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Il dolore

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Il dolore
Il dolore morale corrisponde alla possibilità della trasformazione di esperienze spiacevoli in dolore
della mente, manifestandosi sempre attraverso processi di elaborazione essenzialmente umani.
Questi sono i processi che intervengono nei casi di mancato raggiungimento di una meta, di perdita
di una persona cara, di una delusione d’amore, tutti esempi in grado di causare dolore morale. Il
dolore viene considerato come un sintomo degli stati depressivi caratterizzato da tristezza profonda
e cupa, non alleviata da conforto o sollecitazioni esterne. Nell’adolescenza la forma di dolore più
comune è quella causata da una delusione: ti senti infelice, hai la sensazione di vivere in un mondo
vuoto, abbandonata ed è come se non esistesse nessun’altro all’infuori della persona che ti ha
ferita. Nel corso della vita ogni uomo ha provato l’esperienza della solitudine, e quando l’ha
confrontata con gli altri si è accorto che non ne esiste una sola. Ognuno di noi ha un modo proprio
di rappresentarsela, di viverla e perché no, d’immaginarsela. La solitudine è un problema che
tocca drammaticamente milioni di persone. Si tratta quindi di capire quando la solitudine è
realmente un handicap alla qualità della vita e quando invece è il soggetto che non sa gestirla. La
solitudine presenta moltissime sfaccettature: ve ne sono di forzate, in genere imposte dalle
circostanze della vita, quali la prigionia, gli handicap e la malattia, l’isolamento percettivo o
l’abbandono di una persona cara. Vi sono poi solitudini volute e ricercate. Quelle del creativo,
dell’asceta o di chi, nella quotidianità, sente il bisogno di ricercare un momento suo, per recuperare
le energie disperse nel mondo, per ritrovare quella parte soffocata dall’affanno della vita, quando,
invece, non è altro che una fuga dalle situazioni che non riesce a gestire. Vi sono ancora solitudini
imposte dalla società. I mezzi di comunicazione, i mass-media, gli slogan pubblicitari che invitano
ad isolarsi, a distinguersi esprimendo modi di vita “unici” che accentuando l’individualismo. In realtà
la meta proposta è solo illusoria, dato che è raggiungibile solo con comportamenti ed oggetti uguali
per tutti. Questi messaggi, per loro natura contraddittori, alimentano la fuga e la ricerca di un
rifugio che, visto come un luogo d’opposizione all’esterno, limita la crescita e lo sviluppo
dell’autonomia individuale.
La solitudine forzata: Esistono dei casi in cui l’individuo non può sfuggire alla solitudine:
benché la società tenti di deprezzarla, esistono delle condizioni in cui l’esterno impone alle
persone la solitudine. In questo caso all’uomo non rimane altro che soccombervi o
servirsene. In alcuni casi, la solitudine forzata è diventata, per qualche personaggio della
storia, la condizione che ha permesso l’espressione della fantasia. La creatività ha avuto
l’opportunità di esprimersi, tant’è che alcune delle più grandi espressioni artistiche sono
nate in condizioni d’isolamento.
La solitudine voluta: Si parla molto del desiderio e della paura della solitudine, poco della
capacità d’essere soli. Durante il nostro sviluppo psicofisico, se non abbiamo subito dei
traumi gravi, dall’infanzia ad oggi, abbiamo sperimentato, magari gradualmente, un essere
soli anche in presenza dell’altro. La fiducia, costruita dentro di noi negli anni della crescita,
ci ha permesso di controllare la solitudine di riconoscere i sentimenti che animano la parte
profonda della nostra mente e di esprimerli. La solitudine diviene, così, condizione
privilegiata e da ricercarsi per aiutare l’individuo ad integrare i pensieri interni con i
sentimenti. La meditazione, la preghiera e, a livello inconscio, il sonno operano questa
trasformazione.
Eugenio Montale nacque a Genova il 12 ottobre
del 1896, e trascorse l'infanzia e l'adolescenza tra
Genova e Monterosso, luoghi e paesaggi divenuti
poi essenziali per la sua poesia.
Di salute malferma, compì studi irregolari,
nutrendo una forte passione, oltre che per la
letteratura e la poesia, anche per il canto.
Nel 1917 venne chiamato alle armi come ufficiale
di fanteria.
Dopo la guerra strinse rapporti sia con gli scrittori
che a Genova frequentano il Caffè Diana in
Galleria Mazzini (in particolar modo con Camillo
Sbarbaro) sia con il gruppo torinese di Piero
Gobetti, che negli anni venti cercò di attuare una
resistenza culturale al fascismo, in opposizione al
futurismo e al dannunzianesimo.
Nel 1925 pubblicò, proprio per le edizioni di Gobetti, il suo primo libro di poesie, Ossi di seppia, e firmò il
manifesto antifascista di Croce.
Sempre nel '25 uscì sulla rivista milanese "L'esame" l'articolo Omaggio a Italo Svevo, che contribuì in modo
determinante alla scoperta dello scrittore triestino, di cui negli anni successivi divenne amico. Nel '26
conobbe Saba e il poeta americano Ezra Pound, e da allora indirizzò una viva attenzione alla letteratura
anglosassone. Nel 1927 raggiunse l'indipendenza economica dalla famiglia ottenendo un impiego a Firenze
presso la casa editrice Bemporad; e nello stesso anno conobbe Drusilla Tanzi, moglie del critico d'arte Matteo
Marangoni, che più tardi divenne sua compagna, ma che sposò solo nel 1962. Nel '29 fu nominato direttore
del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, ma da tale incarico venne esonerato nel '38, essendosi sempre
rifiutato di iscriversi al partito fascista. In quegli anni Montale fu uno dei principali animatori della vita
intellettuale fiorentina: frequentò il noto caffè degli ermetici "Le Giubbe Rosse", strinse amicizia con i
maggiori scrittori italiani del tempo (tra cui Vittorini e Gadda), ed inoltre allargò sempre più i suoi interessi
alla cultura europea.
Negli anni bui della guerra e dell'occupazione tedesca visse attraverso collaborazioni a riviste e soprattutto
grazie ad una varia attività di traduttore.
Nel 1939 pubblicò la sua seconda raccolta di poesie, Le occasioni.
Nel 1943, a Lugano, uscì Finisterre, un volumetto di liriche scritte tra il '40 e il '42, esportato
clandestinamente in Svizzera.
Finita la guerra, si iscrisse al Partito d'azione, ricevette un incarico culturale dal Comitato Nazionale di
Liberazione e fondò, con Bonsanti e Loria, il quindicinale "Il Mondo".
La sua esperienza politica fu tuttavia assai breve: le sue aspirazioni ad un'Italia liberale ed europea, estranea
a chiusure nazionali e provinciali, vennero fortemente deluse dallo scontro creatosi nel dopoguerra tra il
nuovo clericalismo e la sinistra filo stalinista.
All'inizio del 1948 si trasferì a Milano, dove lavorò come giornalista e critico letterario al "Corriere della Sera"
e al "Corriere d'Informazione".
Nel 1956 uscì la sua terza raccolta di poesie, per lo più risalenti agli anni della guerra e dell'immediato
dopoguerra, La bufera e altro.
Negli anni Cinquanta e Sessanta venne considerato il più grande poeta italiano vivente, modello di cultura
laica e liberale, tanto che ricevette diversi riconoscimenti, culminanti nel 1967 nella nomina a senatore a vita,
e nel 1975 nel premio Nobel per la letteratura.
Dopo un periodo di completo silenzio poetico uscì nel 1971 Atura, nel 1973 Diario del '71 e del '72, nel 1977
Quaderno di quattro anni; ed infine nel 1980, caso unico per un autore contemporaneo vivente, venne
pubblicata l'edizione critica della sua intera Opera in versi.
Trascorse gran parte della vecchiaia nell'appartamento milanese di Via Bigli 15.
Morì a Milano il 12 settembre 1981.
SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO:
(da ossi di seppia 1925)
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato
Spesso ho incontrato il malessere:
era torrente che incontrava un ostacolo
nel fluire,
l’accartocciarsi di una foglia,
secca e accartocciata,un cavallo caduto
per la fatica
Non ho conosciuto altro bene all’infuori
del miracolo
prodotto da un atteggiamento di distacco
dal male tipico degli dei.
Era una statua nella sonnolenza solitaria
del mezzogiorno, una nuvola e un falco
che vola alto nel cielo
MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO:
(da ossi di seppia 1916)
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Trascorrere le ore del pomeriggio pallido
e assorto immersi in una luminosità
accecante e nel torpore della calura,
ascolta tra i pruni e gli sterpi i rumori
improvvisi e secchi dei merli, il rumore di
serpi.
Nelle crepe del suolo o sulla pianta
erbacea, spiano le file rosse delle
formiche: che ora si rompono ed ora si
intrecciano sulla sommità di minuscole
biche.
Osservare tra le fronde lo scintillio del
mare,mentre si sente il frinire tremulo
delle cicale proveniente dalle sommità
delle alture aride e desolate.
E andando nel sole che abbaglia si sente
con triste stupore com’è tutta la vita e il
suo dolore in questo camminare lungo una
muraglia che ha in cima frammenti di
bottiglia messi sui muri per impedire che
vengano scavalcati.
Giacomo Leopardi nasce a Recanati nel 1798, da famiglia
nobile ma povera. Il padre, cattolico e conservatore, aveva
messo insieme una vasta biblioteca, ricca perlopiù di opere
ecclesiastiche e scientifiche. Leopardi si forma sotto la
guida di precettori privati e come autodidatta nella
biblioteca paterna. Si mette in luce con alcuni studi
filologici attorno al 1815; l'anno successivo è colpito da
una grave malattia, che indebolisce per sempre il suo
fisico: compone la lirica. L'appressamento della morte". Si
allontana sempre più dalla religione, e la sua predilezione
per l'età classica lo isola dagli ambienti letterari del tempo,
romantici e medievalisti. Tenta quindi di mettersi in
contatto con i pochi classicisti scrivendo una lettera alla
loro rivista di riferimento, la "Biblioteca italiana", in cui
esprime il suo antiromanticismo in risposta a Madame De
Stael; la lettera viene però ignorata.
Del 1817 sono i primi appunti dello "Zibaldone", collage di riflessioni che verrà terminato solo nel 1832. Nel
1817 Leopardi si innamora segretamente della cugina, ospite passeggera della sua casa; nel 1818 conferma
il suo antiromanticismo nel "Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica", e scrive due canzoni
patriottiche. Nel 1819, dopo una grave malattia agli occhi e non sopportando più la squallida vita di
Recanati, tenta di procurarsi un passaporto e fuggire a Milano, ma viene scoperto dal padre; subito dopo
scrive gli idilli "L'infinito" e "La sera del dì di festa". Convintosi ormai che la vita umana sia permeata di
infelicità, nel 1822 scrive le canzoni "Bruto minore" e "Ultimo canto di Saffo". In quell'anno il padre gli
permette di andare a Roma a cercare un impiego; ma in quella città l'unica erudizione ricercata era di tipo
antiquario, e Leopardi rimane isolato; gli viene offerto di entrare nell'amministrazione pontificia, divenendo
prelato ma non prete; ma egli rifiuta. Tornato a Recanati, il completamento della sua visione del mondo è
riflesso negli ultimi appunti dello Zibaldone e nelle "Operette morali" scritte per la maggior parte in questo
periodo. Nel 1825 l'editore Stella lo invita a Milano, commissionandogli l'edizione completa delle opere di
Cicerone; annoiato dall'ambiente culturale milanese, preferisce lavorare a Bologna, compilando per Stella
due antologie, una di prosa, l'altra di poesia, di autori italiani: le "Crestomazie". Nel 1827 soggiorna per
breve tempo a Firenze; è poi a Pisa, dove compone le canzoni "Il risorgimento" e "A Silvia", e di nuovo a
Recanati. Qui, tra 1828 e 1830, compone altre pietre miliari della sua opera poetica: "Il sabato del villaggio",
"La quiete dopo la tempesta", "Le ricordanze", "Il canto notturno di un pastore errante dell' Asia". Intanto le
sue condizioni fisiche si sono aggravate, ed accetta l'invito dei suoi amici fiorentini a trasferirsi là, dove
percepirebbe un assegno mensile. Nonostante i buoni rapporti, la sua opera è da essi criticata, in quanto
priva di accenti religiosi e di fiducia nel progresso. L'infelice amore per Fanny Targioni Tozzetti ispira al poeta
altre cinque poesie, tra cui "A se stesso", "Amore e morte"... Leopardi si lega poi all'esule napoletano
Antonio Ranieri, seguendolo a Roma e a Napoli. Le polemiche attorno alla sua opera provocano in lui una
forte reazione contro il liberalismo cattolico dei circoli fiorentini e lo spiritualismo imperante; scrive così
opere intrise di sferzante polemica. La sua produzione poetica si conclude invece con i canti "Il tramonto
della luna" e "La ginestra". Muore a Napoli nel 1837.
IL PASSERO SOLITARIO:(Da Canti del 1835)
D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Dall'alto della torre del vecchio campanile, tu,
passero solitario, erri per la campagna cantando
finché viene sera; e l'armonia regna nella tua valle.
La primavera brilla tutt'intorno e si manifesta sui
campi così vividamente che il cuore si intenerisce.
Senti le pecore belare, le vacche muggire; e gli altri
uccelli, contenti, compiono mille giri nell'aria
festosa contenti, trascorrendo così il loro tempo
migliore: tu, invece, guardi il tutto in disparte
pensieroso; non ti piace la compagnia, non voli,
non ti curi dell'allegria, eviti i divertimenti, canti
solamente e così trascorri il periodo migliore
dell'anno e della tua vita. Ahimè, quanto assomiglia
il tuo costume al mio! Divertimento e
spensieratezza, tenera famiglia della giovinezza, e
amore, fratello della giovinezza, rimpianto amaro
dell'età matura, io non curo, non so come; anzi
fuggo lontano da loro; quasi estraneo al mio luogo
nativo, trascorro la primavera della mia vita.
In questo giorno di festa, che ormai giunge a
termine, si usa festeggiare al mio paese per
tradizione. Senti per l'aria serena il suono
delle campane, senti spesso lo scoppio di
colpi di fucile, che rimbomba lontano di
paese in paese.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si
spande;
E mira ed è mirata, e in cor
s'allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna
uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il
guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani
monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le
stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è
frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia vóto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirornmi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro
La gioventù del luogo, tutta vestita a festa,
abbandona le case e si sparge per le vie; e
guarda ed è guardata, e in cuore si
rallegra. Io, solitario in questa parte
dimenticata della campagna, rimando a
tempi migliori ogni gioco e divertimento: e
intanto lo sguardo steso nell'aria soleggiata
è ferito dal Sole che tramonta tra i monti
lontani, dopo una giornata serena, e
cadendo, sembra dileguarsi e che dica che
la gioventù sta finendo. Tu, solitario
uccellino, giunto alla fine della vita che il
destino ti concederà, non ti dorrai della
tua vita certamente;
perché ogni nostro desiderio è frutto
della natura. A me, se non mi sarà
concesso di evitare di varcare la
detestata soglia della vecchiaia, quando i
miei occhi non susciteranno più nulla nel
cuore delle altre persone, e il mondo
apparirà loro vuoto, e il giorno futuro
parrà più noioso e doloroso del
presente, che sarà di questa voglia? Che
sarà di questi anni miei? Che sarà di me
stesso? Ah, mi pentirò, e più volte, mi
volgerò al passato sconsolato.
Nasce a San Mauro di Romagna nel 1855 (quarto di dieci
figli). Il padre, amministratore di una vasta tenuta agricola
dei principi Torlonia, fu assassinato il 10 agosto del 1867 per
motivi mai chiariti, ma si pensa a rivalità sul piano
professionale e politico. Il Pascoli allora aveva 12 anni e si
trovava a studiare nel collegio dei padri Scolopi a Urbino,
dove rimase fino al 1871. Tra il 1868 e il 1871 gli moriranno
anche la madre, una sorella e un fratello. Questi lutti,
soprattutto quello del padre, segnarono profondamente la
sensibilità del giovane Pascoli. Egli proseguì gli studi al liceo
di Rimini e poi dal '73, con una borsa di studio vinta dopo un
esame sostenuto alla presenza del Carducci, poté iscriversi
alla facoltà di Lettere dell'Università di Bologna. Qui si
avvicinò agli ambienti del socialismo emergente,
caratterizzato dall'anarchismo di Andrea Costa, e si iscrisse
all'Internazionale socialista. Privato della borsa di studio per
aver partecipato a una manifestazione contro il ministro
dell'Istruzione Ruggero Bonghi, vive in grande miseria e per
ben cinque anni (1875-80) è costretto a interrompere gli
studi.
Nel '76 gli muore un altro fratello. Nel '79 viene coinvolto nelle agitazioni che
seguirono alla condanna a morte dell'anarchico Giovanni Passanante, che attentò alla
vita del re Umberto I a Napoli: arrestato, per più di tre mesi resterà in carcere. Verrà
prosciolto con formula piena, anche per la testimonianza scritta del Carducci. Il
carcere fu comunque un'esperienza che lo segnò, interiormente, in maniera decisiva.
Decise di abbandonare l'attività politica e di laurearsi; con l'aiuto del Carducci ottiene
nel 1883 la cattedra di latino e greco al liceo di Matera. Nel 1887 passa a Livorno,
dove rimarrà sette anni. Nel corso di questi anni, per aumentare il magro stipendio si
dedica a vari incarichi intellettuali e a lezioni private. Nel 1895 con la sorella Maria, si
trasferisce a Castelvecchio di Barga in provincia di Lucca. Nel '91 (era ancora a
Livorno) pubblica il suo primo volumetto di poesie, Myricae, che resta la sua opera
più famosa (l'altra è Canti di Castelvecchio del 1903), mentre l'anno seguente vince il
primo premio al concorso internazionale di poesia latina ad Amsterdam (lo vincerà
per altre 12 volte!). La sua fama di latinista gli permette nel '95 di abbandonare
l'insegnamento liceale per quello universitario. Diventa docente universitario
incaricato di latino e greco a Bologna. Nel 1905 è nominato titolare della cattedra di
letteratura italiana dell'Università di Bologna, succedendo al Carducci, che aveva
chiesto il collocamento a riposo, e che aveva espresso parere favorevole riguardo a
tale successione. Il 16 gennaio del 1906 Carducci muore e Pascoli si propone come
suo successore. Nel 1907 tiene la commemorazione ufficiale del Carducci. Il 26
novembre del 1911 pronuncia a Barga un discorso in favore dei feriti nella guerra
libica. Il 18 febbraio del 1912 si ammala di cirrosi epatica che lo costringe a lasciare
Castelvecchio per cercare cure più idonee a Bologna. Nel marzo dello stesso anno
vince per l'ultima volta la XII Medaglia d'oro al concorso di poesia latina di
Amsterdam in Olanda. Il 6 aprile muore a Bologna assistito dalle sorelle e da Falino.
LAVANDARE:
Nel campo mezzo
grigio e mezzo nero
resta un aratro senza
buoi che pare
dimenticato, tra il
vapor leggero.
E cadenzato dalla gora
viene
lo sciabordare delle
lavandare
con tonfi spessi e
lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica
la frasca,
e tu non torni ancora al
tuo paese!
quando partisti, come
son rimasta!
come l’aratro in mezzo
alla maggese.
(Da Myricae del 1903)
Nel campo che è per metà
arato per metà no
c’è un aratro senza buoi che
sembra
dimenticato, in mezzo alla
nebbia.
E scandito dalla riva del fiume
si sente
il rumore delle lavandaie che
lavano i panni,
sbattendoli, e lunghe
cantilene:
Il vento soffia e ai rami
cadono le foglie,
e tu non sei ancora tornato!
da quando sei partito sono
rimasta
come un aratro abbandonato
in mezzo al campo.
Giuseppe Ungaretti nasce l'8 febbraio 1888 ad
Alessandria d'Egitto da genitori lucchesi. Fino al 1905
frequenta l'École Suisse Jacot e approda nel mondo
della letteratura grazie alla lettura dei maggiori
scrittori moderni e contemporanei, ed entra in
rapporti epistolari con Giuseppe Prezzolini, allora
direttore della "Voce". Degli anni africani rimarrà in
lui anche la memoria di un paesaggio fantastico e
irreale, che, rapito e trasfigurato dal sogno, si
ritroverà nei suoi versi (cfr. Notte di Maggio; Ricordo
d'Affrica). Nel 1912 attraversa l'Italia per giungere a
Parigi dove frequenta il Collège de France e La
Sorbonne ed ha la possibilità di seguire i corsi del
filosofo Henri Bergson. Nella capitale francese ha,
soprattutto, la possibilità di entrare in contatto con gli
ambienti dell'avanguardia, scrivendo versi e
conoscendo alcuni artisti e pittori come Apollinaire,
Picasso, Braque, De Chirico, Modigliani.
Nel 1914, ad una mostra futurista, prende contatto con il gruppo fiorentino (Papini,
Soffici, Palazzeschi), grazie ai quali pubblica nel 1915 le prime poesie su "Lacerba".
Sempre nel 1914, giunto in Italia, si arruola come volontario nella fanteria per
combattere nella Grande Guerra, e viene inviato a combattere sul Carso, da cui
produrrà le liriche pubblicate ad Udine nel 1916 con il titolo "Il porto sepolto". I versi
del periodo successivo appariranno nel 1919 in "Allegria dei naufragi". Le due raccolte
confluiranno, poi, nel volume "L'allegria" del 1931. Nel 1918, alla fine del conflitto,
torna a Parigi, dove sposa Jeanne Dupoix. Nel 1919 pubblica dei versi in francesi sotto
il titolo "La guerre" ed è corrispondente per "Il popolo d'Italia". Nel 1921 si trasferisce
a Roma e nel 1933 pubblica la raccolta "Sentimento del tempo". Si dedica all'attività di
giornalista, che, tra il 1931 e il 1934, lo porta a compiere numerosi viaggi in Egitto,
Olanda, Corsica e in diverse regioni italiane. Collabora con diversi periodici italiani. É
redattore di "Commerce" e condirettore di "Mesures".
Nel 1936 ricopre la cattedra di Letteratura Italiana presso l'Università di San Paolo in
Brasile, fino al 1942, quando, rientrato in Italia, insegna Letteratura Italiana
contemporanea presso l'Università di Roma. Nello stesso anno viene nominato
Accademico d'Italia e Mondadori pubblica le sue opere con il titolo "Vita di un uomo".
La morte del fratello Costantino (1937) e del figlio Antonietto (1939) caratterizzano la
prima raccolta poetica del dopoguerra, "Il dolore" (1947), al quale seguiranno "La
terra promessa" (1950), "Un grido e paesaggi" (1952) e "Il taccuino del vecchio"
(1961). Nel 1949 pubblica le prose in "Il povero e la città". Nel 1961 "Il deserto e
dopo". Ridotta la sua attività creativa, Ungaretti attende l'edizione completa e
definitiva dei suoi versi, pubblicati nel 1969 con il titolo "Vita di un uomo. Tutte le
poesie". Muore a Milano nella notte tra il 1 e il 2 giugno 1970. Nel 1974 esce il volume
degli scritti critici con il nome "Vita di un uomo. Saggi e interventi". Da ricordare le sue
notevoli tradizioni.
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo
buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
Natale
(Da L’Allegria del 1916)
Non ho voglia di camminare
in un intrico di strade
Sono molto stanco
Voglio essere lasciato solo
così come un oggetto
dimenticato in un angolo
Qui non si sente altro che il
caldo amico
Rimango vicino al calore del
camino con le quattro
giravolte fatte dal fumo
Nacque ad Arezzo nel 1304 da Ser Petracco, un notaio fiorentino che
faceva parte del gruppo dei Bianchi, esiliato come Dante nel 1302 in
seguito alla vittoria dei Neri, e da Eletta Canigiani. Nel 1312 il padre
si trasferì ad Avignone (lavorava presso la corte Pontificia) e collocò
moglie e figli a Carpentras, dove Francesco Petrarca cominciò a
studiare guidato da Convenevole da Prato. Seguì, insieme al fratello
Gherardo gli studi giuridici (iniziati a Montpellier nel 1316 e conclusi a
Bologna tra il 1320 e il 1326). Tornato a Avignone dopo la morte del
padre, frequentò il mondo elegante della città. Qui, il 6 aprile 1327,
nella chiesa di Santa Chiara, vide per la prima volta la donna che
amò per tutta la vita e a cui si ispira nelle sue opere poetiche in
italiano: Laura, identificata tradizionalmente con una Laura di Noves.
Attorno al 1330 prese gli ordini minori, entrando a far parte del clero:
lo scopo essenziale era quello di assicurarsi una rendita sicura. Entrò
quindi in rapporti di amicizia e di "clientela" con la potente famiglia
Colonna. Grazie alla protezione di questa famiglia entrò in contatto
con i più importanti intellettuali del tempo, poté studiare e possedere
libri costosi e rari, ed avere riconoscimenti pubblici come
l'incoronazione a poeta: l'8 aprile 1341, dopo che il re di Napoli
Roberto d'Angiò lo aveva "esaminato" per tre giorni, fu celebrato a
Roma, in Campidoglio, questa suggestiva cerimonia, la prima del
genere nei tempi moderni.
Nella biografia del Petrarca si evidenzia una sorta di irrequietezza che lo porta a viaggiare per
gran parte d'Italia e d'Europa (a partire dal 1333, quando si muove per la Francia, per le
Fiandre e la Germania), visitando luoghi, monumenti antichi, biblioteche. Periodicamente
tornava però a raccogliersi in operosa meditazione (nella composizione di opere o
nell'approfondimento di letture) in luoghi solitari come Valchiusa (vicino ad Avignone),
Selvapiana (presso Parma) e, negli ultimi anni, Arquà sui colli Euganei. Questa aspirazione alla
vita raccolta si esprime anche in operette come il De Vita Solitaria e il De Ocio Religiosorum. A
partire dagli anni '40 la fama del Petrarca cresce sempre più. Accolto ovunque con onori e
riconoscimenti, entra in contatto con varie nobili famiglie italiane (i Correggio di Parma negli
anni Quaranta, i Visconti di Milano tra il 1353 e il 1361, i da Carrara di Padova nell'ultimo
decennio della sua vita). Dopo il 1350 entra in stretti rapporti d'amicizia con Giovanni Boccaccio
(che lo considera un maestro spirituale e culturale): ma rifiutò una cattedra nello Studio di
Firenze, come rifiutò di li a poco il posto di segretario del cardinalato in Provenza offertogli dal
Papa. Varie vicende lo portano negli ultimi anni a rinchiudersi sempre più in se stesso: la morte
di Laura, avvenuta nel 1348 in seguito alla peste che infuriò in quegli anni in tutta l'Europa
(quella stessa che fa da cornice alla struttura del Decameron boccacciano), quella precoce del
figlio Giovanni (un'altra figlia, Francesca, nata nel 1343, vivrà con il padre fino alla sua morte),
il venir meno delle speranze di rinnovamento politico (il tentativo di Cola di Rienzo, fallito nel
1347), l'aggravarsi della corruzione ecclesiastica (gli ultimi anni della "cattività" avignonese:
solo dopo la morte del Petrarca il papato tornerà nella sua sede romana). Ad Arquà, dove si era
stabilito definitivamente dal 1370, morì nel 1374.
SOLO E PENSOSO:
(da il Canzoniere del 1342-1374)
Solo e pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi e lenti,
e gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio uman l'arena stampi.
Solitario e pensieroso i luoghi più abbandonati
vado segnando con il mio passo lento e
cadenzato
e rivolgo lo sguardo, attento ad evitare
ogni luogo toccato da orma umana.
Altro schermo non trovo che mi
scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d'alegrezza spenti
di fuor si legge com'io dentro
avampi:
Altro rifugio non so trovare che mi protegga
dall'attenzione ( indiscreta ) della gente;
< poiché > nei miei gesti privi di ogni serenità
esteriormente si intuisce come io, nell'intimo, arda
d'amore:
sì ch'io mi credo omai che monti et
piagge
e fiumi et selve sappian di che
tempre
sia la mia vita, ch'è celata altrui.
cosicché credo ormai che monti, pianure
fiumi, boschi conoscano di che tenore
è la mia vita, che pure è tenuta segreta agli altri.
Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch'Amor non venga
sempre
ragionando con meco, et io co·llui.
Del resto nessun angusto e solitario luogo
so trovare, in cui Amore non mi accompagni in
ogni istante
parlando con me ed io con lui.
E come dice un importante autore:” Tutto sarebbe più semplice se
nascessimo con le istruzioni per l'uso e la data di scadenza.”
Ma purtroppo non è così, sarebbe troppo semplice nascere..e già
sapere tutto!
Infatti ogni giorno è una lezione di vita..e ogni giorno c’è sempre
qualcosa di nuovo da imparare… ed è quello che noi stiamo facendo,
ma non da soli..
Perché sappiamo che al nostro fianco ci sarà sempre lei.. a indicarci
la “DIRITTA VIA”. Per ultima ma non meno importante delle altre,
la poesia della nostra:
(Da “ Tra un fiore colto e l’altro donato”)
Quei tuoi sguardi
Hanno trapassato la mia anima…
Come potevo fermare quell’abbraccio
Sbocciato da un istinto pacato
Che mi faceva intravedere
Quelle pieghe dell’anima
Che parlavano dei tuoi guai
E già mi appartenevano?
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