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FORME E PROSPETTIVE DEL WELFARE PARTECIPATO

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FORME E PROSPETTIVE DEL WELFARE PARTECIPATO
“FORME E PROSPETTIVE DEL WELFARE PARTECIPATO”
SEMINARIO
12 gennaio 2007
Villa Umbra, Perugia
Presentazione del seminario.
Giorgio SORDELLI (Cnca)
Benvenuti a questo seminario pubblico, che è un workshop di riflessione con alcune realtà locali
della regione Umbria, ma anche di altre regioni, sul tema del welfare partecipato. Subito dopo
interverrà l’Assessore e cercherà di illustrarci il programma verso il nuovo piano sociale
regionale. Cercheremo, quindi, di vedere questi due aspetti. Dopodiché diamo la parola a Dario
Dell’Aquila, che sostituisce Salvatore Esposito, che fa sempre parte dell’Area politiche sociali
della Regione Campania, che ci porta il punto di vista di una regione che ha lavorato in modo
originale rispetto a questo tema; proviamo a vedere uno spaccato di questo tipo. Poi, c’è la pausa
caffè; dopodiché Ugo D’Ambrogio dell’IRS proverà a fare un quadro più nazionale. L’Istituto di
Ricerca Sociale, in questi anni, ha seguito una serie di progetti in giro per l’Italia e, quindi,
proverà a darci uno spaccato più nazionale, per poi lasciare le conclusioni, dopo il dibattito su
queste tematiche - dibattito che, ovviamente, sarà molto centrato sull’esperienza locale della
regione Umbria - alle persone del Cnca.
Lascio immediatamente la parola a Teresa Marzocchi - che ha modificato il titolo della sua
presentazione, quindi ce lo dirà direttamente lei - Vice Presidente del Cnca.
Teresa MARZOCCHI (Vice Presidente Cnca)
Ho molto piacere di essere qui, ringrazio gli amici umbri del Cnca che mi hanno invitato; ormai
riconosco gli amministratori, riconosco molti dei funzionari, e questo mi fa piacere, perché mi
permette di dare continuità all’osservazione di un territorio che sicuramente non è usuale rispetto
al resto dei territori italiani, nel senso che, senza piaggeria, devo dare atto che qui si viene perché
si fanno diverse cose, si prova, si lavora. Io ho una certa frequentazione della vostra regione, dai
laboratori sulle tossicodipendenze; sono venuta al convegno “Fuori dal guscio”, sono venuta a
“Strada facendo”, tutti eventi di peso nazionale che, in una regione così piccola, non è comune
che ci sia la volontà politica di farli.
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In particolare, in riferimento all’iniziativa di oggi, mi sembra che valga la pena di sottolineare
che è una iniziativa connessa a un lavoro seminariale di due giorni precedenti, un lavoro
seminariale che è stato fatto da alcuni operatori, sia del pubblico che del privato. Il mio
intervento vorrebbe in qualche modo connettere la riflessione che è stata fatta nei due giorni
precedenti con alcuni suggerimenti, con l’esperienza e con il punto di osservazione della nostra
federazione. Io sono arrivata ieri sera, poco prima di cena, e ho cercato di ascoltare quello che
avevano prodotto; quindi mi interessa in modo particolare vedere se sono riuscita a capire quello
che loro hanno prodotto e, in qualche modo, rileggerlo alla luce dell’esperienza complessiva.
Mi avevano dato questo titolo: “Mappa dei riferimenti indispensabile per un welfare
partecipato”. Ieri sera, pensando, ci ho messo il “forse”, perché i titoli sono importanti, quando
vai a parlare; nel sociale c’è il “forse”, e noi stiamo riflettendo sul sociale. Quindi, essere
consapevoli che lavoriamo nella presenza del “forse” ci prepara a ragionare in un certo modo. Io
volevo solo sottolineare questa consapevolezza, che cercherò di approfondire, partendo, appunto,
dal titolo e da quello che è emerso nelle riflessioni portate dai coordinatori dei gruppi, ieri.
Il titolo parla di mappa e di strumenti. Io credo che sia importante, proprio parlando di sociale,
del “forse” del sociale, riconoscere che anche in questo settore non possiamo inventare. Siccome
per molto tempo abbiamo affrontato il sociale e l’educativo in ambiti di sperimentazione
continua, pensando che per lavorare con le persone non fosse necessario darsi degli strumenti di
ricerca scientifica, darsi una programmazione, ma fosse sufficiente esserci - che è importante,
sicuramente - il passaggio è dire: abbiamo bisogno di mappe, di riferimenti, di volontà di studio,
di scientificità; collegato a questo, abbiamo bisogno di costruire degli strumenti operativi che ci
permettano di lavorare pianificando, programmando ed essendo in grado di valutare e di
riprogettare in funzione della valutazione di quello che facciamo.
Le quattro fasi che hanno sottolineato ieri gli operatori che hanno lavorato proponevano proprio
come mappa di riferimento il fatto di dare importanza ad una fase di ricerca e azione; nel lavoro
sul sociale, nel lavoro con le persone, il fatto di poter fare ricerca è strettamente connesso con
l’azione sperimentale. L’azione di messa in atto risultava molto importante, come risultava
importante il poter porre attenzione ai sistemi di governance, ai sistemi di conduzione, di
organizzazione del lavoro e di gestione delle problematiche, che tenessero conto fortemente della
partecipazione. E, ancora, che si dovesse riconoscere l’importanza forte di una pianificazione
strategica, come dicevo prima; abbiamo consapevolezza che dobbiamo orientarci, quando
parliamo di strategico, in un settore che non può essere assolutamente semplificato. Lavoriamo
nella complessità e dobbiamo noi stessi, per primi, non avere la tentazione di dare delle risposte
semplici.
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Usciamo da cinque anni di governo centrale nei quali, per il nostro settore, il settore che seguo in
modo particolare, il sociale, c’è stata proprio la tentazione di semplificare. Mi permetto questo
piccolo flash, ma è dovuto e lo dico perché noi dobbiamo avere la responsabilità di cambiare
questa situazione; lo dico per l’Assessore e lo dico anche per noi, come Cnca, perché il ruolo di
proposizione attiva lo abbiamo tutti insieme. Abbiamo visto a cosa ha portato il voler
semplificare questi fenomeni complessi, dai minori, alle droghe, alla prostituzione,
all’immigrazione. È difficile, è complesso, dobbiamo fare delle pianificazioni strategiche,
facendo lo sforzo di concepire progettazioni partecipate, che è più difficile che lavorare da soli;
lavorare con gli altri è più difficile che lavorare da soli - cerco di usare delle parole molto
semplici, comprensibili - fare con gli altri è molto più difficile. Era meglio - forse il pubblico ce
lo può dire - quando decidevano loro, facevano loro e non dovevano ascoltare la miriade di tavoli
che nelle forme di partecipazione sono stati messi in atto. La 328 è stato uno strumento
arricchente, ma la 328 e le sue forme applicative sono uno strumento di difficilissima
applicazione e di difficilissima custodia, perché diventi effettiva. Anche questo è un dato da
considerare.
Teniamo conto, comunque, come dicevo all’inizio, che questo settore necessita di conoscenza, di
volontà di studio e di ricerca, più che altri settori. È molto facile dire che nella ricerca scientifica
e sanitaria dobbiamo continuamente aggiornarci; di fronte ad un malato incurabile, noi diciamo:
intanto lo portiamo avanti. Penso ai malati di AIDS, che ho seguito in tutti i percorsi, in questi
venti anni: l’approccio di un malato di AIDS, ora, rispetto a vent’anni fa, è molto diverso, adesso
si vive in maniera diversa, questo è stato il beneficio della ricerca scientifica. In quel caso lo
riconosciamo e diciamo: intanto lo tiriamo avanti, chissà domani cosa succederà. Parlando del
caso Welby, in casa mia si dibatteva sull’eutanasia; mio figlio, che ha 23 anni, diceva: io sono
contrario perché confido nel fatto che la ricerca scientifica, il giorno dopo, può affrontare questo
problema in un altro modo. Questa cosa nel sociale facciamo più fatica a passarla, perché ci
sembra che si possa capire tutti in maniera diversa e questo, secondo me, deve dare la forza di
voler comunque fare conoscenza e di volerla fare nella ricerca permanente e nell’aggiornamento,
perché il nostro è un campo ancora più variabile. Pensiamo a come abbiamo affrontato tanti
problemi. Il sapere sociale è debole e questo sapere sociale debole è uno stimolo alla ricerca e
all’aggiornamento continuo; su questo siamo forti, nell’essere consapevoli di questa debolezza.
Strumenti forse indispensabili: vorrei solo sottolinearlo e vorrei andare in fretta, per non togliere
del tempo all’assessore. Nel sociale, come dicevo prima, c’è la certezza dei diritti, ma solo di
quelli che sono esigibili. Sembra diventato un dato acquisito. Non dobbiamo arrenderci. I diritti
sono diritti, anche se non ci sono i soldi perché questi siano esigibili. Quando ci troviamo a
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cogestire, a partecipare alle forme di partecipazione, noi stessi, per primi, che dovremmo essere i
rappresentanti delle persone che hanno bisogno, ci adattiamo a questa filosofia. Tanto più
possiamo immaginarci che si adattino gli amministratori o i funzionari, che si trovano tutti i
giorni a fare i conti con delle situazioni di ristrettezza economica, che sono pressanti per chi le
deve gestire. Io credo che tutti abbiamo la responsabilità di dire che non dobbiamo confondere il
termine del bisogno con il poter far fronte a questo bisogno. Poi, si faranno delle scelte
prioritarie rispetto ai bisogni, però non confondiamo le cose, sulla valutazione e sulla fattibilità.
Forse ci sarebbe utile pensare, sempre nel confronto con la sanità, che questa situazione non
esiste con la sanità, nel senso che il diritto sanitario è un diritto sanitario, è una cosa scontata;
anche il carcere c’è sempre per tutti, anche se non ci sono i soldi. Questo diritto di andare in
carcere rimane, anche se il carcere costa tanto ogni giorno. Invece il diritto di un buono scuola o
di una borsa lavoro per uno svantaggiato c’è solo se ci sono i soldi. Perché c’è questa differenza?
Non è giusto. Credo che, forse, questo è indispensabile, questo è quello che dobbiamo sostenere.
Welfare: non è un termine da dare per scontato, perché questa parola ormai è diventata… alcuni
dicono di non usarla più, perché si dà per scontata la consapevolezza della necessità del welfare,
invece non bisogna darla per scontata. Il welfare bisogna pensarlo in una visione complessiva,
quando per welfare noi intendiamo il sociale, la sanità, l’assistenza, il lavoro, la previdenza (ne
parlavamo prima con l’assessore). Welfare partecipato, perché “partecipato” vuol dire che tutti ci
siamo e che tutti ci verifichiamo vicendevolmente; questo è indispensabile per aiutarci, non
perché uno fa il correttore dell’altro. Ci sono stati anni in cui il privato aveva una funzione di
rompiscatole, ma poter mantenere la vision che ci siamo dati è dato dal fatto che la possiamo
portare avanti insieme, attraverso strumenti di verifica vicendevole, che ci permettano - ed è la
mission che condividiamo tutti, pubblico, privato e cittadini - di avere la certezza della
rappresentanza dei bisogni veri, cioè di capire quali sono i bisogni veri della gente e non i
bisogni generati da un certo stile di vita, da un certo stile di gestione della cosa quotidiana, non
solo della cosa pubblica. La gestione della cosa pubblica, che è quotidiana, e anche dei soldi, è
una gestione che appartiene a tutti, perché i politici e i funzionari che gestiscono le politiche
siamo noi, sono quelli che noi abbiamo eletto, sono i nostri rappresentanti, non sono altri che noi.
Questo è da tener presente, ma per primi spesso ci scordiamo che, dopo aver votato, diventiamo
altri.
Dobbiamo avere la certezza che il welfare partecipato ci permette di andare oltre la cura degli
interessi particolari. E quando parlo degli interessi particolari, non mi riferisco solo alle categorie
tutelate, ma anche agli interessi particolari delle organizzazioni del privato sociale o delle
imprese, perché nelle esperienze di gestione partecipata dobbiamo ammettere che spesso noi
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stessi cadiamo nel tranello di salvaguardare la nostra realtà, i nostri operatori o la nostra
titolarità, piuttosto che il nuovo che viene, il bisogno delle persone. Quindi, occorre la garanzia
degli interessi particolari e la verifica vicendevole; è questo il nostro slancio condiviso, nella
consapevolezza che partecipare al welfare, stare su queste cose, che sono le cose del cittadino
normale, è uno strumento che permette di sperimentare la partecipazione anche per altri settori,
meno duttili alla partecipazione. È uno strumento che permette di sperimentare una democrazia
diretta, diversa, partecipata, che possiamo ritrovare nelle scuole e in tutte le forme di
esplicitazione della cittadinanza. Dove la prendiamo? La prendiamo dalla Costituzione ed oltre,
perché questo non può essere un settore sperimentale. La partecipazione non è solo un’occasione
di pianificazione di servizi, ma è una sperimentazione dialogica, di metodo, di cultura, di forma
e, poi, di contenuto. Questo mi sembrava da sottolineare.
Qui ed ora. Io mi rendo conto che sono a Perugia, sono in Umbria, in una realtà molto favorevole
rispetto al panorama italiano; noi dobbiamo avere consapevolezza di questo, pur non
dimenticando il resto. È una realtà molto favorevole, ci sono dei punti di forza, rispetto alla
gestione del sociale, secondo me e secondo quanto è emerso dal lavoro degli operatori negli altri
due giorni. Io ho sottolineato i punti di forza, i punti di debolezza e gli slanci che ci potrebbero
essere, per come li ho visti io. Sicuramente c’è il fatto che siamo in un territorio in cui tutti
sappiamo cosa è il welfare, ed è importante; siamo consapevoli di volerci lavorare sopra e di
volerci stare. Qui è così, è così da tempo, le cose che ho citato prima ne sono la prova. Questa è
una forza. C’è una programmazione territoriale consolidata da tempo. Dobbiamo aver presente
che ci sono alcune regioni d’Italia dove la 328 è cominciata a partire da poco tempo, è solo
formale, non è mai stata applicata, come in tante situazioni. Qui lavorate su questo metodo da
molto tempo. Se parliamo di quattro o cinque anni, è molto tempo per sperimentare dei modi di
gestione.
Voi avete una ricchezza - che è quella che noi proponiamo nel nostro documento sulle politiche
sociali - che non hanno tutti i territori italiani (alcune regioni sì): avete gli stessi ambiti sociali e
sanitari di programmazione. Voi avete il distretto, poi ci sono i dipartimenti, però c’è il distretto
e l’ambito, che è unico, sia a livello sanitario che a livello sociale, ed è anche il luogo dove c’è la
formulazione e l’impostazione del budget. Questo è un patrimonio che non esiste in tutti i
territori italiani e che vi dà modo di ragionare in un’ottica di complessità.
Inoltre, c’è unicità di governo della programmazione territoriale. L’esperienza che avete fatto,
dei promotori sociali, è stata fatta in un certo periodo, nel quale non ci si sognava neanche di
partire così. In alcune regioni all’avanguardia, avere il responsabile dell’ufficio di piano è una
ricchezza; la Toscana sta sperimentando adesso il coordinatore. Voi l’avete da molto tempo,
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questa è una grossa, grossissima, ricchezza: una persona unica di riferimento per la
programmazione. Sembra una banalità.
Altro aspetto: le caratteristiche unitarie e solide del territorio. La forma amministrativa,
continuativa a livello politico, è quella che c’è da tempo, non avete avuto delle grandi
discontinuità sul territorio; è una cosa che ammazza un distretto e una provincia, la diversità di
governo. Io sono emiliana e ho alcune varianti ben presenti… (Voce fuori microfono: “C’è
l’accusa di regime.”)… Va bene, è una sfida. Quando si è accusati di regime, è una sfida per far
vedere come si può gestire.
I punti di debolezza: prendeteli come un contributo. È una fotografia che ho visto ieri e che mi è
venuta così, mi piace interagire in maniera propositiva. C’è una certa fragilità, secondo me,
nell’integrazione tecnico-politica, una fragilità che si riscontra spesso tra gli amministrativi e i
funzionari. Il politico, i funzionari e il promotore sono tre figure che occorre integrare; il fatto
che il promotore sia una persona esterna è una grande ricchezza; nello stesso tempo, non ha quel
peso politico che può avere in un consiglio di distretto la direzione, è da tenere sotto controllo
questa situazione.
Un altro punto di debolezza che a me pare di dover sottolineare è l’integrazione socio-sanitaria:
siete molto avanti sulla rielaborazione sociale, probabilmente siete avanti anche sulla
rielaborazione sanitaria. Credo che ci sia un grosso gap nel fatto di non aver impiantato degli
strumenti di interconnessione tra i due settori; per quello che penso io personalmente, ma che
pensa il Cnca, in questo momento è la grande sfida: ragionare in termini socio-sanitari e non
sociali e sanitari, e trovare delle forme di connessione.
L’altra debolezza che volevo evidenziare è la partecipazione storicizzata; c’è il rischio, in questo
territorio, come in altri - anche nella mia regione e anche in altre regioni, per quello che mi è
dato di vedere - che il fatto che ormai la partecipazione sia un dato acquisito ci toglie la
freschezza di cambiarla e di rimodularla; spesso, la formulazione del piano di zona potrebbe
essere una procedura obbligata, formale, bellissima. Ci sono alcuni distretti, nel mio territorio,
dove ci sono dei piani di zona stupendi, fatti benissimo; però la partecipazione veramente è solo
così, per fare un documento insieme, ed è un tranello per noi.
L’altra fragilità è la sicurezza dell’esperienza. Prima parlavo di sapere debole nel sociale; quando
si parla di avere consolidato un’esperienza e di averla raggiunta, spesso perdiamo la voglia e la
freschezza di poterci lavorare nuovamente sopra. Credo che, in queste regioni forti, sia uno
stimolo da tener presente anche nel privato sociale, anche nel terzo settore.
Proposte del forum, come ripartenza. Vi faccio i complimenti perché avete avuto il coraggio di
dire: adesso ripartiamo, ricominciamo. Assessore, è molto bella questa cosa. Andare oltre il
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meglio; se c’è un protagonismo della regione, va percorso; la programmazione permanente certa,
indipendentemente se i soldi del sociale arrivano alla fine dell’anno; fare come nel sanitario,
dove si programma sempre, si tengono aperti i tavoli di programmazione in forma continuativa.
A livello nazionale, proponiamo una quota capitaria per il sociale come la quota sanitaria,
ponderata, cioè una di base, con le variazioni della non autosufficienza. Sul territorio nazionale
va da 15 a 40; perché non farlo in una regione sperimentalmente?
Salto tutti gli altri punti, che avete letto e che credo che possiate comprendere, perché
l’Assessore deve andare via; però lo stimolo che propongo è quello di dire: se vogliamo la vera
partecipazione, se vogliamo provare una partecipazione diversa, possiamo farlo solo liberando
degli spazi di potere. Chi deve liberare gli spazi di potere, per far entrare gli altri, sono coloro
che il potere ce l’hanno, sono gli amministratori. Anche i numeri della partecipazione contano; la
partecipazione non è più data dalle persone che rappresentano il terzo settore, ma è data dalle
persone titolari dei bisogni. L’advocacy, la partecipazione dell’utenza, è una cosa di cui parliamo
da tempo, che rilanciamo, e che so che trova interesse. È sicuramente la sfida che dobbiamo
avere il coraggio di portare avanti tutti insieme, perché ci crediamo e perché è questo che
vogliamo. Come Cnca, siamo nati per questo e su questo dobbiamo avere la forza di lottare con
voi.
Giorgio Sordelli (Cnca)
Passo immediatamente la parola all’Assessore, che ha molti stimoli su cui interagire.
Conclusioni, rilancio, illustrazione del programma verso il nuovo piano sociale regionale.
Damiano STUFARA (Assessore alle politiche sociali della Regione Umbria)
Buongiorno a tutte e a tutti voi. Ovviamente, ringrazio il Cnca dell’Umbria per aver voluto
organizzare queste giornate di riflessione, oltre che per l’invito. Mi scuso con tutte e con tutti
voi, ma questo accavallarsi in maniera imprevista di ulteriori impegni, mio malgrado, mi
impedisce di fare quello che, tendenzialmente, vorrei sempre fare, cioè parlare dopo aver
ascoltato e provare a costruire un’interlocuzione. Le cose che ha detto Teresa Marzocchi mi
trovano particolarmente d’accordo e proverò ad interloquire su queste. Evidentemente, questo
appuntamento non chiude la discussione, ma la rilancia; rilancia una discussione che avrà dei
momenti di ripresa e di prosecuzione particolarmente delicati e rilevanti, nel corso delle
prossime settimane e dei prossimi mesi.
Anch’io andrò molto rapidamente, cercando di non abusare della vostra attenzione e del vostro
tempo, per ragionare con voi non tanto e non solo, come mi è stato chiesto, sulle prospettive che
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attengono al merito del nuovo ciclo della programmazione sociale - che quest’anno, nel 2007,
speriamo possa vedere la luce - ma anche e soprattutto per fare qualche breve considerazione
sull’analisi di quanto è accaduto in questi mesi e in questi anni, su quale metodo privilegiare per
sviluppare al meglio quell’appuntamento particolarmente rilevante che sarà la definizione dei
nuovi strumenti della programmazione a livello regionale e le ripercussioni che esse avranno
sulla programmazione a livello e a scala d’ambito.
Veniva detto da Teresa che l’Umbria ha avuto un percorso, rispetto ad altre regioni, non usuale,
per quanto riguarda la capacità, che qui si è realizzata, di anticipare, per alcuni versi, pezzi
significativi della riforma nazionale e di strutturare anche metodologie di lavoro e una qualità
dell’offerta complessiva dei servizi che potessero rispondere in maniera adeguata all'evoluzione
della gamma e della sfera dei bisogni. Io credo che così sia, evidentemente, ma penso che non sia
stata semplicemente la volontà politica, che comunque le classi dirigenti e la classe politica
umbra hanno espresso in questi anni, a determinare tutto ciò. È del tutto evidente che anche il
livello di competenze che in Umbria abbiamo avuto e che abbiamo, il livello di attenzione e le
vere e proprie capacità che il complesso degli attori sociali hanno saputo esprimere è stato, in
qualche modo, la benzina che ha reso possibile questo dinamismo e questo protagonismo
dell’Umbria, anche nel contesto di un paese nel quale i livelli ai quali si è giunti, rispetto alla
riforma del welfare, in maniera particolare delle politiche sociali, sono caratterizzati da una forte
disomogeneità.
L’esperienza di governo di questi ultimi anni ha mostrato, anche sul piano delle risorse, la
mancata volontà di attuare pezzi importanti della riforma nazionale; avendolo impedito, hanno
anche frenato ed ostacolato un processo, proprio per l’elaborazione politica che da quella classe
dirigente veniva espressa, che vedeva le politiche di welfare come qualcosa di residuale,
all’interno dell’organizzazione del vivere civile nel nostro paese. È come se, in questi ultimi
anni, tutti noi - vedo qui qualche assessore di importanti Comuni, so che mi comprendono
perfettamente - avessimo attuato una sorta di resistenza rispetto a quanto ci veniva imposto dal
livello nazionale, anche in termini di vero e proprio dimezzamento delle risorse a disposizione;
siamo stati in grado, è bene ricordarlo, di colmare quel vuoto che ci veniva imposto con ulteriori
risorse provenienti da questo territorio. È del tutto evidente che i flussi di spesa, fra quello
nazionale e quelli locali, sono stati diametralmente opposti in Umbria; sia attraverso il bilancio
regionale che attraverso l’impegno dei Comuni, abbiamo visto crescere le risorse che ciascuno di
noi metteva a disposizione, ma che non hanno pareggiato con quelle che venivano tolte dal
Governo nazionale. Tutti noi abbiamo operato in questi mesi con la speranza - passatemi questo
termine - che “la nottata passasse”. Ora, non so dire se la nottata è davvero del tutto passata;
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prima di iniziare, ragionavamo con Teresa rispetto ad alcuni problemi che, evidentemente, ci
sono. Però due dati quanto meno sono certi e credo che vadano sottolineati e valorizzati.
Intanto, vi è oggi, da parte di questo territorio, come di altrimenti pezzi del sistema paese, una
capacità di interlocuzione con il livello nazionale che non è paragonabile con quanto avveniva in
precedenza; questo è un fatto positivo, che ci riattribuisce, come Umbria, un ruolo e una capacità
di proporre non tanto dei modelli - non credo che siamo arrivati a questo punto - ma comunque
delle buone prassi che possono risultare particolarmente utili anche in uno scenario più vasto
rispetto ai confini della nostra regione. L’altro fatto che mi pare non trascurabile è dato dalle
scelte che il Governo e l’attuale maggioranza parlamentare hanno fatto, non più tardi di qualche
giorno fa, approvando la legge finanziaria del 2007. Il fatto che, rispetto alle previsioni
dell’ultima Finanziaria, il complesso delle risorse che afferiscono sotto vari aspetti alle politiche
sociali sia più che raddoppiato non può che essere preso come positivo, anche se è un punto di
partenza, non esaustivo delle esigenze che ci sono.
Non sfugge a nessuno che, sul piano politico, vi sia un’interlocuzione ed anche elementi di
frizione che rendono complicato il percorso che a livello nazionale dovrà essere seguito. Credo,
però, che sarebbe un gravissimo errore se, anche e soprattutto sulle questioni che attengono
queste tematiche, vi fosse una tendenza a delegare completamente, o prevalentemente, alla
discussione fra soggetti politici la gamma delle scelte che dovranno essere assunte. So
perfettamente che non è intenzione del Cnca, e me ne rallegro; non è intenzione neanche della
Regione dell’Umbria, che invece con il Governo nazionale, anche rispetto alle scelte che sul
terreno programmatico dovranno essere assunte, intende svolgere un ruolo e una capacità di
interlocuzione, chiaramente in vista di questo nuovo ciclo di programmazione che anch’io, come
Teresa, credo debba essere incentrato sul tema dei diritti, alla luce dell’evoluzione che il contesto
sociale nazionale, ma anche regionale, ha subito in questi ultimi anni; un’evoluzione che, dal mio
punto di vista, è stata talmente rapida e repentina da spiazzare tutti noi, in primis la politica, che
credo non abbia ancora oggi la piena consapevolezza di come la società umbra e la società
nazionale siano cambiate e di come stiano emergendo, a fianco del consolidarsi di forme
strutturali di disagio, anche delle forme inedite di bisogni che, comunque, ci pongono delle
domande.
Cito tre aspetti per titoli, sapendo di parlare ad una platea particolarmente competente, che non
ha certo bisogno delle mie spiegazioni: la precarizzazione non solo della sfera lavorativa, ma
della vita delle persone; l’insicurezza è diventata il tratto caratterizzante delle esistenze di
moltissime persone; in particolare, i giovani coniugano la loro vita esclusivamente al presente,
non essendo loro possibile immaginarsi proiettati nel futuro. Inoltre, assistiamo all’emergere, a
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fianco delle forme di povertà estrema – che rappresentano, dal mio punto di vista, una fetta
significativa dello spaccato sociale umbro – di nuove forme di povertà, con tutte le dinamiche
che le producono. Infine, in una regione come l’Umbria, che tende particolarmente a vedere
incrementare la propria età media, il tema della non autosufficienza rappresenta un ulteriore
elemento di cambiamento del contesto sociale, che ci pone di fonte alla necessità di acquisire la
complessità dello scenario sociale, ma anche di rendere più articolata la nostra capacità di offrire
risposte a quei bisogni e a quelle domande.
Credo che, per fare tutto questo, noi dobbiamo riattivare una vera e propria mobilitazione - non a
caso uso questo termine - dei diversi attori sociali, che sono rappresentati dalla Pubblica
amministrazione, da un lato, pertanto dalla Regione e dalla rete degli ambiti territoriali e dei
Comuni della nostra regione, ma che sono rappresentati anche da quel variegato e vivace mondo
di rappresentanti che, a vario titolo, afferiscono al cosiddetto terzo settore, di cui voi
rappresentate una parte davvero significativa. Credo che, in questi ultimi anni, sia per fattori che
attengono alle dinamiche nazionali, che per responsabilità della nostra regione, vi sia stato un
calo di quella tensione politica di rielaborazione che aveva caratterizzato le fasi in cui si era
determinato il fatto di essere anticipatori di processi nazionali. Per fare questo, credo che la sfida
sia quella dell’integrazione, di costruire delle forme concrete ed anche stabili di partecipazione
all’interno delle dinamiche di costruzione del welfare.
Lo scorso mese, come voi sapete e come Massimo Costantini, il vostro referente su scala
nazionale, sa bene, abbiamo avviato un primo ciclo di incontri con una pluralità di soggetti e di
attori sociali della nostra regione, ai quali, dopo aver costruito una rete di relazioni informali in
precedenza, abbiamo ufficialmente, come Regione, con un livello di conduzione congiunta
insieme ai Comuni e all’ANCI dell’Umbria, proposto la strutturazione di un luogo permanente di
confronto e di elaborazione collettiva. Lo abbiamo chiamato Forum regionale sul welfare; la
prima sessione intendiamo aprirla nella terza settimana di marzo, quindi tra pochissimo tempo,
dandoci fin da subito degli obiettivi concreti e, io credo, non certo semplici da raggiungere.
Intanto, noi pensiamo che lo strumento di forum debba servire per validare consensualmente le
analisi, che dobbiamo fare, di come cambia il contesto sociale al quale ci riferiamo. Dobbiamo
essere convinti del fatto che davvero alcuni processi stanno investendo la nostra regione, capirne
le cause, o cercare di capirle il più possibile, ed acquisire questi dati di consapevolezza per
adeguare anche su questi aspetti la nostra programmazione. Credo che dovremmo valutare
insieme ed esprimere dei giudizi sui percorsi che abbiamo interpreso in questi anni, che sono
senza dubbio rappresentati dall’aver costruito un processo particolarmente complicato e
significativo e dall’aver costruito, in molte parti del nostro territorio, delle vere e proprie prassi
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che debbono essere valorizzate ed estese. Allo stesso tempo, non possiamo non notare come
esistano degli elementi di criticità. Per citarne uno, anche se sarebbe molto più lungo l’elenco,
anche in relazione a quanto diceva Teresa, credo che il livello di uniformità che è stato raggiunto
non sia ancora soddisfacente; abbiamo una difformità ed una disomogeneità del livello di
costruzione del modello sociale a scala d’ambito, ma anche nella capacità di garantire un’offerta
complessiva di servizi e di prestazioni adeguata a quella che è la domanda sociale che emerge
dal territorio, capacità ancora non dappertutto soddisfacente. Questo lo segnalo come uno degli
elementi sui quali intervenire.
È altrettanto evidente che lo scopo principale di questa prima sessione del forum non potrà che
essere quello di condividere insieme gli obiettivi strategici su cui costruiremo insieme il nuovo
ciclo della programmazione regionale. Per fare questo, nel momento in cui sul “che fare” ci
intenderemo, come io sono convinto che sarà, dovremo intenderci anche sul “chi fa cosa”,
dovremo essere in grado di arginare una serie di sovrapposizioni che oggi esistono tra soggetti
che hanno ruoli diversi. Il terzo settore è un mondo importantissimo, ma è un mondo
particolarmente articolato e variegato. È del tutto evidente che dobbiamo essere in grado di
attribuire, dentro uno scenario di condivisione degli obiettivi, una mission specifica a ciascuno di
noi, che poggi sull’integrazione delle specificità di ciascun soggetto. Su questo, rispetto a una
discussione che ha riguardato il Consiglio regionale dell’Umbria, sono stato in parte critico sul
tema della sussidiarietà, non perché lo metta in discussione - è nella Costituzione, è nello Statuto
regionale - ma perché penso che non ci servano definizioni astratte di questo termine, ma ci serve
di praticarlo insieme. Fare una legge senza essere attenti a come pratichiamo concretamente un
terreno di integrazione vera tra soggetti pubblici e del privato sociale nella nostra regione,
probabilmente è un po’ fuorviante rispetto a quella che, invece, dal mio punto di vista, è la
priorità.
Credo che avesse totalmente ragione Teresa, quando ha detto che una delle sfide che dobbiamo
essere in grado di raccogliere e di rilanciare, nella nostra regione, è sul livello di integrazione che
siamo in grado di costruire in Umbria tra la sfera sociale e tutto ciò che afferisce alla sanità. Il
fatto che, casualmente o meno, il piano sociale e il piano sanitario saranno rinnovati
contestualmente, contemporaneamente, ci permette – anche organizzativamente, come Regione
dell’Umbria, stiamo apportando delle innovazioni – di sperimentare il tentativo di non far
marciare questi due processi su due binari che non si incontrano, ma di farli incontrare, anche per
superare quei limiti che sono dati dalla storicizzazione dei flussi di spesa, che in Umbria sono
avvenuti, in maniera particolare, per quanto riguarda la spesa sanitaria, e che hanno prodotto, o
contribuito a produrre, questo elemento di difficoltà e di criticità. Allo stesso tempo, ci troviamo
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nella condizione non solo di rifare o di riaggiornare il piano sociale, ma di mettere mano anche al
complesso della legislazione nazionale – fatte salve le leggi sull’associazionismo di promozione
sociale e sulla cooperazione sociale, che hanno trovato compiutezza sul finire della scorsa
legislatura – e di riformare il complesso delle altre leggi; questo ci pone di fronte ad un processo
di innovazione che non attiene semplicemente agli strumenti di programmazione, ma attiene alla
necessità di ridefinire in alcune sue parti un sistema di welfare, per renderlo più adeguato al
contesto sociale che, nel frattempo, è mutato. C’è la necessità di riscrivere uno strumento
fondamentale come la legge 3/97, ma contemporaneamente – questo è l’impegno sul terreno
programmatico che il governo regionale per questa legislatura si è assunto – di riformare la legge
regionale sul volontariato e quella sull’immigrazione e di introdurre uno strumento legislativo
che mai c’è stato in questa regione, come in tante altre, una normativa specifica sulle politiche
giovanili. Credo che tutto questo renda più complessa la sfida che abbiamo di fronte, ma
probabilmente la rendono anche più appassionante.
Aver registrato un largo consenso in quel ciclo di incontri, nello scorso mese, rispetto ad
un’innovazione come lo strumento del forum regionale sul welfare, credo che sia un preludio
importante che, certo, non rende per nulla scontate le cose che andremo a fare nei prossimi mesi,
ma mette un titolo sul quale siamo tutti d’accordo e pone una metodologia in parte nuova,
all’interno della quale credo che l’altra sfida sia dare voce, dare protagonismo, valorizzare il
ruolo dei soggetti dell’offerta, che in questo caso sono le pubbliche amministrazioni ed il privato
sociale, costruendo una forma di relazione vera anche nei luoghi in cui le decisioni fondamentali
dovranno essere prese con i soggetti della domanda, che altri non sono che i portatori dei
bisogni, che in una fase come questa – ed è un problema per tutti – hanno anche perso la capacità
di dotarsi di una rappresentanza politica vera e, pertanto, pongono, a volte in maniera flebile e a
volte in maniera inascoltata, una gamma di domande e di problemi alla collettività e alle classi
dirigenti, che credo non debbano essere sottovalutati.
Per questo l’anno che prende avvio sarà particolarmente rilevante, per quello che succederà in
Umbria, per come l’Umbria potrà influenzare le dinamiche del Paese, per come l’esperienza del
nuovo Governo andrà avanti. Sono convinto che, in questo percorso e in questo scenario, il
contributo che voi, a livello nazionale ed a livello regionale, come Cnca, saprete offrire alla
politica sarà particolarmente prezioso.
Giorgio Sordelli (Cnca)
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Ringraziamo l’Assessore e lo salutiamo, perché ci sembra di capire che deve scappare
immediatamente per la conferenza stampa. A questo punto, darei la parola a Dario Dell’Aquila,
che ci porta l’esperienza della Regione Campania.
Il sistema della programmazione partecipata nei modelli di welfare di comunità
Dario DELL’AQUILA (Rappresentante Area Politiche Sociali della Regione Campania)
Vi porto i saluti del mio coordinatore, il coordinatore dell’Area delle politiche sociali della
Regione Campania, Salvatore Esposito.
Vorrei tenere insieme teoria e pratica, dicendo cose lunghe e, al tempo stesso, brevi,
cominciando dalla fine. C’è un libro apparentemente innocuo, “Resistenza e cittadinanza”,
apparentemente un libro come gli altri, ma che in realtà ha un portato sovversivo, eversivo, se
vogliamo. In questo testo c’è scritta una delle frasi più belle che io abbia mai letto, ma che poi si
è tradotta nella programmazione concreta della Regione Campania. Io provengo da una regione
problematica, in cui il numero delle famiglie povere è pari al numero delle famiglie della fascia
dell’Italia del nord; in cui nello sperimentare una misura come il reddito di cittadinanza, che era
destinato a famiglie che hanno meno di 5.000 euro l’anno, ci sono state 140.000 domande; in cui
c’è un contesto in cui il welfare è sempre stato una sacca in cui si contenevano diversi bisogni
sociali che avrebbero dovuto trovare accoglienza in altri luoghi; dato un sistema sociale che,
come sappiamo, non prevede integrazioni di reddito per disoccupati, si è sempre spinto,
forzandolo ai limiti della legalità, il sistema di welfare, forzandolo e sovraccaricandolo. Dicevo,
in questo libro ci sono due considerazioni da cui vorrei partire.
La prima è la frase finale di questo libro: “La questione sociale è questione politica”. La seconda
parte, che trovate a pag. 64, è quella che dice che il diritto a dormire dell’operaio di Melfi, il
diritto dell’operaio, previsto dagli accordi nazionali nella fabbrica integrata di Melfi, a non fare
più di una settimana di turni notturni, quindi il diritto al sonno, non è separato dal diritto
all’assistenza sociale, non è separato dall’idea di welfare, non è separato dal diritto degli
operatori del terzo settore ad avere un contratto dignitoso, a non vivere - lo diceva bene
l’assessore - la propria vita coniugandola semplicemente al presente. Potrà apparire strano, ma la
questione sociale è questione politica negli atti della conferenza di programma della Regione
Campania. Qui veniamo alla parte pratica e alla parte teorica.
Noi abbiamo un forte problema sulla partecipazione, nella scelta e nella programmazione del
welfare. Non siamo una regione semplice, siamo una regione in cui ogni giorno un conflitto o un
bisogno sociale è fisicamente davanti al palazzo regionale a protestare; il numero di proteste di
fabbriche che chiudono, di disoccupati organizzati che chiedono formazione, di associazioni di
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disabili che protestano è infinitamente alto. Il che da un lato è un vantaggio, poiché i soggetti del
welfare li vediamo tutti i giorni, sono lì, presidiano fisicamente i nostri ingressi; dall’altro è il
sintomo che, nonostante un grande sforzo di programmazione, nonostante una grande
programmazione in quel deserto sociale che era la regione Campania fino al 2000, fino al
momento in cui sono state pianificate e programmate le scelte del welfare, questo grande sforzo
della sperimentazione non si è ancora tradotto in una stabilizzazione dei servizi. Abbiamo,
quindi, un vantaggio nel vedere i conflitti, nel vederli vivere; abbiamo una difficoltà a tradurre il
grande sforzo teorico, che è stato fatto e che stiamo facendo, nella capacità di costruire un
sistema che risponda realmente a questi bisogni.
Allora, vorrei tenere insieme teoria e pratica, dicendo che non si può – ed è una frase che usa
molto Salvatore Esposito, che a me piace ripetere – partire da un processo di concertazione, nella
decisione delle politiche del welfare; bisogna avere il coraggio, e lo deve fare il soggetto che
produce gli atti di programmazione, di schierarsi per un’idea di welfare. Il welfare non è un
concetto neutrale. Vorrei richiamarmi ad alcune frasi molto belle, che mi hanno colpito,
dell’intervento di Teresa Marzocchi: i diritti sono esigibili sempre; non dare per scontato il
welfare; qui ed ora.
Vorrei cominciare dal non dare per scontato il welfare. È banale, è frutto di un sapere debole, che
è figlio di un pensiero debole, pensare che le forme di welfare siano forme neutrali. Non solo ciò
non è vero, ma spetta - e la Regione Campania lo ha fatto - dire esattamente su quale idea di
welfare si costruiscono le scelte di programmazione. La scelta che è alla base dell’idea di welfare
che si sta cercando di costruire è: non è vero ciò che sostengono gran parte degli economisti, che
il welfare sia conseguenza dello sviluppo e che, quindi, bisogna aspettare che i processi siano
sviluppo e welfare. Bisogna invertire questo paradigma. Il welfare, che è condizione di sviluppo
e determina le condizioni di legalità e di sicurezza per i cittadini, permette di costruire un tessuto
economico e sociale in cui non ci sono esclusi e in cui i processi di inclusione sono dinamici,
reali.
Vorrei chiudere con un riferimento al grande assente del welfare. Il grande assente della
discussione sul welfare è l’economia, c’è una separazione netta. Quindi mentre noi parliamo, a
livello normativo, a livello regionale, di integrazione socio-sanitaria, di integrazione tra la
programmazione sanitaria e la programmazione sociale, esiste una separazione netta tra welfare
ed economia. Ai tavoli in cui si discute del problema dell’inserimento lavorativo delle fasce
deboli c’è la Regione, ci sono gli enti locali e il terzo settore, in un cortocircuito per cui il terzo
settore si deve fare carico del recupero e della riabilitazione, ma anche del costruire opportunità
di lavoro, diventando un circuito chiuso che, ovviamente, non può assorbire l’enorme richiesta
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che proviene dai tanti bisogni sociali. Non conoscono abbastanza bene l’esperienza umbra, ma
conosco molto bene quella campana e vi posso dire che a tutti i tavoli, compreso quello
sull’indulto, che ha creato tanto panico, erano seduti tutti, ma mancavano quegli interlocutori
economico-istituzionali che potevano dare risposte sul fronte sull’inserimento lavoravo. È ovvio
che è un problema di contesto socio-economico, è ovvio che nella regione Campania è molto più
difficile riuscire ad inserire persone in un mercato del lavoro che è di per sé fragile e ha una
enorme quota di sommerso, esclude le donne; è una riflessione che adesso non possiamo
approfondire, ma vi lascio immaginare.
Come abbiamo affrontato lo sforzo di tenere insieme questa idea di un welfare che fosse motore
di sviluppo con gli atti concreti che una pubblica amministrazione produce? Si è detto: spetta a
noi, spetta alla Regione, spetta all’istituzione, che non si deve pensare come luogo di tecnici che
programmano ed offrono all’assessorato uno strumento perfetto, bello, tecnicamente
ineccepibile, che va in Consiglio con poche modifiche fatte dalla politica - in un sistema, magari,
non di visione di welfare, ma di visione di piccoli interessi - un po’ modificato e poi passa. No, il
problema era: come condividiamo questo sforzo? Prima di tutto, individuare l’idea che alla base
del welfare c’è un patto o non un contratto tra il pubblico e il cittadino; l’idea del contratto, tipica
di alcune regioni come la Lombardia, è un’idea di welfare per cui il cittadino è un utente di
servizi. Non è un’idea che ci appartiene, per questo mi piace l’idea di “diritti esigibili sempre”. È
un concetto che non è semplice affermare. In una riunione in cui ci siamo trovati con la sanità,
una responsabile della sanità ci ha detto (ci riferivamo a soggetti deboli con disagio psichiatrico,
internati in ospedali psichiatrici giudiziari): ma io adesso non ho le risorse, perché siamo in
debito con le farmacie e perché stiamo recuperando i debiti con le cliniche private, per cui
nell’elenco delle priorità del mio assessorato questi soggetti arrivano dopo. Quei soggetti, invece,
dovrebbero essere i primi, in un elenco delle priorità. Era il settore delle fasce deboli, quindi non
aveva altri obiettivi.
Quindi, occorre il coraggio di avere un’idea di patto in cui siano chiari i ruoli e in cui si recuperi
l’altro grande assente, oltre al mercato economico: il cittadino. C’è un’idea di concertazione
vecchio tipo, per cui un assessorato alle politiche sociali interloquisce con il terzo settore,
possibilmente con il terzo settore forte, organizzato, dimenticando che il terzo settore è una realtà
complessa, in cui gran parte dei servizi, soprattutto in molti Comuni della nostra regione, viene
assicurato da piccole associazioni che hanno una grande storia, una grande tradizione, che hanno
però, magari, quadri più formati verso l’assistenza che verso il confronto politico, verso la
capacità di imporsi sul piano dei rapporti di forza con un assessorato. Occorre, quindi, la capacità
di individuare delle priorità. Nel nostro caso, per quest’anno, si è detto di investire sui bambini,
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sull’adozione sociale, perché un bambino che nasce in un quartiere povero della periferia
napoletana, o semplicemente in un quartiere a rischio, non può essere recuperato a 14, 15 o 16
anni, è tardi. Noi dobbiamo avere la possibilità di dire a quel bambino che nasce e a quella
mamma che si presenta in quel quartiere: qui c’è un servizio sociale che è al tuo fianco, perché la
maternità non può essere un fulmine che determina per le donne l’esclusione o, nei nostri
contesti, lavorare a nero con una macchina per cucire, in un quartiere centrale della città. Questa
è l’aspettativa di lavoro che hanno molte donne nella nostra regione.
Si è parlato di assistenza tutelare agli anziani perché, piuttosto che investire risorse disponibili a
pioggia, dobbiamo assicurare che dalle cinque o dieci ore di assistenza tutelare che effettuano gli
anziani nei loro territori, si arrivi ad un sistema di assistenza tutelare che consenta alle famiglie e
agli anziani di liberarsi da questa prigionia reciproca della disabilità e vivere ciascuno
pienamente la propria relazione di affetti, non semplicemente sulla base di una relazione di aiuto.
Si è detto: investiamo nelle periferie, con atti che sono anche a rischio. La scelta politica più
comoda per una pubblica amministrazione è non fare scelte. Io ho vissuto molto da cittadino,
prima di essere funzionario regionale, quindi ho imparato che, spesso, i meccanismi della
Pubblica amministrazione, di un apparato amministrativo, sono che il non fare è premiato
rispetto al fare. Questo riguarda gli impiegati, i funzionari e anche, spesso, i gruppi dirigenti.
Invece, nel rapporto dialettico che deve esserci tra pubblica amministrazione e la politica, il
gruppo dirigente della pubblica amministrazione – che è quello che ha i saperi, spesso, più di un
assessorato, che ha l’idea politica, a cui però è necessario un forte supporto tecnico – deve dire:
noi siamo in grado, in base alla mappa sociale dei bisogni, perché conosciamo i nostri territori, di
individuare o di suggerire alcune priorità. Quindi, si è deciso che la terza priorità su cui investire
fossero le periferie a rischio, con progetti mirati per le periferie metropolitane della nostra
regione. Non vi dico questo per mostrarvi le “medagliette” della Regione Campania, ma per
mettere insieme la programmazione partecipata con l’idea delle nostre priorità.
Il nostro settore ha fatto una conferenza di programma pubblica, e ci siamo detti: invitiamo tutti,
invitiamo i cittadini, invitiamo le associazioni, invitiamo gli altri assessorati e presentiamo un
documento sulle priorità e le scelte di programmazione della Regione Campania, in cui noi ci
confrontiamo sull’organizzazione dei servizi interni, perché è un fatto importante, non
trascurabile, sapere come sono organizzati i servizi di una regione – “chi fa che cosa”, si diceva
prima – dicendo chiaramente: date queste risorse e dati questi obiettivi, questo è ciò che
intendiamo fare. La giornata si è svolta con la presentazione di un documento, la costruzione di
gruppi di lavoro, la messa insieme di quei gruppi di lavoro in un nuovo documento, che poi è la
nostra guida per quest’anno. Ovviamente, nessuna forma di partecipazione si esaurisce in un
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luogo, ma la partecipazione si determina nei processi. Bobbio diceva: “La democrazia è frutto di
buone leggi e buoni costumi”. Nessuna buona legge, nessun forum regionale, nessun tavolo di
consulta, strumenti di cui pure la Regione è dotata, può sostituire la capacità di una
programmazione partecipata nei processi, nel momento in cui le scelte si determinano, perché
dopo è tardi; con i tempi attuali, anche una pianificazione che supera l’anno può diventare
superata. Lo è sicuramente in un contesto regionale come quello della Campania, ma penso
anche in molte regioni del Mezzogiorno, in cui la parte delle emergenze che si determina nel
corso di un anno è capace di spostare notevolmente gli obiettivi dell’azione programmatica.
Pensate all’indulto, per esempio: è un provvedimento che, visti i numeri della nostra regione, che
aveva 7.500 detenuti e che ha visto circa 4.000 persone beneficiare dell’indulto, ha costretto la
regione a un grande sforzo, spesso di fronte ad una platea che poco si conosceva. Forse - è una
bella parola, il sociale si coniuga con il “forse”, siamo d’accordo - siamo stati in grado di
supplire teoricamente a una serie di assenze che avevamo, di coniugare un grande sforzo di
pensiero e di riflessione, perché c’è una grande separazione tra quello che produce l’Università,
quello che si produce a livello di ricerca e ciò che poi orienta l’azione politico-amministrativa.
L’apparato pubblico, sostanzialmente, si garantisce su delle prassi e su delle procedure nelle
quali si rassicura, e c’è poi molta difficoltà a portare avanti la parte dialettica, il confronto
continuo con il terzo settore, con le associazioni e con i cittadini. Non è possibile pensare che la
programmazione si esaurisca senza avere un ritorno di quelli che sono i servizi offerti nei vari
ambiti. Questo è un problema, è una grande difficoltà che abbiamo. C’è una pianificazione
perfetta sul piano formale, una pianificazione che anche formalmente passa attraverso il
confronto con le associazioni, ma manca un ritorno reale su quello che accade in molti territori.
È ovvio che parliamo di territori estesi, con 5 milioni di abitanti, non è un terreno semplice di
confronto. Così come noi scontiamo, nel sistema della programmazione e della discussione, il
fenomeno delle infiltrazioni criminali. Andiamo a dialogare con un Comune che è commissariato
e che spesso risulta capofila di un ambito; il commissariamento di un Comune per noi significa
che non sappiamo più nulla di quello che succede e che non abbiamo più nessun potere di
intervento, se anche domani venissero sospesi tutti i servizi.
Altro concetto bellissimo, espresso in questo libro, è contenuto nella nostra programmazione. È
un elemento spesso trascurato, ma è fondamentale nella costruzione del welfare partecipato: non
si fanno politiche sociali senza le risorse per le politiche sociali. Il concetto di quota capitaria per
il sociale non è un concetto banale, non è secondario e non è difficile da trasmettere; è
certamente un’idea difficile da affermare… (fine nastro)… pari agli anni che ha trascorso in
serie B il Calcio Napoli, è stato un lutto quotidiano mattutino. Le regioni come la nostra, le
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regioni progressiste, hanno sostenuto un grande sforzo economico per compensare i tagli netti di
oltre il 45% al fondo nazionale delle politiche sociali ed integrarli. Ora è il momento di stabilire
una programmazione triennale delle risorse economiche ed umane. Non è possibile ragionare di
welfare e di obiettivi se non si sa cosa si sta spendendo, e non in termini assoluti, ma in termini
di quota pro capite, se non si sa quante risorse umane sono dedicate in quegli ambiti al welfare;
per risorse umane, noi intendiamo tanto i dirigenti e i funzionari pubblici di un ufficio di piano,
che sono dedicati - eccome sono dedicati - tanto il numero di operatori sociali che lavora in
quell’ambito o che ha il compito di erogare quei servizi. Anche qui, nel rapporto tra il terzo
settore e la Regione c’è uno sforzo reciproco. Si dice: come Regione, mettiamo pubblicamente in
discussione i nostri atti; la conferenza di programma è stata solo uno degli atti.
Il 13 novembre, abbiamo fatto gli stati regionali del welfare, a due mesi dalla conferenza di
programma, perché non pensiamo che sia un processo che si possa esaurire in un documento, una
volta per tutte. Allo stesso tempo, però, c’è bisogno che dall’altra parte il terzo settore non si
pensi come imprese erogatrici di servizi, ma che il terzo settore sia portatore di una visione del
welfare con cui confrontarsi. Il limite più grande che vivono gli apparati amministrativi, ma
anche, spesso, i vertici politici, è il non confrontarsi sulla teoria, non sulla teoria astratta, non sui
modelli econometrici, non su quello che affascina gli economisti di un mondo virtuale, in cui
sono dati due fattori e la realtà… come disse una professoressa del mio corso di dottorato: “In
assenza di realtà, il modello funziona”. In assenza di realtà, tutti i modelli teorici sono buoni. Ciò
che è importante percepisca chi programma le politiche pubbliche è che l’interlocutore che ha di
fronte ha una visione, un’identità culturale - non un modello teorico generale del welfare - e che
ha la conoscenza del proprio territorio.
Il nostro sistema di welfare è inadeguato, è inadeguato come è pensato, perché è un sistema
statico. Può funzionare se si è poverissimi, se si è dichiaratamente poveri e tali si rimane. Non è
in grado di sostenere i processi di impoverimento e determina, perciò, soprattutto nella nostra
regione, paradossali lotte tra chi non ha nulla e tra chi ha poco perché, in un sistema in cui ci
sono 140.000 domande per accedere al reddito di cittadinanza, chi ha zero può essere ammesso,
ma chi ha uno no, il che determina poi una tendenza al tutto sommerso, a non riuscire mai ad
emanciparsi e, quindi, ad accompagnare la misura di sostegno ad un lavoro irregolare, perché ciò
consente di mettere insieme un salario e di andare avanti.
Qui ed ora. È difficile venire dalla regione Campania e suggerire ad altri cosa è possibile fare, e
non perché lo sforzo fatto in questi anni non sia stato enorme e generoso, e ve lo dico io, che non
sono parte di quel gruppo dirigente che ha costruito un’idea di welfare in regione. Allo stesso
tempo, è anche vero che la regione costituisce un grande osservatorio, perché i conflitti e le
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dinamiche che si determinano sono veramente tanti. Quello che mi sembra di poter dire,
innanzitutto, è che non è possibile esaurire la programmazione partecipata in luoghi che sono
definiti formalmente, che si riuniscono periodicamente e tra questo “periodicamente” non c’è
nulla. Non può esserci programmazione partecipata se le richieste del terzo settore, delle
associazioni o dei cittadini si limitano semplicemente ad un problema di quote o servizi erogati e
ad un bilancino che pesa i fondi che vengono assegnati, in una dinamica in cui il rapporto con
l’utenza non è la questione prioritaria che le parti in causa hanno.
C’è, poi, una questione che è molto importante: attualmente, nelle nostre regioni, c’è una
dinamica strana, ambigua, tra i Consigli regionali, le Giunte e gli apparati amministrativi; sono
tre settori separati, uno non sa cosa fa l’altro. Il che significa che non è possibile creare forme
nuove di partecipazione, se le vecchie non funzionano. Gli strumenti aggiuntivi che si creano alla
partecipazione dei cittadini al dibattito, se non sono accompagnati da un funzionamento più o
meno efficace, da un confronto più o meno continuo, quelli che sono previsti istituzionalmente
difficilmente funzioneranno. Forse, noi speriamo di passare quest’anno, costruendo gli stati
generali del welfare del Mezzogiorno, da una condizione in cui l’emergenza ci costringe a scarsa
riflessione, a tradurre i dati di cui disponiamo in patrimonio conoscitivo condiviso. Tra gli
obiettivi che accompagnano la nostra azione di programma c’è la costruzione delle commissioni
di verifica e qualità sui territori e la costruzione della mappa sociale regionale dei bisogni, perché
le regioni dispongono di un enorme patrimonio organizzativo di dati che sono persi nella
Pubblica amministrazione. Pensate solo a tutte le domande che vengono fatte sul reddito minimo
di inserimento, prima, e sul reddito di cittadinanza, dopo, che ci consentono di fare una mappa
dettagliata della povertà nella nostra regione, almeno della povertà dichiarata in base alle
dichiarazioni dei redditi che vengono presentate.
Chiudo con un’idea che Salvatore Esposito mi ha insegnato e che guida la nostra azione
quotidiana. Prima di tutto, Salvatore dice sempre: noi siamo operatori sociali, non siamo
dirigenti pubblici, non siamo funzionari della pubblica amministrazione, noi siamo operatori
sociali; chi lavora con il sociale non ha un orario di lavoro, ha un orario etico; le cose di cui tratti
sono vite, sono persone, sono disagi, sono problemi; non puoi chiudere e andare via. E la frase di
quest’anno, che abbiamo trasformato nel nostro augurio, è una frase di Camus, del ’53, che dice:
“C’è la bellezza e ci sono gli oppressi. Per quanto difficile possa essere, io vorrei vivere
rimanendo fedele ad entrambi”. Se dovessi sintetizzare il nostro sforzo, di un settore che riguarda
120 persone, più una serie di organismi, direi questo: c’è la bellezza e ci sono gli oppressi; noi
vorremmo essere in grado di rafforzare il welfare dell’agio; il welfare non riguarda solo una
condizione di estrema miseria, ma vorremmo costruire un welfare che intervenga sui processi di
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impoverimento, vorremmo costruire un sistema di welfare integrato che riesca veramente a far
uscire le persone dalla condizione di esclusione sociale, che nei nostri territori spesso diventa
cronica. Vi ringrazio.
Giorgio Sordelli (Cnca)
Ringraziamo per questo spaccato molto lucido e molto preciso.
(Coffee break).
Giorgio Sordelli (Cnca)
Diamo ora la parola a Ugo D’Ambrogio dell’IRS, che proverà a fare un quadro più generale, con
uno sguardo più ampio rispetto a quello avuto fino adesso.
Ugo D’AMBROGIO (Responsabile Area progettazione e valutazione delle politiche sociali,
Istituto per la Ricerca Sociale di Milano)
Grazie, buongiorno a tutti. Sono Ugo D’Ambrogio, lavoro per l’IRS di Milano, che è una
cooperativa, istituto di ricerca, che da più di 35 anni opera nel settore delle politiche sociali, fra
le altre cose. Il biglietto da visita più noto, probabilmente, è “Prospettive sociali e sanitarie”, una
rivista che da ben 37 anni invade i settori delle politiche sociali e i luoghi dove si fanno politiche
sociali. Io me ne occupo da un po’ di meno, però da una ventina di anni. In particolare, oltre alla
rivista, facciamo molta attività di programmazione e valutazione; dalla fine degli anni ’90,
soprattutto per quanto riguarda le leggi di settore - la 285, la 40, la 45 - dal 2002 in poi,
sostanzialmente, in tema di pianificazione zonale. Per queste ragioni, poiché in particolare in
questo momento, in un modo o nell’altro, stiamo lavorando almeno su sei o sette regioni in tema
di pianificazione zonale, mi è stato chiesto di intervenire, tentando di fare qualche connessione
con quello che sta accadendo a livello nazionale sulla pianificazione zonale, con un focus sulla
progettazione partecipata nella pianificazione zonale.
Oggi pensavo di intervenire, sostanzialmente, su quattro punti. Un breve cenno un po’ didattico è deformazione professionale - sullo sviluppo delle politiche sociali e della programmazione nel
nostro Paese, cioè su come siamo arrivati fin qui, lo farò molto velocemente, giusto per
puntualizzare; mi soffermerò sul piano di zona, le sue potenzialità e i suoi limiti, non in termini
di cosa dovrebbe essere, ma in termini di cosa effettivamente sta accadendo, per focalizzare
alcuni punti che riguardano il piano di zona e la partecipazione come connessione cruciale, ma
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anche come arma a doppio taglio, e concludere con qualche considerazione sulla funzione di
regia, che è quella che può consentire una partecipazione virtuosa.
Partiamo dal primo di questi punti. Non mi soffermo sull’indicare il fatto che nelle politiche
sociali, se facciamo un veloce excursus fra gli anni ‘60, ‘70, ’80-90 e ‘90-2000, nei quali
attualmente ancora ci troviamo, abbiamo avuto una forte evoluzione della cultura di intervento,
che è passata dall’assistenza al caso singolo degli anni ’60, dove l’oggetto è il problema
conclamato, il target è l’utente singolo, la funzione è la cura e l’accudimento, l’approccio
professionale è essenzialmente di tipo terapeutico, realizzato da singole professionalità, ad un
approccio che comprendeva il primo, ma ha inglobato e si è orientato all’idea di prevenzione,
che non si rivolge più solo al problema conclamato, ma anche alla situazione a rischio, che ha
come target non il singolo, ma gruppi di soggetti a rischio, con un approccio professionale di tipo
terapeutico ed educativo allo stesso tempo, che ha avuto come attori équipes professionali
integrate, ad un approccio, negli anni ‘90 e 2000, orientato alla promozione, del quale le leggi di
settore sono state i vessilli, che si rivolge ad una sorta di normale disagio, a un disagio evolutivo.
La legge 285 si rivolgeva ad una fascia di popolazione, ponendosi come funzione non solo la
cura e l’accudimento, lo stimolo alla consapevolezza e alla responsabilità, ma anche
l’attivazione, affiancando all’approccio terapeutico quello educativo e quello consulenziale ed
animativo, laddove gli attori, dal singolo professionista all’équipe integrata, si sono trasformati
nell’essere la rete delle opportunità e dei servizi del territorio. È uno schema, semplicemente per
richiamare alcune cose.
Se ragioniamo sull’evoluzione della programmazione in Italia, all’interno di questa evoluzione
della cultura professionale e di intervento nei servizi sociali, possiamo notare che la
programmazione - che nella prima metà degli anni ‘60 e ‘70 aveva caratteristiche di intervento
secondario, perché ci si rivolgeva ai singoli bisogni, l’ambito di intervento era pertanto il singolo
intervento pubblico e l’attore coinvolto il singolo settore di un ente pubblico - subisce
cambiamenti negli anni successivi, diventa elemento centrale a partire dal D.P.R. 616, cioè,
sostanzialmente, dalla seconda metà degli anni ‘70 in poi, quando si passa da un modello
assistenzialistico a un modello di servizio sociale, quando gli attori cominciano ad essere
considerati i Comuni e le allora U.S.L., in rapporto dichiaratamente di collaborazione e
soprattutto di delega, in questa fase.
Dalla metà degli anni ‘80 fino al ’97, avendo come traguardo la legge 285, l’enfasi è messa
soprattutto sull’idea di lavoro per progetti, c’è l’interesse all’intervento preventivo di ordine
progettuale; è la fase nella quale l’ambito di intervento si apre al volontariato o al terzo settore,
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che in questo periodo comincia a consolidarsi, per cui gli attori non sono più soggetti
esclusivamente pubblici, ma sono enti locali, le U.S.L., la scuola, il volontariato.
Dal ‘98 ad oggi, nell’epoca prima delle leggi di settore e poi della legge 328, abbiamo un forte
rilancio della programmazione a più livelli, prima con i piani settoriali, poi con i piani di zona,
dove l’ambito di intervento è la costruzione della politica sociale di un territorio e gli attori sono
i cosiddetti attori della governance. È qui che trova diritto di cittadinanza l’idea di welfare
partecipativo, intorno alla quale siamo qui quest’oggi per discutere, o le diverse declinazioni
della sussidiarietà, che tanto sono enfatizzate dalla fine degli anni ‘90 ad oggi. Questo per
contestualizzare come si inserisce, anche da un punto di vista culturale - anche se l’ho fatto in
modo un po’ eccessivamente sgrossato - l’idea di piano di zona.
Sostanzialmente, possiamo dire che il piano di zona è uno strumento rivoluzionario (passatemi il
termine) per una serie di questioni, che precedentemente nel sistema programmatorio non
c’erano. La prima: si sintetizzano gli interventi e le politiche del settore sociale e si coordinano
con altre politiche. Prima dei piani di zona, non esisteva neanche da parte del singolo Comune
una consapevolezza sulla destinazione della spesa sociale; difficilmente si sapeva quanti soldi
spendiamo per il sociale e quale fetta della torta dedichiamo ai minori, quale agli anziani, ai
disabili o quant’altro, perché le forti di finanziamento erano articolate, perché avevano tempi
diversi, perché qualcosa arrivava dalle Regioni e qualcosa direttamente dalla Stato, qualcosa di
spesa ordinaria, qualcosa dai costi di contribuzione degli utenti etc.. L’idea di piano di zona è di
mettere ordine e di razionalizzare in questo senso, ed è una prima cosa non facile.
Seconda questione processuale: si passa da una programmazione e da una prospettiva di
government ad una prospettiva di governance, ovvero coinvolgendo altri soggetti istituzionali, il
terzo settore.
Terza rivoluzione: si programma ad un nuovo livello la zona, superando la impasse storica del
frazionamento comunale. Qui è detto in modo garbato, ma potremmo dire che “si fa la festa al
campanile”, che storicamente è uno degli elementi di debolezza del sociale, perché non è
possibile che il Comune di Chamoix, dove sono andato a sciare pochi giorni fa, che ha 80
abitanti, abbia le stesse competenze di quello di Roma, che ne ha 3.500.000; Chamoix è un
Comune ricco perché è in Valle d’Aosta e si scia, ma se per caso gli capita di avere due gemelli
con dei problemi di allontanamento dalla famiglia, si indebita per quattro generazioni. È un
assurdo organizzativo pensare che ci siano in Italia 8.000 Comuni senza un’articolazione di
competenze sul settore sociale. Quindi, l’idea di programmare a un livello omogeneo l’ambito
dai 50.000 ai 150.000 abitanti, spesso, per fortuna, con questa condizione, che sia negoziale con
il distretto sanitario, è finalmente l’idea di avere un soggetto dove si può programmare, dove la
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programmazione non è una parola vuota, ma è una chance effettiva. Si programma in modo
congiunto anche con la A.S.L., non nella logica vecchia della delega, ma in quella
dell’integrazione operativa territoriale. Infine, non si pianificano più singoli progetti promossi da
finanziamenti ad hoc, ma si ragiona in termini di politiche complessive per area di bisogno, in
un’ottica di LIVEAS.
Non è poca roba. È evidente che cinque rivoluzioni di questa portata non si fanno perché viene
scritto in una legge, richiedono del tempo, richiedono un forte investimento culturale,
richiederanno processi continui di andata e ritorno. Mi sono molto arrabbiato, poco prima di
Natale, quando è uscito un articolo su “Il Sole 24 Ore” che diceva: “I piani di zona non
decollano”. E la ragione che veniva principalmente addotta era il fatto che solo il 60% dei piani
di zona realizzano tutti i servizi in forma associata. Io non ci credo che siano il 60%, sarebbe un
risultato miracoloso e sarebbe una forma non di decollo, ma di astronave, se le condizioni
fossero effettivamente queste. A me sembra miracoloso, prima di tutto, il fatto che, nonostante la
riforma del Titolo V, tutte le regioni, tranne due, abbiano fatto i piani di zona e poi che,
attraverso i piani di zona, si comincino a realizzare forme di intervento in forma associata o
federata, di queste cose si vada parlando e ci si interroghi sulle forme gestionali da mettere in
campo etc. Io penso che chi ha scritto quell’articolo avesse, probabilmente, una scarsa
competenza operativa nel sociale, per fare un’affermazione del genere.
Questi erano i piani di zona all’inizio del 2005, da una ricerca che ha fatto il Formez, che
presumibilmente conoscerete. Oggi dovremmo essere in questa condizione: a parte Calabria e
Molise e la provincia di Bolzano, perché a Trento qualcosa del genere è stato fatto (anche la
Valle d’Aosta è un’eccezione, ma è una regione piccola e particolare), i piani di zona sono stati
fatti su tutto il territorio nazionale, anche se a velocità molto diverse.
Un’osservazione positiva è legata al fatto che si sono moltiplicate le teste pensanti che ragionano
in termini di costruzione di politiche. Se prima al pianificatore locale veniva chiesto: fammi un
progetto sull’art. 5, sull’art. 6 o sull’art. 7 della 285 - per fare un esempio - e dunque qualcun
altro aveva deciso che vi erano buone ragioni per lavorare su quelle politiche e si chiedeva di
progettare, adesso viene chiesto: decidi tu quali sono le priorità del tuo territorio, decidi tu come
allocare le risorse all’interno del tuo territorio. Si è passati dall’essere costruttori di progetti ad
essere costruttori di politiche. Il buon senso del legislatore è stato nel dire: è più facile che,
anziché stabilire grossi indirizzi a livello nazionale, questo venga fatto da osservatori che
conoscono la realtà, per cui dal livello territoriale 100.000 abitanti. Questo è un grosso
cambiamento, effettivamente, anche per le persone che poi si sono trovate ad agire da progettisti,
passando da una funzione più esecutiva, per quanto interessante, ad agire da costruttori di
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politiche, sia sul fronte tecnico che amministrativo, ovviamente con ruoli diversi. Questo è
l’aspetto positivo.
L’aspetto negativo del processo è che, però, tutte le regioni evidenziate in giallo, che hanno fatto
i piani di zona in un sistema che, con la riforma del Titolo V, ha dato competenza esclusiva alle
regioni su questa materia, fanno una gran fatica a parlarsi. L’occasione di oggi mi sembra
preziosa in questa direzione, ma la mia impressione, capitandomi di lavorare in regioni diverse, è
che sembra sempre di essere alla prima volta che qualcuno si pone questo problema. Fra di noi
scherziamo e diciamo che noi facciamo i consulenti alla Robin Hood, nel senso che andiamo in
una regione, capiamo cosa hanno fatto lì e poi prendiamo il treno e andiamo a raccontarlo a
qualcun altro, senza inventare niente; ma in questo momento è un elemento preziosissimo,
perché manca non solo una funzione statale, che dovrebbe riflettere e dare qualche indicazione
sui cosiddetti LIVEAS, che latita da anni, ma proprio una funzione di coordinamento, una
funzione di banch marking che consenta di dire al Piemonte, che ha fatto i piani di zona da sei
mesi, cosa è successo in Lombardia, che è lì di fianco, che è già alla seconda edizione; o cosa è
successo in Veneto, che ha fatto una scelta diversa in ordine al ruolo del sanitario in questo
processo; o che cosa è successo nel Friuli Venezia Giulia, che ha fatto le stesse linee guida con la
sanità; o che cosa è successo nella regione Emilia Romagna, che ha valorizzato la funzione
infanzia ed adolescenza con una figura di sistema specifica. Queste cose non si sanno, non
circolano, e questa, dal punto di vista dei vantaggi della programmazione, non per
omogeneizzare il tutto, ma per confrontarsi, in questo momento mi sembra una grossa carenza.
Questa non è l’unica rete possibile del piano di zona, ma vi ho messo questa galassia
semplicemente per far vedere la complessità dal punto di vista relazionale di un piano zonale, ci
sono tanti attori che insistono in un processo di pianificazione zonale. Mi serviva per passare al
terzo momento della nostra riflessione, cioè: piano di zona e partecipazione.
Usiamo il termine governance, che è quello forse più abusato in questa fase, è una di quelle
parole che si insinuano e improvvisamente ci raggiungono senza che tutti ne siamo stati
consapevoli; la classica parola passepartout, molto abusata in questa fase. Diamo un paio di
definizioni: una situazione in cui la formulazione e l’implementazione delle politiche pubbliche
vedono una pluralità di soggetti, di diversa natura e da diversi livelli, interagire fortemente tra
loro. Oppure, definizione per molti versi complementare: sistema innovativo di realizzazione del
policy making, nel quale il processo di decisione è la risultante di un’interazione tra soggetti
diversi che condividano responsabilità di governo - mi piaceva il concetto di responsabilità,
anche stamattina Teresa parlava di corresponsabilizzazione - soggetti istituzionali, terzo settore e
società civile. Quindi, operando la distinzione che abitualmente viene fatta tra l’idea precedente,
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che era quella di government, e quella attuale, che è quella di governance, possiamo dire che per
government si intende l’intervento top down, il potere a, cioè che il soggetto pubblico ha la
titolarità esclusiva di una politica pubblica, all’interno di un sistema piramidale gerarchico; per
governance si intende lo stearing, il potere fra. La guida di una politica ha una titolarità diffusa
tra un ente pubblico ed altri soggetti istituzionali, terzo settore e società civile. Il sistema di
governo proposto è a rete. Ma ciò non significa che siano tutti con gli stessi ruoli, non significa
che siamo in un’assemblea a democrazia diretta; significa che ci sono diversi soggetti che si
considerano corresponsabili della funzione pubblica.
Dunque, per il piano di zona significa applicare una metodologia negoziale, finalizzata ad un
processo condiviso di costruzione collettiva delle politiche sociali, basato su un comune
interesse, per costruire la rete coordinata e unitaria, che è poi il titolo della 328. La legge non va
oltre, anzi declina tutti questi soggetti usando una formula che credo che oggi, dopo sei anni,
possiamo definire proprio maledetta: “hanno diritto a concorrere se concorrono con risorse
proprie”. Che diavolo vuol dire “risorse proprie”? Secondo me, va da un continuum: vengo due
ore ad una riunione, per cui ti do due ore delle mie risorse, al: ti metto a disposizione il mio
bilancio, fanne ciò che vuoi. All’interno di questo continuum ci sta tutto, e questo ha creato
grossissima confusione. A me sono capitate cose veramente paradossali sul fronte della
governance del piano di zona: dai territori nei quali ancora alcuni Comuni non avevano neanche
deciso di associarsi e fioccavano le telefonate al terzo settore: ci devo stare anch’io, c’è scritto
nella legge, ricordatevi di me; alle situazioni nelle quali mi è stato chiesto di intervenire per
lavorare sui tavoli tematici, ma i tavoli tematici hanno una funzione: quella di dare delle idee per
fare il piano; dice: no, il piano lo abbiamo già fatto; ma allora perché avete costituito il tavolo?
Ce lo ha chiesto l’assessore, si deve fare la governance. Veramente siamo al paradosso. Avevo
trovato questa immagine di governance, che mi sembrava carina ed anche un po’ ironica: l’idea
di mettere tanti diversi ortaggi a fare un girotondo contiene anche tutta la retorica sulla
governance, che in questi anni siamo intercettando.
Tirando qualche filo, le buone ragioni per fare governance nel piano di zona mi sembra che
risiedano nel fatto che la diversità degli attori permette di integrare diversi punti di vista, valori e
risorse, per cui si pianificherà meglio, se si ascoltano più soggetti che hanno competenza rispetto
ai temi che stiamo affrontando. L’idea metodologica di progettazione partecipata, nata in campo
urbanistico, è questa: se io vado ad ascoltare i bambini e i nonni per arredare un parco pubblico,
forse evito, come hanno fatto di fianco a casa mia, di mettere una sola altalena, davanti alla quale
c’è la coda, ed un anfiteatro dove non è mai stato rappresentato nulla; magari, ci si mettevano tre
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altalene e i bambini non stavano in coda e, al posto dell’anfiteatro, c’era un po’ di verde in più e
un po’ di spaccio in meno.
La progettazione partecipata assicura la creazione di coalizioni abbastanza ampie da garantire il
consenso necessario all’innovazione, ma diluisce anche le responsabilità politiche per i
fallimenti. La progettazione partecipata può essere anche un buon alibi per dire: sì, ma non era
una cosa solo mia, io mi sono adattato alla decisione di altri; per questo il concetto di
responsabilità è essenziale. È stato molto interessante, spesso lo è, lavorare con il sindacato nei
tavoli tematici, perché il sindacato soffre una fortissima ambivalenza: prima chiede fortemente di
starci, in alcuni casi mi è anche capitato che il sindacato, una volta entrato, ha detto: questo non è
il mio ambiente, come faccio poi a rivendicare qualcosa, se l’ho costruita io? Mi è sembrata una
scelta corretta, molto legittima, non è tanto nel gioco delle parti, ovvero ci può stare, adesso non
voglio entrare in una discussione sul ruolo sindacale, era soltanto un esempio; mi sembra
interessante che ci si interroghi su questo, proprio perché prefigura la questione della
responsabilità legata alla partecipazione.
Un dato interessante; questa è una ricerca Equal ormai datata di due o tre anni, fatta su un
campione rappresentativo di imprese sociali, per altro sovrappesato nel Cnca, perché era un
partner; anche se in quell’epoca eravamo ancora nel disegno blu, cioè non tutte le regioni
avevano ancora fatto i piani di zona, i piani di zona erano già diventati la principale esperienza di
partecipazione del terzo settore, la principale esperienza programmatoria di partecipazione del
terzo settore; in un paio d’anni, il 56% delle imprese sociali contattate aveva esperienza di
partecipazione al piano di zona, avevano superato i 285, i piani 45, i progetti Equal, i patti
territoriali, i piani legge 40, i contratti di quartiere, i progetti Urban etc.; questo ad indicare la
forza dirompente che ha avuto nel processo di pianificazione zonale, dal punto di vista del
coinvolgimento del terzo settore. Non parla della qualità del coinvolgimento del terzo settore, è
un dato quantitativo.
Cosa succede dal punto di vista delle prassi? Queste, invece, sono informazioni qualitative che
soffrono della mia discrezionalità, non è neanche una ricerca, è solo frutto di esperienze “alla
Robin Hood”, come citavo prima. Molto spesso, incontriamo tavoli tematici costruiti sulla base
di illusioni diffuse. Prima illusione: qui si decide; oppure: qui si conquistano posizioni per
ottenere appalti. Queste sono due illusioni che nella pianificazione zonale spesso incontriamo.
Qual è la trappola? Se i processi non sono governati, queste illusioni diventano dei boomerang,
dei pregiudizi reciproci, cattive relazioni fra i potenziali partner. Quando mi rendo conto che la
decisione non è lì, dopo un po’ me ne vado, oppure mi incavolo. Quando mi rendo conto che
sono lì per una funzione di advocacy e non per mettermi in pole position, e l’attribuzione degli
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appalti passa per altri canali, allo stesso tempo perdo energia, se sono partito con questo tipo di
illusione. Sicuramente è mancata chiarezza in moltissimi ambiti, cioè l’ambivalenza della legge
328 è stata riportata in questi termini nella pratica. Un’iniziativa di particolare successo che
l’IRS tra conducendo in questa fase, nel senso che ci chiamano costantemente, è, soprattutto
nelle regioni che hanno fatto il piano di zona e che sono nella fase di gestione del piano, fare dei
brevi workshop formativi sulla conduzione dei tavoli tematici. Infatti, i conduttori dei tavoli
tematici si trovano in questa impasse, nella quale non sanno più tanto bene cosa fargli fare
perché il piano è già stato fatto e, allo stesso tempo, si trovano a dover governare esigenze ed
aspettative spesso frustrate della gente che vi ha partecipato, che non è stata del tutto soddisfatta
di questa partecipazione, legittimamente, perché è stata una partecipazione mal governata.
Allora, si tratta di rimettere in ordine le cose e di chiedersi quale può essere la strategia di un
tavolo tematico nella fase di gestione del piano, a cosa serve per la programmazione, interrogarsi
su come sono andate le cose e rilanciarlo.
Sinteticamente, a cosa serve? Serve come fortissimo elemento di analisi dei bisogni e di
valutazione dei risultati del piano. Se è un luogo di consultazione formato da figure competenti, è
un elemento preziosissimo per la programmazione; però deve esserci un contratto chiaramente
definito in questi termini. Se si pensa che sia il luogo dove si decidono le politiche o
l’allocazione delle risorse, questa è una illusione.
Passo velocemente sulla questione della advocacy, su cui è stato detto qualcosa anche
precedentemente; altro nodo è la questione rappresentanza o competenza. Se come metodologo
devo dire a cosa serve la progettazione partecipata e chi coinvolgo nella progettazione
partecipata, penso alla progettazione partecipata come ad un processo profondamente
antidemocratico, perché una buona progettazione partecipata, prima di tutto, la facciamo in otto,
non la facciamo in venti, né tanto meno in cinquanta; se siamo in cinquanta, poi decidiamo in tre,
nel corridoio; anche in Parlamento decide la conferenza dei capigruppo. Questa è la prima cosa.
Seconda cosa: a cosa mi serve per programmare buone politiche sociali la progettazione
partecipata? Mi serve se al tavolo ho qualcuno che sa delle cose che io non so, qualcuno che
porta delle esperienze che io non ho, qualcuno che mi dà delle idee che io non ho
precedentemente, per cui ho bisogno di selezionare sulla base di competenza. Se devo
selezionare sulla base di competenza, farò forti selezioni e dirò: tu ci stai, tu no. L’ambivalenza
della 328 è che la partecipazione è su un principio metodologico di competenza, ma anche su un
principio democratico di rappresentanza, che dal punto di vista valoriale posso pure condividere,
ma dal punto di vista metodologico è un casino tenere insieme queste due faccende, anche
perché il terzo settore è un soggetto sostanzialmente irrappresentabile, non nel senso che è
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brutto, ma nel senso che difficilmente ha sue capacità di autorappresentanza. Ci sono fette del
terzo settore che sono in grado di rappresentarsi, ma difficilmente queste fette riescono a
rappresentare l’universo, è proprio nelle sue caratteristiche. Inoltre, la rappresentanza non
necessariamente produce buona progettualità.
Non è che io abbia soluzioni rispetto a questo, evidenzio solo dei problemi. Nell’esperienza di
lavoro a volte ci ha facilitato utilizzare questo schema, che ha messo a punto un collega
urbanista: dividere la partecipazione in funzioni diverse. C’è una partecipazione vera e propria,
che è quando io faccio una partnership, io e te insieme siamo soggetti al pari responsabili di
questa promozione. Nella pianificazione zonale questo avviene a livello politico, perché è quello
che ha il potere decisionale finale. Allora, o si costruiscono realtà che rappresentano anche il
terzo settore a livello decisionale e politico, e allora il terzo settore ha una funzione decisionale
ultima, oppure nei tavoli tematici il terzo settore ha una funzione consultiva, perché i tavoli
tematici sono luoghi consultivi; cioè, io ho bisogno di prendere questa importante decisione e,
prima di prenderla, ascolto la tua opinione e poi decido cosa farne. È legittimo. Se il mio capo mi
dice: “Devo decidere di assumere del nuovo personale, voglio sentire la tua opinione”, io mi
sento gratificato in questo; ma se lui dice: “Decidiamo insieme di assumere nuovo personale” e
io gli dico di prendere due sociologi, ma lui prende un economista e un giurista, mi arrabbio. È
quello che è successo con i piani di zona: si pensava di andare a cena e ci si è ritrovati a
merenda. È importante chiarire che è una merenda. Non che non abbia valore la consultazione di
un tavolo tematico, perché sono istruttorie preziosissime, non è che non si decida, si istruiscono
delle decisioni, il livello politico poi decide su due alternative, non su cento, sulle due che gli ha
selezionato e predisposto il tavolo tematico; quasi sempre succede questo, per cui è un luogo più
pregnante della programmazione, ma nel rispetto di ruoli e competenze diverse.
Terza funzione partecipativa sono le relazioni pubbliche, ovvero: ho fatto questa cosa e ti
informo, mi sembra importante che tu lo sappia, ma non c’è reciprocità, a me non interessa la tua
opinione. Mi è capitato, recentemente, di andare a un convegno con un titolo simile a quello di
oggi, sulla partecipazione, che non prevedeva il dibattito; in termini processuali era piuttosto
curioso, perché era un convegno sulla partecipazione, ma si faceva un’attività di relazione in
pubblico.
Per concludere, a me sembra che un’area di investimento, in questa fase, se guardiamo ai
processi di pianificazione - e il lavoro che avete fatto in questo workshop è assolutamente in
questa direzione - sia proprio quella della costruzione di competenze e sensibilità dei conduttori
dei processi di governance, dal promotore sociale al responsabile dell’ufficio di piano, al
membro dell’ufficio di piano, al conduttore dei tavoli; è una funzione nuova, sulla quale, in
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genere, non ci siamo formati all’Università; però, è una funzione cruciale, che rappresenta uno
degli elementi essenziali per la riuscita di questo processo. Pensate che con Giorgio Sordelli, di
recente, abbiamo avuto l’opportunità, con il Politecnico di Milano, di fare un master, che
abbiamo ampollosamente chiamato “Social planning”, sulla funzione della pianificazione
sociale; poiché era un master FSE, avevamo 30 posti disponibili e non volevamo che andasse
deserto, abbiamo tentato di promuoverlo; abbiamo avuto 350 richieste da tutta Italia e ci siamo
fatti 320 nemici, perché poi, in colloqui velocissimi, abbiamo dovuto dire 320 “no”. Questo ad
indicare la grandissima fame che c’è in questo momento di una funzione formativa in questo
settore, perché devo essere un garante della metodologia programmatoria e valutativa, dunque
devo conoscere come fare programmazione e valutazione, ma devo avere anche capacità di
facilitazione dei processi contrattuali e comunicativi - lo abbiamo visto adesso ai tavoli - avere
capacità di mobilitare le competenze, essere un integratore di risorse. Altre cose potremmo dire
in questa direzione. Credo che un investimento vada proprio pensato lì, sia in termini di
formazione di base, ma anche in termini di supervisione di questi ruoli e figure. L’esperienza che
citavo, di lavoro con i conduttori dei tavoli, è molto interessante, perché le persone si sentono
legittimate dall’essere esperte di un settore - sono lì perché mi occupo di minori - ad essere anche
esperti di un processo; sono lì, perché è mia funzione e dunque devo farmi una competenza, a far
funzionare la programmazione, a dare supporti per realizzare buone politiche sociali nel
territorio.
Quindi, in conclusione, vi ho messo due immagini: un buon regista (Fellini in “Prova di
orchestra”) e un cammino, che è quello che, secondo me, è stato introdotto con questo processo,
ma che richiede ancora un po’ di strada da fare.
Giorgio Sordelli (Cnca)
Ringraziamo Ugo per questa visione generale, ampia. Essendo appunto un seminario sulla
partecipazione, lasciamo spazio al dibattito. Chiederei a Teresa e a Massimo, in quanto area
regionale Umbria, e quindi organizzatore di questo seminario, di essere qui. Chi vuole
intervenire? Prego.
Voce maschile
È normale che ci sia un momento di impasse, perché si viene per ascoltare, ma poi, quando si è
chiamati in causa, comincia ad essere un po’ complicato. Noi lo abbiamo previsto un dibattito,
trattando un tema come questo, della programmazione partecipata e della governance; lo
abbiamo previsto perché siamo profondamente convinti che è da qui che dobbiamo ripartire.
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Quindi, prima che io arrivi a delle conclusioni, sarebbe interessante che cominciassimo a dirci
delle cose, delle impressioni, penso che gli stimoli siano stati già abbastanza; saremo chiamati
come soggetti a questa nuova fase concertativa del forum, quindi mi sembra che le sollecitazioni
siano parecchie e magari questa può essere una prima occasione anche informale, anche “in
pantofole”, perché siamo in una situazione abbastanza informale, per cominciare ad esprimere
delle idee, per partire un po’ da noi. Angela Bravi, Regione Umbria.
Angela BRAVI (Regione Umbria - Assessorato alla Sanità - Area Dipendenze)
Aspettavo un po’ ad intervenire anche perché i miei interessi vertono in un’area specifica,
sicuramente a fortissima integrazione tra sociale e sanitario, quindi probabilmente emblematica
rispetto ad alcuni nodi che sono stati oggi affrontati, tuttavia densa anche di specificità. Ho preso
qualche piccolo appunto man mano che scorrevano gli interventi. È stata citata più volte
un’eredità piuttosto pesante, che ci portiamo dai cinque anni di governo passati. Il mio settore ne
ha risentito, ovviamente, in maniera fortissima, si porta ancora dietro una legge pesantemente
repressiva, che condiziona tuttora l’operatività dei servizi e la vita di chi ha problemi di uso e
abuso e dipendenza da sostanze; ma, secondo me, quello che ci portiamo dietro, e che sarà più
difficile da affrontare, che comunque non nasce e non si esaurisce nei cinque anni passati, è
un’influenza culturale negativa, che ha rimesso in discussione tutta una serie di concetti su cui
avevamo avviato dei percorsi di lotta allo stigma, di vita di comunità etc..
Non sono passati molti giorni, lo raccontavo nella pausa del buffet, dall’ultimo morto per
overdose a Perugia e, anche a livello istituzionale, quello che si sta muovendo, accanto ad una
serie di risposte, che però non voglio citare perché mi coinvolgono nella funzione che svolgo in
Regione, anche a livello di alte istituzioni, il richiamo più forte è stato sulla sicurezza, e non
tanto e non solo sui problemi di salute e sui bisogni dal punto di vista sanitario, ma anche
ampiamente diffusi nel sociale, che questo problema delle overdose sicuramente rappresenta.
Quelli che do sono piccoli flash; probabilmente, necessiterebbero di una riflessione più
approfondita, ma siamo in una fase di dibattito, quindi forse non è il caso.
Si parlava delle forme di pensiero che circolano. C’è un collega psicologo di un servizio delle
dipendenze che in questi giorni ci ha sollecitato a pensieri profondi; questo forse è un momento
in cui non basta ripuntualizzare cose già in atto, ma bisogna approfondire i livelli di analisi e di
riflessione, pescare proprio nel profondo, perché alcune delle modalità di risposta che abbiamo in
atto forse vanno profondamente riformate.
Alcuni piccoli spunti: siamo abituati - parlo dello spaccato dei miei servizi, soprattutto - ad una
serie di risposte che spesso sono settorializzate sul sintomo specifico. Il sintomo è comunque
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l’espressione diversificata di un disagio di vivere che forse è comune. Allora mi chiedo: non è
arrivato il momento di pensare a risposte che siano ampie, risposte ai bisogni, che lascino un po’
sullo sfondo la settorializzazione sul sintomo?
C’è il grande nodo dell’integrazione socio-sanitaria. Siamo in una regione in cui alcune cose, a
questo proposito, sono state fatte; indubbiamente, i servizi sono presenti nelle fasi di
programmazione dei piani di zona, sono presenti ai tavoli, c’è un forte rapporto tra i distretti
socio-sanitari delle A.S.L. e i Comuni, ci sono progettazioni congiunte, servizi. Tuttavia siamo
sicuri che il livello di concretizzazione dalla programmazione sociale e sanitaria, che oggi
accennava l’assessore - e che fortunatamente si sta riavviando, quanto meno con una
contemporaneità di tempi che può, come lui stesso accennava, arrivare ad un’integrazione molto
più fattiva - da questo livello fino ai più minuti livelli di applicazione e di operatività, siamo
sicuri che in questa regione non si debba ancora lavorare molto sul fronte dell’integrazione
socio-sanitaria?
La partecipazione delle persone portatrici di bisogni, ma non solo. Non ci possiamo negare che,
in alcune aree di intervento, una passività delle persone che portano bisogni è nata anche da una
certa cultura che abbiamo diffuso, come addetti ai lavori. Forse, accanto al promuovere un
concetto, un’idea generale di partecipazione, vanno pensati anche dei percorsi supportati e
specifici che favoriscano la partecipazione.
Infine, la sfera dei bisogni del sociale: sono molti sicuramente, ma se guardiamo anche ai
programmi che facciamo per un’uscita o un supporto della dipendenza, qual è il problema più
forte su cui spesso anche un percorso positivo si arena? In genere è la solitudine, è la povertà
delle relazioni interpersonali; è qualcosa, però, che siamo più abituati ad affrontare dal punto di
vista dell’approccio psicoterapeutico, che comunque punta sulle capacità dell’individuo rispetto
a questo, piuttosto che ad un lavoro sulla costruzione di reti sociali, su una gestione del tempo
libero, degli interessi, che sia anche oggetto di un pensiero e di percorsi da parte – perché no – di
un tavolo tematico e, quindi, dei servizi che attorno ad esso sono presenti.
Quando parliamo di reti di relazioni che si impoveriscono, non parliamo soltanto di una
coloritura emotiva, che, secondo me, comunque, è forse fondamentale, perché in certe situazioni
è lì che casca l’asino ed anche una grossa costruzione, con tanti interventi e tanti servizi in
campo, fallisce; ma comunque c’è anche tutto un discorso economico, perché laddove le
interrelazioni sono povere, molto più difficilmente si trovano le risorse, lo spunto e i percorsi per
un cammino personale di sviluppo, anche nel senso di sbocchi lavorativi etc.. Questo forse
attiene a quella sfera del capitale sociale, che è un’altra di quelle parole molto abusate, molto di
moda, che mi sembra, però, ancora trovino veramente troppa scarsa applicazione pratica.
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Voce maschile (Federsolidarietà Umbria – Confcooperative)
Welfare partecipato. Una piccola critica: quando si fanno questi convegni, forse bisognerebbe
invertire la scaletta, magari per dare la possibilità ai politici di essere presenti e non di introdurre
soltanto le cose, perché forse sono questi i momenti nei quali riusciamo a dire delle cose che
potrebbe essere più interessante far sentire all’altra parte del tavolo, che non ridirsele tra addetti
ai lavori.
Sinceramente, meritavamo di più, e mi riferisco alla legge sulla sussidiarietà della regione
Umbria, perché forse è questo il tema di fondo, dove la partecipazione riesce a dare espressione
concreta, nel farsi. Meritavamo di più, perché l’oggetto della legge non doveva essere una
semplice dichiarazione di principio; il principio era già dichiarato nella Costituzione. Possiamo
dire che, se il principio c’era, forse non c’era bisogno di una legge, o di creare interventi di
sussidiarietà nei singoli interventi legislativi che, di volta in volta, si vanno a dare. È una legge
che in linea di principio ci trova sostanzialmente d’accordo, ma che non ha una norma
applicativa economica. Non è prevista, non c’è nella legge. Quindi, è una legge che forse non ha
le gambe per reggersi.
Sono contento della dichiarazione fatta dall’assessore, che nella nuova Finanziaria il fondo per le
politiche sociali ritrova la sua dignità; questo vorrà dire anche per noi che ritorneremo a quei
livelli di servizi che sono storia e tradizione di questa regione.
Forse siamo come il Napoli, ancora in serie B; in alta classifica, ma ancora in serie B, sui temi
della partecipazione. I piani di zona ci sono, però forse vale la pena dirsi che anche in questa
regione non hanno funzionato dappertutto alla stessa maniera; ci sono situazioni a macchia di
leopardo, ci sono delle punte di eccellenza, ma ci sono anche delle ombre.
I LIVEAS, altra bella parola; forse qualcuno sa cosa sono? In linea di principio sono affermati,
ma non sono stati definiti, quindi non hanno risorse allocate. I LEA esistono perché sono definiti
e hanno risorse allocate; dei LIVEAS ragioniamo. Quindi, puntiamo alla realtà, proprio per
smentire che i modelli funzionano solo quando la realtà non c’è. Cerchiamo di far funzionare la
realtà e vediamo se i modelli riusciamo ad applicarli. Grazie.
Stefano MONELLINI (Consorzio ABN)
Volevo toccare un paio di punti che mi sono sembrati particolarmente interessanti, in questo
dibattito; sono due temi abbastanza collegabili, dal mio punto di vista.
Il problema delle risorse: quali sono le risorse che debbono essere rappresentate all’interno di un
tavolo che intende occuparsi di welfare in una prospettiva partecipativa? Mi sembra interessante
la proposta, accolta, di realizzare un forum sul welfare che vada nella direzione di un’ottica
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partecipativa, ma - e mi rivolgo ai colleghi, soprattutto a chi opera nel terzo settore - mi domando
come si situa la rappresentanza del terzo settore all’interno di un tavolo di questo tipo.
Rappresenta se stessa e, quindi, i propri interessi ad individuarsi come soggetto erogatore di
servizi in esternalizzazione, sulla base di una logica del finanziamento pubblico, oppure il terzo
settore, se così lo vogliamo chiamare - a me riesce anche difficile definirlo, ma comunque
diciamo: noi, quelli che operano all’interno del contesto che sappiamo - si concepisce come
soggetto che dovrebbe rappresentare non solo se stesso, in quanto organizzatore, produttore ed
erogatore di servizi, ma anche come rappresentante di gruppi che hanno la possibilità di vedere
rappresentati i propri interessi all’interno di un tavolo di questo tipo? Riterrei che la seconda
dovrebbe essere la strada che noi, come sistema dell’economia sociale, dovremmo percorrere.
Dico questo perché i gruppi che hanno necessità di vedersi rappresentati all’interno di tavoli
come quello legato al welfare sono in continuo aumento, così come sono in continuo aumento le
necessità e i bisogni dei cittadini. Se non c’è una modalità corretta di rappresentazione di questi
interessi e di questi bisogni, il cittadino se li autorappresenta, se li autorganizza e se li risolve
come ritiene utile e opportuno.
Un esempio: le badanti. Una ricerca presentata lo scorso anno a Barcellona diceva che in Europa,
quindi dalla modernissima Scandinavia, che copre all’incirca il 95-98% del fabbisogno degli
anziani non autosufficienti, all’Italia, alla Spagna, ai Paesi mediterranei, che hanno una struttura
più familistica rispetto all’evasione di questo tipo di domanda, copriamo il 12% del fabbisogno,
o meglio, il finanziamento pubblico riesce a coprire tra il 10 e il 15% della domanda di
assistenza per anziani non autosufficienti. Questo vuol dire che l’altro 88%, sostanzialmente…
(fine nastro)… l’immigrazione, il problema della posizione contrattuale, legale o meno, del
sommerso di gran parte della manodopera femminile straniera presente nel nostro Paese.
Comunque, questo esempio lo facevo per rendere chiaro come la società non aspetta il terzo
settore, non aspetta che siano i tavoli a soddisfare le sue necessità. Ha bisogno di servizi di cura;
se lo Stato le dà la possibilità di vederli soddisfatti, bene; se questo non è possibile, in qualche
modo una risposta deve essere data. Allora, direi che per noi, che dobbiamo interloquire con il
soggetto pubblico rispetto a un’idea dei sistemi di welfare, un’idea che risponda ai principi in cui
crediamo, che sono legati ad una logica partecipativa, è importante concepirci sempre di più
dentro la funzione storica che abbiamo ricoperto in questa regione, sicuramente in maniera
eccellente, non per dire quanto siamo bravi, ma perché certamente in questa regione sono state
fatte delle sperimentazioni interessanti. Sarebbe necessario un passaggio da questo tipo di
impostazione ad un’impostazione più legata al farsi interpreti delle modalità di risoluzione dei
problemi da parte di chi esprime questa domanda sociale. Se è vero, come si diceva
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precedentemente, che si è passati da una cultura del sociale legata a un intervento per categorie
di persone, un intervento riparativo, ad una cultura preventivo-promozionale, ritengo che lì si
innesti il ruolo dell’economia sociale, proprio a livello di interlocuzione con il soggetto pubblico.
Ritengo che la differenza tra l’avere operato come terzo settore fino ad oggi e come dovremmo
operare sta in quel 10-12%; c’è un 88% di bisogni che non si riescono ad esprimere, ma che ci
sono e che trovano una soluzione in forma spontaneistica, più o meno spontaneistica; lì si
possono ritrovare delle formule che sono applicabili e che possono rappresentare delle buone
prassi proprio per stimolare dei processi di autorganizzazione della società civile, nel riuscire ad
affrontare certi problemi.
Direi che il tema della partecipazione sia importante anche laddove si parla di bisogni che
riguardano i servizi di cura, o la condizione abitativa; quanti di noi cittadini possono permettersi
di acquistare una casa, oggi, alle condizioni di mercato? Io ritengo che la società civile - e il
terzo settore lo sta sperimentando - abbia la capacità di offrirsi come punto di riferimento per
stimolare le persone, che hanno questa difficoltà, ad immaginare che ci sono anche modelli
alternativi. Penso all’autocostruzione, all’housing sociale; sono tutte modalità di intervento di cui
l’economia sociale dovrebbe farsi interprete, essendo cosciente del fatto che i cittadini delle
soluzioni, magari in modo non del tutto esplicito, le propongono. Allora, il ruolo del terzo settore
può essere quello di intercettare queste modalità, farsene interprete e offrirsi come elemento di
supporto rispetto a questi processi.
Il problema delle risorse. Ho letto in questo documento quanto spende il nostro Paese per
rispondere ai bisogni di varie categorie di persone: troppo poco. È giusto, ma se anche spendesse
il doppio, passeremmo dal 12 al 24%. Allora, è giusto che il terzo settore pensi al 12 o al 24%?
Non è forse pensabile, immaginabile, un ruolo in cui l’altro 88% o l’altro 76% possa beneficiare
delle nostre competenze? Che non sono solo competenze legate all’erogazione di servizi, ma
sono competenze legate alla capacità di interloquire con i mondi vitali della società, non solo
quelli del disagio emergenziale; sappiamo che il disagio emergenziale c’è e ci sarà sempre, ma
quello che ora sta crescendo in maniera assolutamente drammatica è il cosiddetto disagio della
normalità, che era ciò di cui si parlava in precedenza. Io la vedo così.
CASTELLANI (Forum del terzo settore)
Visto che D’Ambrosio ci ha invitato a fare una riflessione importante su come, in questo
processo che in questi anni abbiamo vissuto nella nostra regione, in uno scenario nazionale, poi i
soggetti del terzo settore sono stati capaci di autorappresentarsi, se mi permettete, vorrei dare una
valutazione di quello che è successo in Umbria perché, probabilmente, dobbiamo dirci le cose
34
con maggiore chiarezza, soprattutto se adesso riavviamo un percorso, attraverso questo forum
regionale sul welfare, destinato a costruire le linee della nuova programmazione regionale.
Sul tema dei processi partecipativi e delle sedi nelle quali questi processi si attivano, ho
l’impressione che in questa regione abbiamo formalmente moltiplicato queste sedi e che molte di
queste abbiano una funzione puramente accessoria in alcuni processi che poi determinano
effettive decisioni, perché poi, giustamente, bisogna domandarsi nell’agenda politica regionale
come i temi di welfare assumono alcune caratteristiche e diventano elementi di priorità della
scelta del percorso di sviluppo di questa regione. Come forum, il 21 dicembre abbiamo
sottoscritto la fase 2 del patto per lo sviluppo, non con lo stomaco a posto, nel senso che abbiamo
digerito questo nuovo documento di programmazione – lo evidenzio come un elemento di
criticità di fondo – nel quale si immagina che il percorso di sviluppo di questa regione non passi
attraverso un ragionamento di inclusione sociale, attraverso un processo di attivazione del ruolo
delle comunità e, quindi, anche attraverso un ruolo importante rispetto alle questioni lavorative e
di sviluppo economico del terzo settore. Questo è un aspetto assolutamente marginale. Lo è stato
per diversi anni, perché ricordo - e molti di quelli che sono qui lo sanno - che i soggetti del terzo
settore, nella prima stesura del patto per lo sviluppo, principale atto di programmazione
regionale, non sono stati chiamati a sottoscriverlo. I due soggetti che sono stati chiamati a
sottoscriverlo sono stati Lega Cooperative e Confcooperative, ma non si è immaginato in nessun
modo un ruolo di quei soggetti della società civile e del terzo settore che oggi intendiamo.
Questo è uno scenario, a mio avviso, assolutamente preoccupante.
Quindi, intanto, noi dobbiamo fare un passaggio rispetto ai soggetti del terzo settore, altrimenti
diventa complicato. Da una parte, dobbiamo richiedere sedi di concertazione nelle quali si
avviino processi partecipativi, dobbiamo farlo; poi dobbiamo metterci in testa che dobbiamo
trovare delle sedi nelle quali confrontarci in maniera più continuativa, noi, i diversi soggetti del
terzo settore, quell’universo che, come diceva D’Ambrogio, è difficilmente sintetizzabile in una
dimensione di rappresentanza unitaria. Ma fare un tentativo che consenta di attivare dei tavoli di
confronto maggiormente continuativi, capaci di mettere attorno a un tavolo i soggetti
dell’impresa sociale, i soggetti del volontariato, i soggetti dell’associazionismo e della
promozione sociale, è un passaggio doveroso, a mio avviso; se non siamo consapevoli che
questo passaggio è importante, il rischio è che quelle dimensioni concertative che chiediamo alle
istituzioni abbiano una valenza profondamente diversa da quelle che venivano richiamate. Ho
l’impressione che le nostre esperienze, soprattutto nei tavoli di programmazione regionali e
territoriali, siano state di tipo consultivo; non c’è stato, nella nostra realtà regionale, un percorso
di partecipazione in cui l’idea di partenariato pubblico e privato sociale fosse un’idea forte. La
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328, in prospettiva, dava un quadro di articolazione dei piani di zona dove non c’era soltanto il
terzo settore come soggetto gestore, ma come soggetto capace di partecipare alla pari e di
sottoscrivere i piani di zona. Questo è un livello che, nella realtà regionale, non ci siamo
nemmeno posti. Quindi, credo che dobbiamo aprire con forza una grande stagione di confronto
politico con le istituzioni regionali rispetto a dove si colloca il tema del welfare nelle priorità di
sviluppo di questa regione.
Monellini, prima, faceva un ragionamento sulle risorse; noi siamo tra le regioni dove la spesa pro
capite per i sistemi di welfare è tra le più basse del centro Italia. Possiamo dire che noi abbiamo
una regione che tiene, che ci sono le reti comunitarie, la famiglia etc.; benissimo, finché reggono,
ci sono. Naturalmente, alcuni processi si determinano anche nel nostro territorio; quindi, noi
dobbiamo aprire realmente un confronto con l’istituzione regionale rispetto a dove si colloca
questo tipo di quadro, perché in questi ultimi cinque anni abbiamo avuto, a mio avviso, segnali
particolarmente contrastanti. Se noi avviamo un processo di nuova programmazione, come penso
l’assessore questa mattina abbia indicato, non possiamo non fare una valutazione su quello che è
successo il più possibile condivisa, è evidente. Noi abbiamo necessità di verificare l’effettivo
impatto del sistema delle politiche sociali umbre, dobbiamo dire con grande chiarezza che alcune
cose non funzionano, che la programmazione sociale di ambito territoriale in questa regione non
ha funzionato; non ha funzionato, in questi ultimi tempi, per una scelta politica. Lo dico con
molta chiarezza; se c’è qualche assessore, si preoccuperà. Però che ci sia una consapevolezza
degli assessori territoriali che la programmazione di ambito è un salto di qualità della
programmazione sociale, ho l’impressione che sia ancora completamente da discutere.
Di questioni aperte ce ne sono diverse, va affrontato un confronto. Nei prossimi giorni, il forum
regionale del terzo settore avvierà un percorso attraverso il quale ridefinirà i propri organismi di
rappresentanza; ma il problema non è solo questo, si tratta di capire se troviamo un luogo dove
quel confronto, che a mio avviso è pre-confronto istituzionale, trova alcune linee forti di
condivisione. Poi, nelle proprie specificità, ognuno sarà capace di portare avanti il proprio ruolo,
ma c’è un pezzo di lavoro che tra i soggetti del terzo settore è assolutamente comune. Se noi
diamo dei segnali di debolezza, anche nella capacità di indicare i nomi dei nostri rappresentanti,
in termini di competenza, che siederanno ai tavoli che la Regione ci ha chiesto, credo che sia un
problema. Forse ci dovremo interrogare in maniera approfondita su alcuni aspetti, altrimenti
quella dimensione di grande prospettiva di sviluppo del welfare in Umbria rischia di essere una
dimensione di tutt’altra natura, sempre più residuale; negli ultimi anni, francamente, ho osservato
che si stava determinando questo processo e il rischio è che politicamente non invertiamo in
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alcun modo questa tendenza. Quindi, credo che ci sia assoluta necessità di un ruolo del terzo
settore maggiormente capace di incidere politicamente sulle scelte di questa regione.
Flavia CHITARRINI (Cooperativa Cultura e Lavoro di Terni)
Questa mattina abbiamo evidenziato il passaggio, nel corso degli anni, a cose importanti in cui
noi crediamo: dal government alla governance, dall’assistenza/assistenzialismo ai diritti di
cittadinanza; passaggi forti, in cui abbiamo creduto e che vorremmo che non fossero solo
affermazioni di principio, ma che fossero veramente praticati. Su questo ho qualche dubbio; nel
grafico abbiamo visto che l’Italia era quasi tutta colorata con lo stesso colore, c’erano pochissime
eccezioni, ma la realtà è veramente questa. Su questo credo che dobbiamo lavorare, ma non noi
che siamo qui, perché noi lavoriamo giornalmente per queste cose. Qualcuno sottolineava il fatto
che forse sono poche le persone presenti che hanno il pallino di come muoversi; adesso siamo
pochi, siamo solo addetti ai lavori, quindi dovremmo trovare sempre più delle forme per poter
dire le nostre cose e per poterci confrontare; perciò ringrazio il Cnca che ci ha dato questa
opportunità.
Io appartengo a un gruppo di osservazione, mi ci sto ritrovando molto bene, perché non sono
forme esteriori, ma vanno proprio all’interno dei problemi. Ho ascoltato Castellani; la storia del
terzo settore in Umbria la conosco molto bene; poco fa ho visto l’Assessore Boccali, che è stato
uno dei protagonisti, all’inizio del forum del terzo settore. Una piccolissima parentesi: grande
entusiasmo nella formazione iniziale dei forum del terzo settore regionali; poi, la formazione di
quelli territoriali. In questo momento – io sto dentro a quello territoriale, del nostro ambito –
credo che sia un periodo nero per il forum del terzo settore; non so neanche in che modo si sia
riformato il nuovo gruppo del forum regionale, ritengo che qualche errore sia stato fatto, nel
senso che tutti quei gruppi che ne facevano parte e che hanno costituito, a suo tempo, il
nazionale, avrebbero dovuti essere interpellati nell’assemblea, non mi risulta che sia stato
realmente così. Il tema che voglio porre è questo: si sta facendo adesso il tavolo, chi si siede
attorno al tavolo? Chi, anche se viene in rappresentanza del terzo settore, ha fatto un lavoro
importante nei territori per raccogliere le idee delle associazioni, della cittadinanza, della società
civile su certe tematiche. Andare è importante, starci è importante, essere ascoltati è importante,
ma non si può portare solo il pensiero della propria associazione; è importante fare prima un
bellissimo lavoro in cui le idee vengano messe insieme e vengano portate a sintesi ai tavoli cui
veniamo invitati. Se non si fa questo, chiaramente qualcosa non funziona; quei passaggi che
abbiamo visto prima, di una governance reale, sicuramente non vengono attuati. Volevo
sottolineare questo.
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Francesca
Non mi soffermerò su quello che abbiamo detto ieri e stamattina, perché sarebbe una ripetizione;
voglio invece porre l’attenzione sul passaggio da una risposta del welfare un po’ massificata ad
una risposta personalizzata. Non è cosa di poco conto, perché le risposte di massa sono dettate da
tanta gente che ha gli stessi bisogni ed è in un momento di emergenza; invece, la risposta
personalizzata indica tutto un percorso che fa quella persona, tu la prendi da quando nasce e fai
con lei un progetto di vita e l’accompagni. Questo discorso di risposta personalizzata forse è il
caso di farlo soprattutto in alcuni ambiti in cui le risposte di massa già sono state date. Immagino
i diurni per disabili, manca il dopo-diurno, uno non può stare trent’anni in un diurno di
riabilitazione; nei gruppi di minori, quando un minore compie 18 anni, manca tutta la fase di
accompagnamento, dopo; manca il dopo anche per chi ha avuto storie di tossicodipendenza, esce
dalla comunità terapeutica e non sono molto chiare le tante soluzioni che possono esserci
nell’accompagnarlo; così è per chi esce dal carcere. Cioè, manca il dopo di tutto. Questo, forse,
si può chiamare un welfare leggero, basato sulla prospettiva di dare risposte personalizzate; nelle
risposte personalizzate ritengo che questo errore si eviterebbe di farlo. Se la risposta di massa poi
non diventa personalizzata, si rischia di vanificare perfino la risposta di massa che abbiamo dato.
Giorgio SORDELLI (Cnca)
La parola a Pierpaolo Inserra, che ha condotto il workshop in questi due giorni e che ha
accompagnato il lavoro.
Pierpaolo INSERRA (Cnca)
Molto velocemente, perché credo che il vostro contributo sia stato importante e mi piacerebbe
risentirlo. Faccio l’operatore sociale, però provo a dire qualcosa che, di solito, noi, persone
coinvolte nel quotidiano, tendiamo a sottovalutare o a non affrontare. Io sono abbastanza
preoccupato, se penso al tema della partecipazione nel nostro Paese perché, al di là di alcune
sensazioni o di alcune sintesi che possiamo tentare, che danno il senso del movimento - penso
anche alla tua esposizione, come referente dell’IRS - c’è di fatto una staticità che riguarda le
istituzioni, ma anche noi, cittadinanza organizzata, che mi lascia molto perplesso.
Dirò velocemente tre cose. La prima riflessione è di natura squisitamente politica: credo che noi
siamo ormai incapaci di pensare in termini prospettici, di metodo, di processo; prevale un
paradigma antico, che è quello di Machiavelli, del fine che giustifica i mezzi. Siamo poco attenti,
invece, a pensare che la via stessa sia il fine, sotto certi aspetti. Traduco: atteggiamenti,
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comportamenti, codici, linguaggi, che spendiamo e che agiamo nel quotidiano, dovrebbero
continuamente dare una testimonianza della direzione in cui vogliamo andare, come assessori,
operatori, organizzazioni. Spesso baipassiamo tutto questo a pie’ pari, i nostri atteggiamenti sono
funzionalistici, strumentali, ma rischiamo di perdere il senso di una serie di tensioni e di
sensibilità culturali che, invece, abbiamo faticosamente contribuito a costruire, in questi anni.
Parlo delle politiche sociali, ma non solo.
Altro problema: parlare di partecipazione è riduttivo perché, secondo me, ci vuole un po’ più di
coraggio; dobbiamo capire se governare o meno questo benedetto passaggio da un approccio
tradizionale alle politiche pubbliche ad un approccio fondato su logiche processuali, negoziali,
deliberative. Non penso a Porto Alegre, non penso solo al bilancio partecipato, non mi fate fare
la parte del sovversivo, ce ne sono stati tanti; penso al fatto che abbiamo bisogno di uno scatto di
reni, ormai, e che qualsiasi nostro interlocutore, sia esso un politico, sia esso un compagno di
viaggio all’interno della stessa organizzazione non profit in cui siamo noi, sia esso un collega dei
servizi sociali di un Comune, piuttosto che di una regione, dovrebbe ricominciare ad
approfondire e a studiare un po’ tutte queste questioni, perché padroneggiarle vuol dire, poi,
eventualmente, fare i conti con il tema della partecipazione nei piani di zona in maniera
sicuramente più rigorosa.
Ultima questione, rispetto alle politiche sociali e alla partecipazione, Mi permetto anche di essere
molto laico ed esplicito rispetto alla mia posizione politica: come persona di sinistra, credo che
noi abbiamo fatto un errore madornale, negli ultimi anni. Il primo è stato quello di non riuscire a
cavalcare alcune parole che erano dei cavalli di Troia, perché parlare di partecipazione vuol dire
pensare ad una visione societaria non necessariamente così distante da quella attuale, la penso
anche in termini riformisti; ma vuol dire pensare a un mondo un po’ diverso. Il secondo errore
riguarda l’interlocuzione con il terzo settore, e lo abbiamo alimentato anche all’interno del terzo
settore. Ovvero: tutta una parte di esponenti dei Paesi anglosassoni, fondamentalmente ancorati
ad una visione economicistica, pensano giustamente che il non profit sia frutto di un’interazione
distorta tra Stato e mercato; questo lo sappiamo da sempre. Quindi, noi nasciamo per essere
oggetti o soggetti di sub-appalto, oggetti o soggetti di sub-affido; anche a sinistra nessuno ha mai
avuto il coraggio di legittimare e valorizzare un’altra versione dei fatti, che esiste e che
probabilmente riguarda scuole di pensiero un po’ diverse, non troppo vicine a quelle
economicistiche di stampo neo-lib, che ci dice semplicemente un’altra cosa: i cittadini si
organizzano
perché
processi
di
trasformazione
o
di
morfogenesi
sociale
portano
progressivamente gruppi di persone a professionalizzarsi, occupare spazi pubblici, ma non in
senso alternativo, in senso integrativo, tant’è che Paesi come la Francia, al di là di tutti i casini
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che hanno, comunque, pur applicando in maniera leggera questo paradigma, favoriscono la
cittadinanza organizzata nelle sue molteplici espressioni ed accettano il fatto che dei cittadini, in
virtù di una logica “e…e”, e non di esclusione, possano contribuire a costruire il pubblico, a
costruire interessi generali, a definire dei percorsi, delle pratiche e degli spazi, che sono spazi di
azione pubblica e non necessariamente lobbistica.
Anche il discorso che si faceva prima sulla rappresentanza è delicatissimo, perché il problema
vero è sicuramente quello di far prevalere le competenze all’interno di un processo di
costruzione di piano di zona; ma il problema ancora più grosso è di saper padroneggiare in
maniera equilibrata due principi archetipici, che sono collegati al tema della partecipazione e che
sono, da una parte, quello dell’autodeterminazione e, dall’altra, quello della rappresentanza. In
virtù del fatto che noi, come cittadini organizzati, con tutti i nostri vizi, vogliamo provare a dire
la nostra in un processo di costruzione di piano, noi dobbiamo poterlo fare sia in virtù del fatto
che debbono essere costruiti insieme degli spazi di autodeterminazione, sia in virtù del fatto che
la rappresentanza deve essere diffusa e ridistribuita, quando parliamo di politiche pubbliche,
politiche coprogettate, coprogrammate etc..
L’ultima cosa: la diagnosi clinica sulla 328, secondo me, è, come direbbe Queneau, di
“apaspermia”, cioè c’è un problema di ridotta produzione di germi vitali. Quelle quattro cose cui
accennava Teresa stamattina, che riguardano processi ineluttabili che seguono la legge del “tutto
o nulla”, come gli stimoli nervosi - se si non si segue quella legge, il passaggio da un neurone
all’altro non funziona - relative al fatto che noi dobbiamo far convivere la dimensione
dell’osservazione e della ricerca con quella della governance, con quella della pianificazione
strategica o della progettazione partecipata, con quella della conoscenza e dell’approfondimento,
sono importantissime. Io vi inviterei, in maniera un po’ furba, ad utilizzare questo schema come
una sorta di mappa cognitiva che ci permette davvero, nell’interlocuzione all’interno delle nostre
strutture, con un assessore, con una conferenza dei sindaci, all’interno di un tavolo, di capire se
stiamo andando nella direzione giusta o sbagliata. Se voi prendete un piano di zona e non ci
ritrovate tutti e quattro i processi, non ci ritrovate tutte e quattro le dimensioni - stiamo
banalizzando, stiamo semplificando una realtà sicuramente più articolata - se voi, usando
banalmente questo escamotage interpretativo, provate a leggere i vostri piani di zona e a pensarli
come frutto di un welfare partecipato, basta capire se all’interno dei capitoli sono declinate
queste quattro dimensioni. Se andate a prendere un documento di tipo politico-strategico che
riguarda una regione, rispetto all’implementazione dei piani, e non ci sono queste quattro
dimensioni, voi dovete diffidare e riprendere, secondo me, in maniera rigorosa e anche
autocritica a studiare e ad approfondire certi temi. (Mi ci metto anch’io, per carità, non mi fate
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fare la parte della signorina Rottermeier). Se non c’è un buon equilibrio tra ricerca e
osservazione, declinazione di un’idea di governance inflazionatissima, prassi e metodologie di
progettazione, processi di pianificazione e attivazione di processi permanenti di apprendimento,
comunicazione e informazione, voi non avete un piano partecipato.
Allora, l’invito che faccio a tutti noi è davvero quello di riprendere a valorizzare certe tensioni,
che una volta non facevano, ad esempio, del mondo della cooperazione un mondo di enti
attuatori; tensioni trasformative, societarie, che avevano altri pesi e altri significati, pur
rischiando di fare i Savonarola della situazione, gli eretici. L’augurio che faccio - ultima
provocazione - a chi ci rappresenta, sapendo che noi siamo anche in grado di autodeterminarci,
spero, è quello di riprendere a studiare intorno a queste cose. Io ho visto politici e rappresentanti
di organizzazioni non profit che sembravano usciti da un libricino di Alan Ford o di Iacovitti. Se
sono stanco io a 36 anni, come molti altri amici, credo, per certi versi, vuol dire che qualcosa non
funziona.
Teresa MARZOCCHI (Vice Presidente Cnca)
Sono tentata di dire due parole, che vorrei rilanciare ai nostri e a quelli del Cnca del territorio; ho
sentito molto la pressione del ruolo del terzo settore, mi è piaciuta la rappresentazione della
colonna gialla, di chi sta in decisione, e di quella verde. È la grande sfida, è la grande nostra
difficoltà. Quello che rilancio come provocazione brutale del Cnca e dei nostri del Cnca che sono
su questo territorio, perché lo vogliamo, perché è un documento condiviso da tutti a livello
nazionale, credo che sia importante spenderlo dove le cose funzionano e dove ci sono da tempo;
quindi ognuno ha la responsabilità di spingere nel territorio dove già sono state fatte delle cose,
scusate la brutalità. Però ricordiamo che noi abbiamo delle titolarità che sono in funzione di
altro; noi facciamo rappresentanza, ma in funzione dell’autodeterminazione delle persone.
Questo ci deve tener dritti, è questo che ci salva e che ci fa fare una partecipazione diversa,
questa è la linea nuova della partecipazione. Quando noi diciamo che vogliamo cittadinanza
attiva, che vogliamo fare un movimento di tipo partecipativo, che vogliamo favorire l’advocacy,
queste cose passano attraverso queste situazioni, molti di voi lo hanno detto negli interventi;
siamo noi che dobbiamo prima di tutto studiarle nelle prassi operative che abbiamo sperimentato
in questi anni, dove ci è stato possibile sperimentarle. Abbiamo questa responsabilità, come
federazione, di non essere soltanto un’associazione di enti gestori, come la Lega delle
Cooperative, se abbiamo qualcosa d’altro dietro. È questo lo slancio, è questo il proprio ruolo.
Qualcuno diceva: qual è l’identità di ciascun attore? Questa è l’identità di una federazione che
non è solo un’associazione di enti gestori. Questo dobbiamo farlo continuando a gestire i servizi,
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questo è il nostro strabismo, è questa la nostra ricerca. Quindi, secondo me, è questo che fa il
nuovo e che ci permette di non avere paura se dentro il forum del sociale, che state mettendo in
piedi, siete cinque a uno, o sei a uno, o sette a uno, perché anche i numeri e le posizioni di potere
contano. Stanotte me lo sono guardato l’impianto del forum: pure in quella realtà c’è
un’obiettività e qualcosa da raggiungere, secondo me. Non voglio escludere il discorso che ha
fatto Pierpaolo adesso, ci credo moltissimo al fatto di studiare e di fare, ma anche questa azione
politica, che è un’azione di cittadinanza pura, limitata ed individuale, se si vuole, di stimolo a
questo; è questo che addormenta la partecipazione e che addormenta questo sistema. È stata una
cosa che andava bene anni fa e non va più bene adesso; da adesso no, adesso noi abbiamo un
ruolo diverso, e adesso lo dobbiamo svolgere soprattutto in questi territori.
Massimo
Due parole per chiudere. Non vado sulla parte dei concetti, perché ne abbiamo detti già molti, e
molti di noi devono ritornare nelle proprie realtà. Semplicemente questo: a livello politico, noi ci
siamo presi una responsabilità, abbiamo chiesto alla Regione, nella persona dell’assessore, di
condividere questo processo. Nei prossimi giorni ci incontreremo nuovamente e riporteremo una
serie di perplessità, di dubbi e di domande. Ci piace l’idea di “abitare le domande”, noi forse
siamo portatori più di domande, che di risposte, o perlomeno dovremmo esserlo. C’è un
problema di rappresentanza, anche numerico, lo ricordava adesso Teresa; ma è un problema solo
da parte della Regione, che ci tiene poco in considerazione, oppure - penso alla sollecitazione di
Giovanni, prima - è un problema del terzo settore? Io penso di sì, nel senso che, comunque, noi
non ci parliamo sufficientemente, abbiamo paura. Nel terzo settore abbiamo paura, certe volte,
abbiamo paura di confrontarci, abbiamo paura di perdere qualcosa in funzione del fatto che
qualcuno guadagni qualche altra cosa. Dobbiamo guardarci negli occhi e non avere paura di
confrontarci, noi del terzo settore per primi. Su sei gruppi di confronto in Regione, siamo solo su
quattro, e poi quali saranno le sigle che ci sono lì dentro? Sono davvero rappresentative? Questo
dipende anche da noi, non c’è niente da fare.
Amici – compagni – a livello nazionale abbiamo lanciato la proposta quella quota capitaria come
sistema di finanziamento del fondo nazionale per le politiche sociali. Teresa, per noi, ha lanciato
la provocazione dell’individuazione della quota capitaria anche per tentare di individuare un
fondo regionale; però, carissimi amici – o compagni – carissimi compagni di strada, noi siamo
davvero capaci di andare a leggere i bisogni del territorio, condividerli e rimetterci in
discussione, per mettere in campo quello che realmente serve alle persone? Voi tutti, che siete
qui, siete le persone che poi, nel confronto e nella relazione, le persone che hanno bisogno di
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aiuto le guardate negli occhi. Questo significa che abbiamo una responsabilità enorme. La
responsabilità enorme sta nel mettere in campo ciò che serve al territorio, ciò che serve alle
persone, ciò che serve alla cittadinanza, ciò che serve soprattutto alle persone più deboli. Se
questo è vero, noi dobbiamo avere la capacità di metterci in discussione profondamente. Ve lo
dico sinceramente: a partire dal mio gruppo, questa è una difficoltà enorme. Penso che questa sia
la grande sfida che anche il forum ci pone; quindi, vi ringrazio per la vostra partecipazione, vi
rilancio la sfida e spero che questa idea possa essere cavalcata, masticata, digerita e che ci faccia
realmente crescere in capacità. Grazie a tutti.
Giorgio SORDELLI (Cnca)
Grazie, arrivederci. Fra qualche giorno, sul sito del Cnca - www.cnca.it - troverete le relazioni
che sono state presentate oggi.
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