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TERZO CLASSIFICATO SEZIONE TESINA TRIENNIO Il cuore vivo, coltivato da una calda ed umile ragione. di Sara Annunziata, Fabiola Cantisani, Giustina Grassia, Nadia Tepedino della II B del Liceo Classico Marco Tullio Cicerone di Sala Consilina (SA) Docente Referente: Prof. ssa Maria Pica Non si può toccare l’alba se non si sono percorsi i sentieri della notte. Sentire e meditare, passione e ragione, testa e cuore sono quegli opposti che pongono ogni uomo a dover affrontare un conflitto interiore, poiché spesso siamo spinti dall’impeto e dall’ardore delle nostre azioni ma anche frenati dall’oggettività e lucidità della nostra mente. L’irrazionalità, l’istinto, la passione, nonché il ‘‘sentire’’, è ciò che si percepisce direttamente di una situazione, di un oggetto, di una persona con cui siamo a contatto, sensazione sempre immediata, del tutto spontanea e innata che ci spinge in direzioni che il nostro intelletto e la nostra interpretazione razionale ci vieterebbero. Pertanto ogni individuo si trova in un percorso che dirama in mille sbocchi: da un lato la passione e l’istinto che porterebbero a vivere pienamente la nostra esistenza, non curandoci delle conseguenze, dall’altro la riflessione e la razionalità che ci inducono certamente a discernere il bene dal male. Viene così a delinearsi, ingiustamente, la divisione tra cuore, da sempre espressione del sentimento e la ragione, sede della razionalità di ogni individuo. Non a caso ogni qual volta ci troviamo di fronte ad una decisione importante nell’ambito lavorativo, familiare o affettivo, tendiamo comunemente ad affidarci alla logica razionale, chiudendoci in noi stessi nella solitudine della nostra ragione, convinti di saper trovare il metodo più corretto che ci consenta di dominare la realtà con la meditazione. La vita,poi, ci mette a dura prova ,portandoci dinanzi a scelte o azioni che non avremmo mai immaginato di compiere, creando un disordine ed una confusione nella parte più intima di noi stessi, situazione che ci invita a pensare ,a “meditare”. Nell’uomo vi deve essere una coesistenza tra istinto e ragione, tra cuore e mente, unione che conduce ad una crescita, ad un cambiamento interiore, che permette di vivere responsabilmente mantenendo però il contatto con il cuore e con il mondo esterno,al di là degli stretti confini della logica. Frenare l’impeto è una necessità , in modo da non cadere in errore per dosare le parole, i gesti o le emozioni ;ma una ragione senza cuore è fredda ,dura ,alla fine cieca e folle. Non sappiamo che nel tentativo di scegliere la meta giusta non facciamo altro che sbagliare in quanto ragione ed istinto sono le due ali che, sbattendo contemporaneamente, accompagnano l’uomo nel suo percorso di vita. Cuore e testa sono gli unici due tasselli che, se incastrati perfettamente tra loro, sono in grado di darci la quiete interiore di cui ognuno di noi necessita e di rendere le difficoltà opportunità di crescita. Nessuno può reputarsi uomo se nel suo piccolo non è conteso tra istinto e ragione perché in realtà l’essere non si dimostra col solo pensare. Cartesio affermava ‘’cogito ergo sum’’, se penso, sono, ma siamo sicuri che solo pensando io esisto? Eppure un neonato esiste perché sente ma è incapace di pensare, ed un computer pensa ma non esiste perché non è in grado di sentire. Ogni uomo è quindi un palcoscenico sul quale l’istinto corre sulle ali della musica nel pieno silenzio della ragione, fredda e gelida,chiusa nel buio della notte. Con ciò si può ben capire come ogni individuo nasconda dentro di sé un rapporto che non verrà mai meno, ovvero quel rapporto meditar-sentir che Manzoni,ben evidenzia nell’analisi minuziosa della psicologia di ogni protagonista. Si parte dal ‘’sentir’’ che è emozione, pathos, sentimento, affetto vero ma anche rabbia, sdegno, furore, sete di vendetta, di giustizia, sentimenti che necessitano di essere corretti dalla pazienza, dalla riflessione, da un’analisi razionale ,nonché dal ‘meditar’. Pertanto, come la ragione tende a generalizzare, sfiorando i limiti della superbia e mancando però quel particolare in più dato dal sentimento, così il desiderio, l’impeto, l’istinto, il sentimento stesso da solo porta l’uomo a sfiorare la follia non frenato dalla lucidità della ragione (basti pensare all’esempio di Fra Cristoforo al tempo in cui era Ludovico). É in queste poche righe che si delinea il succo del tema che andiamo ad affrontare, esemplificato dalle vicende di vari personaggi. Partiamo dall’analisi di un uomo passionale, animoso, battagliero, pienamente coinvolto in ciò che lo circonda, ma capace di trattenere il proprio ardore e lo sdegno nei confronti di una realtà che spesso risulta essere crudele, per percorrere sentieri più cauti, per poter arrivare a prendere le decisioni più adatte, in nome della fede in una giustizia non terrena, ma divina. Si può sbagliare, si possono commettere errori che ci segnano nel profondo, spinti da una forza irrefrenabile, dalla follia del momento: fondamentale è il ritornare sui propri passi, rimediare, voltare pagina, mutando il proprio atteggiamento nei confronti del mondo. Emblema di questo tipo di rivoluzione interiore è il personaggio di Fra Cristoforo, vivo, pieno di furore, ma allo stesso tempo umile, prudente. Un frate che nell’istinto e nell’aggressività giovanile ha permesso alla violenza di avere la meglio, rimanendo così turbato da un omicidio, “il più serio accidente che gli fosse mai capitato”, che lo ha sconvolto, lo ha scosso, cambiando per sempre la sua esistenza, creando in lui un rimorso e un pentimento insanabili, per un gesto irrimediabilmente atroce. Ha scelto allora di accendere una luce, di non lasciarsi cadere in un baratro di disperazione, trasformando difficoltà ed ostacoli in opportunità di crescita, ascoltando i propri pensieri insieme alle proprie emozioni (il dolore per l’amico morto, la pietà per l’ucciso e per la sua famiglia), scavando tra questi e quelle, vivendo così quell’utile connubio tra “Sentire e Meditare”. Sentire e meditare che devono, quindi, andare di pari passo, “collaborare” tra loro per far approdare ad un mutamento fecondo. Non possono prescindere l’uno dall’altro, ma bensì al cuore deve seguire la ragione e la mente deve dare spazio alla passione. Manzoni abilmente riesce ad esprimere questo processo interiore, mediante l’utilizzo di parole intense e significative. E’ capace di renderci partecipi delle vicende altrui, mettendo a punto un’analisi chiara ed attenta, ed offrendoci una profonda introspezione del personaggio. “Ludovico non aveva mai, prima d’allora, sparso sangue e benché l’omicidio fosse a que’ tempi , cosa tanto comune, l’impressione ch’egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui, e l’uomo morto da lui, fu nuova ed indicibile”. Egli rimase sconcertato dal proprio errore, dalla perdita di una vita per mano sua, “dal cadere del suo nemico”. “L’alterazione di quel volto che passava in un momento dalla minaccia e dal furore, all’abbattimento e alla quiete solenne della morte, fu una vista che cambiò in un punto l’uccisore”, vista che fa scattare quel “sentire”, quella manifestazione di emozioni forti, che pervadono pienamente ed intimamente: “ lo sgomento e il rimorso del colpo che gli era uscito di mano”, “l’angosciosa compassione”, una grande desolazione. Segue un’attenta riflessione riguardo al turbinio di sensazioni successivo a quell’atto tanto terribile, riflessione che porta a prendere una definitiva, drastica, ma ben ponderata decisione; riflessione che conduce ad una conversione, paragonabile, forse in modo un po’ azzardato, a quella che Manzoni aveva vissuto in prima persona, avvenimento totalizzante che lo caratterizza, facendogli assumere la religione come base per ogni scelta. La conversione diede vita ad una vera e propria svolta interiore e comportò un cambiamento di pensiero in ogni campo, in ogni ambito. Ci sembra che Manzoni avesse già sperimentato su di sé il fecondo percorso del dialogo tra cuore e ragione, abbandonando per esempio gli estremismi dell’ottimismo illuminista che era sfociato nella delusione della Rivoluzione Francese, e recuperando la fede religiosa che lo portava a considerare l’uomo, oltre che come essere razionale e fautore della propria storia, come creatura fragile e fallace. Manzoni dice: “appena Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri”, “riflettendo a casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura; e il partito fu preso”. Il meditare, quindi, ha portato Ludovico, ora Fra Cristoforo, a scrutare dentro se stesso, a dare un taglio al passato, a chiedere perdono ai congiunti dell’ucciso, ma soprattutto dinanzi a Dio, a testa china, sfoderando l’umiltà e la consapevolezza dei propri errori, per giungere ad una serenità, ad una salvezza superiori. La figura di Fra Cristoforo è così elevata, elevata in un gesto che potrebbe significare umiliazione, vergogna, ma che, invece, rende grande l’uomo, lo innalza e lo pone come modello per gli altri. Espressa, infatti, la volontà di recarsi nella casa della famiglia che aveva” crudelmente offesa”, si recò appunto da quest’ultima per mostrare il proprio rammarico, vestito solo di un saio con occhi bassi e “col padre compagno al fianco”, attraversando quel “ girare, rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne, di durlindane pendenti”, quel "moversi librato di gorgiere inamidate, uno strascico intralciato di rabescate zimarre”, fino a giungere al cospetto del padrone di casa, fiero nella sua superbia, “ritto nel mezzo della sala”, che “impugnava, con la mano sinistra, il pomo della spada, e stringeva con la destra il bavero della cappa sul petto”. Solo ed apparentemente indifeso, immerso in un ambiente avido e sprezzante, “tra una folla che lo squadrava con curiosità poco cerimoniosa”, “con un’espressione così immediata”, “un’effusione dell’animo interno” si rese forte, sicuro agli astanti, imponente davanti all’offeso anche e soprattutto nel momento in cui “gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto e, chinando la testa rasa”, evidenziò il suo dolore, espose la sua supplica e le sue scuse; atteggiamento che suscitò pietà e rispetto. Rispetto per colui che si era messo a nudo davanti a una folla sconosciuta, rispetto che turbò il fratello stesso dell’ucciso, infondendogli una commozione che gli riempì il cuore, che lo portò a concedere quella remissione, quel perdono tanto atteso. Fra Cristoforo continua a provare ira nei confronti degli oppressori, contro coloro che utilizzano il proprio potere a discapito dei più indifesi, ma sa anche che l’unica forza che può guidare l’uomo è la fede, che sostiene la pazienza e trattiene l’ira stessa; quel cammino al buio in cui bisogna cogliere ogni minuzia, ogni segnale positivo, anche il meno visibile, anche il più insignificante all’apparenza, ma che cela la possibilità di vittoria, che deve dare forza e coraggio per continuare ad andare avanti, secondo l’esempio della Pentecoste (“soffri, combatti e preghi”). Manzoni è capace di cogliere l’intensità del travaglio del frate, la sua grandezza, caratterizzata proprio dalla presenza del rapporto costante tra sentimento e riflessione. Egli mette a paragone “due occhi incavati per lo più chinati a terra, ma che talvolta sfolgoravano con vivacità repentina” a “due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno che non si può vincerla e al quale pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto che scontan subito con una buona tirata di morso” (cap IV). L’autore rappresenta Fra Cristoforo partecipe ai problemi altrui, consigliere e guida dei più deboli, portavoce di una grazia e di uno spirito di carità, sentimento che lo motiva in quel tortuoso cammino che si ritrova ad affrontare al fianco dei protagonisti dell’opera. Dalle vicende raccontate si evince la sua forza d’animo, la presenza di un’impulsività (in passato sanguinaria) non del tutto sopita, che fa sì che egli provi sentimenti vivi, forti, governati però da una concezione di vita fatta di espiazione, pazienza, penitenza; penitenza soprattutto per l’atto da cui è scaturita la conversione. Da qui nascono gli ammonimenti nei confronti del povero Renzo, nel quale egli rivede se stesso, il giovane Ludovico, e al quale rimprovera l’irruenza del temperamento, la foga e l’incapacità di guardare al suo oppressore con accettazione, e non con desiderio di vendetta e morte, desiderio nato dalla cecità che l’ira infonde e dall’idea di una giustizia umana, che lo porterebbero a macchiarsi di una grave colpa. Fra Cristoforo, rappresentato nel cap. V come un uomo dalla testa china e raccolta tra le mani, incarna quella fusione tra cuore e ragione, tra sentimento e riflessione, che salvano l’uomo dagli eccessi. Invita, infatti, il suo giovane amico a meditare, meditare su quella che è la giustizia da perseguire, sul comportamento da adottare e sul rischio di inimicarsi l’Unico che può giudicare, l’Unico che può decidere di punire o salvare e la cui “amicizia” andrebbe persa nel momento stesso in cui si avverasse ciò che Renzo, esasperato, trama: “Puoi odiare, e perderti; puoi con un tuo sentimento, allontanare da te ogni benedizione. Perché in qualunque maniera t’andassero le cose, qualunque fortuna tu avessi, tien per certo che tutto sarà gastigo, finché tu non abbia perdonato in maniera da non poter mai più dire: io gli perdono” (cap. XXXV, 339-343) .Fra Cristoforo è un uomo nuovo, perché si trova davanti al mistero di un "Tu" che sconvolge e nello stesso tempo ristora l'anima, un uomo che riprende a vivere, ma vivere pienamente lasciandosi illuminare dalla Grazia. La notte della vita (perdizione) diventa speranza di luce non solo per questa splendida figura di uomo, ma anche per l'uomo che si sente già arrivato ,per l'uomo che si sente già ricco per quello che ha e non per quello che è, per l'uomo che con la violenza spera di poter nascondere i suoi limiti e la sua indiscussa fragilità, per l'uomo che nasconde la sua capacità di fare del Bene dietro la superbia di far intravedere di sé quello che non si è realmente. Accade all'Innominato, che scopre che come vive non è riflesso di quello che veramente è. Nella solitudine della notte, l'onnipotente signore scopre la solitudine della sua vita, una solitudine fatta di rimorsi, di incapacità di risollevare dall'errore la sua esistenza, errori imperdonabili che scuotono una coscienza temeraria e che ora si riscopre agitata dai mostri degli orrori che popolano il suo passato e presente. un processo doloroso e straziante che lo porta ai limiti dell'annullamento definitivo di sé: la morte, il suicidio, la disperazione. Una disperazione che nello stesso tempo diventa però tramite per la salvezza: quelle stesse lacrime diventeranno poi rugiada di perdono, gocce di conversione che scorrono inquiete e interminabilmente in quell'uomo alla ricerca del senso della sua vita, alla ricerca di quel Dio che gli urla “Io sono però” (cap.XX,126);quel Dio che, nelle parole del cardinale Federigo Borromeo, “v'opprime,v'agita, non vi lascia stare, e nello stesso tempo v'attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione...” (cap.XXIII,99-101); consolazione bramosa in un uomo che prova disgusto per la propria vita segnata da un'inaudita e un'incontestata violenza e ferocia. É notte, ma nello stesso tempo alba, alba di un nuovo giorno, alba di un inizio nuovo,alba di una rinascita che diventa quiete, che diventa speranza di un cambiamento incarnato nella bellezza del perdono e dell'amore. Notte è crescita,notte è capacità di varcare la siepe della propria condizione umana e inoltrarsi nell'ignoto,notte è inabissarsi nel proprio “io” e nelle viscere del proprio animo fino a smuovere e aprire il proprio cuore alla verità;notte è inquietudine,notte è scuotere la propria coscienza fino a lottare contro se stessi,notte è il desiderio delle tenere foglioline nella loro arsura di una gocciolina d'acqua, "come rugiada al cespite dell'erba inaridita, fresca negli arsi calami fa rifluir la vita, che verdi ancor risorgono nel temperato albor; tale al pensier,cui l'empia virtù d'amor fatica, discende il refrigerio d'una parola amica e il cor diverte ai placidi gaudii d'un altro amor" (Adelchi ,Morte di Ermengarda,61-72):notte è l'inerte fiore abbracciato dalla freschezza della rugiada mattutina che lo rinfranca della sua tenerezza e lo fa sbocciare in una nuova primavera. Notte è disponibilità a giocarsi l'esistenza e ad accettare che qualcosa ancora ci manca; notte è la capacità di quel seme che per diventare spiga deve cadere nel terreno per poi risorgere alle prime luci dell'alba a vita nuova, folgorato dalla luce del sole, mosso dall'amore, (un "amor che move il sole e l'altre stelle"Pd, Canto XXXIII,145),un sole che nella “Morte di Ermengarda” “l'erta infuocata ascende e con la vampa assidua l'immobil aura incende, risorti appena i gracili steli riarde al suol” (73-78),e quindi arde ed accende con i fremiti più intimi del cuore, con l'arsura indotta dalle passioni umane ma, al tramonto, una freschezza, una pace, una serenità scende nel cuore di chi si scopre liberato dai tumulti del cuore. La luce del sole per Ermengarda deve spegnersi al tramonto, che è metafora della morte che viene a liberarla: il tramonto nella “Morte di Ermengarda” spegne la vita; la morte fisica si ritrova a vincere sulla natura umana destinata inevitabilmente a soffrire e peccare. Ermengarda tocca il suo “cielo” spegnendosi: la morte è l'unica soluzione al suo conflitto irriducibile con la realtà esterna che l'ha emarginata e la passione interna, indomabile, che la consuma. L'alba, invece, all'Innominato, ridona la vita, come militanza, slancio nuovo verso il Bene. Possiamo definire l'Innominato “mendicante di cielo”: gli manca qualcosa; è triste della sua vita, ha nostalgia del suo cielo, cielo visto come quel “di più”,come vita toccata dall'Amore, come aspirazione verso l'Alto, qualcosa di più grande. L'Innominato, “portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte: quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall'altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile a confessarsi in colpa, a implorare un uomo” (Cap. XXIII.); davanti alla dolce e amorevole presenza del cardinale Borromeo depone la vergogna e si scopre uomo umile e, nello stesso tempo, riscopre la bellezza della gioia e il conforto del perdono. All'alba l'Innominato, da uomo che sperimentava ogni giorno un vuoto incolmabile nel suo cuore, riscopre il calore dell'abbraccio del Padre, riscopre la bellezza di lacrime calde che solcano irrefrenabilmente il volto pieno d'una “commozione più profonda, meno angosciosa” (Cap. XXIII,136): è un uomo nuovo, che prova “un refrigerio, una gioia (...),quale non ho provata mai in tutta questa(...)orribile vita”(Cap.XXIII,175-176),un uomo che ora prova una certa dolcezza per il suo ritorno all'innocenza e alla tenerezza di un bambino, e dolore al pensiero dell'abisso di violenza che aveva contraddistinto la sua “precedente” vita insieme ad “un ardore d'arrivare (...) a una coscienza nuova, a uno stato il più vicino all'innocenza a cui non poteva tornare; una riconoscenza, una fiducia in quella misericordia che lo poteva condurre in quello stato che gli aveva già dati tanti segni di volerlo”(Cap.XXIV,622-627). bello ed intenso il tormento di chi, scoprendosi peccatore, trova il coraggio di rialzarsi e vivere la sua notte fino in fondo all’alba. Un esempio questo di come l’incontro tra sentire e meditare può trovare una sua espressione metaforica anche in quei due momenti che scandiscono la temporalità: il giorno e la notte; il primo può essere inteso come la circostanza nella quale ognuno rischia di trovarsi vittima di azioni impulsive causate dalla mancata possibilità di pensare mentre la seconda, pur presentandosi scura, buia, permette di evadere dalla frenetica routine dettata dai gesti compiuti alla luce del sole, garantendo la facoltà di mettere in moto quella straordinaria macchina che è la nostra mente, solo apparentemente accesa durante la giornata. Quanto qui espresso trova riscontro nella realtà e coinvolge le più diverse persone, in particolare i giovani, i quali, data l’età, sono portati per natura ad essere impulsivi. Tuttavia l’adolescenza non è solo sinonimo di ardore e passione ma anche di vivacità intellettuale che, nel suo svolgersi, porta al formarsi di una propria personalità e, dunque, di una propria maturazione. Manzoni ci mostra come è possibile il verificarsi di un tale fenomeno di crescita e ce ne illustra le tappe attraverso il protagonista maschile de I Promessi Sposi, ovvero l’ardito Renzo Tramaglino che nel corso della trattazione imparerà a dominare i suoi istinti. L’autore, per esempio, scrive che, una volta giunto a Milano, sede della rivolta popolare seguita alla carestia, Renzo sente il disordine ed il tumulto all’interno della città e, lasciatosi prendere dal fervore della sommossa, si dirige anch’egli, insieme alla folla inferocita, al palazzo del vicario di provvisione. Cerca di evitare che la rivolta degeneri non accorgendosi di essere tratto in inganno da un poliziotto appartenente al genere di quelli che oggi definiremmo “ in borghese” e che lo conduce in un’osteria vicina. Qui Renzo, ubriacatosi, rivela i suoi dati personali, circostanza questa che consente l’arresto del medesimo con l’accusa di essere uno dei facinorosi. Ed ecco, allora, rivelarsi l’iniziale senso di irresponsabilità del ragazzo che non pensa a tenersi lontano dai guai e non considera che quei bicchieri di troppo potranno essere fonte di danno sia per se stesso che per la povera Lucia che, innamorata di lui , sarebbe rimasta sicuramente sconvolta da un’eventuale notizia in merito al pericolo o alla morte del suo amato. Tuttavia, Renzo paga nell'immediato la sventatezza delle sue azioni ed al suo risveglio, dopo una sera così movimentata nella quale aveva sperato ed altrettanto inconsapevolmente aveva rischiato, si trova a dover fuggire dalla città, inseguito dalla polizia. Corre via dal pericolo, dal disordine e dal trambusto. Poi,una volta lontano da tutto questo, si ritrova solo in una selva nella quale è rigogliosa la natura mentre la presenza dell'uomo sembra essere cosa rara. Il cammino del giovane all'interno di questa è tormentato: come ha avuto paura delle persone che al mattino lo rincorrevano così, al calar della notte, teme il buio e la solitudine; come non si era trovato a suo agio tra la moltitudine , allo stesso modo non riesce a stare bene nella silenziosa natura incontaminata. Però è proprio questo silenzio ad essergli amico; trovata una capanna sulla riva dell'Adda può finalmente fermare il corpo ed accendere la mente la quale rielabora quanto deve essere sottoposto a meditazione. Il pensare porta Renzo a soffermarsi sui ricordi degli incontri precedenti e ciò lo aiuta a fare una distinzione tra le persone che si sono prodigate per lui e quelle che invece hanno causato il suo male. dunque, in questo frangente che ritiene l'incontro con Lucia, Agnese e Fra Cristoforo come eventi positivi all'interno della sua vita, mentre i restanti personaggi costituiscono forze che possono traviarlo secondo la logica del mondo, che è l'istinto di prevaricazione, l'analisi superficiale della realtà, la manipolazione interessata del prossimo. Renzo si ricorda di Lucia che è la donna che ama, è il desiderio che orienta la sua vita; pensa alla madre di lei, Agnese, che per l'affetto che gli ha dato ora si trova senza casa, ed a Fra Cristoforo, che da sempre tenta di evitare che il giovane compia peccato. Ed allora,da ardito diventa più responsabile, da impetuoso meno ingenuo perché capace di discernere il bene dal male; da impulsivo,è più moderato nelle scelte. La presenza di persone care e di guide responsabili nella sua vita lo aiutano ad individuare ciò che è buono e da conservare; la retta ragione suggerita da Lucia e Fra Cristoforo, suoi fari, non è ,però, uno scialbo perbenismo o conformismo ma è riscaldata da motivi profondi di affetto, dalla passione per il bene di Renzo e per la sua realizzazione. In ciascuno si può sperimentare il sentimento dell’impeto, dell’ardore, di passioni istintive che non sempre sono sottoponibili alla criticità dell’intelletto umano e, successivamente, la riflessione, ovvero quel processo di analisi dei fatti accaduti che comporta la rielaborazione del passato, che serve da transito al futuro. Certo, nel “guazzabuglio” del cuore umano e nei giri viziosi della mente, così sicura di sé e così fallace (nella storia umana esplode spesso la follia,come Manzoni dimostra raccontando della peste e del processo agli untori) l’uomo sembra incapace di trovare la strada. Il modo di procedere lo suggeriscono Fra Cristoforo ai suoi protetti all’inizio del capitolo VII del romanzo “ Il padre Cristoforo arrivava nell’attitudine d’un buon capitano che,perduta,senza sua colpa, una battaglia importante, affltto ma non scoraggito, sopra pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi minacciati, a raccoglier le truppe, a dar nuovi ordini”, e Federigo Borromeo a Don Abbondio nel capitolo XXV, dove indica al suo parroco come vincere la paura: “amare,amare” e confidare in Dio. L’invocazione allo Spirito Santo nei versi finali della Pentecoste è proprio la richiesta di aiuto per individui di ogni classe ed età, aiuto per attraversare le contraddizioni fuori e dentro l’uomo; e l’ultimo verso sembra dedicato al più “cattivo” ed ostinato del romanzo, alla fragile esistenza di Don Rodrigo. “ O Spirito! Supplichevoli a tuoi solenni altari; soli per selve inospite; vaghi in deserti mari; dall’Ade algenti al Libano, d’Erina all’irta Haiti, sparsi per tutti i liti, uni per Te di cor, noi T’imploriam! Placabile Spirto discendi ancora, a tuoi cultor propizio, propizio a chi T’ignora; scendi e ricrea:rianima i cor nel dubbio ai vinti mercede il vincitor. Discendi Amor;negli animi L’ire superbe attuta: dona i pensier che il memore ultimo di non muta; i doni tuoi benefica nutra la tua virtude; siccome il sol che schiude dal pigro germe il fior; che lento poi sull’umili erbe morrà non colto, né sorgerà coi fulgidi color del lembo sciolto, se fuso a lui nell’etere non tornerà quel mite lume,dator di vite, e in faticato altor. Noi T’imploriam! Ne languidi Pensier dell’infelice Scendi piacevol alito Aura consolatrice: scendi bufera ai tumidi pensier del violento; vi spira uno sgomento che insegni la pietà. Per Te sollevi il povero al ciel, ch’è suo, le ciglia, volga i lamenti in giubilo, pensando a cui somiglia: cui fu donato in copia, doni con volto amico con quel tacer pudico, che accetto il don ti fa. Spira de’ nostri bamboli Nell’ineffabil riso; spargi la casta porpora alle donzelle in viso; manda alle ascose vergini le pure gioie ascose; consacra delle spose il verecondo amor. Tempra de’ baldi giovani Il confidente ingegno; reggi il viril proposito ad infallibil segno; adorna la canizie di liete viglie sante; brilla nel guardo errante di chi sperando muor”.