che, data la loro vita ricca di impegni ed una lunga serie di acciacchi, non trovavano molto tempo per giocare con lui. Così Duccio aveva imparato a divertirsi da solo, correndo sulla fresca erba della radura o sguazzando nell'azzurra acqua del limpido laghetto; aveva anche incominciato a capire che per un elefante non è tanto facile muoversi, considerate le notevoli dimensioni ed il peso tutt'altro che leggero. Un giorno, mentre sdraiato sul prato ancora inumidito dalla pioggia recente guardava le nuvole giocare col sole, Duccio vide una bellissima farfalla e ne rimase completamente affascinato: il piccolo insetto aveva sottili ali variopinte che parevano di seta e due lunghe mobili antenne luccicanti con le quali sembrava assaporare l'aria circostante. Il suo volare pieno di grazia da un fiore all'altro e il suo posarsi soave sulle fragili gocce di pioggia senza nemmeno scalfirle, stupì e commosse fino alle lacrime il piccolo elefante, in bisticcio continuo con il suo corpo goffo e la sua indomabile distrazione. Mai lui avrebbe avuto quella leggerezza, mai avrebbe potuto muoversi nel mondo con quella leggiadra armonia e soprattutto mai avrebbe potuto essere amico di quella splendida creatura; infatti qualsiasi suo gesto l'avrebbe spaventata e qualsiasi tentativo di contatto sarebbe stato impossibile, se non addirittura pericoloso per quella delicata vita così diversa dalla sua pesante esistenza. Questi erano i pensieri dell'infelice Duccio mentre guardava rapito quelle colorate membrane, che si aprivano e si chiudevano nel tepore del meriggio. Passarono giorni e trascorsero notti durante le quali il povero cucciolo si lambiccava la grossa testa grigia per trovare il modo di fermare anche soltanto per un attimo l'amata farfalla, mostrarle tutta la sua ammirazione e comunicarle lo struggente e ridicolo desiderio di essere come lei. Ma un pomeriggio di fine estate Duccio, mentre stava sonnecchiando sulla sponda del laghetto, fu sorpreso da un forte e spaventoso temporale; alzatosi di scatto ancora confuso da un sogno bruscamente interrotto, cominciò a correre con passi pesanti e distratti verso le grida della madre, che lo chiamava con preoccupati barriti. Nella furia dell'improvviso risveglio e nella paura dei lampi e dei tuoni, l'elefantino non si accorse della fragile farfalla che si era posata sotto la sua zampa, forse per trovare riparo dalla fitta pioggia o forse per lo spavento della tempesta in arrivo e, inavvertitamente, la calpestò. Soltanto il mattino dopo, quando il sole ridente era tornato a splendere nel cielo, Duccio si avvide della terribile disgrazia ed il suo dolore fu talmente grande e la sua disperazione talmente autentica che risvegliarono gli dei della foresta e le fate dei laghetti, i quali decisero di realizzare il più grande desiderio del piccolo elefante, quel desiderio ardente e sognante che gli aveva fatto trascorrere ore ed ore a guardare volteggiare nel cielo la sua amata farfalla. Così improvvisamente Duccio, ancora immerso nella sua cupa tristezza, si sentì sollevare: il suo pesante corpo perse consistenza, le sue grandi orecchie diventarono ali colorate e nei suoi occhi sparirono le lacrime per lasciare il posto alla meraviglia di decine di altre ali variopinte che, allegre e festanti, lo accompagnarono nel suo volo leggero. Illustrazione: Gianfranco Uber.. Sara Albarello GIOVANNINO E I NUMERI Vi ricordate il c'era una volta delle fiabe di Andersen? Cenerentola, Hansel e Gretel, Cappuccetto Rosso. Quelle che finiscono tutte con un vissero felici e contenti. Questa è la storia del c'è. Non del Che. Personaggio rivoluzionario che amava il prossimo e ha sovvertito il paese volendo cambiare il mondo. Questa è la storia, non una favola, non una fiaba, di Giovannino. Potreste anche voi incontrare Giovannino. Magari è il vostro vicino di banco. Se state un po' attenti. Piccolo, magrino con due grossi occhiali stravaganti sul naso. Naso. E che naso! Farebbe invidia al dottor Balanzone. Quello con un'enorme pancia e un cipollotto nel taschino. O magari il Cyrano di Francia ne vorrebbe uno come il suo. Giovannino era un ragazzino che andava a scuola controvoglia. La scuola non piace ai più piccini sopratutto se ti obbligano a startene incollato alla sedia tutto il tempo, senza mangiarti il tuo panino in santa pace. Finché un giorno scoprì la magia dei numeri. Enormi nebulose di coppiette o triplette di numeretti messi n fila quasi gli facessero un dribbling alla testa. Come potevano combinarsi insieme e dare come somma una nuova creaturina. Come la vita e il suo mistero. Moltiplicati erano tantissimi. Quasi da capogiro. Pensava anche lui che se avesse trovato una formula avrebbe potuto scoperchiare il mondo e rigirarlo come un calzino riportando l'ordine in quei paesi dove c'erano bambini poveri e la guerra e avrebbe riportato l'amore proprio come il Che di cui tanto gli parlava papà. Papà Saverio,agli occhi di Giovannino, era un mito. Come ogni padre, lavorava sodo, partiva da casa con la sua tuta da lavoro la mattina, un bacio a mamma se non era troppo di fretta e poi via! In fabbrica. La sera tornava sempre stanco ma non si lasciava mai scappare una parola con il suo figliolo. Sempre affascinato da questo magico mondo matematico e della noiosa maestra che non lo lasciava mai parlare. Il papà di Giovannino era anche sindacalista e si batteva per i suoi amici lavoratori cosicché pensò anche Giovannino di fare qualcosa. Si! Doveva fare qualcosa! Si mise tanto a studiare sui libri di storia e scoprì che Ernesto Che Guevara venne ucciso. Capì che bisognava andare fino in fondo in ciò cui si crede e non si lasciò abbattere. Un giorno, facendo ritorno da scuola, vide, in un negozio di libri, una chitarra. Pensò che con i soldi della paghetta, se li metteva un po' da parte, nel giro di un mese facendo un rapido calcolo avrebbe potuto comprarsela. E così fu. Scoprì che gli serviva per suonare tutta la sua conoscenza matematica: il tempo e le battute divise in frazioni, il ritmo è una danza matematica. "Perfetto" pensò. "Posso cambiare il mondo con la musica!" Si mise a studiare i più grandi chitarristi classici: Segovia, Tommy Emmanuel per citarne alcuni e nel giro di un anno seppe riconoscere i più grandi artisti e ad emularli fino ad arrivare a scrivere qualcosa per sé. L'avrebbe poi mandato ai politici pensando che la voce di un bambino sarebbe stata ascoltata. Cantava di latte per i più piccini, di una casa calda, di un papà con un lavoro come quello del suo e di tante scuole dove imparare a leggere e suonare. Mandò una lettera al Presidente della Repubblica che dopo un mesetto gli rispose. A Giovannino Coscienzioso, ho ascoltato le tue richieste. Sei un bambino molto arguto e coraggioso. Manderò una squadra di lavoratori per costruire in Africa e America Latina le più prestigiose scuole per i bambini della zona. Se volessi partire per l'estate con i genitori passa al Quirinale e troveremo accordi. Giovannino non stava più nella pelle. Giugno era alle porte e la partenza per Roma anche. Ora sapeva che poteva cambiare qualcosa. Forse una piccola goccia sommata a tante altre può creare un oceano. Luigi Siccardi ZAFFIRO C'era una volta, in una vecchia casa, una sedia a dondolo ricavata da un'antica quercia sulla quale non si sedeva mai nessuno. Eppure sembrava comoda, aveva un aspetto confortevole e rassicurante ed era ben collocata vicino ad una finestra dalla quale si poteva vedere un grande prato antistante ad un bosco. Il suo legno pregiato, intarsiato dallo scorrere naturale del tempo, mostrava fiero profonde venature dalle quali si riusciva quasi a scorgere l'odore muschiato del suo ambiente d'origine. Un dolce cigolio ne accompagnava il lento movimento dal ritmo fluido e regolare come il sussurrare del vento fra le foglie d'autunno. Apparentemente non veniva usata perché nessuno ne aveva il tempo o la voglia; in realtà non c'era anima viva che osasse occuparla poiché non appena la si avvicinava si poteva avvertire chiaramente la sensazione di disturbare qualcuno e un forte disagio. Così la sedia era passata di generazione in generazione, silenziosa, indisturbata da un proprietario all'altro che non si osava di venderla o spostarla, timoroso dell'antica leggenda che l'accompagnava. Si diceva, infatti, che sul dondolo fosse comodamente adagiato un cavaliere delle fate, anticamente alla corte del re Oberon, signore della Terra di Mezz'Estate. Costui era molto vecchio, la sua argentea armatura era ormai impolverata e la sua barba bianca era così lunga da ricoprirlo come un lenzuolo. Il suo vero nome era perduto, nemmeno lui lo ricordava, sapeva solo che, un tempo, veniva chiamato Zaffiro per il colore dei suoi occhi. Zaffiro era molto stanco, nessuno parlava più di lui e la sua energia andava spegnendosi. La magia era morta, nessuno credeva più nei sogni e come dargli torto? La realtà era dura e difficile, la guerra infuriava seminando atroci veleni che intossicavano gli animi, macchiando indelebilmente ogni forma di purezza. Eppure sarebbe bastato così poco per destare dalla sua lenta agonia il cavaliere. Sebbene non fosse del tutto cosciente, rimaneva in uno stato di quiescenza, che gli permetteva di percepire il mondo intorno a lui. Quando bussarono alla porta la signora Marta stava impastando il pane su una grande madia di legno, con quel poco di farina che conservava con parsimonia. Coprì con cura la piccola pagnotta scura con un canovaccio pulito e con le mani ancora sporche di farina si diresse verso il portoncino. Abbozzò un sorriso nel vedere sull'uscio sua sorella Gemma accompagnata dalle due figlie: Michela, la più grande, doveva avere all'incirca tredici anni, Lisa, la piccolina, si teneva nascosta dietro la gonna della madre. Superando l'imbarazzo di chi non si vede da molto tempo e ha paura di sbagliare le parole, Marta abbracciò la sorella. –Ben arrivate!– disse invitandole ad entrare. Gemma accolse l'invito. Lisa strabuzzò gli enormi occhi nocciola quando vide un grande atrio davanti a sé, dominato da una maestosa scala che portava al piano superiore; eleganti tappeti ornavano i pavimenti lucidissimi, sulle pareti spiccavano i vuoti lasciati dai quadri che un tempo dovevano impreziosirne l'aspetto. Dalla cristalliera mancavano numerosi oggetti d'argento ma, a lei, sembrò comunque di essere entrata in una reggia fantastica; la curiosità prese il sopravvento e pian, piano lasciò la gonna della mamma e sgattaiolò su per le scale. –Devi scusarla,– disse Gemma a Marta passandosi un fazzoletto sugli occhi –da quando c'è stata la disgrazia non parla più, non si riesce a farla ridere o piangere. –Lascia che si ambienti e vieni a prendere una tazza di caffè, non è dei migliori, purtroppo le provviste stanno terminando, ma l'ho tenuto da parte quando ho saputo che saresti arrivata. Le due donne e la giovane Michela entrarono in cucina dove la caffettiera era già sulla stufa in attesa del loro arrivo. Lisa percorse il corridoio che odorava di mobili vecchi guardandosi intorno, quando uno scricchiolio leggero in una stanza attirò la sua attenzione: in fondo a un vecchio salottino, vicino ad una finestra senza tende, l'unica nella casa, c'era un bellissimo dondolo. La bimba varcò la porta aperta, nella stanza aleggiava una lieve fragranza d'erba , la sedia ondeggiava leggermente, come se qualcuno si stesse cullando. Lisa si avvicinò cautamente, il sole di mezzogiorno entrava dalla finestra illuminando le assi della vecchia sedia. A Lisa parve di scorgere, come attraverso strati di organza, una figura adagiata sul quel dondolo. La bimba fece un passo indietro impaurita, ora che teneva fisso lo sguardo su quel prezioso oggetto la figura aveva preso consistenza: era un vecchino rattrappito, con una barba lunga e candida che lo copriva come un lenzuolo. Qua e là, tra i ciuffi di peli, si intravedeva del metallo, la bimba, dapprima, pensò che fosse morto, ma poi, si accorse che le narici del vecchio fremevano leggermente del regolare respiro del sonno. Aveva un'espressione così dolce sul viso che le strappò un sorriso, seppure imbevuto di tristezza. Quel piccolo scintillio vivificò Zaffiro che riuscì a scuotersi dal sonno abbastanza da cominciare a mormorare alla bambina e siccome questa non gli rispondeva iniziò a raccontarle le sue avventure: –C'era una volta un cavaliere, vecchio e stanco, ma non era sempre stato così! Da giovane, sir Zaffiro in groppa al suo destriero fatato, cavalcava tra le stelle, per gioco caricava le maree, e quando il suo signore non lo mandava a caccia di draghi malvagi o pericolose manticore, attraversando il Portale del Sonno entrava nei sogni dei bambini per combattere gli incubi più spaventosi. Lisa rapita ascoltava in silenzio, il cavaliere aveva letto nella sua tristezza e visto chiaramente l'ombra che l'affliggeva. Una figura maschile ossessionava la mente della piccola, ora sorridente, ora cadaverica con il sangue fresco che le colava dalle labbra livide. Era il ricordo di suo padre morto nella guerra nella quale anche i bambini diventavano cenere. La piccola prese a frequentare il vecchietto tutti i giorni e i lori incontri erano benefici per entrambi. –Erano trascorse, cinquanta primavere da quando la sedia di sir Zaffiro era stata portata nella casa vicino al bosco e lui ne era contento perché almeno sarebbe morto in un luogo dal quale poteva sentire parlare gli alberi. Si sarebbe disciolto in frammenti di sogno come accade a chi è costretto a lasciare questo mondo mia dolce principessa, ma chi se ne va rimane nei ricordi, l'amore è la più grande delle magie. A queste parole gli occhi della piccola si riempirono di lacrime, le sue manine cercarono le grandi mani ossute del cavaliere e le strinsero forte. Un brutto giorno quattro soldati senza insegne e senza patria entrarono con la forza nella grande casa di zia Marta. Distrussero e derubarono. Quando videro che la casa era abitata da due donne sole e due bimbe divennero crudeli e spietati. Lisa al solo vederli cominciò ad urlare, la paura le gelava il sangue, non c'era più nessun luogo sicuro, tutto era avvolto dall'orrore del caos e nessuno poteva farci niente. A nulla valsero le preghiere delle due donne che umiliate in terra fra i singhiozzi invocavano pietà. –Fatemi il favore, tagliate la gola alla marmocchia– ringhiò il più grosso dei quattro. –Certo capo– rispose il più brutto, inseguendo la bimba che si era gettata a capofitto su per le scale rifugiandosi nella stanza di Zaffiro. –Aiuto, signore, gli uomini cattivi mi vogliono fare male!– singhiozzò Lisa gettandosi ai suoi piedi. Il soldato era già entrato nella stanza, aveva preso la bambina per i capelli ed estratta la baionetta si preparava a farla tacere per sempre. –Ti prego Oberon, mio signore, aiutami a fare ciò che è giusto, concedimi la forza!– supplicò il cavaliere disperato. Era tutto inutile, Oberon non esisteva più, ma Zaffiro non poteva arrendersi, guardò dentro di sé e vide il dolce sorriso di Lisa sfavillare come un fuoco. Allora sentì una nuova energia scorrergli le vene, tutto avvenne in un attimo: il suo corpo vecchio e avvizzito tornò a riempire l'armatura, giovane e forte, la barba cadde a terra come un sudario inutile e i capelli grigi tornarono biondi e sfavillanti. La magia lo riempì tutto e quando riaprì gli occhi nel destro scintillava la costellazione di Orione, suo mentore, e nel sinistro quella del Sagittario, il suo segno. Nonostante la furia che lo pervadeva non poté fare a meno di sorridere a Lisa, quindi, divenuto visibile, si voltò verso il soldato che terrorizzato non riuscì nemmeno ad implorare, in un'istante al suo posto non c'era che un mucchietto di ossa consumate dal tempo. Il suo sguardo si addolcì nuovamente carezzando la paura di Lisa che flebilmente sussurrava: –Pietà.– Allora il cavaliere fissò lo sguardo sul pavimento e nel vedere ciò che stava accadendo al piano di sotto lo attraversò come un bastone che entra nell'acqua. I manigoldi nel vederlo rimpicciolirono fino a diventare tre piccoli scarafaggi e fuggirono via. La magia era finita, il cavaliere iniziò a svanire, fino a rimanere un'armatura vuota che collassò a terra. Tra i resti si udì un vagito, nel pettorale della corazza giaceva un infante biondo. Nel suo occhio destro scintillava la costellazione di Orione, nel sinistro quella del Sagittario. Annamaria Altomare DI QUA Tutto sarebbe parso strano agli occhi di un adulto ma non a quelli di un bambino: quella spessa nebbiolina che oscurava la visuale e il gracidare delle rane che, comodamente a pancia all'aria, chiacchieravano con un grillo in frac. Tutto presagiva l'inizio di un'avventura. Il sentiero di pietre si insinuava tra gli alberi che, all'arrivo dell'omuncolo dai folti e scompigliati capelli grigi, si scostavano. Ad ogni passo l'aria era meno densa e il profumo di mille fiori gli solleticava il nasone –Bentornata Primavera!– soleva dire ad ogni starnuto. Gli uccelli si fermarono per osservare l'allegro incedere dell'omuncolo dai grandi piedi e gli alberi si allargarono ancora di più mostrando allo straniero un paesaggio mozzafiato. Il forestiero si fermò incantato dai colori che lo circondavano: l'azzurro limpidissimo del cielo, il verde brillante della campagna, il marrone caldo della terra. Per vedere meglio unì le mani a formare un piccolo cannocchiale. Guardò. Tolse gli occhialini rotondi, li pulì e tornò a guardare. Pareva cercasse qualcosa o qualcuno. Laggiù, proprio sotto la montagna c'era un villaggio di piccole case dal tetto aguzzo, tutte graziosamente curate, contornate da un piccolo giardino di erba verdissima. L'aria era calda, come una giornata che preannuncia l'arrivo dell'estate, e si sbottonò il lungo cappotto nero. –Ben tornata Primavera!– ripeté dopo l'ennesimo starnuto. Il sole stava già salendo a mezzogiorno –Strano, molto strano– borbottò tirando fuori dal taschino del panciotto un orologio a forma di cipolla. Si guardò intorno e ritornò a controllare l'orologio. Il villaggio pareva addormentato, le finestrelle erano tutte chiuse. Lo straniero si sedette su un grosso masso grigio macchiato di muschio soffice. Forse, stava aspettando qualcuno o qualcosa? Mah, non lo so! Come dicevo, si sedette sul grande masso e sospirando si guardava attorno. Un sospiro, uno sguardo all'orologio, uno alle casette, un sospiro, uno sguardo all'orologio e uno alle casette, un sospiro... Il sole adesso era alto nel cielo e l'omuncolo cominciava a sudare sotto il suo pesante pastrano nero che attirava i caldi raggi. –Dovrò andare da solo– si disse a malincuore. Si alzò, prese un lungo ramo nodoso da usare come bastone, e riprese il cammino. La strada si snodava in mezzo a lussureggianti campi e i fiori sul ciglio della strada si inchinavano al suo passaggio come a rendergli omaggio. La strada era lunga e silenziosa, stranamente silenziosa. Nessun rumore, nessun latrato di cane o muggito e ancora, nessuna parola di uomo. Avvertiva un'aria strana che lo invadeva e lo rendeva nervoso. Sembrava quasi che il villaggio fosse abbandonato. Ma come poteva essere? Tutto era perfettamente in ordine. Tutto era al posto giusto! Una leggera brezza, adesso, lo accompagnava nel suo cammino. La brezza si trasformò in un allegro venticello, che a sua volta si trasformò in un freddo vento. Lo straniero chiuse il bavero e si strinse nel suo pastrano. Sentiva il vento freddo pungergli le mani e gli occhi cominciarono a lacrimare. SBAM! Una finestra sbatteva. Si fermò attento. Silenzio, adesso non si sentiva più nulla. Il villaggio era a pochi metri. Le case dipinte di bianco parevano finte, sembravano un bel quadro appeso alla parete della montagna. Tutto era fermo e immobile. Ma cosa stava succedendo? Adesso era pervaso da mille domande e i pensieri vorticavano nella sua testa. –Eppure era oggi, ne sono sicuro– si disse dubbioso –Il nostro incontro era in questo villaggio alle quattro precise. Sono in anticipo! Le case erano disposte a raggiera intorno a un grande pozzo dal quale penzolava un secchio. Bevve un po' di acqua e si rimise in attesa. Il campanile troneggiava con il suo grande orologio. –È esatto.– Disse rimettendo il suo orologio nel taschino. Stare in mezzo alla piazza da solo lo metteva a disagio e si addentrò tra le case che rivelarono strette viuzze che si perdevano nella montagna. Magicamente, qualcosa di luccicante attirò il suo sguardo, era una freccia che indicava: DI QUA. La viuzza si infilava risoluta dentro la pancia della montagna e lui si fermò indeciso sul da farsi. Poi, incuriosito si avvicinò all'antro della montagna. Un'altra freccia “PROSEGUI FINO IN FONDO”. –Strano modo di dare le indicazioni– pensò. Il sole filtrava illuminando il grande antro, il sole lasciò il posto a delle fiaccole collocate sulla parete di roccia della fredda caverna. Si addentrò sempre più incuriosito. La terra era umida sotto i suoi piedi e il percorso accidentato. All'improvviso si trovò nel buio più buio. –Torno indietro– pensò spaventato. Ma dal nero più nero vide avvicinarsi una luce tremula. –Ma cosa stava succedendo? –SORPRESA!– Urlarono mille voci –TANTI AUGURI!– Sentiva il battito del suo cuore nella testa. –BUON COMPLEANNO! La caverna, si illuminò mostrando una grande sala imbandita a festa. Tra la folla che lo contornava, riconobbe il volto dei suoi amici: –Tanti auguri Jack! –Questa sì che è una grande sorpresa!– esclamò colmo di emozione. Gisella Germano BOLLICINA È autunno e sulle colline, tinte delle più belle sfumature, gli alberi iniziano a spogliarsi della loro veste arlecchina. È il primo freddo, ma le foglie ammucchiate nascondono il manto erboso ancora verde acceso. Sul terrazzo di casa, una frizzante brezza arrossa le gote paffute di Carlotta, mentre i boccoli scuri, che le scendono fin sulle spalle, si scompigliano. La mamma la osserva silenziosa, dalla poltrona del suo angolo da cucito, sta preparando alla sua piccina una bella sciarpa colorata, Micio gioca con gomitoli e rocchetti. A Carlotta piace stare sul terrazzino, seduta in terra, col naso all'insù e soffiare bolle di sapone per guardarle volare. Vorrebbe farsi piccola piccola ed infilarsi dentro ad una di quelle! Il tepore del sole la rilassa, socchiude gli occhi e tutto si colora, si deforma: “ma cosa... dove sono? Nella bolla? Come ho fatto? È una magia!” pensa e, all'improvviso, sente una vocina flebile che dolcemente le sussurra: “Carlotta? Sono io, la bolla dei tuoi sogni! Ti ho fatto un incantesimo e ti ho accolta nella mia trasparenza colorata. Posso portarti dove vuoi. Andiamo?” La bambina, non credendo alle proprie orecchie, cerca di sturarsele col ditino, e dopo un primo attimo di sbalordimento, risponde: “mi piacerebbe tantissimo visitare un posto che mi ricordi i suoni del mio paese, ma che allo stesso tempo sia... diverso, come ehm....”. Si fa silenziosa per ascoltare, ed ecco, che in quell'istante, Luciana alza la saracinesca della botteguccia di frutta e verdura proprio sotto la sua portafinestra, mentre le loquaci paesane, pronte a riempire le borse della spesa, chiacchierano per ingannare l'attesa. “Illustrazione: Gisella Germano Bolla vibra, in sintonia con i pensieri e i desideri di Carlotta, pian piano inizia a sollevarla. Scorrono immagini di davanzali, ante di persiane, finestre con gerani, tendine bianche al macramè ai vetri e corde da stendere; scorrono cornicioni, gronde, tegole, comignoli; si fanno sempre più piccoli i tetti, le vie, le piazze, i campi arati; dall'alto campeggiano i boschi, i versanti, i fiumi, i colli. Calotta vede il paese rimpicciolirsi: “sembra tutto così lontano!” E, lassù, Bolla inizia ad ondeggiare in direzione del Bosforo, attraversando mari e monti, arrivando al Kapaliçarşi, il Gran Bazar di Istanbul, uno dei mercati coperti più grandi e antichi al mondo, tanto che per immaginarselo bisognerebbe pensare ai campi di fronte a casa di Carlotta, oltre il fiume, quelli che vengono tagliati in estate, imballati e raccolti per il fieno dell'inverno. Carlotta, che si era assopita durante il viaggio cullata dallo sferico dondolio, si risveglia sopra ad una distesa di piccoli cupolotti bianchi, disposti tutti in righe e colonne: “Che ordine! Che precisione!” pensa e vede tutt'intorno delle strane file di lunghissimi tetti rosso-mattone, fuori dai quali impera il caos urbano della città. È così che il mercato appare dall'alto. Un mulinello d'aria risucchia Bolla e Carlotta attraverso lo spiraglio di una delle finestre di questa grandiosa costruzione. Entrano e discendono dolcemente sopra una bancarella di tessuti fermandosi in un angolo riparato. “Adesso io devo scoppiare” afferma Bolla sospirando, poi con con tono calmo e pacato aggiunge: “tu tornerai alle tue dimensioni reali, ma continuerai a restare sotto il mio incantesimo, grazie ad esso riuscirai a comunicare con le persone, perché loro ti ascolteranno come se tu parlassi la loro lingua e a te sembrerà che loro parlino la tua. Mi raccomando non perdere il tuo barattolino di acqua e sapone, perché sono il biglietto di ritorno per casa: quando vorrai concludere la visita ad Istanbul, soffia nella bacchetta ed io arriverò.” La bambina, ancora leggermente frastornata per il lungo viaggio e per il pisolino, si ritrova sola in una lunga via di colonne e pilastri, coperta da soffitti voltati e affrescati di un giallo carico, decorati d'arabeschi, come le navate di una moschea. Non c'è sole, ma un intenso sberluccichio. Dalle finestre delle unghie del soffitto, scende poca luce, che però si riflette sui drappi colorati appesi, sulle dinanderies d'ottone esposte nei banchetti, sugli ori delle vetrine e sui lastroni chiari di pietra liscia della pavimentazione. Qui si vende ogni genere di spezie, tessuti e dolci, e si possono anche trovare botteghe di artigiani come calzolai o fabbri. Quasi risucchiata da questo vortice di colori, Carlotta si guarda la scarpe distinguendole appena. Si sente tirare per una manica, perde l'equilibrio e scivola tra montagne di tappeti, foulard, sciarpe, pashmine e cuscini. “Appena salva! La folla ti avrebbe travolta e portata via!” Tufan la guarda e sorride: “Qui puoi stare tranquilla. Sembri stanca... hai sonno? Vuoi riposarti un po'?” Carlotta prontamente lo ringrazia: “...ehm... sto bene, grazie. Chi sei?”. Intanto la vista si fa sempre più nitida, lo osserva: è un bambino come lei di circa sette anni, ha la pelle ambrata, i sopraccigli scuri e folti, indossa una semplice maglietta turchese, in testa porta uno di quei particolari berretti infeltriti color nocciola, di lana grezza, da ripiegare sotto al braccio quando non lo si indossa, il kalpak. “Se non ti avessi acchiappata saresti caduta! Come ti chiami?” Illustrazione: Gisella Germano “Carlotta. Sono venuta a visitare il tuo paese, ricco di suoni, colori e profumi! Nonno mi racconta sempre delle sue avventure per mare e degli sbarchi nei porti di tutto il mondo! Tu... come ti chiami?” “Sono Tufan, figlio di Adil. Aiuto papà a fare ordine in negozio, e intanto gioco a biglie. Ti va di giocare con me?” “Non so come si fa? Me lo spieghi?” “Vedi nel negozio qui di fronte quello scatolone con sopra la pila di magliette? Sotto c'è un piccolo buco: se riesco a far entrare la biglia là dentro, vinco! È da un po' che ci provo e non ci sono ancora riuscito. Stavo per fare un lancio, quando tu sei cascata proprio lì in mezzo. Ma da dove arrivi?” “Dall'Italia. Vivo in un paese di campagna, nell'entroterra ligure. Mia mamma dice sempre che è un paese di quattro gatti. Ma penso che si sbagli, perché con Micio, Righette, Puntini, Miao Miao e Tigre, io, mio fratello, mamma, papà e tutti i bambini che vanno a scuola... siamo già più di quattro!” Carlotta si rende improvvisamente conto di quanto sia diverso il mondo del bazar da quello di casa sua, e le piace! Appena tornerà a casa chiederà a papà di colorare di giallo il soffitto della sua cameretta! E alla mamma di appendere delle belle tendine colorate di rosso e rosa alle finestre! Intanto il via vai della folla di turisti e Tufan la scrollano: “Se riesci a fare centro, poi da là devi tirare verso le ceramiche di Aslan e colpire la ciotola di ceramica blu e gialla. Basta toccarla per vincere. Il bersaglio successivo sarà la cassetta di plastica rossa che Akay usa come sgabello per far mangiare i suoi clienti. Conosco tutti qui, io!” Carlotta inizia a giocare e dopo il primo lancio andato storto sbotta: “Che strano nome che hai! Non avevo mai sentito un nome così prima d'ora!” “È un nome turco e significa Tifone. I miei genitori me l'hanno dato perché il giorno che sono nato c'era stato un brutto temporale.” Curiosa allunga il collo per vedere meglio dove si trova, come una tartaruga cerca di brucare il dente di cane troppo alto “Attenta a dove vai, potresti perderti! Questo mercato è enorme e pieno di gente!” Solo allora si accorge del pericolo: che folla immensa! Come alle feste patronali di San Marco e Santa Margherita, quando si riversa una tale quantità di persone tra le viuzze ed i campi. “Centro!” urla Tufan, esultando, “il prossimo bersaglio sarà... la ciotola giallo-azzurra! Adesso devo colpire quella per andare avanti. Ma... preferisco aspettarti. Dai! Tocca a te! ...ma dove sei con la testa?” Carlotta fatica a lasciare i suoi pensieri e il suo amico capisce che non si è ancora ripresa dal lungo viaggio e dalla confusione del mercato, così la porta a Zincirli han, un tranquillo e verde cortile sempre dentro al Gran Bazar. Qui una fontanella, costruita per abbeverare le bestie trainanti i carri che rifornivano un tempo il grande magazzino del caravanserraglio, rinfresca la fronte a Carlotta, che alzando lo sguardo vede un grande ippocastano fare ombra su di lei. Tufan le chiede di raccontargli qualcosa del suo paese e di dirle se anche lì ci sono grandi mercati come il suo. “Di così grandi no, ma una volta alla settimana i vari paesi, a turno, ne fanno uno, ma all'aperto e per poche ore. I venditori arrivano su furgoncini super-accessoriati in piazza, spalancano le porte e velocemente montano tenda e banchetto con tutto sopra esposto.” Racconta anche al suo amichetto di come sia arrivata fin da lui, di Bolla e dell'incantesimo. “Vorrei tanto conoscere meglio la tua città, che è molto bella, ma sono stanca e ho un po' nostalgia di casa. Che ne dici se torno un'altra volta?” “Si, vorrei portarti anche a vedere le piantagioni di bachi da seta fuori città. Ne hai mai visti?” “No... e... si mi piacerebbe davvero tanto!” Così Carlotta con il cuore colmo di entusiasmo nel sapere che Tufan l'aspetterà per svelarle tutte le altre meraviglie della sua terra, soffia nella bacchetta per far ritorno dalla sua mammina. Bolla arriva, la raccoglie e la riporta attraverso il Bosforo, lo stretto dei Dardanelli, il canale d'Otranto, sormontando Appennini e prealpi Liguri, a casa. Si ritrova così sul suo amato terrazzino, è ora di cena. Mamma come sempre si è superata preparando quel delizioso pollo al curry che le piace tanto. Illustrazione: Gisella Germano Miriam Coccari IL RE SERPENTE Nella piccola e modesta abitazione di comare Annina, la debole fiammella che ardeva nel camino non era sufficiente a riscaldare le stanche ossa dell'anziana donna. La cena era stata raccattata con gli avanzi del pranzo, il brontolio dello stomaco era stato messo a tacere, ma i brividi di freddo non le davano tregua. Fu così che comare Annina decise di uscire fuori per andare in cerca di qualche passuillu in grado di alimentare il fuocherello di casa. Indossò il logoro cappotto di lana nera, afferrò un paio di sacchi di iuta, con la speranza di riempirli entrambi, si chiuse la porta alle spalle e si avviò per il sentiero che conduceva nella campagna appena fuori paese. Il vento di marzo soffiava forte e rumoroso, i piccoli vortici di aria le smuovevano il cappotto da ogni lato, lasciando penetrare nelle calze consumate il freddo di un inverno che stentava a terminare. Giunta sotto l'arco, in cima alla lunga scalinata che dava immediatamente accesso agli orti, comare Annina fu colpita di vedere un giovane dall'aspetto distinto che le veniva incontro con passo pacato ma deciso. L'anziana donna non poteva nascondere il timore che questa grossa e alta figura maschile le suscitava, ma non indietreggiò di un passo. Era immobilizzata, il suo sguardo era impietrito, il respiro si era fatto fievole e la sua figura sembrava quasi rimpicciolirsi man mano che l'uomo si avvicinava al suo cospetto. Fu allora, proprio nel momento in cui la povera comare Annina credeva che il suo cuore si sarebbe fermato, che il giovane accennò un timido sorriso, tanto bastò a placare un poco la tremenda sensazione di terrore che aveva invaso la donna. “Dove vi recate, gentile signora?” chiese l'uomo con tono tranquillo. “Ho bisogno di qualche legnetto per alimentare il mio fuoco” rispose lei con aria dimessa, e animo rasserenato. “Ma non è prudente che un'anziana signora vada in giro da sola a quest'ora della sera e poi con questo freddo...” riprese lui, e continuò “a breve sarà buio pesto, fareste meglio a tornarvene a casa.” “Oh gentile giovane, me ne sarei stata volentieri a casa, ma se non trovo qualche pezzetto di legno, stanotte morirò di freddo.” Dovette confessare la donna. Il giovane, a quelle parole, si impietosì e parve deciso a offrirle il suo aiuto. “Gentile signora, mi è concesso conosce il vostro nome?” chiese. “Il mio nome è Anna, ma per tutti sono comare Annina.” Rispose la donna un po' imbarazzata per il fatto che qualcuno si interessasse a lei. “Mi piacerebbe sapere, gentile comare Annina, cosa ne pensate di Marzo?” continuò a interrogare il giovane. “Beh, marzo è un mese che tutti chiamano pazzo, ma io lo immagino con l'aspetto di un bel giovane, robusto, alto e gentile, proprio come siete voi...” Rispose lei senza esitazione. Il giovane, compiaciuto, voltò le spalle alla donna e andò a sedersi sul gradino alto di una casa, che a giudicare dalle erbacce che la circondavano doveva essere disabitata da molto tempo. A quel punto comparvero, come dal nulla, altri giovani, saranno stati undici in tutto, tanto che in pochissimo tempo, comare Annina si trovò attorniata, ma non ebbe paura questa volta, sentiva in cuor suo che nulla di brutto le sarebbe accaduto. I giovani presero a interrogarla a turno, e ciascuno di loro voleva conoscere il giudizio della donna circa un mese dell'anno in particolare, così furono passati in rassegna tutti e per ognuno comare Annina ebbe parole buone e dolci, come era la sua indole. Il giovane che era rimasto, fino a quel momento, seduto sul gradino della casa abbandonata, si alzo, si avvicinò alla donna e afferrò i sacchi che questa aveva tenuto stretti tra le mani per tutto il tempo, poi esclamo: “Gentile comare, se non vi dispiace, andremo noi a riempire i vostri sacchi.” Tutta imbarazzata, comare Annina tirò a sé i sacchi e disse: “Non potrei mai pretendere tanto...” E il giovane riprese: “Mi vedo costretto a insistere, non posso permettere che una signora se ne vada da sola a quest'ora e con questo freddo, noi siamo in tanti, giovani e forti, saremo di ritorno in men che non si dica.” La donna dovette accettare, cedette i sacchi al giovane che li afferrò e scomparve insieme con tutti gli altri. Non ebbe il tempo di riflettere su quanto le era accaduto che il gruppo fu di ritorno con i sacchi che sembravano davvero colmi, chiusi con una cordicella che rendeva impossibile valutarne il contenuto. Il giovane si offrì di accompagnare la donna fin davanti l'uscio della porta di casa. Così Annina fu scortata da una galante brigata di affascinanti giovanotti, che scomparve nel nulla come dal nulla era comparsa. Dalla finestra della cucina che dava nella ruga in cui si trovava l'ingresso dell'abitazione di comare Annina, comare Giduzza, che era solita spiare ogni minimo spostamento della sua vicina di casa, aveva osservato l'accaduto, che aveva destato in lei una tale curiosità da renderla ancora più inquieta del solito. Intanto comare Annina, ancora incredula e alquanto confusa, era indaffarata a spostare i sacchi pieni di legna da ardere nel piccolo ripostiglio attiguo al cucinotto. Pensò di essere diventata veramente vecchia, le forze la stavano abbandonando, quei sacchi le sembravano incredibilmente pesanti, impiegò un tempo che le parve lunghissimo a trascinarli nel posto a loro destinato, ma finalmente ci riuscì. Afferrò le forbici per tagliare la cordicella con cui erano stati legati e... proprio in quel momento si dischiuse davanti ai suoi occhi un'incredibile sorpresa. Non riusciva a credere allo straordinario spettacolo che si trovava davanti. Doveva trattarsi di un miracolo. Di legna da ardere non ce ne era neanche l'ombra, i sacchi erano pieni sì, ma di oro in tutte le fattezze: lingotti, anelli, collane, bracciali, pendenti, tutto oro puro e brillantissimo. In quel momento comare Annina realizzò che era stata la protagonista di uno straordinario prodigio, non sapeva chi era l'artefice di quel dono: forse un angelo del Paradiso che si era impietosito di lei o più semplicemente un benefattore segreto, di una cosa era certa, il tempo delle ristrettezze era terminato, avrebbe potuto permettersi tutta la legna che le sarebbe occorsa fino alla fine dei suoi giorni, pasti abbondanti a pranzo e cena, avrebbe finalmente potuto aiutare i sui figli e le loro famiglie. Questo pensiero la spinse a voler quantificare l'inaspettata ricchezza. Decise, allora, di andare a chiedere in prestito il mezzo tomolo alla sua dirimpettaia. Comare Giduzza era una donna avanti negli anni, ma non ancora vecchia. Anche lei abitava da sola, nella casa che era stata dei sui genitori, non aveva mai avuto buone occasioni di matrimonio, a sua detta, i due fratelli maggiori erano partiti per l'America da ragazzi e non erano mai più tornati, dunque, viveva in totale solitudine, da quando anche la madre era morta, qualche anno prima quasi novantenne. Appena comare Annina bussò alla porta, comare Giduzza fu pronta ad aprirla. “Gidu' ti sono venuta a chiedere una gentilezza...” “Che cosa ti occorre?” rispose Giduzza sfoderando il suo solito atteggiamento indagatorio. “Mi servirebbe il mezzo tomulo. Dovrei pesare della cenere che donna Assunta mi ha richiesto per la lissia” Rispose comare Annina arrossendo per la bugia appena detta, cosa a cui non era affatto avvezza. Comare Giduzza, più maliziosa dell'anziana comare, rammentando la scena a cui aveva assistito poco prima dalla finestra di casa sua, non credette nemmeno per un attimo alla versione della donna, ma decise di sfruttare l'occasione per riuscire a scoprire cosa bolliva in pentola. “Se è così te lo vado a prendere subito” rispose la donna con tono alquanto arcigno. Ciò detto, si precipitò nel ripostiglio, prese il mezzo tomulo conservato sopra una mensola e cosparse un angolo del fondo di pece, così che questa avrebbe potuto rivelarle il misterioso materiale di cui comare Annina intendeva conoscere il peso. Lo stratagemma si rivelò azzeccato, perché appena l'anziana signora ritornò a consegnare il prestito concesso, comare Giduzza poté, finalmente, soddisfare la sua irrefrenabile curiosità. In fondo al mezzo tomulo, appiccicato alla pece, spalmata ad arte, era rimasta una monetina d'oro, e di cenere neanche un granello. In preda all'ira più nera, Giduzza uscì di casa come una furia, sbattendosi la porta alle spalle, trattenendo a stento le urla che le sgorgavano dalle viscere, un po' per la menzogna che le era stata raccontata, un po' per l'invidia nascente nei confronti della sua vicina di casa, si diresse decisa alla porta di comare Annina e bussò con forza, pronta a chiedere conto di quello che lei considerava un grave torto. A nulla valsero le motivazioni addotte, le scuse, le lacrime dell'anziana signora, terrorizzata dalla collera della sua vicina di casa. C'era solo un modo, concluse comare Giduzza a termine della sua infinita sfuriata, per placare le acque: avrebbe dovuto rivelarle come era riuscita a procurarsi tutto quell'oro. Senza pensarci due volte comare Annina le raccontò tutto per filo e per segno, desiderosa di far cessare quella incredibile piazzata che era sopraggiunta a rovinarle la bella sorpresa ricevuta poco prima. A parer suo, si trattava senz'altro di una punizione divina per quella fiammella d'avidità che l'aveva spinta a mentire. Ascoltato lo straordinario racconto di comare Annina, comare Giduzza si precipitò a casa sua, per fare scorta di tutti i recipienti che fosse riuscita a reperire e correre verso il luogo indicato dalla vicina di casa come il posto del propizio incontro. La schiera dei dodici giovani l'attendeva come se si fossero dati appuntamento. Giduzza li scorse da lontano e, senza esitazione alcuna, continuò a procedere con fierezza, certa dell'imminente fortuna che l'avrebbe baciata. “Dove vi recate, gentile signora?” chiese lo stesso uomo che per primo aveva accolto comare Annina. “È inutile che vi risponda, sapete bene dove mi reco” ribatté lapidaria. “Non è prudente che una signora se ne vada a quest'ora della notte in giro da sola...” continuò il giovane, cercando di non badare allo sgarbo appena ricevuto dalla donna. “Tu sai cosa voglio, dammelo e me ne andrò subito” incalzò, sempre più decisa Giduzza. “Potrei conoscere il vostro nome, signora?” interrogò il giovane, ignorando l'atteggiamento pretenzioso della sua interlocutrice. “Mi chiamo Giduzza.” “Mi piacerebbe sapere, Giduzza, cosa pensate di Marzo.” “Cosa dovrei pensare, tutto il male del mondo, è un pazzo, con quel vento che ci scompiglia e quella pioggia che ci inzuppa... Non vedo l'ora che se ne vada” rispose la donna con un tale sdegno da azzittire definitivamente il giovane che per primo aveva parlato con lei. Dopo di lui, presero la parola a turno tutti gli altri e vollero sapere il giudizio della donna sui restanti mesi dell'anno. Per ognuno Giduzza aveva solo brutti pensieri e parole villane. Sconsolati e afflitti, i dodici giovani, si decisero, infine, a raccogliere i numerosi recipienti che la donna aveva portato con sé e riconsegnarglieli pieni zeppi, come avevano fatto con comare Annina. Giunta alla soglia dell'abitazione, punto fino al quale era stata scortata, così come era accaduto alla sua vicina di casa, Giduzza ricevette una ferma raccomandazione: appena dentro, ancor prima di aprire i contenitori, avrebbe dovuto chiudere porte e finestre e otturare accuratamente ogni singola crepa e anche la più piccola fessura della casa, buco della serratura compreso, insomma tutto quanto avrebbe potuto rappresentare un punto di contatto, seppur minimo, con il mondo esterno. Detto fatto. Giduzza entrò in casa e si affaccendò per seguire i consigli ricevuti. Appena ebbe terminato, soddisfatta e trepidante, si accinse ad aprire il primo sacco. Afferrò quello più grosso e lo posizionò proprio al centro della stanza, pronta a degustare il momento in cui sarebbe diventata una donna ricca. Ma appena tagliato il laccio che teneva chiuso il sacco, uno spettacolo spaventoso le si presentò davanti agli occhi: mille e mille serpenti di tutte le dimensioni esplosero dal contenitore che li aveva tenuti costretti. A decine saltavano fuori dal sacco e aggrovigliati raggiungevano il pavimento con un tonfo e si dirigevano in ogni angolo della casa, strisciando e stridendo. Giduzza lanciò un urlo disperato, terrorizzata, con un solo balzo raggiunse la poltrona che era alle sue spalle, vi saltò sopra con i piedi continuando a gridare e cercando di liberarsi dai serpenti che le si erano avviluppanti intorno alle caviglie. In poco tempo tutti i sacchi si svuotarono e la casa si era trasformata in un brulicante covo di rettili. Giduzza piangeva, raggomitolata sulla poltrona e aspettava il momento della morte. Quando all'improvviso una serpe più grande e maestosa delle altre, uscita per ultima dal sacco più grande, si erse sulle altre e cominciò a parlare alla donna: “Posso liberarti in un istante da questo inconveniente... Basta solo che tu mi aiuti a realizzare il mio desiderio”. Giduzza era impietrita, non riusciva a proferire parola, poté solo annuire con un movimento della testa, pronta a tutto pur di uscire al più presto da quell'incubo terrificante. “Voglio sposare la figlia del re...” fu la rivelazione del serpente, che continuò a spiegare per filo e per segno quanto Giduzza era chiamata a fare per aiutarlo nel suo intento. Ottenuta la promessa dell'assistenza desiderata, il serpente se ne andò da casa di Giduzza portandosi dietro il numeroso seguito. Rimasta sola, Giuduzza, in preda allo sconforto, cercava di studiare un modo per salvarsi dalla sventura che le era piombata sul groppone. Come riuscire a farsi ascoltare dal re? Come raccontargli quella storia strampalata? L'avrebbe sicuramente ritenuta una pazza e fatta rinchiudere per sempre nelle secrete del Palazzo. Il re che era buono, non solo diede udienza alla donna, ma ascoltò attentamente il suo racconto. La donna allora cominciò a narrare quanto le era accaduto: dell'incontro con i giovani che le avevano riempito i sacchi di serpenti, di come tutte quelle serpi avessero invaso la sua casa e, infine, del colloquio con la più grande, la quale si definiva il loro re e che aveva preso la parola per dichiarare la volontà di sposare la figlia di sua maestà. Il re serpente aveva rivelato di essere stato vittima di un sortilegio e che la donna che sarebbe diventata sua moglie sarebbe stata l'unica a poterlo vedere nelle sue reali fattezze, quelle di un bellissimo giovane. Il re ascoltò attentamente la donna, e quando ebbe terminato, con garbo, come era suo costume, la invitò a lasciare il castello, e a riferire a colui che l'aveva mandata che mai e poi mai avrebbe dato la sua unica figlia in sposa a un serpente. Giduzza, che aveva già previsto l'esito di quel colloquio, senza azzardare alcuna ulteriore azione di convincimento, dopo aver ossequiosamente salutato, voltò le spalle al re e si avviò verso l'uscita. Ma all'improvviso, la principessina che, da dietro di una delle porte d'accesso alla sala, aveva ascoltato tutto, irruppe nella stanza pronunciando le seguenti parole: “Padre, concedetemi di conoscere il serpente.” “Figlia mia, ma ti ha forse dato di volta il cervello, io non posso consentirlo” replicò il re adirato. “Padre, io credo alle parole di quella donna e voglio incontrare il serpente” continuò la principessina, intenzionata ad avere la meglio. Intanto Giduzza che alle prime parole della principessina, si era bloccata al centro della sala, ebbe l'ardire di riprendere la parola e disse: “Vi prego Sire, accogliete la richiesta della principessina, d'altronde vi chiede solo di poterlo incontrare, nel castello ci sono tante guardie, niente di male potrà mai accadere a vostra figlia.” Dopo molto tentennare e svariati tentativi di dissuadere la caparbia principessina, il re diede il suo assenso all'incontro a patto che sarebbe avvenuto alla presenza sua e di due delle guardie reali. Così avvenne, il giorno seguente il serpente si presentò al castello e al cospetto del re confermò la ferma intenzione di sposare la principessina. Questa, lusingata dalle belle parole che il serpente riuscì a spendere e affascinata dall'intera singolare vicenda, si disse intenzionata a prendere in considerazione la sua richiesta solo dopo aver assistito alla trasformazione. Il serpente si disse disposto a soddisfare la volontà della principessina a patto che nessuno oltre a lei avrebbe assistito al momento in cui, spogliatosi dalle sette spoglie, si sarebbe trasformato in un uomo dal magnifico aspetto. Il re continuava a essere fortemente contrariato da tutta la vicenda, ma dovette nuovamente cedere davanti alla determinazione della figlia. Così, il giorno seguente, una delle stanze del castello fu allestita per l'avvenimento. Ogni più piccola fessura fu accuratamente sigillata, così come aveva disposto il serpente, anche il buco della serratura, perché nessuno avrebbe dovuto cedere alla tentazione di spiare quanto sarebbe accaduto in quella stanza, altrimenti cose terribili sarebbero accadute. Il fatidico momento arrivò, la principessina e il serpente si trovarono da soli nella stanza e la trasformazione ebbe inizio. Una luce fortissima avvolse il corpo del serpente che, volteggiando rapidamente su se stesso, si liberava dalle sue spoglie per lasciare il posto al giovane uomo che si nascondeva sotto le fattezze del rettile. La principessina fu stravolta da quella straordinaria bellezza e si innamorò perdutamente. Uscita dalla stanza, si diresse di filato nella sala del trono, dove il re aspettava trepidante l'esito della trasformazione, intenzionata a convincere il padre di concedere al serpente la sua mano. Ancora una volta, vinto dalla ferrea volontà della principessina, il re si vide costretto a cedere. Riuscì solo a estirpare alla figlia una promessa: durante la prima notte di nozze avrebbe dovuto trovare il modo di lasciare uno spiraglio della stanza aperto. Il re si premunì di tranquillizzare la principessina che nessuno sarebbe mai venuto a conoscenza della cosa e che il segreto sarebbe stato da lui conservato gelosamente fino alla morte, ma il re non poteva esimersi dal conoscere le sembianze dell'uomo a cui aveva dato in moglie la figlia e a cui un giorno avrebbe ceduto il suo trono. Le nozze furono celebrate con lo sfarzo degno del matrimonio della figlia di un re, ma la principessina contava i minuti che la separavano dal momento in cui, finalmente soli, suo marito si sarebbe trasformato in un meraviglioso principe. Quando tutti gli invitati lasciarono il castello e i festeggiamenti ebbero termine, i novelli sposi si congedarono dal re e si ritirarono nelle loro stanze. Giunti nella camera che le ancelle avevano allestito per la prima notte di nozze, cominciò il rituale della chiusura di ogni fessura della stanza, ma la principessina non dimenticando la promessa fatta al re e approfittando di un momento di distrazione del serpente, lasciò libero il buco della serratura così che il padre avrebbe potuto vedere l'aspetto umano del serpente, come desiderava. La luce cominciò a irradiare la stanza. Il re come convenuto spiava da dietro la porta. Ma proprio nel momento in cui riuscì a intravedere il bellissimo uomo che si nascondeva sotto le sette spoglie del serpente, un terribile boato, che sembrava provenire dal centro della terra, si diffuse per tutto il castello, il pavimento cominciò a tremare, le pareti si contorcevano e i vetri delle finestre cominciarono a infrangersi e a precipitare sul pavimento. Tutti gli abitanti del castello rimasero impietriti, paralizzati dal terrore, mentre nella camera degli sposi si consumava la tragedia: come attirati dalla luce che il corpo del serpente emanava, ogni frammento di vetro andò a conficcarsi nelle carni del giovane sposo che in men che non si dica scomparve in un'esplosione di luce. In una sola notte si consumò così il sogno di una principessa e quella di un serpente che sarebbe voluto diventare re. passuillu : pezzetto di legno ruga : vicolo lissia: bucato. Stefania Fiore IL DONO DELLA GROTTA INCANTATA C'era una volta un uomo saggio dalla lunga barba bianca e dagli abiti lisi, che incantava con le sue parole folle di grandi e piccini. Egli abitava in una grotta nel punto più alto della montagna, e tutti dovevano affrontare un lungo viaggio per andarlo a trovare. La grotta aveva le pareti lisce e levigate dall'acqua piovuta per secoli e molte piante trovavano riparo e nutrimento al suo interno, tanto che, anche quando sulla montagna il caldo diventava insopportabile, giunti all'interno della grotta ci si poteva dissetare alla fonte che vi scorreva e ritemprarsi al fresco per recuperare le forze. Per questo chiunque avesse affrontato il viaggio scalando la montagna avrebbe trovato sollievo e magiche parole una volta giunto nella grotta. Questo era il dono incantato che l'uomo saggio dispensava: le parole erano custodite in uno scrigno tempestato di preziose pietre di roccia che brillavano ogni volta che il sole le toccava. Quando a un cuore puro veniva consentito di sfiorare lo scrigno esso magicamente si apriva per svelare il suo contenuto: ogni parola era incisa sulla pietra, su un piccolo sasso che la montagna aveva donato e che diventava un talismano per quanti avevano l'onore di possederlo. Molti animali abitavano la grotta insieme all'uomo saggio e non avevano paura di mostrarsi: sapevano che nessuno avrebbe fatto loro male perché quel luogo fatato era il posto dove ognuno poteva trovare rifugio e pace. Per questo in tanti affrontavano il viaggio cercando la via sulla montagna, e accadeva che i bambini trovassero per primi la strada perché il loro cuore pulito vedeva, al di là delle nubi, lo scintillio dello scrigno che brillava di pura luce. Nel viaggio sulla montagna i bimbi diventavano quindi la guida per i loro genitori ed essi si affidavano a loro sicuri di poter trovare il cammino, poiché sapevano che mai un cuore malvagio avrebbe potuto vedere la strada giusta. Le folle venute da ogni dove riempivano gli anfratti della grotta, rifocillandosi con le erbe, dissetandosi con l'acqua della fonte e riposavano al fresco accanto ad animali fatati, attendendo pazientemente di potersi avvicinare allo scrigno. L'uomo saggio trovava tempo per tutti e non riposava mai, sembrava che egli stesso facesse parte della montagna; quando era il momento egli chiamava a sé grandi e piccini che, uno per uno, potevano avere in dono la magica pietra della parola. Come per incanto lo scrigno si apriva rivelando il suo contenuto di roccia: una moltitudine di pietre che la montagna aveva donato e che avevano incisa la sola parola destinata ad ognuno di loro e il segreto della vita, che solo il vecchio saggio poteva svelare. Cosi accadeva che le folle si intrattenessero ancora nella grotta prima di intraprendere il viaggio del ritorno, poiché la montagna era diventata la loro casa e solo la missione di portare tra le genti la parola poteva spingerli a lasciarla. Ma un giorno accadde ciò che nessuno avrebbe potuto immaginare: lo scrigno scomparve dalla grotta per non farvi più ritorno, e tutti sapevano che una volta lontano dalla montagna si sarebbe tramutato in polvere. Colui che lo aveva trafugato tuttavia non conosceva questo segreto, e dopo avere trovato la grotta solo grazie ai bambini che avevano tracciato la via giusta, ora trascinava faticosamente lo scrigno giù per le pendici del monte, credendo di poter avere solo per sé quel tesoro straordinario. “Ciò che non è donato diventa polvere” diceva la scritta sullo scrigno, ma il ladro non sapeva leggere perché ancora non aveva avuto il dono della parola e non poteva sapere ciò che stava per accadere. Alle pendici della montagna il ladro si trovò con un mucchio di polvere che il vento portò lontano e a nulla valse chiedere perdono poiché egli non ritrovo mai la strada perduta. L'uomo saggio aveva lasciato che il ladro compisse il suo furto e con esso il suo destino ed ora abbracciava la folla che gli si faceva intorno timorosa poiché tutti avevano paura che le parole fossero per sempre perdute. Una notte passò, la montagna circondata da nubi nere e minacciose faceva piovere un'acqua fitta e scura. In quella notte venne acceso un grande fuoco nella grotta e nessuno dormì perché l'uomo saggio aveva chiesto di vegliare per la montagna e di pregare perché venisse concesso ancora il dono della parole magica a tutti i presenti e a coloro che sarebbero arrivati in futuro. E alle prime luci del giorno tutti seppero che la loro preghiera non era stata vana, perché l'uomo saggio disse loro di cercare un sasso e decidere quale parola avrebbe dovuto esservi incisa. Lo scrigno non aveva più ragione di esistere perché la parola veniva tramandata e donata da un essere all'altro mantenendo la magia e l'incanto della prima parola donata. Ora la folla poteva andare per il mondo portando doni di pietra per ricordare a tutti che veniamo dalla terra, e doni di parola per ricordare a tutti che la magia è nel dare sé stessi in una storia, come quella che narriamo oggi e che porta scritta su una pietra la parola “cammino”. Come il cammino dei bimbi che trovarono la strada, degli adulti che impararono da loro, dell'uomo saggio che per prima l'aveva tracciata, o del ladro che la perse per sempre. Perché il cammino è divenire, è cercare la strada giusta, i compagni del nostro viaggio, ricordando sempre, nel nostro cuore, che il cammino non finisce. Mai. Silvia Rosa LE ROSE DEL RICORDO C'era una volta laggiù, e forse c'è ancora, un Regno Incantato, così lontano che per raggiungerlo bisognava attraversare foreste di villaggi dai comignoli rossi e prati e colline e tutti gli oceani, girare intorno al mondo cento curve strette e arrampicarsi in cima a un monte appuntito di ghiaccio e di neve, poi tuffarsi in una cascata di acqua tuonante e saltellare su un milione di sassi lisci e bianchi, passare per un bosco fitto di alberi giganti, camminare sette inverni, svoltare l'angolo a destra ed ecco, si era infine arrivati. In questo Regno viveva un Re coraggioso e valente, che aveva combattuto più di una guerra senza essere mai sconfitto, onesto e molto rispettato dai suoi sudditi e dalla Regina sua moglie. Quando nacque la loro primogenita, per trenta giorni e trenta notti tutti festeggiarono con balli e canti, banchetti di pietanze prelibate e ogni squisitezza, giochi e risate, ché la tristezza era stata bandita. La piccola principessa era così bella che il Sole per un po' decise di non tramontare, impigliandosi nei suoi capelli e la Luna chiese il permesso di non ritirarsi in cielo, specchiandosi in una goccia di rugiada, con la quale le damigelle reali bagnarono il volto della neonata. Per trovare un nome che potesse essere all'altezza della piccina vennero convocate a corte le Fate e le Streghe più sapienti, i due vecchi eremiti che vivevano dove-non-si-sa, e tutti gli gnomi del bosco, finché dopo lunghe dispute e segrete consulte, la principessina venne chiamata Rubinia. Rubinia cresceva sana, allegra e forte, e il Re suo padre era così felice che decise di non partire mai più per la guerra. Come tutti i bimbi anche Rubinia era assai vispa e curiosa. Un giorno, mentre era in giardino a giocare in compagnia della sua nutrice e della Regina, trovò nell'erba un ciuffo di peli corvini, poi un altro e un altro ancora un poco più in là, così cominciò ad allontanarsi seguendo quegli strani fili neri setosi e scomparve lungo il sentiero che conduceva alle stalle reali. All'improvviso le si parò di fronte il possente e selvaggio cavallo dalla criniera di carbone con cui il Re andava in battaglia. Il purosangue era scappato, scalciando e nitrendo, furioso, ché a lui la guerra piaceva tanto e tranquillo a ruminare paglia si sentiva impazzire. In un attimo Rubinia si trovò sotto gli zoccoli della bestia, che schiumava e soffiava dal naso, orribilmente. La Regina sopraggiunse appena in tempo a salvare la figlioletta, gettandosi fra le zampe nerborute del destriero e perdendo così la vita. Quando il Re venne a sapere della disgrazia, fece tagliare la testa al suo fedele compagno di guerra, cacciò la nutrice dal Regno, colpevole di non aver protetto la principessa, proibì alla Primavera di risvegliare boschi e giardini e chiuse Rubinia in una torre d'oro tempestata di diamanti, per custodirla da ogni male, dando ordine che tutti i suoi desideri venissero esauditi. Per molti anni la principessa visse nella ricchezza e nello sfarzo, tra preziosi gioielli, splendidi abiti di broccato, di seta e di pizzi, giocattoli e dolci di ogni tipo, musiche composte solo per lei, e damigelle pronte a servirla di tutto punto. Ma arrivò il giorno in cui nulla le parve più interessante. Si adagiò su un cuscino trapuntato di gemme e sospirando smise di giocare, vestirsi e mangiare. Le servitrici, preoccupate, andarono a chiamare il Re. “Figlia mia, che cos'hai? Non sei contenta? Dimmi che cosa vuoi e quanto è vero che sono il Re, l'avrai!” Rubinia pigramente gli rispose in un soffio: “Un bel niente”. Allora il Re convocò tutti i suoi consiglieri, affinché trovassero “un bel niente”. I poverini, imbarazzati e spaventati al tempo stesso, provarono a far ragionare il Sovrano, ma fu tutto inutile. Il Re chiedeva a gran voce che “un bel niente” fosse portato al suo cospetto per regalarlo alla figlia. La notizia si sparse in tutti i Regni confinanti e quando sembrava che nessuno riuscisse a trovare ciò che Rubinia desiderava, arrivò a Palazzo una misteriosa Signora, avvolta in una mantello viola, con gli occhi di trasparente cristallo e le mani pallide e affusolate. “Chiedo di essere ricevuta dal Re: sono la Signora del Niente”. Il Re accolse l'ospite con tutti gli onori e la mattina seguente la condusse nella torre, da Rubinia. “Cara principessa, eccomi qui per accontentarti. Mi dicono che hai chiesto 'un bel niente' e io del Niente sono Sovrana. Ma che bellissimi capelli hai, lascia ch'io ti pettini... vedrai, diventeremo amiche e tu avrai ciò che vuoi...” e prese a muovere le magre dita nella folta chioma della fanciulla, che cadde addormentata. “Sire, vostra figlia è stanca, lasciamola riposare. Questa sera, col vostro permesso, tornerò da lei e le farò dono del Niente.” Quando la Signora lasciò Rubinia, nella stanza calò una nebbia di silenzi spettrali, l'aria si fece gelida e la fiammella delle lampade si affievolì. Allora correndo giunse dalle cucine la vecchia cuoca. “Rubinia, svegliati, per carità... sono la tua nutrice.” La principessa riconobbe nel sonno la voce della donna che l'aveva allevata e a sua insaputa, disubbidendo al Re, le era rimasta vicina in tutti quegli anni; tentò invano di alzarsi, ma il suo corpo pareva di marmo. “La Signora del Niente, pettinandoti, ti ha fatto un incantesimo fatale. Io non sono tanto potente da annullarlo, però ti posso aiutare a metterti in salvo. Dovrai tagliare i capelli corti, come quelli di un uomo e poi rifugiarti in un albero dalla corteccia gialla, nel bosco. L'albero è stregato: ti condurrà fuori dal Regno. Ma bada bene di non tornare mai più e di non farti ricrescere i capelli, o la Signora del Niente ti troverà e ti porterà con sé... e allora sarai perduta per sempre.” Con una forbicina d'argento tagliò a una a una le lunghe, bionde ciocche della principessa, che cadevano al suolo come spighe di grano lucente; le fece indossare i vestiti sdruciti di un domestico e le consegnò la chiave per aprire il cancello della torre d'oro e fuggire. Rubinia corse più veloce che poteva, senza voltarsi mai indietro e si fermò soltanto quando arrivò davanti all'albero che la nutrice le aveva indicato. Avvicinatasi al tronco vide una larga fessura che lo spaccava in due e si infilò al suo interno, precipitando nel vuoto e perdendo i sensi. Al suo risveglio le parve d'esser rimasta svenuta per secoli. Le doleva il capo e non sapeva dove si trovasse. Era un bosco, certo, ma molto differente da quello del suo Regno; tra le fronde degli alberi baluginava il cielo, a schegge. Era tutto un cinguettare di uccellini e ovunque c'erano fiori e lussureggiante vegetazione. Si incamminò per una stradina di ciottoli, scrutando i cespugli e le piante dalle insolite forme, vagando senza sosta per un giorno intero prima di scorgere una casetta con un camino fumante. Bussò alla porta tre volte e finalmente questa si aprì. Il padrone di casa era un vecchio con la barba bianca, la pelle arricciata come la cartapesta, l'espressione severa e uno sguardo pungente di giada. Osservò Rubinia attentamente, ma così vestita e coi capelli corti la scambiò per un ragazzo. “Giovanotto, che cosa cerchi nella mia casa?” “Buon uomo la prego, mi lasci entrare. Ho tanta fame.” La principessa pensò di non rivelare chi fosse, rinnegando il suo nome, perché la Signora del Niente avrebbe potuto trovarla. Così disse al vecchio di chiamarsi Fino, di essere un orfano e di aver vissuto chiedendo l'elemosina di paese in paese. “Adesso sei grande abbastanza per guadagnarti il pane. E io ho bisogno di un aiutante. Sono il giardiniere della Regina e questo è il Regno di Primavera. Ci sono così tanti fiori da curare, che le mie povere mani di vecchio non hanno pace. Ti insegnerò l'antica arte di cui sono maestro. Ubbidiscimi senza lamentarti e non ti mancherà mai il cibo. Puoi restare a dormire qui, c'è un giaciglio di piume d'oca in soffitta. Domattina al primo canto del gallo, inizierai a lavorare.” E così fu. Rubinia faticava duramente, senza fiatare. “Fino, vieni qui, pianta questi bulbi. Strappa quelle erbacce. Raccogli cento margherite per la tavola della Regina... Fino, portami l'acqua del pozzo di mattoni rossi, per annaffiare le viole...” e lei obbediva svelta. Le sue mani divennero callose e scure, ricamate di graffi e piccole ferite, come quelle del vecchio giardiniere. Il tempo prese a scorrere come un fiume impetuoso in un letto di tenera argilla, così rapido da sembrare quasi immobile, così rumoroso da confondersi con il quieto respiro dei gigli e delle camelie. A ogni luna piena la principessa si tagliava i capelli e ben presto finì col dimenticarsi chi era davvero. Una notte senza stelle il maestro decise che era giunto il momento di svelare a Fino il segreto più importante. Alla luce flebile di una candela lo condusse in una radura desolata e qui disse sottovoce: “Ragazzo, io presto lascerò questo Regno per riposare le mie ossa stanche nel vento dell'Arcobaleno. Ma prima voglio insegnarti qualcosa che solo a pochi è dato di conoscere.” Soffiò sulla tremula lingua di fuoco e il buio piombò su di loro. “Non chiedo e non voglio e niente non so, nell'ombra mi trovo e paura non ho, se colgo la rosa la spina non temo, se tutto è perduto il Ricordo è più vero del Vero”. Non appena il giardiniere pronunciò la formula magica, un fascio di luce lattiginosa investì Rubinia che chiuse gli occhi, abbagliata. Al riaprirli si trovò in un rigoglioso giardino di rose di tutti i colori e di tutte le fogge, che svettavano leggere e fruscianti o si attorcigliavano ordinate in archi di petali e foglie ammaestrate. Il profumo era così penetrante che dava il capogiro. Le rose erano raggruppate in chiazze dense di rosso e di rosa, di bianco e di giallo, con le corolle che si agitavano in fluidi girotondi e i boccioli che danzavano ondeggiando. “Maestro, che cosa sono questi splendidi fiori?” “Sono le Rose del Ricordo, belle e pericolose. Hanno spine così aguzze che possono lacerare la carne e far sanguinare il cuore. Per stringerne una sola, occorre l'esperienza di una vita. Sono delicatissime e insieme resistenti, tanto che possono perire in un secondo o sopravvivere in eterno. Vanno custodite con cura e dedizione, ma non bisogna esagerare, perché troppe attenzioni rischiano di farle appassire. Bisogna accarezzarle di tanto in tanto, ma non molto spesso, o le spine si fanno più robuste ed evitarle diventa impossibile. Se sarai coraggioso abbastanza da non temere di ferirti, le Rose del Ricordo non ti tradiranno mai. Anche quando tutto avrai perduto, se crederai nel loro valore, le Rose del Ricordo non ti abbandoneranno.” Poco dopo quella notte, il giardiniere sparì, lasciando Rubinia a occuparsi di tutti i fiori del Regno. E venne il giorno in cui la Regina in persona andò da lei. “Giovane Fino, sono qui per affidarti un compito speciale: fra sette settimane sarà la Festa dei Cavalieri Erranti, che dopo lungo tempo ritornano alle loro case. Addobba il Castello e la Via Grande con i fiori più rari e prepara coroncine di freschi boccioli per le damigelle reali. Tutti i giardini devono essere fioriti.” Rubinia si mise subito all'opera e non si risparmiò, perché mai avrebbe voluto deludere la Regina. Quando tutto fu pronto era già l'alba del giorno di Festa. La fanciulla aveva conservato una ghirlanda di orchidee per sé e volle provarla. Pensò dispiaciuta che a lei non sarebbe stato possibile partecipare alle danze, e sospirando ricordò i vestiti sontuosi che aveva indossato quando era una principessa e non doveva nascondersi. Si toccò la fronte ch'era stata incorniciata da sottili capelli dorati e adesso era scoperta e vuota. Si tolse i pantaloni sgualciti e la camicia rattoppata e ristette a osservare la propria immagine riflessa nello specchio di un laghetto, immergendosi infine nell'acqua tiepida e frizzante. In quel mentre passava di là a cavallo il più valoroso dei Cavalieri Erranti, che tutti chiamavano Teodoro, di ritorno dal pellegrinaggio nel Deserto di Sale. L'uomo rimase affascinato alla vista della bionda fanciulla con la pelle di luna, nuda col capo coperto di fiori, e grande fu la sua sorpresa quando la vide indossare gli abiti di un uomo e dileguarsi nel bosco. Con la sua sfavillante armatura, al galoppo, il Cavaliere le andò dietro, deciso a svelare il mistero della sua identità. Raggiunta che l'ebbe, sguainò la spada e con voce imperiosa le ordinò di fermarsi. “Dimmi chi sei o ti uccido!” “Sono Fino, il giardiniere della Regina.” “Non mentirmi! Ti ho visto! Tu sei una donna!” “Nobile Cavaliere, ti sbagli... non sono una donna...” “Dunque sei una strega, ma di sicuro non sei chi dici di essere!” Allora Rubinia d'un fiato raccontò al Cavaliere la sua storia e gli parlò del malefico sortilegio della Signora del Niente. “Ebbene, se questa è la verità sconfiggerò io per te la Signora del Niente. Ma se quello che mi hai rivelato è una menzogna, se altro non sei che una strega furba e maligna, assaggerai la lama tagliente della mia spada! Ti porto nel mio Palazzo e finché non avrò stabilito chi sei, rimarrai mia prigioniera. Quando ti saranno ricresciuti i capelli vedremo se questa Signora del Niente ti verrà a cercare.” Tutti i giorni, prima del tramonto, il Cavaliere Teodoro indossava la sua pesante armatura e si recava nella stanza del Palazzo in cui aveva rinchiuso Rubinia. La interrogava ripetutamente, per farla cadere in contraddizione. Ma finiva con l'essere sempre più confuso: a volte era sicuro che si trattasse di una principessa, altre si convinceva che fosse una strega. Intanto la chioma della ragazza era tornata fluente e la sua bellezza era tale che uno solo dei suoi sguardi gli accendeva il corpo come la febbre. Rubinia dal canto suo, pur non avendo mai visto il Cavaliere senza armatura, se ne era perdutamente innamorata e quasi sperava che la Signora del Niente la trovasse, per dimostrare all'amato che era sincera. Si affacciarono in cielo molte lune nuove prima che Teodoro smise in un angolo la sua corazza e si presentò a Rubinia chiedendola in sposa, ché verità o bugia, ormai non contavano più: chiunque ella fosse, lui l'amava. Alle nozze seguirono giorni intensi di sole e di gioia, finché nel Regno di Primavera si ebbe notizia di una sanguinosa guerra, che intorno al Mare dei Pesci di Fango aveva già mietuto centinaia di vittime innocenti. Teodoro divenne irrequieto, combattuto com'era tra il desiderio di partire, per compiere il suo dovere di Cavaliere, e l'amore per Rubinia, dalla quale non aveva la forza di separarsi. La principessa vedeva il suo sposo sempre più infelice, agitarsi tra le stanze del Palazzo come un'aquila dalle ali spezzate, in una stretta gabbia di legno. Così un mattino di brina gli lucidò l'armatura e fece sellare il cavallo, lo baciò sulle labbra un'ultima volta e lasciò che partisse, incontro al suo destino. Per un anno intero Rubinia attese il ritorno di Teodoro, senza sapere che cosa fosse stato di lui, quando, senza preavviso, arrivò a Palazzo un uomo avvolto in un mantello viola. “Vengo a consegnare la spada del grande Teodoro, che con prodezza si è sacrificato per difendere l'onore dei Cavalieri Erranti.” Perduta ogni speranza di poter riabbracciare il suo sposo, Rubinia si gettò in terra con la spada tra le mani, piangendo tutte le sue lacrime. Una fitta lancinante aveva sostituito il battito impazzito del cuore e le bruciava in petto. Sentiva la lama come una fresca carezza lenitiva contro il suo corpo tramutato in marmo. Aprì gli occhi sbarrati di sale e accostò la punta dell'arma al centro di sé, sotto il seno. Ma in quell'istante, dalla vetrata della finestra più grande, filtrò uno spicchio d'Arcobaleno, schizzando sulla lucida spada. Allora Rubinia si ricordò del suo vecchio maestro giardiniere e del segreto di cui, tanto tempo prima, le aveva fatto dono. Con un filo di voce ripeté: “Non chiedo e non voglio e niente non so, nell'ombra mi trovo e paura non ho, se colgo la rosa la spina non temo, se tutto è perduto il Ricordo è più vero del Vero”. All'udire quelle parole magiche, l'uomo dal mantello viola cacciò un urlo disumano, la coltre gli scivolò via e apparve per quello che era: la Signora del Niente, dagli occhi di trasparente cristallo e le mani pallide e affusolate, con un corpo scheletrico divorato da ripugnanti vermi e insetti spaventosi. “Non ti resto che io, Niente... vieni con me e non sentirai più dolore!” Ma l'incantesimo era ormai spezzato, Rubinia non l'ascoltava, circondata dai profumi e dai colori sgargianti delle meravigliose Rose del Ricordo. In un angolo se ne ergeva una più maestosa delle altre, color del sangue, con petali carnosi e vellutati, e uno stelo sinuoso di spine acuminate e verdeggianti foglie. Senza timore Rubinia la sfiorò e seppe allora che, in quel giardino segreto sbocciato dentro di lei, Teodoro non l'avrebbe lasciata mai più. Si mise in viaggio camminando sette inverni, passò per un bosco fitto di alberi giganti, saltellò su un milione di sassi lisci e bianchi, poi si tuffò in una cascata di acqua tuonante, si arrampicò in cima a un monte appuntito di ghiaccio e di neve, girò intorno al mondo cento curve strette, attraversò tutti gli oceani, colline e prati e foreste di villaggi dai comignoli rossi, svoltò l'angolo a sinistra ed ecco, infine, ritornò nel suo Regno Incantato, caduto in disgrazia dopo la morte del padre. Divenne una saggia Regina, molto amata dai suoi sudditi, e governò lungamente con giustizia e con cuore, coltivando mille Primavere nel vento caldo dell'Arcobaleno. Simona Rossi LIBERO C'era una volta, in un paese non molto lontano da qui, un bambino di nome Libero. Ma se tu fossi andato in quel paese per cercarlo chiedendo di Libero be'... in pochi avrebbero capito chi stavi cercando. Eh sì, perché in realtà tutti... o quasi lo conoscevano come "Lo Strano". Lo chiamavano così i compagni di scuola, glielo gridavano dietro ridacchiando gli altri bambini al parchetto, lo sussurravano per strada gli adulti che lo vedevano passare. Dal canto suo Libero il termine "strano" non sapeva neanche cosa volesse dire e anche se lo avesse saputo, non avrebbe saputo definire cosa o come fosse la normalità. Anzi, ripensandoci, forse di cosa fosse la normalità ne aveva una vaga idea: normalità era ciò che gli altri si aspettavano da lui. Gli altri bambini, ad esempio, si aspettavano che quella palla che prendeva regolarmente in faccia lui la calciasse come facevano loro, o che quanto meno gli corresse dietro. Gli insegnanti si aspettavano che scrivesse ordinatamente sul quaderno o che imparasse a memoria le poesie e, figuriamoci un po', le recitasse davanti a tutta la classe! I suoi genitori poi...ah i suoi genitori... si aspettavano che parlasse con loro, che gli raccontasse... che gli spiegasse quello che provava, quello che sentiva dentro. In particolare la sua mamma, gli prendeva la mano, e lo guardava con quel sorriso pieno di... pieno di mamma... e aspettava, aspettava in silenzio, qualcosa. Ogni tanto Libero la sorprendeva a fissarlo di nascosto, e in quei momenti quella mamma sorridente era così seria e così triste che... oh che avrebbe dato qualsiasi cosa per farla felice. Ma come poteva? Lui che dentro di se aveva un fiume in piena ed il mare in tempesta? Lui che dentro sentiva il temporale e la pioggia scrosciante. Non sapeva come dirle che per la maggior parte del tempo era troppo impegnato a tenere a bada tutto questo e davvero, davvero! Non rimaneva spazio per altro. Un giorno... eh ma non un giorno qualsiasi però... Quello fu un giorno strano davvero, strano quasi come Libero. Fu un giorno di tempesta, dove pioggia, grandine lampi e saette si inseguirono per ore e tormentarono il paese di Libero ed i suoi abitanti che erano terrorizzati dalla furia della tempesta. Ma non Libero, perché quel giorno quel che lui sentiva sempre dentro di sé, lo sentivano anche gli altri e allora il piccolo provò un piacevole sentimento di serenità, di sicurezza. E fu in quel momento, in quel piccolo angolo di pace che Libero percepì dentro di sé qualcos'altro, diverso da tutto il resto, debolissimo e lontano ma sì, c'era, c'era eccome ed era... era la cosa più bella che avesse mai sentito dopo la voce della mamma. Cosa fosse non lo sapeva ma forse non era così importante dargli un nome, la cosa importante era non perderla, ma accidenti! Era così debole e in mezzo a tutto quel frastuono era così faticoso ascoltarla e allora, per non lasciarsela sfuggire iniziò a seguirla con le mani e con le dita, battendosi sulle gambe e su tutte la superfici a sua disposizione, e con i piedi, e con il capo. Inutile dirvi che tutti quei movimenti che dall'esterno risultavano davvero senza senso non migliorarono certo la situazione di Libero. Adesso tutti non si limitavano a chiamarlo “Lo Strano”, ma lo evitavano proprio e non ci fu molto da attendere prima che le maestre mandassero a chiamare i suoi genitori. E che questa non fosse una cosa buona lo aveva capito persino Libero. Quella sera, sdraiato al buio nel suo lettino, mentre muoveva nell'aria le sue piccole dita, non seppe spiegarsi come ma riuscì a sentire perfettamente dalla stanza accanto i sussurri dei suoi genitori e il pianto della mamma. E aspettò perché qualcosa, ormai era chiaro, doveva succedere. La mattina dopo non fu accompagnato a scuola. Sedette al tavolo della colazione, ad osservare la mamma ed il papà parlare di una nuova scuola, più lontana ma più adatta a lui, di camere da letto per dormirci e di grandi tavoli per mangiarci insieme agli altri bambini. Il primo momento Libero lo passò provando la sconosciuta sensazione del vuoto assoluto, ma subito dopo sentì gli occhi bagnati e una dolorosa sensazione al petto e, lui non poteva saperlo ma i suoi occhi, quando li alzò per incontrare quelli della mamma erano imploranti. Come avrebbe fatto, lontano da casa, dai suoi genitori, in mezzo a sconosciuti per i quali anche lui sarebbe stato non solo sconosciuto ma strano e sconosciuto? Quel giorno, per la prima volta, Libero pianse. Ma insomma, ve lo dico, sembrava che non ci fosse proprio null'altro da fare. Nei giorni successivi, a casa del piccolo Libero mamma e papà si aggiravano per le stanze radunando oggetti che immaginavano potessero servirgli nella nuova scuola, ma a lui, come potete immaginare, non importava un granché. Una cosa che attirava la sua attenzione o almeno una parte di essa, era quello che stava accadendo fuori, nella casa accanto alla sua: un via vai di persone, grandi furgoni pieni di cose che venivano scaricate e un oggetto dal quale non riusciva a staccare gli occhi che aveva le gambe ed era, nero e lucido. Che fosse un grande animale? Era vivo! Era legato ed emetteva dei suoni mentre quattro uomini cercavano faticosamente di trascinarlo in casa. Quando ci riuscirono andarono via con i loro furgoni e sulla soglia di casa rimase solo la signora con il fermaglio rosso tra i capelli. Anche libero era sulla soglia di casa sua, con gli occhi fissi e le dita in movimento. La signora col fermaglio rosso lo guardava, lo vedeva, e stava sorridendo, non ridendo, badate bene. Sorrideva proprio a Libero e lui non poteva fare a meno di pensare che quella signora doveva essere ben strana. La signora rientrò in casa e Libero rimase a fissare la porta di casa rimasta aperta, poi successe. Libero pensò di essere impazzito, i suoni che era abituato a sentire dentro di sé adesso arrivavano da fuori, un po' deboli forse ma sì, Liberò sapeva, doveva essere la signora dal fermaglio rosso ,con il suo grosso animale a produrli. Libero si mosse, noi sappiamo bene che entrò in quella casa vicina camminando, ma lui giura ancora adesso che ci arrivò fluttuano nell'aria e poi li vide, la vide, vide le mani della donna, le sue dita che danzavano e correvano su quei... così bianchi e neri. Per la prima volta nella sua vita fu investito a pieno non da ciò che aveva dentro ma da ciò che c'era fuori: Libero guardava, Libero vedeva, Libero sentiva, Libero ascoltava. In quel momento la signora fermo le sue mani, si spostò un tantino e gli fece posto sullo sgabello accanto a sé, Libero era ipnotizzato, obbediva. Lei gli parlò: appoggia le mani Libero e resta fermo, chiudi gli occhi Libero. È il momento di lasciare uscire tutto, lascia andare. Ascolta per un momento il silenzio adesso, è puro, è morbido, è sicuro, è dolce. E adesso muovi le dita, lascia andare tutto e ascolta chi sei Libero. Apri gli occhi, ora sai chi sei. Eh sì, Liberò adesso sapeva, e sorrideva. Continuava a credere che la signora col fermaglio rosso fosse davvero strana. E sapete una cosa? Anche lei lo pensava e anche a me piace pensare che fosse proprio così. Illustrazione: Gisella Germano Lorenzo Carbone I GAEWINK Sicuramente nella tua vita avrai sentito parlare del popolo dei Gaewink. No? Allora ti racconterò io la storia. Il popolo dei Gaewink è un popolo magico, si trovano ovunque, magari ce ne è uno vicino a te che se la sta ridendo di come sei buffo stando su due zampe. Si, è proprio così, i Gaewink non hanno mai due zampe, possono averne quattro, una, tre, cinque, cento, ogni combinazione possibile! Ma mai e poi mai ne avranno due, e non venite a chiedermi il perché, ma loro sono fatti così, che ci potete fare? Sono i Gaewink. Ce ne sono miliardi e miliardi in questo mondo, non di più non di meno. Alcuni sono enormi e forti, altri sono piccoli piccoli, così piccoli che una tua unghia ne può tenere più famiglie. Ci sono Gaewink che volano, altri che saltano, altri che nuotano, ma sono tutti Gaewink, dal primo all'ultimo. Popolo affascinante il loro, si rispettano anche quando combattono tra loro, e bisogna dire la verità, se combattono, lo fanno per una giusta causa, il divertimento nero non è presente nella loro dolce e luminosa mente. Probabilmente tu starai dicendo “ma narratore, ti sei fumato il cervello” Pazienza, caro lettore, pazienza, anche se non lo sai, tu conosci già da tanto il popolo dei Gaewink. Loro si che fanno fare dei bei trucchetti magici! Sono capaci di ogni meraviglia! Si trasformano, si allungano, si ricompongono, si accorciano, si gonfiano, si sgonfiano, gustano, vedono, odono, annusano e toccano molto meglio di noi. Alcuni sono più veloci di Flash, altri più forti di Superman. I Gaewink amano molto la loro famiglia, e anche se possono sembrare “traditori” non lo fanno di certo per offendere alcun essere. I loro sentimenti sono puri e travolgenti, il perfido Lord Mammona, nostro maligno gerarca, non ha alcun carisma su di loro. Artisti di successo i Gaewink, ci sono quelli che danzano come fate, ci sono coloro che cantano come la musa più talentuosa, altri ancora sono nati acrobati e muoiono da showman o attori. Alcuni di loro ti sanno raccontare la storia più bella della tua vita, di tutto il tuo mondo, con un semplice sguardo. Perché non li hai mai visti? Ma certo che li hai visti, è che loro non si fanno vedere... a dire il vero siamo noi che a volte non li vediamo... Molte volte. Violiamo come un demone del disonore la loro terra, giovane e vergine che vuole concedersi solo a chi ama davvero il suo popolo. Sporchiamo con i figli di Nergal tutto ciò che hanno creato e a cui tengono. Il re dei cadaveri immonda i loro corpi, le loro vite, il loro futuro. Nel passato li sacrificavamo a dei distanti e mostruosi, oggi li sacrifichiamo per la nostra smania di piacere, dono della perversa e crudele Lilith, vera sposa dell'umano. Piangi per questo destino vero? Se sì vedrai sempre i Gaewink, vedrai il loro sorridere e il loro esserti riconoscenti. Se salvi un cane che prende botte vedrai il regno dei Gaewink, se lotti per fare in modo che le ossa delle tigri non diventino medicine , sentirai la forza dei Gaewink, se ostacolerai il principe nero e i suoi servi, ascolterai la cultura dei Gaewink. Tutti noi siamo Gaewink, ma ce lo siamo dimenticati! Contaminati da diavoli e angeli della perdizione. Ricordiamo chi siamo, ricordiamo la magia che scorre in noi, sentiamoci Gaewink. Giovanna Olivari IL LUPO E CAPPUCCETTO ROSSO –Basta umiliazioni! Basta prese per il culo dei miei compagni! Basta castighi dei miei genitori! Gliela faccio vedere io! Non sarò capace di rubare galline nei pollai, embè? Vedranno di cosa sono capace! E allora sì che dovranno strisciare ai miei piedi e tirare fuori le loro maledettissime lingue salivose e leccarmi il pelo, e anche il culo, se vorranno vedermi rientrare nel loro fottutissimo branco!– Lulù, un giovane lupo dal pelo rossiccio, tutto pelle e ossa, si aggirava nel “bosco delle fiabe”(così chiamato dai cacciatori che ogni stagione salivano nell'entroterra di Lumarzo per le loro battute di caccia) con l'aria sempre più incazzata. Come tutti i lupacchiotti della sua età, per diventare grande ed essere ammesso nel branco dei lupi, doveva superare la prova-pollaio, cioè, avventurarsi nottetempo nel vicino villaggio, entrare in un pollaio, brancare una gallina e portarla, viva o morta, al gruppo degli adulti. Ma tutte le volte che ci aveva provato, il cane abbaiava, il gallo cantava, la gallina starnazzava, la luce si accendeva, il fucile sparava, il sasso arrivava, e lui finiva per darsela a gambe levate e rifugiarsi nel bosco con la coda tra le gambe! –Non sono un “ruba-polli” come gli altri lupi? Ah sì? Userò l'astuzia! Non riesco a vincere nel pollaio? E nel villaggio? Vincerò nel bosco! Giocherò “in casa”! Glielo farò vedere a quei luridi sapientoni di cosa è capace Lulù “l'imbranato”! Dal villaggio arriverà la mia preda! E non sarà una gallina!!!– La rabbia a volte può più della fame. La voglia di rivincita fa trovare stratagemmi, che neanche il più lucido e consumato stratega riesce a trovare. Lulù aspetta paziente nel bosco. Ed ecco arrivare una bella e paffuta bambina allegra e canticchiante: trecce bionde, occhi azzurri, mantellina rossa con cappuccio, al braccio un panierino di vimini coperto da un tovagliolo a quadretti bianco e rosso emanante un delizioso aroma di focaccia ancora calda. Lulù sente l'acquolina scendere prepotente lungo le fauci. Ma resiste. E con l'aria più umana possibile: –Ciao, bella bambina. Come ti chiami? –Non ti rispondo. Non sta bene fermarsi a parlare con degli sconosciuti. –Ma io ti conosco. Tu non mi sei sconosciuta. Ti vedo ogni mattina, quando esci di casa e vai nel pollaio a dar da mangiare alle galline! –Che ne so se dici la verità? –Ecco la prova. Ti vedo giocare anche col tuo cagnolino. Sei così tenera con gli animali! Cosa c'è in quel bel panierino? –Ah beh. Se è così. Tutti mi chiamano Cappuccetto Rosso. Porto la focaccia alla mia nonnina, che sta nella casa nel bosco, ed è malata. Anche una bella fetta di torta e del buon vino. –Ma come sei premurosa! E perché non le porti anche un bel mazzolino di fiori? Sai come sarebbe contenta! –Non posso fermarmi. L'ho promesso alla mia mamma. Devo andare. –Che fretta! La mamma non poteva sapere che proprio stamattina sono sbocciate le margheritine! Guarda come sono belle! Come sarà fiera di te quando saprà che le hai portate alla nonna! E mentre Cappuccetto Rosso, ormai convinta, si china a cogliere le margheritine, Lulù in un batter d'occhio è già alla porta della casetta della nonna. Facendo la voce da bambina, inganna la povera vecchietta, che lo lascia entrare. Il lupo con un balzo si avventa sulla donna e ne fa un solo boccone. Poi si mette la camicia da notte e la cuffia della nonnina, inforca gli occhiali, si infila sotto le coperte e aspetta Cappuccetto Rosso. Poco dopo la bimba arriva e Lulù, ancora una volta con l'inganno, riesce a carpirne la fiducia, a farla avvicinare e a farsene un solo boccone. –Obiettivo raggiunto!– dice tra sé e sé il giovane lupo. –E ora voglio vedere la faccia che faranno i lupi del branco! Anche se un po' appesantito, si dirige più svelto che può verso la tana. –Ah ah ah!– cominciano a ridere i lupi più giovani –Dove le hai messe questa volta le galline? Che pancia che hai! Non ci dirai che le hai mangiate ?! Intanto si fanno avanti anche gli altri lupi, gli adulti e i vecchi, incuriositi da quel gran vociare. Lulù non parla, guarda tutti con aria di sfida, poi, con un unico enorme possente conato, vomita Cappuccetto Rosso e la nonna, che, vive e vegete, anche se un po' stropicciate e imbrattate di succhi gastrici, si abbracciano. I lupi, giovani, adulti e vecchi, restano senza parole di fronte a tale prova di coraggio e di generosità. Per un lupo, ingurgitare ben due “umani” senza “mangiarli”, ma solo per “dimostrazione”, è davvero una super prova! E fu proprio così che Lulù riuscì a conquistarsi il rispetto di tutta la comunità dei lupi e la simpatia della comunità degli “umani”. Roberto Marzano IL MANGIAFAVOLE Il Vermone Puzzone è grosso e peloso, e talmente ignorante da essere convinto che cibandosi di parole possa anche lui avere finalmente una cultura. A parte che è da dimostrarsi che nutrirsi di vocaboli sia la strada giusta per diventare intelligenti, il suo antipatico vizio fa solo scempio delle pagine dei libri lasciando dei desolanti vuoti bianchi che rendono storie e favole praticamente incomprensibili. Speriamo di essere ancora in tempo a leggere questa, prima che arrivi a divorarla. Ma ci vorrà la collaborazione di tutti per contrastarlo. Così allora, presto, formiamo un bel gruppetto per provare a difenderla. L'unione di tutti è l'unica forma di difesa che può funzionare con questo mostro, che lo faccia desistere dal suo malefico intento. Però bisogna stare attenti perché mandato via da una parte può ritornare dall'altra, più aggressivo e affamato di prima, avventandosi su tutti i monosillabi, molto più facili da catturare delle parole più lunghe, facendone un ghiotto antipasto. Improvvisamente i “se”, i “ma”, i “già” e i “sì” spariscono dalle righe, e questo sarebbe niente... essendo analfabeta il vermone non distingue "azioni" da "qualità", i "nomi" dalle "virgole" e li bruca a caso senza nessuna regola, così le favole vengono mozzate in maniera assurda: Un convinto di intelligente, mangiava libri. Così tutte le storie niente. Giulia e un trucco se stesso giù per il gabinetto. tutti liberi qualsiasi santa pace. Puzzone nessuno mancanza. con calma gamba, non serve a nulla leggere storie tutte intere... Eh no, non possiamo tollerare tutto questo! Dobbiamo formare un cerchio intorno a queste parole che sono state mangiate, per respingerlo via. «Non potremmo provare a cantare una ninna-nanna tutti in coro?» propone Davide «Una cosa molto potente che lo faccia addormentare almeno il tempo di leggere questa benedetta storia...». Sì! E allora tutti cantano: «Fai la ninna, fai la nanna, verme sporco della mamma... ninna-ih, ninna-oh, il puzzone chi lo vuol? Fai la ninna, fai la nanna...». Fortunatamente lo stratagemma funziona, e il vermone pian piano si addormenta come uno sciocco tra le pagine di un elenco del telefono. Forza, dobbiamo fare veloci finché dorme! Prendiamo ago e filo e tentiamo di aggiustarla, a riattaccare le parole mancanti una dietro l'altra e a formare qualche frase leggibile. Ma purtroppo la fretta non è l'ideale quando si vogliono fare le cose per bene: Un di con calma Giulia e un trucco Per poter diventare se stesso convinto verme E Vermone del puzzone. Nessuno sentiva la gamba intelligente, mangiava e non ci si capiva più di qualsiasi storia in santa pace. Ora erano in mancanza di leggere non serve a nulla leggere, le libri. Così tutte le storie qualsiasi tutte intere vanno lette e gustate giù per il gabinetto. Ma i suoi amici trovarono un Puzzone e per fargli mangiare le parole a casaccio, diventare nessuno rovinava niente, tutti liberi... Eh no! Così non si capisce un bel niente... cosa abbiamo combinato! Adesso proviamo a scucirle di nuovo e a prestare più attenzione, che il vermone potrebbe svegliarsi da un momento all'altro. Facciamo tutto con calma: Un verme puzzone, convinto di poter diventare intelligente, mangiava le parole scritte nei libri. Così rovinava tutte le storie e non ci si capiva più niente. Ma Giulia... ma Giulia... ma Giulia... Cosa succede? Non si riesce a completare la frase! Ecco cosa succede: all'improvviso il vermone si risveglia affamato come non mai e comincia a divorare le parole cominciando dalla fine. Così i bambini spaventatissimi cominciano a leggerla tutti assieme a voce alta e si accorgono che in quel modo le parole magicamente si riformano diventando più forti di prima. Fatta la scoperta, qualcuno esclama: «Bisogna soffiare forte e all'improvviso gridare "Vai via Puzzone!"». Buona idea, ma a Giulia ne viene una davvero geniale: «Perché non proviamo a scrivere che il vermone mangia la sua coda?». Approvata da tutti Giulia prende una bomboletta spray e scrive sul muro "IL VERMONE PUZZONE MANGIA LA SUA STESSA CODA!". Viste quelle parole, sottolineate dal coro di tutti i bambini, –"Il vermone puzzone mangia la sua coda!"–, lui comincia stupidamente a inseguirsi la coda che gli sfugge via sempre più veloce. Più ci prova e più la faccenda si fa difficile. Un un ultimo disperato balzo felino riesce infine a catturarla mentre i bambini ripetono ancora «Il vermone puzzone mangia la sua coda! Il vermone puzzone mangia la sua coda!». Puzzone, allora, con la vorace bocca comincia a inghiottirla ignorando che sia proprio la sua, la ingoia sempre di più finché non la deglutisce del tutto trasformandosi in una viscida e schifosa palla puzzolente. A questo punto non resta altro che buttarla direttamente nel gabinetto e tirare lo sciacquone – anche più di una volta – e farla finita con questa storia. O, meglio, leggerla tutta intera tranquillamente... il Vermone Puzzone non ci darà più alcun problema: Un verme puzzone, convinto di poter diventare intelligente, mangiava le parole scritte nei libri. Così rovinava tutte le storie e non ci si capiva più niente. Ma Giulia e i suoi amici trovarono un trucco per fargli mangiare se stesso e lo buttarono giù per il gabinetto. Ora tutti erano liberi di leggere qualsiasi storia in santa pace. E del Vermone Puzzone nessuno sentiva la mancanza. Per diventare in gamba, non serve a nulla leggere, o mangiare, le parole a casaccio, le storie vanno lette e gustate con calma tutte intere. Laura Maccagno IL REGNO SENZA SOGNI C'era una volta, in un piccolo reame custodito in uno scrigno di montagne innevate, una giovane fata di nome Clippy che portava i sogni ai bambini. Il Re e la Regina di quel regno, erano molto amati dai sudditi, purtroppo però, dopo la nascita della Principessa Allegra, non sorridevano più come prima. La piccola, infatti, non dormiva mai e passava le notti a fare giochi rumorosi, che impedivano ai sovrani di riposare. Non sapendo più cosa fare, convocarono a corte la fata e le domandarono: –Per quale motivo, porti la polvere dei sogni a tutti i bambini tranne che alla Principessa? Clippy rispose: –Maestà, mi dispiace, la principessa, ogni sera, fa sprangare tutte le porte e le finestre della sua camera. Io sono ancora troppo giovane, non posso aprire porte e finestre serrate.– I sovrani, allora, tentarono di convincere la Principessa a lasciare almeno una finestra socchiusa per far entrare la fatina, ma non ci fu niente da fare. Così, stanchi e scoraggiati, mandarono a chiamare Amelia, una fata molto potente che viveva ai confini del regno. Quando arrivò il Re le spiegò ogni cosa e infine le chiese: –Allora Amelia puoi aiutarci?–. La fata, un po' stizzita, rispose: –Certo che posso! Questa notte farò un incantesimo ad una finestra che rimarrà socchiusa. In cambio, però, voglio un regalo–. –E cosa vorresti?– domandò la regina. –Voglio in dono ogni sogno che Allegra farà d'ora in poi– Il Re e la Regina, un po' stupiti da quella strana richiesta, accettarono e quella stessa notte Amelia si presentò davanti alla torre, che dava accesso alla stanza di Allegra e fece il suo incantesimo: –Suvvia! Ti ordino, non esser maldestra, rimani socchiusa da adesso finestra!– La finestra si aprì e Clippy poté, finalmente, entrare e cospargere Allegra della sua polvere magica. La piccola si addormentò e sognò di essere in un prato bellissimo fra fiori di mille colori che incantavano le sue narici con fragranze fresche e intense, poi vide arrivare un nugolo di farfalle variopinte e, fra loro, una enorme e dorata che le si posò accanto invitandola a salire sul suo dorso. Allegra volò in alto, nel cielo sfumato di rosa e da lassù tutto era ancora più bello, profumato e inebriante. Al suo risveglio la principessa era felice. La mattina stessa Amelia si presentò a corte per avere il compenso pattuito. Il Re e la Regina l'accolsero un po' seccati da tanta insistenza, –Ricordiamo la nostra promessa– dissero –Ti concediamo i sogni di nostra figlia–. Amelia sogghignò e recitò a mezza voce: –La scatoletta bella del tè, si riempia dei sogni che servono a me!– poi, svanì. Quella notte Allegra andò a dormire felice al pensiero dei bei sogni che la attendevano, ma non sognò niente di bello. Riuscì solo a vedere se stessa in una stanza buia, seduta su di una sedia, incapace di muoversi e di parlare. La stessa cosa si verificò, notte dopo notte, per molti giorni. Alla fine la piccola era pallida, triste, non mangiava e piangeva sempre. A quel punto i suoi genitori, adirati, convocarono di nuovo Clippy –Per quale motivo Allegra non sogna più nulla di bello?– chiesero. La fatina trasecolò. Illustrazione: Gisella Germano –Non capisco Maestà! Porto la polvere dei sogni alla Principessa tutte le sere, perciò questo non dovrebbe accadere!– disse mortificata –Ma ho intenzione di scoprire cosa sta succedendo!– dichiarò e usci volando da una finestra della sala del trono. Gironzolò per il reame all'imbrunire, prima di iniziare il suo solito giro e ciò che sentì la spaventò. Moltissimi dei suoi bambini non sognavano più e tutti, senza eccezione, avevano avuto a che fare con Amelia e le avevano regalato i loro sogni. Pensò, quindi, di Andare da lei per chiederle spiegazioni. Una volta arrivata, sbirciò da una finestra e vide una stanza con le pareti ricoperte da scaffali pieni di centinaia di scatolette di ogni forma e colore. In un angolo c'era un grosso armadio, mentre al centro stavano un tavolo ed una sedia. Mentre guardava incuriosita, Amelia entrò nella stanza, prese una delle tante scatolette, la posò sul tavolo, si sedette e la aprì. Clippy rimase a bocca aperta, dalla scatola uscirono le immagini di quattro bellissimi cavalli bianchi al galoppo in riva al mare. La giovane fata ebbe l'impressione che, mentre Amelia le fissava intensamente, quelle immagini sbiadissero. Il giorno dopo, alla stessa ora, la fata riaprì la scatoletta e si rimise a contemplare quei cavalli che, dopo poco, scomparvero. Clippy non sapeva cosa pensare, così decise di volare fino a Picco Ardito, la vetta più alta di Magilandia, sulla quale abitava Biancomago, il capo delle Federazione dei maghi e delle fate. Arrivata in cima entrò nella grotta e si trovò in un antro buio e silenzioso. Pareva non esserci nessuno, la fatina chiamò: –Biancomago!, Biancomago! All'improvviso una voce tonante le rispose: –Chi sei tu che disturbi il mio riposo? –Sono Clippy, la fata dei sogni–, rispose intimorita, –Amelia si fa regalare i sogni dai bambini, loro adesso sono tristi e... Illustrazione: Gisella Germano Non riuscì a finire la frase perché ci fu un boato, seguito da una luce accecante. Comparve un vecchio con la barba argentea che disse con tono severo: –Raccontami di Amelia!– Clippy raccontò di Amelia e dei bambini che non sognavano più e mentre raccontava il mago diventava sempre più irrequieto ed accigliato. Poi Biancomago recitò una formula magica: –Orsù unicorni non esitate, venite da me svelti volate!–. In un attimo comparse una slitta d'argento, trainata da quattro unicorni alati. Il mago vi salì ed ordinò a Clippy di fare lo stesso. Lei fece appena in tempo a sedersi che la slitta sfrecciò nel cielo grigio, diretta a casa di Amelia. Arrivati a destinazione il vecchio mago bussò con forza alla porta, la fata aprì riluttante balbettando: –Bi... Biancomago che che piacere vederti!– –Bando alle ciance–, le intimò lui –So benissimo che stai rubando i sogni ai bambini di Cimagelata! E tu sai che è assolutamente proibito dalle nostre leggi!–. Amelia ammutolita, fissava il mago sempre più adirato e il suo bastone d'argento che mandava bagliori sinistri ogni qualvolta lo puntava verso di lei. Anche Clippy stava lì impalata, spaventata dalla rabbia di Biancomago e dalla potente magia che lui emanava. –Amelia!– tuonò il mago –attraverso l'enorme magia contenuta nei sogni dei bambini, volevi diventare sempre più potente per prendere il mio posto a capo della nostra Federazione. Ma così facendo ti sei macchiata di un crimine orrendo. Privare i bambini dei loro sogno equivale a privarli dell'infanzia, quindi ora io ti punirò in maniera altrettanto crudele– detto ciò mormorò: –Adesso! Subito! Obbedite a me, tutti i poteri fuori da te!– Udite quelle parole, la fata lanciò un urlo disperato, mentre dal suo corpo uscivano tantissime sfere luminose, che si misero a roteare in aria. Clippy non capiva cosa stesse succedendo e Biancomago la rassicurò –Non temere mia piccola fata, i nostri poteri, una volta fuori dal corpo che li controlla, hanno volontà propria e rimangono in aria fino a che non trovano un altro mago o un'altra fata a cui affidarsi e la loro, è sempre la scelta giusta–. In quel momento le luci si bloccarono poi, una ad una, si diressero verso Clippy, dissolvendosi a contatto del suo corpo. Intanto Amelia, rannicchiata in un angolo, piangeva supplicando: –Ti prego! Perdonami! Ti supplico!–. Quando tutto finì, Biancomago parlò nuovamente: –Bene Clippy, ora i poteri di Amelia sono tuoi perché hai dimostrato di avere a cuore gli esseri umani che ti erano stati affidati. Perciò ora sei una fata molto potente e quando io andrò nel regno degli unicorni, tu prenderai il mio posto a capo della federazione. Fino ad allora torna dai tuoi bambini e rendili felici. In quanto a te, indegna creatura!– disse rivolto ad Amelia –Da ora in poi non avrai più nessun potere magico ma farai pozioni ed elisir da fattucchiera quale adesso sei– Amelia scappò urlando nel bosco e di lei non si seppe più nulla. Clippy tornò a far sognare i bambini di Cimagelata e la loro principessa e, molti anni dopo, diventò il capo della Federazione magica. Illustrazione: Gisella Germano Andrea Borrelli EROICA LUNA Perché c'è quella grossa palla luminosa in cielo anche se è buio e il sole non c'è più? Si chiedeva Elena sdraiata sul tappetino della cameretta mentre la fissava attraverso il vetro della porta finestra che dava sul balcone e si affacciava alla sera, poi ad un tratto si alzò di scatto e corse nell'altra camera a chiedere. Perché? Ti diranno, quando crescerai, altre cose, ma, per adesso, è giusto che tu sappia questo, da lassù ci protegge quella grossa palla luminosa, come la chiami tu e noi che le siamo grati, ripaghiamo tutto il suo coraggio alzando ogni volta la testa al cielo stregati da quella luce. Perché è coraggiosa? Cosa ha fatto? Molto tempo fa salvò la notte e i nostri sogni, dal giorno e dal sole che prepotenti volevano averla vinta su ogni ora con la propria luce. Quando è cominciata questa storia? Tutto ebbe inizio all'alba, il sole che ci illumina dalla mattina fino al tramonto, non voleva più scendere e capriccioso com'era non gli bastava più splendere fino al pomeriggio ma gonfio di tutti i suoi raggi e pieno di sé, pretendeva che tutti ammirassero la sua luce ad ogni ora del giorno e della notte, niente più buio, gli uomini avrebbero dovuto conoscerlo per sempre. Questo però non era giusto perché come la luce anche il buio ha bisogno di esistere ma il sole non ne voleva proprio sapere. Allora si sforzava ogni volta di più e ogni giorno il buio diminuiva piano piano per far posto solo alla luce, e lui si gonfiava e buttava con potenza i suoi raggi in modo che arrivassero sempre più forti e potenti a cancellare ogni ombra o tenebra che fosse. Tutto questo non fece bene a noi, né agli animali e le piante e con fatica ci spostavamo per ripararci senza poter riuscire più a riposar bene ma soprattutto a sognare. La luna incuriosita si avvicinò a vedere tutta quella stanchezza e sofferenza fino a farle tremare il cuore, nel vedere tutti quei piccoli esseri patire così tanta luce senza che potesse fare niente per aiutarli. Decise perciò di andare a parlare con il sole ma lui sempre di più preso dalla sua follia e dalle sue smisurate manie, le disse di farsi da parte altrimenti avrebbe bruciato anche lei. Al passare di un altro giorno e mentre la siccità ormai e la mancanza d'aria e d'acqua si faceva preoccupante, la luna decise di andare di nuovo a parlare con lui: “Scusami se ti disturbo ancora ma non puoi pretendere di cancellare la notte, tutti quelli che abitano lì col passare del tempo e con tutta la forza che ci metti, scompariranno e non ci sarà più nessuno ad ammirare la tua energia, e allora poi come farai? Rimarrai a guardarti da solo?” “Forse hai ragione ma come posso fare?” “Ho io una soluzione che permetta loro di riposarsi e faccia in modo di attenuare la tua luce, quel tanto che possa comunque arrivare a loro ma senza far male” “E come? Spiegati dai” “Illumina me, io di riflesso porterò la tua luce di notte in modo che loro la potranno conoscere e i tuoi raggi saranno sempre apprezzati, io lavorerò per te e per il tuo grande splendore” Il sole rimase un po' perplesso, pensava che nessuno l'avrebbe più visto di notte e questo avrebbe ridimensionato la sua grandezza ma d'altra parte continuando in quella maniera non ci sarebbe stato più nessuno che lo avrebbe potuto ammirare La luna sapeva che intaccando la vanità del sole e la paura di non riuscire più a farne sfoggio con nessuno l'avrebbe messo in difficoltà. Il sole tentennò ancora non sapendo che fare, ripensando a quello che sarebbe potuto accadere, accettò. Ma la luna non c'è sempre in cielo di notte, quando non c'è, il sole non si arrabbia? E perché non c'è sempre, non ci vuole poi così bene? Tu vuoi bene a lei? Io sì, mi piace tanto. Anche la luna soffre per la forza dei raggi del sole e allora per un periodo ha bisogno di riposarsi e scomparire per poi tornare più forte di prima a riflettere su di noi la luce del sole. E al sole sta bene? Fino a quando potrà continuare a vantarsi di sé sarà sempre contento e riuscirà ad accettare questo compromesso. Ma noi quando guardiamo al cielo di notte e vediamo la luna splendere non pensiamo mai al sole ma solo a lei. Sì è vero ma questo è un segreto che rimane solo tra lei e noi, quando alziamo gli occhi per guardarla e con il nostro sguardo di ammirazione la ripaghiamo di tutti i suoi sforzi, se la guardi con attenzione ti sembra che sorrida sempre, anche se sta soffrendo e alle volte la vedi più luminosa, è sempre contenta perché ci siamo noi a guardarla. E il sole non è geloso di questo? Il sole, un giorno andò dalla luna a chiederle: “Perché quando ti illumino con forza tu continui a sorridere sempre e non cedi mai, cosa nascondi? E la luna: “ Sono contenta di poter servire te e la tua luce”, mentre si girò verso la terra. Mamma credo che la luna mi abbia fatto l'occhiolino. Sì Elena è proprio così. E rimasero affacciate alla sera, sul balcone ad ammirare la luna. Antonella Vanucchi IL TRASLOCO Lele montò su un albero di mele deciso a mangiarsene una. Aveva scelto la più bella, fece l'atto di staccarla, quando udì un urlo: “Basta! Non si può mai dormire in pace!”. Il bimbo guardò da una parte e dall'altra ma non vide nessuno. Tentò nuovamente di staccare il frutto. Un altro grido gli assordì un orecchio. Esterrefatto, vide uscire dalla mela un bruco tutto arrabbiato. Bruco: Come si permette di disturbarmi, ho avuto una giornata terribile! Lele: Io, veramente... Bruco: Zitto! Ho fatto 30 traslochi in una settimana, e cinque questa mattina! E li ho fatti tutti da solo! Mai che si trovi un amico a darti una mano! Sono esausto! Mi ero appena assopito e lei, dico lei mi ha svegliato! Lele: Ma... Bruco: Zitto! Lei non sa come è diventata difficile oggi, la vita per un bruco! Belli i tempi di mio nonno. Entravi in una mela, te la succhiavi senza fretta e ci stavi settimane! E poi i traslochi erano ridotti al minimo: un letto, e uno spazzolino da denti. Ora, invece, oltre al letto e allo spazzolino, c'è l'armadio, le coperte, il divano, il televisore, la vasca d'idromassaggio! Se poi hai qualche passione musicale, è ancora peggio! Io suono il flauto, per cui non ho grossi problemi, ma chi suona il pianoforte? Muore durante il trasloco, tanta è la fatica! Che stress!! Lele: Scusi... Bruco: Zitto! Non mi interrompa! Noi bruchi, NON NE POSSIAMO PIÙ! Le mele sono diventate sempre più piccole, più elaborate, le mangi e non sanno di nulla. Vuoi mettere le mele di una volta! Grosse, saporite, una polpa morbida, non faticavi nemmeno a mangiarla! Guardi! Guardi i miei denti sono tutti sciupati! Mi sono dovuto mettere la dentiera! Che vergogna! E i veleni!... Quanti amici ho perso asfissiati da quel micidiali insetticidi... Oh! Oh! Mi scusi il pianto... Iiiihhh!! Non ci posso pensare... scusi, ho una crisi di panico! Non riesco a respirare... Per favore, mi faccia un po' di vento! Grazie, molto gentile... Insomma, le dicevo... Sì! Sono proprio sconvolto da questa era moderna e da questi continui traslochi! Il mio psichiatra mi dice sempre di pensare positivo! Ma dico io, come si fa! Lele: Forse... Bruco: Zitto! Non mi interrompa! Maleducato! Lo sa cosa ho dovuto fare? Ho dovuto inventare un allarme portatile. Ci sono i ladri di mele! Sono piccoli vermi, entrano dappertutto e ti portano via ogni cosa! Ma io so difendermi! Li caccio fuori con la musica! Altri sistemi non uso, sono un non-violento! Ah... che vita penosa fra gli uomini, le macchine agricole, gli insetticidi, l'invasione di vermi e le galline, sì proprio loro, quelle orribili bestiacce! Spesso siamo il loro pasto! Guardi, preferirei finire nel becco di una gallina che fare un ENNESIMO TRASLOCO! Lele: Zitto!! Ora, stia zitto lei! Signor Bruco mi ascolti, tra pochi giorni, le mele di questo albero saranno tutte raccolte, quindi, le toccherà fare un ALTRO TRASLOCO! Le propongo la soluzione di vivere con me, in un piccolo contenitore di vetro. L'aiuterò a portare le sue cose, le darò da mangiare mele buone. Insomma, le creerò una casa degna di un Signor Bruco, potrà andarsene quando vorrà! Non sono, poi, così cattivi gli esseri umani! Il bruco ci rifletté e disse: “Affare fatto! Qua la mano amico!” Lele, perplesso, pensò “Ma... i bruchi hanno le mani?” Fabrizio Casapietra I PESCI SMERALDINI Ho chiuso gli ultimi ricordi nel vecchio armadio puzzolente di naftalina: erano ormai ospiti indesiderati; ho guardato le mie scarpe sul tappeto, provando per loro una gioviale riconoscenza, intrisa di un leggero paternalismo da proprietario: poverine, hanno sempre ubbidito senza protestare per centinaia di chilometri, di cui non hanno mai indagato le cause o i fini. Tuttavia, ero agitato: tutto, nella mia vita, oscillava, e i punti di riferimento che mi creavo diventavano subito evanescenti; nessuno, neanche una donna rubiconda, mi sembrava tanto interessante da dover essere coinvolta nel vapore caotico della mia vita: Marcella, la mia ex fidanzata; gli amici veri e quelli falsi, che consideravo amici solo per abitudine; la mia casa sonnolenta: tutto questo era schiuma che si frangeva sugli scogli. Un giorno, sognai di trovarmi in un fondovalle, denso e soleggiato, in cui ogni albero sembrava contento solo della sua briosa inclinazione ad esistere: tanto che anche il suo piegarsi diventava un gesto dettato da una rapita pienezza di vita. Sotto il solleone, pescavo in un laghetto; ad un tratto, il fondo del lago balenò di una luce che screziava l'acqua, dando l'idea di un cristallo fatto di movimenti lingueggianti e isterici. Allora provai a lanciare un amo ad uncino là dove il brillio era più fitto: quando lo tirai su, mi apparve un cesto pieno di esseri quasi smeraldini che ballonzolavano disinvolti e poi si fermavano all'unisono, come se qualcosa di visibile soltanto a loro li avesse spaventati: o suggestionati soltanto. Quando posai il cesto per terra, i pesci, attoniti, mi guardavano, come se si aspettassero qualcosa da me: era come se fossero convinti che ad un mio cenno avrebbero potuto liberarsi di un peso, mettersi a ballare gioiosi fra le pietre porose disseminate sulla riva. Poi, all'improvviso, mi sembrò che la bocca di uno di quei pesci si aprisse per dirmi qualcosa con un balbettio nascosto, uno stridìo parlante che sembrava annunciato da un ventriloquo. Era un messaggio cifrato che decrittavo inconsapevolmente, con l'aiuto di un'intelligenza che atterrava nelle piste del mio cervello da lande sconosciute. Mi svegliai con l'impressione che le lenzuola fossero il lago su cui avevo galleggiato supino, e il cuscino una nuvoletta riflessa dall'acqua; un foglietto che avevo lasciato sul comodino mi stupì: oltre al promemoria di un appuntamento lavorativo, c'era una scritta che non avevo mai tracciato, con lettere aguzze che si perdevano in strani sbuffi. Dicevano: “Alzati e riposati alla fine della visione di Petzalcoatl”. Proprio per la prossima settimana avevo progettato un viaggio in Perù. Quando arrivai a Lima, pensai più a cercare informazioni su questo leggendario re nelle biblioteche pubbliche che a godermi la vacanza con i consueti spassi per i turisti. Cosa c'era in questa visione? Cosa poteva simboleggiare? In quale circostanza si era prodotta? Dopo vari tentativi, mi imbattei in una pagina un po' storica, un po' leggendaria, che riguardava una visione che ebbe questo re mitico, Petzalcoatl, famoso a causa delle sue guarigioni di folte schiere di tubercolotici, blenorragici, diabetici, ammalati di cancro e di enfisemi: esse consistevano nel cospargere i corpi degli ammalati di estratti di scaglie tratte da misteriosi pesci, che irradiavano piccoli raggi smeraldini; le scaglie venivano poi mischiate a trucioli di palissandro, a cinnamomo e aloe. La foto di una pittura illustrava il re che sfiorava, con un gesto benedicente, i pesci ingranditi alla misura del suo capo, ringalluzzendoli di adorazione. Ricordai subito gli stessi raggiolini che tanto mi avevano incuriosito nei pesci che avevo pescato: inoltre, mi balenò in mente quella sorta di domanda saggia che avevano negli occhi pellucidi, percorsi da fatiche insondabili: queste domande erano anche briciole di certezze prelibate, che si crogiolavano in spicchi di paradisi che solo loro potevano annusare. Avrei voluto chiedere ai pesci il loro nome, fare conoscenza con loro. Nel libro, al di sotto della didascalia, c'era una scritta che diceva: “Coloro che hanno visioni si sentono guardiani della Conoscenza, immaginandola in loro: poi imparano a donarla, senza temere che si esaurisca: allora possono davvero riposare e il loro riposo è vittorioso”. Vera Bonaccini PAOLA, PACO E POCO VERSO IL PORTO DI CHIMICHANGA Per il suo ottavo compleanno la nonna aveva regalato a Paola una copia de “L'Isola del tesoro”. La mamma, come al solito, si era arrabbiata perché, secondo lei, i regali della nonna erano sempre regali da maschiaccio, ma Paola quel libro lo aveva adorato! Le avventure di Jim Hawkin, di Long John Silver, di Billy e del Capitano Flint l'avevano stregata! Sognava di trovarsi alla guida di un galeone, circondata da una ciurma di pirati, a veleggiare nel mar dei Caraibi in cerca di tesori sepolti in qualche isola misteriosa piena di avventure. Era riuscita a convincere il papà a costruirle una piccola spada di legno, mentre la nonna le aveva cucito un bellissimo tricorno in feltro da cui non si separava mai. Ogni pomeriggio, dopo la scuola, prendeva il libro sottobraccio e andava a leggere accanto al piccolo fiume che si trovava vicino a casa, la cosa più simile al mare nelle vicinanze. Avrebbe voluto vivere sulla costa, davanti al mare, invece che in quel piccolo paesino di montagna tanto noioso. Quella Domenica, Paola si recò al fiume subito dopo pranzo. Poggiò la spada accanto a sé e, col tricorno ben calato sulla testa, si appoggiò al tronco di un abete, iniziando a leggere: “Essendomi stato chiesto dal nobile Trelawney, dal dottor Livesey e dagli altri gentiluomini, di scrivere con ogni dettaglio dell'Isola del Tesoro, dall'inizio alla fine, senza tralasciare nulla...” Si interruppe quasi subito, distratta da uno strano fruscio proveniente da un gruppo di canne poco distante. Cercando di fare meno rumore possibile, poggiò il libro accanto a sé, sostituendolo prontamente con la spada; era cresciuta in quei boschi, sapeva che non erano pericolosi, ma, come diceva sempre la nonna: “La prudenza non è mai troppa.” Dopo poco, tendendo le orecchie, sentì due vocine provenire dal canneto. “È lei, ti dico, è sicuramente lei. Indossa anche il tricorno, guarda.” “Allora vai a parlarle, no?” “No, vacci tu. Io ti aspetto qui.” Incuriosita dalla strana situazione, Paola si alzò e, tendendo la spada di fronte a sé, la utilizzò per scostare le canne che le ostruivano la visuale. Le apparve una buffa coppia di scoiattoli dal pelo rossiccio che, colta alla sprovvista, restò a fissarla immobile con la bocca spalancata. “E voi chi siete?” chiese, meravigliata. Da quando gli scoiattoli sapevano parlare? La reazione dei due la lasciò, ancor più, senza parole. Ripresisi dallo spavento, infatti, si gettarono entrambi in ginocchio, incrociando le zampine superiori come se stessero pregando. “Capitano! Finalmente l'abbiamo ritrovata! È un miracolo! Dobbiamo imbarcarci subito! Non c'è tempo da perdere! Dobbiamo raggiungere l'isola di Tapioca entro sera!” Paola sgranò gli occhi per la sorpresa. Osservandoli meglio si accorse che entrambi indossavano piccoli stivali che arrivavano a coprire quasi del tutto la zampe posteriori e dei cinturoni in cui erano infilati, a mo' di spada, dei grossi spilloni con la capocchia colorata, identici a quelli che usava la nonna quando cuciva. Lo scoiattolo di destra portava poi una minuscola benda di cuoio sull'occhio sinistro, mentre l'altro aveva un piccolo uncino al posto di una zampa. “Siete scoiattoli pirati?” domandò Paola, sempre più stupita ed eccitata. “Ci può giurare, Capitano! Io sono Paco e lui è Poco, rispettivamente Quartiermastro e Timoniere della Taccola, il suo onorevole brigantino, attualmente ormeggiato nel porto di Chimichanga in attesa di salpare al suo comando!” le rispose con un inchino lo scoiattolo con la benda. “È... è bellissimo, ma non credo di poter partire...” disse Paola, voltandosi verso la casa “La mamma si preoccuperebbe e poi...” “Le prometto che saremo di ritorno per l'ora di merenda, Capitano.” la rassicurò Poco. Paola era combattuta; stava succedendo quello che aveva sempre desiderato ma ora non sapeva se partire sarebbe stata una buona idea. Si voltò di nuovo verso casa; la nonna era uscita a stendere il bucato e, scorgendola, le sorrise, agitando un braccio in segno di saluto, quasi ad augurarle buon viaggio. Questo le diede coraggio. Si sistemò bene il tricorno sulla testa. “Ok, partiamo, ma per merenda dobbiamo essere qui!” Paco e Poco applaudirono, saltellando felici. “Solo... come ci arriviamo al porto di Chimichanga da qui?” chiese, piena di gioia e di aspettative. “Con quello.” rispose Paco, indicando un mezzo guscio di noce che galleggiava poco distante. Paola lo guardò dubbiosa. “Ma è piccolo... non credo ci staremo.” “Si fidi, Capitano. Ci staremo eccome.” E, in effetti, magicamente, ci stettero. E anche comodi. Mentre Paola, Paco e Poco veleggiavano sereni verso Chimichanga, la mamma raggiunse la nonna fuori di casa. “La bambina dov'è?” “È andata al fiume” rispose la nonna “Guarda, è lì che dorme, accanto all'abete.” La mamma si girò e vide Paola poggiata al tronco, il libro aperto abbandonato sulla pancia ed il tricorno mezzo calato sugli occhi. Sorrise. “Guarda che espressione beata, chissà cosa starà sognando...” “ Chimichanga.” sussurrò la nonna. “Hai detto qualcosa?” “Niente, niente. Tra poco la sveglio io per portarle la merenda.” “D'accordo.” disse la mamma rientrando in casa. Wendy riprese a stendere il bucato, sorridendo tra sé e sé. La passione per i pirati era proprio di famiglia. Illustrazione: Vera Bonaccini