La moda, un sogno Ma il 2% è glamour, il 98 lavoro duro
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La moda, un sogno Ma il 2% è glamour, il 98 lavoro duro
32 Tempi liberi Sabato 24 Maggio 2014 Corriere della Sera Moda I protagonisti Volti nuovi Milanese di Porto Alegre, così comincia una carriera «La moda, un sogno Ma il 2% è glamour, il 98 lavoro duro» Kontatto Compleanno in canotta «Vogliamo crescere di più» Ispirazione sport per Kontatto, azienda bolognese che ha celebrato il compleanno del primo flagship store milanese in via Torino. Un cocktail party con ragazze in canotte basket personalizzate dal numero 48 (il civico del negozio) e dalla scritta «Milano» sulla schiena. Una limited edition di 250 pezzi, che sintetizza l’anima del marchio: giovane, fresca e cosmopolita. Per l’evento tre amiche del brand e del suo patron Federico Ballandi (foto), che nel 1995 ha cominciato questa avventura: Alessia Merz , Costanza Caracciolo, Cristina Buccino. Fans e addetti ai lavori per il brindisi musicale a cura del DJ Pierfra, animatore delle notti bolognesi e romagnole: non a caso la sede di Kontatto è nella città delle due torri, dove c’è la seconda boutique monomarca (la prima è stata aperta a Milano Marittima), mentre la prossima sarà inaugurata entro l’anno a Firenze. Un bel traguardo per il marchio sempre in crescita, con un aumento percentuale del 31% negli ultimi anni, con un fatturato che ha sfiorato i 23 milioni di euro nel 2013 e la previsione di chiudere il 2014 con un ulteriore segno positivo. «Vogliamo continuare a crescere — sottolinea Ballandi —. Crediamo tanto nei giovani, li vogliamo fare appassionare alle varie fasi di lavoro della nostra azienda, che parte dalla ricerca per attivare poi produzione e distribuzione, con dinamismo e creatività tutta italiana». La produzione infatti è all’80% made in Italy. Oltre ai negozi monomarca, Kontatto si compra in numerosi multibrand sia in Italia che all’estero: Belgio, Canada , Olanda e Stati Uniti. Progetti futuri? Più attenzione alla comunicazione online, all’e-commerce. Sofia Catalano © RIPRODUZIONE RISERVATA P aula Cademartori, milanese di Porto Alegre, è una brasiliana venuta qui per studiare design che qui è diventata stilista, creando borse allegramente chic, arrivando a distribuirle nel mondo – con successo – in ben 135 punti di vendita di lusso. Un viaggio — dal Brasile fino a negozi come Fenwick a Londra e 10 Corso Como a Milano e Seul — che ha Milano come tappa fondamentale. E’ successo tutto in quattro anni — ne ha appena 30 — ed è bello sentirlo raccontare da lei, grintosa e spiritosa come le sue borse, conversatrice torrenziale dall’entusiasmo inevitabilmente contagioso, educatissima ma altrettanto convinta piazzista delle sue idee. Un po’ brasiliana ma molto, molto milanese. «Il sud del Brasile non è Rio o San Paolo — racconta Paula nel suo studio di via Mascagni, arredato in modo eclettico e ispirato alla sua passione, i primi anni 60, vedi le sedie di Ico Parisi e i piatti di Fornasetti — Finito il liceo lavoravo di giorno e studiavo design industriale alla sera, completando il corso di laurea un anno in anticipo: fin da bambina niente giocattoli, passavo i pomeriggi a disegnare accessori, sapevo già quello che avrei fatto da grande, non è mai stata questione di ‘cosa’ fare ma di ‘come’ riuscire a farlo. Qui a Milano, alla Marangoni, c’era l’unico master dedicato agli accessori. Avevo il passaporto italiano grazie alle origini della mia famiglia, così eccomi qui, una settimana dopo la laurea. Ho capito subito che avete un dono senza prezzo: la bellezza. Dai monumenti fino ai pomodori avete il meglio di tutto. Andavo alla Marangoni e dormivo tre ore per notte per arrivare al master con lode prima che potevo: sempre di corsa. Un anno a Fano, in un’azienda a imparare il mestiere, una di quelle realtà con la modelleria attaccata all’ufficio stile, poi due anni da Versace. Che sembrano pochi ma vuol dire fare la pre, la main, la couture, la runway: per due volte. Là il team era come una famiglia, ma la Marangoni mi presenta al primo Vogue Talents e per partecipare mi dimetto: presento delle scarpe, non delle borse, perché Paula Cademartori: «Giravo in macchina con il campionario, per i miei genitori è una scelta da matta, ma per me il design è la vita» Il Pi greco Il marchio di Paula Cademartori, brasiliana, trent’anni (nella foto a destra), è il gancio ispirato al Pi greco. La collezione autunno/ inverno 2014/2015 continua il percorso di eleganza un po’ rétro dai colori sgargianti e gli inserti in materiali preziosi, le micro-borchie dorate, la nappa. Pensate «per andare al di là delle mode», con un pensiero a Anna Piaggi, alla quale è dedicata la collezione avevo appena finito di fare le borse da Versace e non mi sembrava etico. Il concorso serve a far girare il mio nome con una micro-collezione da trenta pezzi, mi iscrivo a un corso alla Sda Bocconi perché devo diventare imprenditrice. Di giorno studio di sera disegno il mio logo, una variazione sul pi greco. Ecco la prima collezione, tra i dubbi dei miei genitori, un scelta da matta, ma loro sanno che il design per me è la cosa più bella che c’è. Giro in macchina col campionario, da sola, faccio consulenze per mantenere il cash flow visto che in Italia pagano a diciotto mesi. Al volante per 12 ore alla volta: Parigi, dove trovo i primi clienti. Poi 10 Corso Como, poi Forte dei Marmi. L’estero: Hong Kong. Arrivo in finale a Who’s On Next ma non vinco, però è come se avessi vinto: passo ore a questionare in laboratorio, voglio fare cose un po’ strane e subito dicono che non si può, allora mi siedo e comincio a incollare le fustelle a mano, arrivo in fabbrica alle 730, ci vado anche alla domenica. Alla fine non avevo più le dita ma avevo la mia collezione. Continuo a girare in macchina, di fianco a me una pila di copie del Corriere della Sera con la prima foto di una mia bor- Faccio borse perché sono oggetti atemporali, vanno oltre le tendenze sa pubblicata, per far vedere nei negozi che non sono una matta, sono una stilista, lo dice anche il giornale. Comincio a assumere persone, con cui parlare e discutere, ma con la stessa fiducia. Io nell’Italia ci credo e voglio avere intorno persone che ci credono, certo se ci fosse qualche agevolazione per le piccole aziende non sarebbe male... Per me le borse sono bellissime perché sono un oggetto atemporale, al di là delle mode. La moda è bella ma il 2% è glamour e il 98% è lavoro, è maniche rimboccate. Se mi fossi fermata al primo ‘no’ non sarei qui. Adesso mi viene voglia di espandermi, passare a altre categorie merceologiche. Quando mi chiedono chi è il mio modello dovrei dire Miuccia Prada, tutti gli stilisti la amano, tutte le donne vogliono le sue borse, e lei è una grandissima, ma se devo proprio dire il mio idolo è suo marito Patrizio Bertelli, un uomo d’affari con una visione unica, la moda non è solo moda, lui lo sa meglio di tutti e se avessi la bacchetta magica vorrei avere quella bravura lì». Matteo Persivale © RIPRODUZIONE RISERVATA Cividini e le maglie fatte a mano E se il futuro fosse nei telai abbandonati (e recuperati)? E se il futuro della moda andasse cercato nel ritorno alle origini: quel saper fare dei bravi artigiani che ha reso grande l’Italia e che rischiava di andare perduto inseguendo il miraggio della produzione in serie? È con questo pensiero che Piero Cividini, fondatore dell’omonimo marchio di maglieria creato nel 1987 con la moglie Miriam a Bergamo, ha deciso di lanciare il Fatto a mano. Una piccola serie di maglie in filati pregiati — cashmere, cashmereseta, lane, lini o ipertecnologici — realizzata su antichi telai utilizzati degli Anni 50-60 dalle magliaie che lavoravano in casa. «Le maglie saranno vendute a partire da settembre in un packaging esclusivo al fine di sottolinearne l’esecuzione manuale e distinguere la capsule a tiratura limitata dalla nostra collezione di prêt-à-porter che dal 1995 sfila sulle passerelle milanesi», spiega l’imprenditore 62enne. La storia di Cividini è tipica degli imprenditori creativi che hanno inseguito un sogno. «Figlio di un commerciante di prodotti per l’agricoltura, ebbi la folgorazione quando entrai in un maglificio – racconta —. Con Miriam incominciammo la nostra linea a fine Anni 80 proprio con il recupero delle tradizioni artigianali che avevano determinato lo sviluppo della maglieria italiana del primo Dopoguerra. E in totale controtendenza le nostre maglie minimali realizzate dalle magliaie con movimenti a zig zag si imposero nel panorama della moda di allora tutto glamour ed edonismo». Quelle macchine ormai abbandonate nelle cantine sono state recuperate da Cividini. Otto in tutto, per il momento: «Sono tornate al lavoro grazie alla riparazione eseguita con pezzi di ricambio trovati qua e là». Occorrono tre ore di lavoro a una magliaia che sa contare i punti, le calate.. . per tessere una maglia realizzata in un unico pezzo (tubolare) con il cordoncino a catenella nei colori neutri quali simbolo del lusso naturale (ma su richiesta si potranno avere anche a colori vivaci). «Già dall’inizio mia moglie ed io volevamo fare gli artigiani, poi il dovere di crescere In famiglia Piero Cividini, fondatore nell’87 dell’omonimo marchio di maglieria, con la figlia Anita, 26 anni, all’interno del laboratorio dove hanno recuperato gli antichi telai insito in un’azienda ci ha spinto verso l’industrializzazione», prosegue Cividini. La griffe ha chiuso il 2013 con un fatturato di 12 milioni di euro, l’85% realizzato all’estero, di cui quasi la metà in Giappone (18 shopping shop monomarca). «Stiamo investendo anche su Far East e sul mercato americano dove siamo arrivati nei primi Anni 90, ma il fatturato ora è troppo sbilanciato sull’export, è arrivato il momento di fare qualcosa», ragiona con concretezza l’imprenditore. Accanto a Piero e Miriam oggi c’è anche la figlia Anita, 26enne diplomata all’Accademia di Brera. «Le piace, ma non ha ancora capito bene se è disposta a pagare il prezzo del lavoro nella moda». M. T. V. © RIPRODUZIONE RISERVATA