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Da “Paula” di Isabel Allende, pp

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Da “Paula” di Isabel Allende, pp
Inviato da ENZA RAIANO, MEDICINA E CHIRURGIA
I. ALLENDE – PAULA (SOLITUDINE)
Che cosa accadrà con questo grande spazio vuoto che ora sono? Con che cosa mi colmerò quando
non rimarrà più un briciolo di ambizione, nessun progetto, nulla di me? La forza implosiva mi
ridurrà a un buco nero e sparirò. Morire…Abbandonare il corpo è un’idea affascinante. Non voglio
continuare a vivere morendo dentro, se voglio rimanere in questo mondo devo pianificare gli anni
che mi restano. Forse la vecchiaia è un altro inizio, forse si può tornare ai magici tempi
dell’infanzia, quei tempi anteriori al pensiero lineare e ai pregiudizi, quando percepivo l’universo
con i sensi esaltati di un demente ed ero libera di credere all’incredibile e di esplorare mondi che
poi, nella fase della ragione, sono scomparsi. Ormai io non ho molto da perdere, e nulla da
difendere. Sarà questa la libertà? Pensavo che alle nonne tocchi il ruolo di streghe protettrici,
dobbiamo vegliare sulle donne più giovani, i bambini, la comunità e anche, perché no, su questo
maltrattato pianeta, vittima di tante violenze. Mi piacerebbe volare su una scopa e danzare con altre
streghe pagane nel bosco alla luce della luna, invocando le forze della terra e ululando ai demoni,
voglio tramutarmi in una vecchia saggia, imparare antichi incantesimi e segreti da guaritore. Non è
poco ciò che pretendo. Le maghe, come i santi, sono stelle solitarie che brillano di luce propria, non
dipendono da nulla e da nessuno e possono lanciarsi alla cieca nell’abisso con la certezza che,
invece di schiantarsi, spiccheranno il volo. Possono trasformarsi in uccelli per vedere il mondo
dall’alto, o vermi per vederlo dall’interno, possono abitare altre dimensioni e viaggiare in altre
galassie, sono naviganti in un infinito oceano di coscienza e conoscenza.
inviato da FRANCESCA ROSSI, RICERCATRICE, MEDICINA E CHIRURGIA
J. AMADO – DONA FLOR E I SUOI DUE MARITI (SOLITUDINE)
Lasciatemi in pace nel mio lutto e nella mia solitudine. Non parlatemi di queste cose, rispettate la
mia vedovanza. Andiamo ai fornelli: piatto d’alta scuola è il vatapà di pesce, il più famoso dei piatti
della cucina baiana. Non mi dite che sono giovane, sono vedova: morta sono per tutte queste cose.
Vatapà che serva per dieci persone. Prendete la testa di due grossi pesci (meglio se garoupa) e come
condimento sale, coriandolo, aglio, cipolla, qualche pomodoro e il succo d’un limone. Che farò se
trovo un fidanzato? Qualcuno che ravvivi il mio desiderio morto, sotterrato con le spoglie del
defunto? Lasciatemi in pace accanto ai miei fornelli. Fate saltare il pesce in quel sugo ricco d’aromi
diversi. Poi basta scolare il sugo, lasciarlo da parte. E proseguiamo. Se il mio letto è un giaciglio
triste che serve solo per dormire, senza alcun altro uso, che importa? Tutto al mondo ha la sua
compensazione. Non può esistere miglior vita di quella di una vedova seria e riservata: vita calma.
Ma se invece il mio letto non fosse un giaciglio ove dormire, ma un deserto da traversare, sabbia
infuocata del desiderio, senza via d’uscita? Siete venute qua per imparare, non per conoscere il
prezzo della rinunzia. Continuiamo la lezione. Prendete la grattugia e due noci di cocco scelte, e
grattugiatele. Grattugiate con forza, coraggio grattugiate!. Liberate dalla crosta del pane raffermo, e
così scortecciato mettetelo a bagno nel latte di cocco allungato per farlo ammorbidire. Nel tritacarne
passerete quel pane così ammorbidito nel latte di cocco; tritate a parte noccioline, gamberetti secchi,
castagne di caju e coccola di ginepro, senza dimenticare la malagueta, a piacere di ciascuno. Dopo
averla macinata aggiungerete questa miscela al sugo del pesce, sommate aroma con aroma: il
ginepro con il cocco, il sale col pepe, l’aglio con la castagna di cajù. Se il vatapà, caloroso per il
ginepro, il pepe, le noccioline, agisce sulle persone, dando troppo calore ai sogni con i suoi
afrodisiaci condimenti? Che ne so io di tali necessità? Mai ho avuto bisogno del ginepro e delle
noccioline; i miei afrodisiaci erano le sue mani, la sua lingua, le sue parole, le sue labbra, il suo
profilo, la sua allegria. Era lui che mi spogliava del lenzuolo e del pudore per la pazza anatomia dei
suoi baci, per accendermi di mille stelle nel suo miele notturno. Donde viene questo desiderio che
mi brucia il petto e il ventre, se non la mano né il labbro, non il suo profilo di luna, né il riso
agreste, se lui, lui non c’è? Perchè non lasciare i neri veli del lutto sul mio viso, veli del pregiudizio
a coprire la mia faccia divisa, fra riserbo e desiderio contesa? Sono una vedova. Una vedova davanti
ai fornelli, a cucinare vatapà, pesando il ginepro, le noccioline, la malagueta. E basta. Aggiungete il
latte di cocco, quello spesso e puro e finalmente l’olio di dendê; due tazze colme, olio di dendê per
dare colore al vatapà: color oro vecchio. Fate cuocere a lungo, a fuoco lento. A fuoco lento mi
consumano i miei sogni; non ne ho colpa, sono solo una vedova divisa a metà; da un lato onesta e
piena di riserbo, dall’altro una vedova corrotta, quasi isterica, sfatta in deliqui e suscettibilità.
Questo manto di riserbo mi asfissia, di notte corro le strade in cerca di marito. D’un marito cui
servire il vatapà dorato, il mio bronzeo corpo di miele e ginepro. Arrivato il vatapà al punto giusto,
guardate che bellezza! Per servirlo non manca più che versarci sopra un po’ di olio di dendê crudo.
Servitelo con contorno di acaça’, fidanzati e mariti si leccheranno i baffi. E, parlando di fidanzati,
avvisate tutti, perchè tutti lo sappiano; c’è una vedova, dotata d’una certa calma bellezza ed
avvenenza, color del tè, fatta d’oro e di bronzo, ottima cuoca; lavoratrice, onesta e di buona
reputazione. Se conoscete qualcuno che sia interessato, mandatelo qua di corsa, a qualsiasi ora, di
mattina, di pomeriggio, a mezzanotte o all’alba; col sole o con la pioggia, mandatelo con urgenza,
con la più grande urgenza. Lancio quest’appello ai quattro venti, sul filo delle correnti sottomarine,
delle fasi della luna e delle maree, sulla scia delle rotte di navigazione, in mare aperto e cabotaggio,
poiché io sono un porto difficile da scoprire, recondito golfo, ancoraggio di naufraghi. Chi
conoscesse uno scapolo in cerca di vedova da marito, gli dica che qui si trova dona Flor, davanti ai
fornelli, vicino al vatapà di pesce, consumata in fuoco e maledizione.
Inviato da VALENTINA ORELLANA, LETTERE E FILOSOFIA
R. ARENAS – CELESTINO ANTES DE LA ALBA (SOLITUDINE/NOSTALGIA)
In questo posto ci sono proprio tante cose belle! E anche la gente non è così orribile come dicono.
La mia stessa madre, che a volte si infuria tantissimo, ci sono momenti in cui sembra diversa…e
ancora mi ricordo di un giorno, in cui io venivo dal pozzo con le due damigiane d’acqua sulle
spalle, e mentre ero quasi arrivato a casa, scivolai e caddi. Allora mi prese una così grande tristezza
che l’unica cosa che potei fare fu di buttarmi nella pozzanghera di fango che si era formata per
terra, e iniziare a piangere. E mia madre, che mi stava guardando dalla porta della cucina, arrivò
camminando fino a me e io mi dissi: “Adesso sicuro mi prende a botte”. Invece non lo fece. Ma si
chinò sopra la pozzanghera e mi passò la mano in testa, molto lentamente come se volesse lisciarmi
i capelli che stanno sempre in disordine e il nonno dice che sembro una scopa. Io restai molto
sorpreso. Guardai mia madre, e, non so, siccome era ancora abbastanza presto e c’era molta
nebbiolina, mi sembrò che stesse piangendo…da allora quando cado con le damigiane d’acqua in
mezzo al patio, mi metto tranquillo ad aspettarla. Anche se alcune volte mi sbaglio e invece di
lisciarmi la testa con le mani me la liscia con il bastone… però ad ogni modo io non potrei mai più
togliermela dalla memoria. E me la immagino sempre chinata vicino a me nel pantano a passarmi la
mano in testa, mentre i suoi occhi cominciano a brillare attraverso la nebbiolina che avvolge questi
luoghi la mattina… questa è un’altra delle cose che mi piacciono di questo posto: la nebbiolina.
Così bianca…stendere le mani e quasi non vederle più…e se anche le vedo, le vedo così bianche
che non sembrano neanche le mie mani…lo stesso nonno, che è così scuro per tutto il sole che
prende, quando la mattina lo vedo camminare attraverso il recinto sembra quasi un gigante tanto che
si vede bianco in mezzo alla nebbiolina. Per questo, ogni mattina io mi sveglio presto e vengo qua e
salgo fino in cima allo steccato, dove stanno le piante di mango, e resto ore e ore estasiato,
guardando come sembra bella la casa attraverso la nebbiolina, perché assomiglia quasi a una casa
delle favole. Di quelle che stanno soltanto nei libri come quello che portò Celestino il giorno che
comparve per la prima volta in casa, spaventato, e a braccetto di sua madre morta…e fino a che il
sole non diventa tanto grande e incomincia a diradarla, le cose continuano a sembrare così belle. È
un peccato, veramente, che non si possa vivere sempre in questa nebbia, perché così le cose
sembrerebbero diverse e mio nonno sarebbe sempre un vecchietto tutto bianco. Allegro e umido.
Camminando sull’erba anch’essa bianca. E la casa -se non uscisse mai sole- sarebbe sempre una
casa delle favole come quelle nel libro di Celestino, e chi sa se perfino mia madre, invece di darmi
ogni tanto una randellata, mi passerebbe soltanto la mano tra i capelli, perché bisogna considerare
che il giorno che lo fece in realtà c’era molta nebbiolina…Sì. Io credo che sia il sole, con questo
bagliore così forte, ad avere la colpa di tutte le cose che sono così brutte e della gente che si
arrabbia per ogni stupidaggine. Per questo ho molta voglia che arrivi subito l’inverno. Anche se qui
è così corto che passa e quasi non ce ne accorgiamo neanche. Però che arrivi, anche se solo per un
giorno; per lasciar cadere le damigiane dell’acqua…
Inviato da AMALIA RUSSIELLO, STUDENTESSA LICEO ARTISTICO
A. BARICCO – NOVECENTO (SOLITUDINE/TRISTEZZA)
Tutta quella città... non se ne vedeva la fine... /
La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? /
E il rumore /
Su quella maledettissima scaletta... era molto bello, tutto... e
io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non
avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c'era
problema/
Col mio cappello blu/
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino/
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino/
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Primo gradino, secondo/
Non è quel che vidi che mi fermò/
È quel che non vidi/
Puoi capirlo, fratello? È quel che non vidi... lo cercai ma non
c'era, in tutta quella sterminata città c'era tutto tranne/
C'era tutto/
Ma non c'era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto
quello. La fine del mondo/
Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono.
Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono
infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la
musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a
me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu/
Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me/
Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una
tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi/
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Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa è la
vera verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita/
Se quella tastiera è infinita, allora/
Su quella tastiera non c'è musica che puoi suonare. Ti sei
seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui
suona Dio/
Cristo, ma le vedevi le strade? /
Anche solo le strade, ce n'era a migliaia, come fate voi laggiù
a sceglierne una/
A scegliere una donna/
Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da
guardare, un modo di morire/
Tutto quel mondo/
Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce/
E quanto ce n'è/
Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a
pensarla, quell'enormità, solo a pensarla? A viverla... /
74
Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a
duemila persone per volta. E di desideri ce n'erano anche qui,
ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una
poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era
infinita.
Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo
grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo
bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so
suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò. Lasciatemi
tornare indietro.
Per favore
Inviato da LILIANA CIRILLO, DIPENDENTE FEDERICO II
A. BARICCO – OCEANO MARE (SOLITUDINE)
"Posa la penna, piega il foglio, lo infila in una busta. Si alza, prende dal suo baule una scatola di
mogano, solleva il coperchio, ci lascia cadere dentro la lettera, aperta e senza indirizzo. Nella
scatola ci sono centinaia di buste uguali. Aperte e senza indirizzo. Ha 38 anni, Bartleboom. Lui
pensa che da qualche parte, nel mondo, incontrerà un giorno una donna che, da sempre, è la sua
donna. Ogni tanto si rammarica che il destino si ostini a farlo attendere con tanta indelicata tenacia,
ma col tempo ha imparato a considerare la cosa con grande serenità. Quasi ogni giorno, ormai da
anni, prende la penna in mano e scrive. Non ha nomi e non ha indirizzi da mettere sulle buste: ma
ha una vita da raccontare. E a chi, se non a lei? Lui pensa che quando si incontreranno sarà bello
posarle sul grembo una scatola di mogano piena di lettere e dirle - Ti aspettavo. Lei aprirà la scatola
e lentamente, quando vorrà, leggerà le lettere una ad una e risalendo un chilometrico filo di
inchiostro blu si prenderà gli anni -i giorni, gli istanti- che quell'uomo, prima ancora di conoscerla,
già le aveva regalato. O forse, più semplicemente, capovolgerà la scatola e attonita davanti a quella
buffa nevicata di lettere sorriderà dicendo a quell'uomo -Tu sei matto. E per sempre lo amerà.
Inviato da AURORA GREGORACI
E. BIAGI – LETTERA D’AMORE A UNA RAGAZZA DI UNA VOLTA
(SOLITUDINE/NOSTALGIA)
Cara Lucia, non ho altro mezzo per rivolgermi a te e ti scrivo una lettera che non leggerai mai. Ma è
un modo per stare ancora un po' con te: quei sessantadue anni sono passati così in fretta e tu eri una
ragazza con un cappellino marrone, un golf a strisce grigie e marrone e una bella faccia pulita.
Sessantadue anni: sono più di ventiduemila giorni. A scriverlo appaiono un'eternità, un tempo quasi
infinito, eppure ora, mentre li guardo da lontano, mi sembra che siano stati brevi, troppo brevi. Sono
passati così velocemente che non c'è stato, per noi, nemmeno il tempo per commettere gli errori
della giovinezza. Il destino ha voluto che la nostra generazione abbia dovuto affrontare anni tragici
e drammatici: la guerra, ad esempio. È vero: «Sono così brevi i giorni dei vent'anni». Lo ha detto
Renato Serra che morì, nel 1915, su Podgora. Ed è stato così anche per noi.
Ora tu mi hai lasciato e poco dopo ti ha seguito anche Anna, la nostra ultima figlia, aveva soltanto
quarantasette anni. Ormai buona parte della mia vita - sto giocando i tempi supplementari - è fatta di
ricordi. Io mi ritengo un superstite e, per rivivere la nostra storia, non mi rimane che la memoria.
Non so più chi l'ha detto, ma mi sembra vero: «I ricordi sono la nostra fortuna: c'è in loro tutta la
bellezza del mondo. Odio il pensiero di perderli, di lasciarli svanire».
Inviato da VERA DE CRECCHIO
F. BROWN – LA SENTINELLA (DIVERSITÀ /SOLITUDINE)
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anniluce da casa.
Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella cui era abituato, faceva
d’ogni movimento una agonia di fatica.
Ma dopo decine di migliaia d’anni quest’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli
dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arrivava al
dunque, toccava ancora al soldato di fanteria prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a
palmo. Come questo maledetto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano
sbarcato. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica altra
razza intelligente della Galassia… crudeli, schifosi, ripugnanti mostri.
Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la lenta e difficile
colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra, subito; quelli avevano
cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica.
E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo, e il giorno era livido e spazzato da
un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano d’infiltrarsi e ogni
avamposto era vitale.
Stava all’erta, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a combattere su un
mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel
verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s’erano abituati,
non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due
gambe, quella pelle d’un bianco nauseante, e senza squame.
Inviato da MARIA GRAZIA FIORE, DOCENTE DI INGLESE
I. CALVINO – SOTTO IL SOLE GIAGUARO (NOSTALGIA)
Come epigrafi in un alfabeto indecifrabile, di cui metà delle lettere siano state cancellate dallo
smeriglio del vento carico di sabbia, così voi resterete, profumerie, per l'uomo futuro senza naso.
Ancora ci aprirete le porte a vetri silenziose, attutirete i nostri passi sui tappeti, ci accoglierete nel
vostro spazio da scrigno, senza spigoli, tra le rivestiture di legno laccato delle pareti, ancora
commesse e padrone colorate e carnose come fiori artificiali ci sfioreranno con le tonde braccia
armate di spruzzatori o con 1'orlo della gonna tendendosi sulla punta dei piedi in cima agli sgabelli:
ma i flaconi le boccette le ampolle dai tappi di vetro cuspidati o sfaccettati continueranno invano a
intrecciare da uno scaffale all'altro la loro rete di accordi consonanze dissonanze contrappunti
modulazioni progressioni: le nostre sorde narici non coglieranno più le note della gamma: gli aromi
muschiati non si distingueranno dai cedrini, l'ambra e la reseda, il bergamotto e il benzoino
resteranno muti, sigillati nel calmo sonno dei flaconi. Dimenticato l'alfabeto dell'olfatto che ne
faceva altrettanti vocaboli, d'un lessico prezioso, i profumi resteranno senza parola, inartico1ati,
illeggibili.
Ben altre vibrazioni una grande profumeria poteva suscitare nell'animo d'un uomo di mondo: come
al tempo in cui sugli Champs Elysées la mia carrozza si fermava a un brusco strappo di briglie
davanti a una nota insegna, e io scendevo di furia, entravo nella galleria tutta specchi lasciando
cadere d'un colpo solo mantello cilindro bastone guanti nelle mani delle ragazze accorse subito a
raccoglierli, e Madame Odile mi veniva incontro come volando sui falpalà: «Monsieur de SaintCaliste! Quale buon vento? In che cosa, ditemi, possiamo servirvi? Una colonia? Un'essenza di
vetivèria? Una pomata per arricciare i baffi? Una lozione che ridia ai capelli la loro veritiera tinta
d'ebano? Oppure» e flabellava le ciglia atteggiando le labbra in un sorriso malizioso, «è un'aggiunta
alla lista dei regali che ogni settimana i miei fattorini recapitano discretamente a vostro nome a
indirizzi illustri e oscuri sparsi per tutta Parigi? È una nuova conquista che state per confidare alla
vostra fedele Madame Odile?»
Inviato da ESPOSITO, DOCENTE DI LETTERE E FILOSOFIA
A. CAMUS – LO STRANIERO (SOLITUDINE)
Partito lui, ho ritrovato la calma. Ero esausto e mi sono gettato sulla branda. Devo aver dormito
perché mi sono svegliato con delle stelle sul viso. Rumori di campagna giungevano fino a me.
Odori di notte, di terra e di sale rinfrescavano le mie tempie. La pace meravigliosa di quell’estate
assopita entrava in me come una marea. In quel momento e al limite della notte, si è udito un sibilo
di sirene. Annunciavano partenze per un mondo che mi era ormai indifferente per sempre. Per la
prima volta da molto tempo, ho pensato alla mamma. Mi è parso di comprendere perché, alla fine di
una vita, si era preso un “fidanzato”, perché aveva giocato a ricominciare. Laggiù, anche laggiù,
intorno a quell’ospizio dove vite si stavano spegnendo, la sera era come una tregua melanconica.
Così vicina alla morte, la mamma doveva sentirsi liberata e pronta a rivivere tutto. Nessuno,
nessuno aveva il diritto di piangere su di lei. E anch’io mi sentivo pronto a rivivere tutto. Come se
quella grande ira mi avesse purgato da un male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica
di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così
simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora. Perché
tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il
giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio.
Inviato da LOPIANO
R. CATELLO “NUNN´È POESIA - GUERRAMMÒRE” (SOLITUDINE)
SENZA ‘E TE
Cerco nu poco 'e te
d'int 'a ll'onne
ca vanne annanze 'e arete.
Dicene ca 'o sole fa sembrà
cchiù belle 'e città;
ma je me sento annure,
spugliate d'a vita.
Senza 'e te
Nun sento cchiù 'o viento 'nfaccia
nun veche 'o blu 'e stu mare
nun sento 'a terra sotto e' pere
Senza 'e te je nun sò niente.
Inviato da RITA ALITO
COHEN – DIARIO (SOLITUDINE/NOSTALGIA)
16 Marzo
Ieri, all' amico di Marcel morto è piaciuto immaginare una riunione di tutte le donne della sua vita,
e domani riderà. Ridere, anche senza sincerità, è incominciare a tradire. Io riderò mentre lui sarà
solo e abbandonato in un pezzo di terra dove accadono orrori. Peccato di vita, sempre e dovunque. I
più sinceri nel lutto hanno fame, e si nutrono con appetito, orrendo appetito, e peccatore. Le loro
mandibole! Orrendamente mosse tre volte al giorno, animalescamente frantumatrici tre volte al
giorno, allegramente masticatorie tre volte al giorno. Mangiare è voler vivere, e farne ancora parte è
peccare. Marcel è morto, ma io guardo le donne e i loro seni. Marcel è morto, ma io amo il sole e il
chiacchiericcio dei piccoli uccelli. Marcel è morto e, senza ammetterlo, voglio un po' di felicità.
Su, ammettiamolo, che noi, i sopravvissuti, quelli che Dio, a quanto pare, ha creato a Sua
immagine, ammettiamo d'infischiarcene bellamente dei nostri morti. Paghiamo loro di tanto in tanto
un onorevole tributo per poi reinserirci ipocritamente, con sospiri subito spenti, nel girotondo della
vita, mettendoci a danzare sulla terra che li ricopre, i nostri morti, a danzare talvolta con oneste
scenette di dolore, un dolore sincero ma poco duraturo. Marcel è morto, ma come, è bastato che
poco fa dalla mia radio si sia messo a scorrere il bel Danubio blu, e subito ho amato, a dispetto del
mio mal d'amicizia, ho amato delle stupide viennesi valzerine. E 1'altro giorno, per via, ho guardato
le belle forme strazianti di una ninfa dalle trecce bionde, ninfa orrendamente viva, ingiustamente
viva. Peccato di vita, ogni cosa è peccato di vita, perfino scrivere del mio amico morto. E chissà,
può darsi che l'animazione avvertita poco fa nello scrivere non provenisse soltanto dal mio dolore
vero ma anche, chissà, da una orribile gioia misteriosa, e peccatrice, gioia di vivere ancora,
involontaria gioia a me stesso ignota, carnale gioia di contrasto tra questo morto e questo vivo che
dice il suo dolore, il suo dolore sia pure vero, ne testimoniano le mie notti. Ma avvertire dolore è
vivere, è esserci, è esserne ancora parte. E queste pagine, non le scrivo forse perché delle rotative
stampino poi il mio dolore? E non è forse blasfemo sfruttare così il mio dolore? Tutti questi peccati
di vita, li ho già detti in uno dei miei libri, ma li ridico e devo ridirli, perché mi ossessionano e mi
fanno vergogna, vergogna e dolore, Non so dire che ciò che sento, e mi tortura. Ripetitore di stesse
cose sono, e ripetitore di stesse cose resto.
Inviato da IOLE SALERNO, UFFICIO SCUOLE SPECIALIZZAZIONE
B. CONSTANT– ADOLPHE (SOLITUDINE/DIVERSITÀ/DISTACCO)
Così, ascoltando la mediocrità dissertare su principi ben stabiliti ed incontestabili della morale, delle
convenienze o della religione (cose che la mediocrità volentieri allinea insieme), mi sentivo spinto
alla contraddizione: non che avessi adottato opinioni contrarie, ma perché una così goffa e ferma
convinzione mi sembrava intollerabile. D’altronde non so che istinto mi avvertiva che diffidassi di
codesti assiomi generali così spogli d’ogni limitazione, così mondi d’ogni sfumatura. Gli sciocchi
formano con la loro morale una massa compatta e indivisibile, perché si mescoli il meno possibile
alle loro azioni e li lasci liberi in tutti i particolari.
Con tale condotta acquistai ben presto una gran fama di leggerezza, di ironia e di cattiveria. Le mie
parole amare passarono per prove di un’anima piena di odio, i miei scherzi per attentati contro ogni
rispettabile principio. Coloro di cui avevo avuto il torto di farmi beffe trovavano comodo far
alleanza con i principi che mi accusavano di mettere in forse: e perché senza volerlo li avevo fatti
ridere alle spalle gli uni degli altri, tutti mi si unirono contro. Si sarebbe detto che, facendo notare i
loro lati ridicoli, tradivo una confidenza fattami. Si sarebbe detto che, facendosi vedere ai miei
occhi come erano, avessero per ciò stesso ottenuto da me la promessa del silenzio: e io non avevo
affatto la coscienza di aver accettato un patto così oneroso.
Avevano avuto piacere concedendosi liberamente; io ne avevo osservandoli e descrivendoli: ciò che
loro chiamavano perfidia mi sembrava un assai innocente e legittimo risarcimento.
Non mi voglio affatto giustificare: è un pezzo che ho rinunciato a codesto frivolo e facile uso di uno
spirito senza esperienza; voglio dire soltanto – e dirlo non per me che sono ormai al riparo dal
mondo, ma per altri – che occorre tempo per abituarsi all’umana specie, come l’hanno ridotta
l’interesse, l’affettazione. La vanità e la paura. Lo stupore della prima giovinezza, alla vista di una
società così artificiosa e sofisticata, è segno di un cuore puro piuttosto che di uno spirito malizioso.
Codesta società non ha d’altronde nulla da temere. Ci pesa addosso siffattamente, esercita così
potentemente la sua sorda influenza, che non ci mette molto a modellarcisi secondo uno stampo
universale. Allora non siamo più sorpresi d’altro che della nostra antica sorpresa stima o bene nella
nostra nuova forma: così come si finisce col respirare a uno spettacolo gremito di folla, benché
entrando non ci si respirasse che a fatica.
Se qualcuno riesce a sottrarsi a questo destino comune, chiude in sé il suo segreto dissenso; vede
nella maggior parte delle cose ridicole il germe dei vizi: non se ne fa più beffe, perché il disprezzo
subentra allo scherzo, e il disprezzo è silenzioso.
Nel ristretto pubblico che mi circondava andò quindi diffondendosi una vaga inquietudine circa il
mio carattere. Non potevano allegare nessuna azione biasimevole; anzi non me ne potevano allegare
nessuna azione biasimevole; anzi non me ne potevano contestare alcune che parevano semmai
svelare generosità e altruismo; ma dicevano che ero uomo immorale, uomo poco sicuro: due epiteti
felicemente inventati per insinuare fatti che si ignorano, e lasciar indovinare ciò che non si sa.
Inviato da SERGIO CURCIO, FEDERICO II
E. DE AMICIS – CUORE (SOLITUDINE/DISTACCO)
28, venerdì
Tornato alla scuola, subito una triste notizia. Da vari giorni Garrone non veniva più perché sua
madre era malata grave. Sabato sera è morta. Ieri mattina, appena entrato nella scuola, il maestro ci
disse: - Al povero Garrone è toccata la più grande disgrazia che possa colpire un fanciullo. Gli è
morta la madre. Domani egli ritornerà in classe. Vi prego fin d'ora, ragazzi: rispettate il terribile
dolore che gli strazia l'anima. Quando entrerà, salutatelo con affetto, e seri: nessuno scherzi,
nessuno rida con lui, mi raccomando. - E questa mattina, un po' più tardi degli altri, entrò il povero
Garrone. Mi sentii un colpo al cuore a vederlo. Era smorto in viso, aveva gli occhi rossi, e si
reggeva male sulle gambe: pareva che fosse stato un mese malato: quasi non si riconosceva più: era
vestito tutto di nero: faceva compassione. Nessuno fiatò; tutti lo guardarono. Appena entrato, al
primo riveder quella scuola, dove sua madre era venuta a prenderlo quasi ogni giorno, quel banco
sul quale s'era tante volte chinata i giorni d'esame a fargli l'ultima raccomandazione, e dove egli
aveva tante volte pensato a lei, impaziente d'uscire per correrle incontro, diede in uno scoppio di
pianto disperato. Il maestro lo tirò vicino a sé, se lo strinse al petto e gli disse: - Piangi, piangi pure,
povero ragazzo; ma fatti coraggio. Tua madre non è più qua, ma ti vede, t'ama ancora, vive ancora
accanto a te, e un giorno tu la rivedrai, perché sei un'anima buona e onesta come lei. Fatti coraggio.
- Detto questo, l'accompagnò al banco, vicino a me. Io non osavo di guardarlo. Egli tirò fuori i suoi
quaderni e i suoi libri che non aveva aperti da molti giorni; e aprendo il libro di lettura dove c'è una
vignetta che rappresenta una madre col figliuolo per mano, scoppiò in pianto un'altra volta, e chinò
la testa sul banco. Il maestro ci fece segno di lasciarlo stare così, e cominciò la lezione. Io avrei
voluto dirgli qualche cosa, ma non sapevo. Gli misi una mano sul braccio e gli dissi all'orecchio: Non piangere, Garrone. - Egli non rispose, e senz'alzar la testa dal banco, mise la sua mano nella
mia e ve la tenne un pezzo. All'uscita nessuno gli parlò tutti gli girarono intorno, con rispetto, e in
silenzio. Io vidi mia madre che m'aspettava e corsi ad abbracciarla, ma essa mi respinse, e guardava
Garrone. Subito non capii perché, ma poi m'accorsi che Garrone, solo in disparte, guardava me; e
mi guardava con uno sguardo d'inesprimibile tristezza, che voleva dire: - Tu abbracci tua madre, e
io non l'abbraccerò più! Tu hai ancora tua madre, e la mia è morta! - E allora capii perché mia
madre m'aveva respinto e uscii senza darle la mano.
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Inviato da MARINA PIEROBON, LETTERE MODERNE
C. DE FERNEX – IL MOTO MINORE (SOLITUDINE/TRISTEZZA)
Mi ero stretta il maglione in vita e avevo guardato giù, pronta a discendere i duemila metri di
Kastelhorn. La strada era la stessa della salita, ma se prima camminavo per la conquista della cima,
ora intraprendevo il viaggio del ritorno. Scendevo carica di altitudini quando il telefono ha
squillato. Eri tu che chiamavi, di là da ogni possibile previsione.
Hai chiesto come stavo. Ti ho risposto che va bene, a certe quote manca l’ossigeno per pensare.
Ed ecco l’inaspettata richiesta che per mesi e mesi, e mesi ancora, ho atteso di sentirti dire ma che
hai voluto pronunciare solamente quando mi credevo sinceramente decisa a non pensarti più.
Sei libera? Vediamoci: così hai detto con tutta la semplicità e la naturalezza di chi non conosce il
peso delle attese. Ho indugiato per quanto? Due, tre secondi al massimo. Poi sono scapicollata dalla
montagna correndo, con le ginocchia piegate dal dislivello e lo sforzo di trovare un compromesso
tra l’equilibrio e l’indisciplinata fretta. Ho corso, mentre io e la mia arrendevolezza facevamo a
pugni, precipitandomi giù dal dirupo un piede appresso all’altro. In una corsa gravitazionale mi
sono riempita di quel perdono che avevo sempre voluto chiederti, finalmente pronta a declamarti
ogni singola scusa, ogni monologo che sapesse farsi onore di giustificazioni e recriminazioni contro
quella che ero stata e che non volevo più essere. Che non sono più, giuro.
Mi sparerei nello spazio più nero, oltre Marte, oltre la fascia degli asteroidi e come Callisto mi
nasconderei in cielo. Mi frantumerei in polvere cosmica, pronta a risplendere oltre le rocce
vulcaniche del Mauna Kei. Viaggerei, sospesa da un niente infinito, e dal pianeta Nibiru ti farei un
cenno di saluto, ma no, non tornerei indietro.
Così avevo detto partendo e invece eccomi nuovamente qui, sotto la volta di questa stazione che
oscura il cielo. Eccomi carica di altezze, di viaggi che volevano strapparmi da te ma che a te mi
hanno riportata.
Il dondolio del vagone, le chiacchiere indistinte dei passeggeri, il fischio della partenza mi ricorda
la mia vita di sempre. La mia vita fatta di stazioni affollate, sature di sudore, di umidità che ristagna
nei sotterranei…..
……Stazione dopo stazione, torno ai miei ricordi. Mentre la metrò corre, mentre tu mi aspetti
qualche fermata più avanti, ritrovo le nostalgie dei passati con te ancora tutte appese ai rami di
questi alberi, agli alberi di questa città. Ricordo i calci alla ghiaia, quando mi facevi arrabbiare, le
prepotenze con cui ti obbligavo a fare a modo mio, le corse e tutte le volte che li ho persi, quei treni,
per arrivare da te. Mi chiudevo dentro la macchina e ti lasciavo fuori a pregarmi di aprire.
Arrabbiata lo urlavo attraverso il finestrino che di te non avevo bisogno, che potevi anche
andartene; sai cosa mi frega.
Una appresso all’altra le immagini tornano come un singulto. C’era davvero tutto questo posto per
tutto questo passato, per tutti questi rimpianti, dentro di me?
Altra stazione, altra fermata, altra gente diretta verso altri sensi.
Cerco di abbandonarmi alla lettura, ma ogni volta che arrivo alla fine di un paragrafo ne abbandono
il senso per figurarmi il nostro incontro in tutta l’irreale perfezione di cui sono carichi i sogni. La
verità però è che l’anticipazione non ti scuote come vivere gli avvenimenti nelle loro sorprendenti
improvvisazioni e, quando scendo alla fermata, mi trovo davanti a un’inaspettata timidezza.
Salgo le scale. Una mendicante allunga la mano.
Inviato da ORTOLANI, LETTERE E FILOSOFIA, DOCENTE
E. DE LUCA – ACETO, ARCOBALENO (SOLITUDINE)
Conobbi gli amici nei tempi di scuola, unico luogo in cui stetti tra i molti, seduto in banchi angusti,
ascoltando maestri, despoti sapienti. Partecipavamo di quel mondo pieno di sbarramenti, di file
indiane, di carta che frusciava nel silenzio, riuscendo a comprenderlo. In quella comunità esigente i
caratteri scaturivano come una risorsa, si approfondivano per emergenza. Scoprivo negli altri i
sentimenti: amore, invidia, ammirazione, imitazione. Uno era abile nello sport, un secondo
rispondeva alle domande con disinvoltura, un altro era spiritoso e piaceva alle ragazze: intorno a
loro si agitavano i desideri degli altri. Cercavano anch'essi di essere, di arrivare perciò a quelli che
sembravano dei punti fermi di una destrezza di esistere. Eravamo persone continuamente rimestate,
affascinate da ogni parvenza di compiutezza. Guardavo quel mondo restandone in disparte perché
era troppo intenso.
Se non fossi rimasto per cinque anni di liceo con le stesse persone, nessuno di loro si sarebbe
accorto di me. Ma cinque anni sono una grandezza smisurata dai tredici ai diciotto e qualcuno fini
per accogliermi com'ero, ultimo a uscire, zitto. Come altro ero: magro, ossuto, gozzo prominente,
faccia lunga e occhi di forma tonda, difficili da chiudere. Un ciuffo di capelli è rimasto l'unico tratto
indocile dell'aspetto.
Poiché non mi infervoravo di alcun entusiasmo e non prendevo le parti di nessuno, alcuni
cominciarono a confidarsi con me. Era quella un'età in cui i ragazzi sperimentando l'amicizia
affidavano i propri pensieri a chi non sapeva custodirli. Era l'età dei tradimenti leggeri. Con me non
potevano accadere: quelle confidenze finivano subito disperse, appena dette non le ricordavo.
Questa serietà secondaria favorìì in quel tempo l'attaccamento di alcuni verso di me.
Fuori scuola vedevo le collere improvvise e i litigi che sfociavano nei colpi veloci della zuffa.
Provavo a suscitarle in me, ma tutto quello che ottenevo era di spalancare gli occhi e stringere le
labbra per qualche secondo, mentre dentro di me non succedeva niente. A uno sgarbo non sapevo
rispondere, a una prepotenza cedevo subito. Una volta un mio compagno di banco prese le mie
difese in una faccenda di piccole angherie che distrattamente subivo da un altro. Tra i due scoppiò
la lotta. Provai imbarazzo, non gratitudine. Non mi mortificava la prepotenza di uno, non mi consolava l'indignazione di un altro. Diventavo tra loro un caso, corpo di una contesa che finiva
lontano da me, procurando rovina sui banchi e infiammando altri.
Il prepotente mi attese all'uscíta di scuola e mi colpì la faccia. Portai le mani a coprire la ferita e
íncontrai il suo sguardo stupito dalla mia mancanza di difesa. Nemmeno piansi perché risento poco
e alla leggera del dolore fisico. Non mi feri una seconda volta. Uno mi consolò dicendo che avevo
fatto bene a offrire l'altra guancia. Non l'avevo fatto, mi sarebbe mancata la sfrontatezza. Non
reagii, solo questo, con me era impossibile allestire uno scontro. Non sapevano maltrattarmi e
neppure aiutarmi.
Inviato da CORRADO DE MAIO
C. DE MAIO – SISTEMA ELEFANTE (SOLITUDINE)
Ora aveva i capelli rasati a zero e le unghie dipinte di nero e indossava una tuta Adidas rossa a
strisce bianche e un paio di occhiali a specchio che ricordavano le maschere aerodinamiche degli
sciatori nordici. Lo osservò per almeno un paio di minuti che si aggirava nei dintorni della
ricostruzione in stile luna park della Cortina di Ferro prima di avvicinarlo.
Aveva conosciuto il minuscolo individuo due anni prima, al 90 di Dennewitzstrasse. Era stato il suo
amico dj, per un certo periodo amante, Uwe Heinzstraub, meglio conosciuto come DJ Heinz il re
della gabber-house, a presentarli. La storia del Grande Romanzo era venuta fuori subito dalla bocca
di Uwe. E la Cimice, aveva mostrato un interesse persino eccessivo per il progetto. Si era autodefinito come la vera anima di Berlino, cioè uno che conosceva tutti i segreti più nascosti e i misteri
della città. E si era offerto di dargli un aiuto, perché chi meglio di lui? La Cimice, avrebbe saputo
successivamente Stephan - riuscendo in questo modo a spiegarsi il motivo di quell'attacco di
altruismo - era l'unico erede di una ricchissima famiglia di produttori caseari brandeburghesi e fino
a quel momento la sua vita si era rivelata una continua battaglia all'ultimo sangue con la noia.
Letteralmente si occupava del nulla: giocava a fare l'agente segreto di una inesistente superpotenza
artistica frequentando il jet-set sperimentale degli spiantati berlinesi, dei drogati di ogni risma, dei
viziosi, dei pittori che non avevano dipinto nulla, degli attori privi di espressione, dei registi senza
pellicola. Una -chiamiamola- attitudine che per Stephan Mestrom non avrebbe potuto rappresentare
un impedimento: quello del resto era anche il suo mondo.
Una volta ritrovati -quello della Cimice, aveva pensato Mestrom, era stato un abbraccio che tradiva
una sete di rapporti umani quasi patologica- si incamminarono lungo Friedrichstrasse, a passo
svelto, a causa del vento freddo che aveva trasformato la strada in una cella frigorifera.
Camminando verso Kreuzberg, la Cimice raccontò a Mestrom che aveva saputo del Tossico da una
vecchia conoscenza, "un tipo affidabile" disse, anche se si guadagnava da vivere spacciando
anestetici. La conoscenza gli aveva detto che Il Tossico era un personaggio fondamentale, che
coltivava una certa misantropia e che aveva smania di pubblicare le sue memorie. Così, utilizzando
spregiudicatamente questa leva, la Cimice aveva chiamato il Tossico e l'aveva convinto a
organizzare l'incontro. Gli aveva mentito dicendogli che si sarebbe presentato col direttore di una
grande casa editrice interessata a pubblicare opere di nuovi scrittori berlinesi. A quel punto il
Tossico, in evidente stato di eccitazione, gli aveva confessato di aver già trascritto le sue memorie e
se la casa editrice era interessata, avrebbe potuto pubblicare il suo manoscritto.
Inviato da FRANCESCO DE SIO LAZZARI LETTERE E FILOSOFIA, DOCENTE
F. DE SIO LAZZARI – PER ANNA DE SIO LAZZARI (SOLITUDINE)
Più volte, nei giorni prima della sua morte, mi ha detto che "è naturale". E' naturale morire,
intendeva, e me lo suggeriva per darmi conforto e prepararmi. Lo diceva sorridendo
dolcemente, e con una sorta di distacco.
Un pomeriggio, tutto il suo dialogo con me è stato una spezzettata, ma unitaria e lunga
meditazione sulla morte. "Chissà se ci vedremo ancora...sarebbe bello", si è domandata a un
certo momento.
Assimilare questa esperienza, questo strappo, non è facile. Molti nostri colloqui, nell'ultimo
periodo, erano fatti di lunghe strette di mano, o di carezze al suo viso. Voglio serbare queste
sensazioni, serbarle da solo. Conservare in me questo ricordo disperante e tenero. Gli ultimi
giorni con mia madre.
E' un momento difficile, e cerco di viverlo come posso. Nell'isolamento, anche nel silenzio.
L'amore dato e ricevuto non ha reso il distacco meno lacerante. Avverto tutte le mistificazioni
che si celano dietro le teorie di salvezza o le pratiche di meditazione. Il dolore è dolore, e
basta. E non c'è modo di alleviarlo per il solo fatto che altri abbiano sofferto, o che la vita
stessa sia sofferenza. Ogni sistema religioso, filosofico o ascetico, mi sembra essenzialmente
ingannevole. Sappiamo tutti che occorre morire, ma se la morte si avvicina per i nostri cari è
come se fosse la prima volta che una persona muore. Emerge qualcosa che con la ragione non
ha nulla a che fare, e questo qualcosa può essere devastante.
La ragione non può nulla. Se il dolore è quel bordo dal quale ci affacciamo da noi stessi per
incontrare la persona che amiamo, vi sono attimi nei quali “affacciarsi” – nell’impossibilità di
dare aiuto, di alleviare – è un’esperienza disperata. Sapevo, e so, che riuscivo a darle qualcosa
in alcuni momenti, ma sapevo anche che mia madre restava sola, nella vicenda che stava
attraversando. E che lei restasse sola, e che io non potessi fare molto, tutto ciò era ed è dolore.
Come mi ha detto un’amica, il dolore può essere anche “lo spazio di un comunicare sottile,
intenso e prezioso, un discorrere dei corpi che forse per istanti ritrovano la memoria del loro
essere uno”. Bellissima espressione, questa, che ho conservato nell’archivio della memoria. E,
tuttavia, insieme alla consapevolezza del “comunicare” come avrei potuto non prevedere
l’interruzione? Il brusco silenzio? Come dimenticare che i corpi e gli sguardi resteranno
separati per sempre ? E che solo il ricordo resterà, e sarà nostalgia? Inesauribile nostalgia?
Inviato da MARIO CAMMAROTA, FISICO
D. EGGERS – L’OPERA STRUGGENTE DI UN FORMIDABILE GENIO (TRISTEZZA)
Le mani di mia madre sono forti, solcate di vene. Come il suo collo. Ha la schiena spruzzata di
lentiggini. Tanto tempo fa faceva un trucchetto per cui sembrava che si stesse staccando un pollice,
ma non era vero. Lo conoscete quel trucco? La falange superiore del pollice sinistro appare come
fosse parte della mano destra, e la si fa scorrere su e giù lungo l'indice sinistro. È un trucco un po'
inquietante, specie quando lo faceva mia madre, perché lo faceva imprimendo un forte tremito alle
mani, con le vene del collo tese e gonfie e in viso l'espressione di una persona che stia veramente
strappandosi un dito. Da bambini assistevamo allo spettacolo con un misto di gioia e di terrore.
Sapevamo che non era vero e gliel'avevamo visto fare dozzine di volte, eppure il suo effetto su di
noi era sempre uguale, perché mia madre, così magra e muscolosa, aveva una presenza fisica unica.
Le facevamo fare quel trucco di fronte ai nostri amici, i quali ne erano a loro volta terrorizzati e
stregati. Ma tutti i bambini la adoravano. Tutti la conoscevano per via della scuola, dato che
dirigeva le recite scolastiche delle elementari, coinvolgendo ragazzini i cui genitori stavano per
divorziare, e lei li conosceva, li amava e non si vergognava di abbracciarli, specie quelli più timidi.
Intorno a lei aleggiava una sorta di naturale comprensione, una forma di completa assenza di dubbio
su quello che faceva, che metteva gli altri a proprio agio e che era assai differente dai modi insicuri
e distaccati di alcune madri. Naturalmente quando capitava che qualche ragazzo non le piacesse, lo
sfortunato lo sapeva. Come per esempio Dean Baldwin, quel ragazzotto robusto e biondiccio che
viveva in fondo all'isolato e che dalla strada, senza essere stato per nulla provocato, le mostrava il
medio mentre passava in auto. «Ragazzaccio» diceva lei, e lo pensava davvero - aveva una sua
durezza interiore con cui era meglio non scherzare - depennandolo dalla sua lista personale fino al
momento in cui non le avesse chiesto scusa (cosa che sfortunatamente Dean non fece mai), dopo di
che lei lo avrebbe abbracciato come qualunque altro ragazzino. Per quanto forte fosse fisicamente,
gran parte della sua energia era nei suoi occhi, piccoli e azzurri, e quando li stringeva li socchiudeva
con un'intensità assassina da cui si intuiva senza ombra di dubbio che, qualora costretta, non
avrebbe esitato a mettere in atto l'implicita minaccia racchiusa in quel suo sguardo, e che per
difendere quanto le era caro non si sarebbe fermata davanti a nulla e ti sarebbe passata
tranquillamente sopra. Eppure portava tutta questa forza con estrema disinvoltura, ostentando anzi
una certa noncuranza verso i propri muscoli e la propria carne. Si tagliava mentre affettava le
verdure, si tagliava fino all' osso, di solito il pollice, e sanguinava dappertutto, sui pomodori, sul
tagliere, nel lavabo, mentre noi, che le arrivavamo giusto alla vita, la osservavamo terrorizzati,
attoniti, spaventatissimi all'idea che potesse morire. Ma lei invece faceva una smorfia, si lavava per
bene il pollice sotto il getto dell'acqua, se lo avvolgeva in un tovagliolo di carta e continuava ad
affettare, mentre il sangue lentamente inzuppava la carta del tovagliolo, irradiandosi, proprio come
fa il sangue, dal centro della ferita verso l'esterno.
inviata da ANGELO PETRELLA
F. FORTINI – TRADUCENDO BRECHT (DESOLAZIONE/TRISTEZZA)
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov'erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d'un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l'odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
Inviato da MARTINA LIETO, STUDENTESSA ISTITUTO MAGISTRALE FONSECA
K. HOSSEINI – IL CACCIATORE DI AQUILONI (SOLITUDINE/DISTACCO)
La pioggia scivolava a rivoli sui vetri della mia finestra. Vidi Baba chiudere il baule con un colpo
secco. Poi, ormai zuppo, si chinò appoggiando un braccio sul tetto della macchina, per parlare con
Ali che aveva già preso posto sul sedile posteriore. Forse un estremo tentativo di fargli cambiare
idea. Baba rimase così qualche minuto, fuori dalla macchina, sotto la pioggia battente. Quando si
raddrizzò, mi resi conto dalle sue spalle curve che la vita cui ero stato abituato fin da quando ero
nato era finita per sempre. Baba si infilò nel posto di guida. Accese i fari e due fasci di luce
penetrarono la cortina di pioggia. Se fossi stato il protagonista di uno dei film indiani che Hassan e
io amavamo, a quel punto sarei uscito correndo a piedi nudi nella pioggia torrenziale e avrei
inseguito la macchina, urlando perché si fermasse. Avrei trascinato fuori Hassan e gli avrei detto,
mentre le mie lacrime si mescolavano alla pioggia, che mi dispiaceva. Ci saremmo abbracciati sotto
al diluvio. Ma non ci trovavamo in un film indiano. Mi dispiaceva davvero, ma non piansi e non
inseguii la macchina. Rimasi a guardare la Mustangdi Baba sparire dietro la curva portandosi via la
persona la cui prima parola era stato il mio nome.
Inviato da LUCIA GIACOMELLI, DOCENTE
K. KAVAFIS – POESIE (SOLITUDINE/NOSTALGIA)
Candele
Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese –
dorate, calde, e vivide.
Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.
Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora del loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.
Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.
Inviato da BRUNELLA IMPARATO
J.M. LE CLEZIÒ – IL CERCATORE D’ORO (SOLITUDINE/DISTACCO)
Sono partito da tanto tempo! Un mese, forse di più? Non sono mai rimasto così tanto senza veder
Laure, senza Mam. Quando ho salutato Laure, quando ed ho parlato della prima volta del mio
viaggio verso Rodriguez, mi ha consegnato i suoi risparmi per aiutare a pagare il passaggio. Ma le
ho letto negli occhi quel lampo oscuro, quella luce di collera, che dicevano: “Forse non ci
rivedremo mai più”: Mi ha detto addio, e non arrivederci, e si è rifiutata di accompagnarmi fino al
porto. Ci sono voluti tutti quei giorni in mare, quella luce, quell’ustione del sole e del vento, quelle
notti, per farmi capire. Ora so che la Zeta mi porta verso un’avventura senza ritorno.
Chi può conoscere il destino? E’ scritto qui, il segreto che mi aspetta, che nessun altro all’infuori di
me deve scoprire. E’ segnato nel mare, sulla spuma delle onde, nel cielo del giorno, nel disegno
immutabile delle costellazioni. Come capirlo? Penso ancora alla nave Argo, che andava sul mare
ignoto, guidata dal serpente di stelle. Era lei stessa a compiere il proprio destino, non gli uomini che
la cavalcavano. Che cosa importavano i tesori, le terre? Non era forse il destino che dovevano
riconoscere, alcuni in combattimento, o nella gloria d’amore, altri nella morte? Penso ad Argo, e il
ponte della Zeta è diverso, si trasfigura. E questi marinai comoriani, indiani, di pelle scura, il
timoniere sempre in piedi davanti alla sua ruota, dal volto di lava senza un battito d’occhi, e perfino
Bradmer, con gli occhi strizzati e la faccia da sbronzo, non vagano anch’essi da sempre, d’isola in
isola, alla ricerca del loro destino?
Che sia il riverberare del sole sui mobili specchi delle onde ad avermi sconvolto la mente? Mi
sembra di essere fuori del tempo, in un altro mondo, così differente, così lontano da tutto quello che
ho conosciuto, da non lasciarmi ritrovare mai più quello che ho abbandonato. Per questo motivo ho
le vertigini, questa nausea: ho paura di perdere quello che sono stato, dietro, alle spalle, senza
speranza di ritorno. Ogni ora, ogni giorno che passa è simile alle onde del mare che irrompono
contro al prua, sollevano brevi lo scafo, scompaiono poi nella scia. Ciascuna mi allontana dal tempo
che amo, dalla voce di Mam, dalla speranza di Laure.
Stamattina, il capitano Bradmer è venuto da me, a poppa:
“Domani o dopodomani, saremo a Rodriguez”.
“Domani o dopodomani?”. Ripeto
“Domani, se il vento tiene”.
Così, il viaggio finisce. Per questo probabilmente tutto mi sembra diverso.
Inviato da LUCIA COSTA
U. LE GUIN – IL MAGO (SOLITUDINE)
Solo nel silenzio la parola,
solo nel buio la luce,
solo nella morte la vita:
glorioso il volo del falco
sul vuoto cielo.
Inviato da VINCENZO ESPOSITO
G. LEOPARDI – DIALOGO DI UN VENDITORE D'ALMANACCHI E DI UN
PASSEGGERE (NOSTALGIA)
Venditore. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere. Almanacchi per l'anno nuovo?
Venditore. Si signore.
Passeggere. Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
Venditore. Oh illustrissimo si, certo.
Passeggere. Come quest'anno passato?
Venditore. Più più assai.
Passeggere. Come quello di là?
Venditore. Più più, illustrissimo.
Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di
questi anni ultimi?
Venditore. Signor no, non mi piacerebbe.
Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?
Venditore. Saranno vent'anni, illustrissimo.
Passeggere. A quale di cotesti vent'anni vorreste che somigliasse l'anno venturo?
Venditore. Io? non saprei.
Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
Venditore. No in verità, illustrissimo.
Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
Venditore. Cotesto si sa.
Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo passato,
cominciando da che nasceste?
Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i
dispiaceri che avete passati?
Venditore. Cotesto non vorrei.
Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch'ho fatta io, o quella del principe, o di chi
altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per
l'appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Venditore. Lo credo cotesto.
Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
Venditore. Signor no davvero, non tornerei.
Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque?
Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz'altri patti.
Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell'anno nuovo?
Venditore. Appunto.
Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino
a tutto quest'anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia stato più
o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il
suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che
si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso
incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore. Speriamo.
Passeggere. Dunque mostratemi l'almanacco più bello che avete.
Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Passeggere. Ecco trenta soldi.
Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.
Inviato da MIRKO SERINO
G. LEOPARDI – IL PASSERO SOLITARIO (SOLITUDINE)
D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia vóto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirornmi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.
Inviato da BARTIROMO
ALESSANDRO MANZONI – I PROMESSI SPOSI (SOLITUDINE/TRISTEZZA)
Vi son de’ momenti in cui l’animo particolarmente de’ giovani, è disposto in maniera che ogni poco
d’istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore
appena sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze
alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare
con timido rispetto, son quelli appunto che l’astuzia interessata spia attentamente e coglie di volo,
per legare una volontà che non si guarda.
inviato da GUIDO ROSSI, DOCENTE, MEDICINA E CHIRURGIA
J.MARIAS – TUTTE LE ANIME (SOLITUDINE)
Quando sei da solo, quando vivi solo e oltretutto all’estero, ti concentri enormemente sul secchio
della spazzatura, perché può finire di essere l’unica cosa con cui intrattieni un rapporto costante, o,
meglio ancora, un rapporto di continuità. Ogni sacchetto nero di plastica, nuovo, brillante, liscio, da
inaugurare, produce l’effetto dell’assoluta pulizia e dell’infinita possibilità. Quando lo metti a posto,
di sera, è l’inaugurazione o la promessa del nuovo giorno: tutto deve ancora accadere. Quel
sacchetto, quel secchio, sono a volte gli unici testimoni di quanto accade nella giornata di un uomo
solo, ed è lì che si vanno a depositare i resti, le tracce di quell’uomo durante lo scorrere del giorno,
la sua metà scartata, ciò che ha deciso di non essere e di non tenere per sé, il negativo di ciò che ha
mangiato, di ciò che ha bevuto, di ciò che ha fumato, di ciò che ha usato, di ciò che ha comprato, di
ciò che ha posseduto e di ciò che gli è arrivato. Alla fine di quel giorno il sacchetto, il secchio sono
pieni e sono confusi, ma li ha visti crescere, trasformarsi, formarsi in un rimescolamento
indiscriminato, di cui, tuttavia, quell’uomo non soltanto conosce la spiegazione e l’ordine, ma il cui
stesso indiscriminato rimescolamento è l’ordine e la spiegazione dell’uomo. Il sacchetto e il secchio
sono la prova del fatto che quel giorno è esistito e si è accumulato ed è stato leggermente diverso
dal precedente e da quello che seguirà sebbene sia stato altrettanto uniforme e ne sia visibile il
legame con entrambi. E’ l’unico riscontro, l’unica prova o conferma del trascorrere di quell’uomo,
l’unica opera che quell’uomo ha realmente condotto a termine. Sono il filo della vita, e anche il suo
orologio. Ogni volta che ti avvicini al secchio e ci butti dentro qualcosa, di nuovo vedi e prendi
contatto con le cose che ci hai buttato dentro nelle ore precedenti, e questo è ciò che ti dà un senso
di continuità: il tuo giorno è scandito dalle tue visite al secchio della spazzatura, e lì dentro vedi il
barattolo di yogurt alla frutta con cui hai fatto colazione, e quel pacchetto di sigarette di cui
all’inizio della mattina ne rimanevano soltanto due, e le buste adesso vuote e strappate arrivate con
la posta, le lattine di coca-cola e il truciolo di una matita a cui hai fatto la punta prima di cominciare
a lavorare (anche se poi scriverai con la penna), i fogli appallottolati che hai giudicato imperfetti o
sbagliati, l’involucro di cellophane che ha contenuto tre sandwich, i mozziconi rovesciati numerose
volte dal portacenere, i batuffoli di cotone imbevuti di colonia con cui ti sei rinfrescato la fronte, il
grasso della carne fredda che hai mangiato distrattamente per non interromperti, gli appunti inutili
che hai preso in facoltà, una foglia di prezzemolo, una di basilico, carta argentata, i pilucchi, le
unghie che ti sei tagliato, la buccia annerita di una pera, il cartone del latte, il flacone della medicina
finita, i sacchetti di carta grezza e rigida che usano i mercanti di libri vecchi. Tutto si stringe e si
concentra, si copre e si fonde, e così si trasforma nel tratto percettibile – materiale e solido – del
disegno dei giorni della vita di un uomo. Chiudere e legare il sacchetto e portarlo fuori significa
comprimere e concludere la giornata, che forse sarà stata punteggiata soltanto da quei gesti, dal
gesto di buttar via rifiuti e mondature, il gesto di prescindere, il gesto di selezionare, il gesto di
discernere l’inutile. Il risultato del discernimento è quell’opera che impone il proprio termine:
quando il secchio trabocca l’opera è conclusa , e allora, ma soltanto allora, quel che c’è dentro sono
scarti.
Inviato da MARIA CENTAMORE
L. MENEGHELLO – I PICCOLI MAESTRI (SOLITUDINE/RIMPIANTO)
In tutta la provincia avvenivano le stesse cose, come al mio paese. La gente si radunava, si contava,
nascondeva armi; reduci e sbandati fraternizzavano coi nuovi renitenti; le famiglie incoraggiavano, i
preti con qualche cautela davano il benestare:
O Dio, ce n'era qualcuno che diceva: " Io veramente vorrei vedere l'ordine scritto del
Re"; ma c'era anche un sacco di brava gente.
C'era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Ce l'avevano contro la
guerra, e implicitamente, confusamente, contro il sistema che prima l'aveva voluta cominciare, e poi
l'aveva grottescamente perduta per forfè.
Il moto degli animi investiva non solo il regime crollato, ma l'intero mondo che in esso si era
espresso. La gente voleva farla finita e ricominciare. Tutti andavano a tentoni: c'era un po' di
antifascismo esplicito e tecnico (non molto), un po' di rabbia verso i tedeschi spaccatutto, un po' di
patriottismo popolare, e una bella dose dell'eterno particulare italiano, gli interessi locali,
parrocchiali. La frase più comune era "salvare il paese" [... ] dalle presumibili vendette dei tedeschi
in ritirata.
Naturalmente c'era ancora un'aria di ritirata imminente, di fine in vista; e si parlava di darsi una
mano gli uni cogli altri, tra paesani, come si fa in una calamità naturale.
Ma l'anima di questi tropismi era nell'idea di doversi arrangiare da sé, perché si sentiva che tutto era
andato in un fascio, sia il fascio che il resto; e così qualunque iniziativa, anche la più moderata,
conteneva un germe di ribellione, e questi germi fiorivano a vista d'occhio. [...]
Dappertutto (almeno da noi, nel Vicentino) si sentiva muoversi la stessa corrente di sentimento
collettivo; era l'esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante; si avvertiva la strapotenza
delle cose che partono dal basso, le cose spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi
immersi in questa onda della volontà generale.
Ma guarda un po', dicevamo con Lelio; vien fuori che c'è per davvero, la volontà popolare.
Pensavamo a quella delle scritte murali; perché quando una cosa si vedeva scritta sui muri, segno
che non esisteva; così noi prendevamo per scontato che la volontà dell'Italia non esiste. Invece ora
era saltata fuori, e ci eravamo in mezzo.[…] A mano a mano si era diventati un'organizzazione; ora
c'erano Comitati, si usava già la parola "clandestino"; si facevano riunioni, si compilavano elenchi
in varie colonne, paese, nome e cognome, soprannome, pistole, fucili, munizioni: tutto ciò che può
occorrere a una questura per farsi un'idea chiara e dettagliata. [...] Finiva l'autunno [...] venne
l'inverno. Tutto s'induriva attorno a noi, si strozzava. In principio non c'era quasi distinzione tra
attivisti e simpatizzanti; ora gli avventizi si disperdevano. [...] Restammo ciò che eravamo abituati a
essere: quattro gatti. [...] Spuntava da sé l'idea di andare in montagna. Era associata con la
sensazione che il fermento popolare dei primi mesi fosse ormai sbollito, l'occasione perduta. Ora
bisognava arrangiarsi da sé. Non c'era più niente di pubblico in Italia; niente di ciò che normalmente
si considera la cultura di un paese. Restavano bensì gli istituti privati, le famiglie rintanate nelle loro
case, i nascondigli domestici, il lavoro delle donne; e poi ancora le chiese, i preti, i poeti, i libri, chi
voleva poteva ritirarsi in questi bozzoli privati e starsene lì ad aspettare. Questo non era per noi, e
non ci venne mai in mente. [...] Perché non c'è stato, nonostante la spinta iniziale, un grande moto
popolare, veramente travolgente? Perché non abbiamo almeno tentato esplicitamente di crearlo? La
verità è che non avevamo capito le possibilità della situazione: nell'euforia attivista dei primi mesi,
quel senso di essere portati da un'onda, raramente ci si era fermati a domandarsi: Ma che cosa
succede esattamente? Come s'inquadra tutto questo nella storia italiana? Cosa si deve fare, ora, a
parte farsi portare dall'onda? Quando rileggo i testi di Mazzini sulla "guerra per bande", mi morsico
le dita. C'è già tutto. [...] Bastava aver studiato i testi giusti, essere un po' meno ignoranti. Si doveva
proclamare l'insurrezione, subito. Non la resistenza, ma l'insurrezione: il fondo della situazione, la
sua carica esplosiva era politica, non convenzionalmente militare; bisognava impostare subito una
guerra politica e popolare, non una resistenza generale e attesistica; agire, non prepararsi. Bisognava
dire: andiamo giù in paese, stasera, ora. Chiamiamo la gente in piazza, suoniamo il tamburo,
esponiamo le bandiere, i ritratti: possiamo esporre insieme i ritratti del Re, del Papa e di Lenin; tutto
il mondo è con noi. Gridiamo: Viva i sovieti! Viva Gesù Eucaristia! Il resto s'inventa da sé. Era un
niente, in quei giorni, avviare la rivoluzione, l'Alto Vicentino avrebbe preso fuoco in poche ore.
Bastava pensarci. Se c'è un comitato nell'al di là, che giudica e registra i meriti patriottici, questa
non ce la perdoneranno mai.
Naturalmente ci avrebbero presto sterminati, almeno la prima infornata, e poi anche la seconda e la
terza. Ma almeno l'Italia avrebbe provato il gusto di ciò che deve voler dire rinnovarsi a fondo, e le
nostre lapidi sarebbero oggi onorate da una nazione veramente migliore.
inviato da ALTIERI, STUDENTE LETTERE E FILOSOFIA
A. MERINI – VUOTO D’AMORE (SOLITUDINE)
Lo sguardo del poeta
Se qualcuno cercasse di capire il tuo sguardo
Poeta difenditi con ferocia
il tuo sguardo son cento sguardi che ahimè ti hanno
guardato tremando
inviato da ANGELA MELITO, LICEO ARTISTICO DI NAPOLI
E. MONTALE – HO SCESO, DANDOTI IL BRACCIO (SOLITUDINE)
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
inviato da DONATELLA PENSA, DOCENTE
E. MORANTE – LA STORIA (SOLITUDINE/NOSTALGIA)
In fondo ai prati, il terreno si avvallava, e incominciava una piccola zona boscosa. Fu lì che Useppe
e Bella a un certo punto rallentarono i passi, e smisero di chiacchierare.
Erano entrati in una radura circolare, chiusa da un giro di alberi che in alto mischiavano i rami, così
da trasformarla in una specie di stanza col tetto di foglie. Il pavimento era un cerchio d’erba appena
nata con le piogge, forse ancora non calpestata da nessuno, e non solo di un’unica specie di
margherite minuscole, le quali avevano l’aria d’essersi aperte tutte quante insieme in quel momento.
Di là dai tronchi, dalla parte del fiume, una palizzata naturale di canne lasciava intravedere l’acqua;
e il passaggio della corrente, insieme all’aria che smuoveva le foglie e i nastri delle canne, variava
le ombre colorate dell’interno, in un continuo tremolio. All'entrare, Bella fiutò in alto, forse
credendo di ritrovarsi in qualche tenda persiana; poi levò appena gli orecchi, al suono di un belato
della campagna, ma subito li riabbassò. Anche lei, come Useppe, si era fatta attenta al grande
silenzio che seguì la voce singola di quel belato. S’accucciò vicino a Useppe, e nei suoi occhi
marrone comparve la malinconia. Forse, si ricordava dei suoi cuccioli, e del suo primo Antonio a
Poggioreale, e del suo secondo Antonio sottoterra. Pareva proprio di trovarsi in una tenda esotica,
lontanissima da Roma e da ogni altra città: chi sa dove, arrivati dopo un grande viaggio; e che fuori
all’interno si stendesse u enorme spazio, senz’altro rumore che il movimento quieto dell’acqua e
dell’aria.
Un frullo corse nell’alto fogliame, e poi, da un ramo mezzo nascosto, si udì cinguettare una
canzonetta che Useppe riconobbe senza indugio, avendola imparata a memoria un certo mattino, ai
tempi che era piccolo.
A quanto pare la canzonetta s’era diffusa, nel giro degli uccelli, diventando un’aria di moda, visto
che la sapevano anche i passeri. E forse, costui non ne conosceva nessun’altra, visto che seguitava a
ripetere questa sola, sempre con le stesse parole, salvo variazioni impercettibili:
«È uno scherzo
Uno scherzo
Tutto uno scherzo!»
Dopo averla replicata una ventina di volte, fece un altro frullo e se ne rivolò via. Allora Bella
soddisfatta si allungò meglio sull'erba, con la testa riposata sulle due zampe davanti, e si mise a
sonnecchiare.
Il silenzio, finito l'intervallo della canzonetta, s’era ingrandito a una misura fantastica, tale che non
solo gli orecchi, ma il corpo intero lo ascoltava... Il silenzio, in realtà, era parlante! Anzi, era fatto di
voci, le quali da principio arrivarono piuttosto confuse, mescolandosi col tremolio dei colori e delle
ombre, fino a che poi la doppia sensazione diventò un sola: e allora s’intese che quelle voci tutte
tremanti, pure loro, in realtà erano tutte voci del silenzio.
inviato da ANNAMARIA COMPAGNA, DOCENTE, LETTERE E FILOSOFIA
F. ORLANDO – RICORDO DI LAMPEDUSA (SOLITUDINE/NOSTALGIA)
Conobbi Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel giugno o nel luglio del 1953, a Palermo. Avevo
diciannove anni ed ero uno svogliatissimo studente della Facoltà di Giurisprudenza, che solo due
anni più tardi si sarebbe deciso a passare a quella di Lettere, e che si trastullava nel frattempo con le
ultime esercitazioni letterarie di una adolescenza provinciale: poesie, novelle, teatro. Una commedia
avente a protagonista Don Giovanni era piaciuta ad un mio ben più anziano amico oggi morto, che
moltissimi palermitani ricordano: il barone Pietro Sgàdari di Lo Monaco, per tutti Bebbuzzo, una
singolare e simpatica figura di mecenate e dilettante la cui olimpica ospitalità fu a lungo centrale
nella vita musicale di Palermo.
Fu lui a rivelarmi che la principessa di Lampedusa, della quale mi era nota l'attività di psicanalista,
aveva un marito di formidabile «testa» e cultura; fu lui a sottoporgli il mio Don Giovanni e a dirmi
poi che il principe mi aspettava a casa sua per rendermelo, una domenica pomeriggio.
Lampedusa (lo chiamerò sempre così, come si firmava e si annunciava al telefono) non mi era mai
stato nominato prima.
Conservo di questo primo incontro un ricordo non del tutto velato. Per caso, alla porta del suo
appartamento nel palazzo di via Butera, in un quartiere a mare solenne ed abbandonato, Lampedusa
venne ad aprirmi in persona. Non ebbi il tempo di aver dubbi sulla sua identità; con grande
gentilezza mi disse subito che “Bebbuzzo aveva fatto bene”a combinare quell’appuntamento, che
lui stesso non sarebbe venuto e che entrassi. Ma anche il suo aspetto fisico rivelava al primo colpo
d’occhio una personalità fortissima: era di quegli uomini che non tardano ad attrarre
involontariamente l’attenzione su di loro anche in una stanza dove si trovino venti persone.
Questo non dipendeva tanto dalla notevole statura e dalla grassezza, quanto dall'imponenza della
testa, dall’apertura della bella faccia e dai due occhi scuri che, sempre timidamente sfuggenti,
nell’atto di porger la mano, dominavano ambiente ed interlocutori in qualsiasi altro momento.
inviato da MARIANGELA MAZZUOCCOLO, LICEO ARTISTICO STATALE NAPOLI
G. PASCOLI – NEBBIA (SOLITUDINE)
E guardai nella valle: era sparito
tutto: sommerso! Era un gran mare piano,
grigio, senz’onde, senza lidi, unito.
E c’era appena, qua e là, lo strano
vocìo di gridi piccoli e selvaggi:
uccelli sparsi per quel mondo vano.
E alto, in cielo, scheletri di faggi,
come sospesi, e sogni di rovine
e di silenziosi eremitaggi.
Ed un cane uggiolava senza fine.
inviato da TULLIO SPAGNOLO VIGORITA
S. PENNA – da CROCE E DELIZIA (SOLITUDINE)
I tuoi calmi spettacoli. La vita.
L'amore che li lega. Sole sul colle.
E più tardi la luna. Aiuto, aiuto!
da Poesie 1927-1938 (AMORE – SENSUALITÀ)
Nuotatore
Dormiva...?
Poi si tolse e si stirò.
Guardò con occhi lenti l'acqua. Un guizzo
il suo corpo.
Così lasciò la terra.
inviato da MARIA CANDIDA PETILLO, DOCENTE
A. PETILLO – L’ISOLA DI MARCELLO E ALTRI RACCONTI (SOLITUDINE/
DISTACCO)
Allora, una notte, uscì sola nel cortile di pietra mentre nell’oscurità i cani da caccia del figlio della
signora abbaiavano alle stelle.
Scese a piedi alla stazione inferiore, sola nel buio tra tutti quei nuovi palazzi di cemento che
avevano coperto la vecchia città, sulla collina ventosa.
La stazione era deserta nella notte e faceva fresco sul marciapiede sotto la pensilina di ferro.
Perciò salì sul treno e aspettò che partisse, in silenzio.
Seduta sulla panchina di legno, attonita e immobile, sentiva passare le stazioni senza guardare,
riceveva le fermate come ferite nella sua carne, nell’ansia che cresceva.
Poiché sapeva che l’arrivo nella pianura avrebbe segnato la fine del suo viaggio, l’approdo di una
vita infeconda; poiché ormai aveva conquistato la sua umanità e nulla aveva più da cercare o da dire
a nessuno.
A Battipaglia si distrasse un momento, nel fragore di una città nuova, viva anche di notte.
Ma presto il treno cominciò a correre lungo il mare, i binari lucevano come serpenti nell’erba e
l’acqua appena si vedeva nel buio.
Così scese alla piccola stazione e andò verso il mare.
E mentre lo guardava nel buio, sorse la luna per un momento tra le nuvole nere, le stelle
scoppiarono nel cielo, nel chiarore dell’alba.
La donna guardava il mare e sentiva il tremore dell’acqua e insieme secoli di sofferenza sulla sua
pelle, tutte le case di pietra del suo paese sul suo cuore, tutto il passato che la schiacciava.
E d’improvviso le ultime nuvole andarono via, portate dal vento.
La luna fu piena e luminosa, come un sole.
Sul mare c’era una striscia gialla che dalla riva si perdeva fino all’estremo orizzonte.
Allora si alzò in piedi, si tolse le scarpe perché le sembrava di sporcare quella spiaggia chiara sotto
la luna e andò verso il mare.
Le onde piccole si frangevano sulla riva e la schiuma creava fiori bianchi sulla morbida sabbia. La
donna si chinò e si bagnò il viso rugoso con l’acqua del mare, con le mani nodose come una coppa
sacrale.
“È salato”, pensò.
Poi gettò lo scialle nero sulla spiaggia.
Si sentì nuda, parte del mondo e camminò decisa dentro l’acqua.
Non si accorse che era fredda, che le cingeva la vita, che saliva attorno a lei.
Sentiva solo l’odore acre del mare e guardava la striscia argentata sulla immensa distesa d’acqua.
Questo era il mare.
E lei nasceva mentre moriva.
inviato da FRANCESCA ZANTEDESCHI, STUDENTESSA
L. PIRANDELLO – DISTRAZIONE (TRISTEZZA)
Nero tra il baglior polverulento d’un sole d’agosto che
non dava respiro, un carro funebre di terza classe si fermò
davanti al portone accostato d’una casa nuova d’una
delle tante vie nuove di Roma, nel quartiere dei Prati
di Castello.
Potevano esser le tre del pomeriggio.
Tutte quelle case nuove, per la maggior parte non ancora
abitate, pareva guardassero coi vani delle finestre
sguarnite quel carro nero.
Fatte da così poco apposta per accogliere la vita, invece
della vita - ecco qua - la morte vedevano, che veniva
a far preda giusto lì.
Prima della vita, la morte.
E se n’era venuto lentamente, a passo, quel carro. Il
cocchiere, che cascava a pezzi dal sonno, con la tuba
spelacchiata, buttata a sghembo sul naso, e un piede sul
parafango davanti, al primo portone che gli era parso
accostato in segno di lutto, aveva dato una stratta alle
briglie, l’arresto al manubrio della martinicca, e s’era
sdrajato a dormire più comodamente su la cassetta.
Dalla porta dell’unica bottega della via s’affacciò,
scostando la tenda di traliccio, unta e sgualcita, un
omaccio spettorato, sudato, sanguigno, con le maniche
della camicia rimboccate su le braccia pelose
- Ps! - chiamò, rivolto al cocchiere. - Ahò! Più là ..
Il cocchiere reclinò il capo per guardar di sotto la falda
della tuba posata sul naso; allentò il freno; scosse le
briglie sul dorso dei cavalli e passò avanti alla drogheria,
senza dir nulla.
Qua o là, per lui, era lo stesso.
E davanti al portone, anch’esso accostato della casa
più in là, si fermò e riprese a dormire.
- Somaro! - borbottò il droghiere, scrollando le
spalle. - Non s’accorge che tutti i portoni a quest’ora
sono accostati. Dev’esser nuovo del mestiere.
Così era veramente. E non gli piaceva per nientissima
affatto, quel mestiere, a Scalabrino. Ma aveva fatto
il portinaio, e aveva litigato prima con tutti gl'inquilini
e poi col padron di casa; il sagrestano a San Rocco, e
aveva litigato col parroco; s’era messo per vetturino di
piazza e aveva litigato con tutti i padroni di rimessa, fino
a tre giorni fa. Ora, non trovando di meglio in quella
stagionaccia morta, s’era allogato in una Impresa di
pompe funebri. Avrebbe litigato pure con questa - lo
sapeva sicuro - perché le cose storte, lui, non le poteva
soffrire. E poi era disgraziato, ecco. Bastava vederlo.
Le spalle in capo; gli occhi a sportello; la faccia gialla,
come di cera, e il naso rosso. Perché rosso, il naso? Perché
tutti lo prendessero per ubriacone; quando lui neppure
lo sapeva che sapore avesse il vino.
- Puh!
Ne aveva fino alla gola, di quella vitaccia porca. E un
giorno o l'altro, l’ultima litigata per bene l’avrebbe fatta
con l’acqua del fiume, e buona notte.
Per ora là, mangiato dalle mosche e dalla noia, sotto
la vampa cocente del sole, ad aspettar quel primo carico.
inviato da PATRIZIA PASQUINUCCI
AUTORE ?? – POMAIA (SOLITUDINE)
Finalmente ero in terra di Toscana, bella e dotta, che orgogliosa porta in sé radici profonde
e ancora profumanti di sapori, odori e colori etruschi.
Il mio sguardo sembrava smarrirsi fra quelle copiose colline a terrazzo, che si perdevano in
uno scenario di colori autunnali, caldi e delicati. Il verde si fondeva nell’ocra fino a
scendere giù e aprirsi in immensi e ambrati prati, su cui giacevano, come appena caduti dal
cielo, grossi cubi di fieno, sparsi un po’ qua e un po’ là. Sorrisi teneramente, mentre
pensavo tra me “…guarda che meraviglia…sembra che Dio stia giocando a dadi su quel
ventre piatto e sensuale della sua amata, mentre un rispettoso silenzio li avvolge
echeggiando in se stesso per non disturbarli!”.
Percorremmo ancora qualche chilometro prima di uscire dall’abbraccio rassicurante di
quelle colline ed imboccare una stradina che, ancora solitaria, portava in paese. Poi,
finalmente, un cartello stradale blu, con su scritto Pomaia, e una freccia bianca che indicava
la strada per raggiungere l’Istituto Lama Ztong Khapa…la mia meta!
(…) Mi affacciai in segreteria…la porta era aperta ma bussai, una donna sui quarant’anni,
ancora bella e giovanile, dai capelli cortissimi, mi invitò ad entrare. “Buona sera…” dissi,
“…mi chiamo Clelia! La vicedirettrice, mi sembra si chiami Tiziana, con cui ho preso
accordi, aspettava, in giornata, il mio arrivo. Sono qui per un lavoro alla pari, come
volontaria”.
“Piacere!” rispose la donna dai capelli corti, “…io mi chiamo Adalia, sono un’ex monaca
buddista”. “Il piacere è mio!” risposi timidamente.
Adalia continuava a sorridere, mentre mi guardava incuriosita… poi le vidi allungare lo
sguardo oltre le mie spalle mentre mi chiedeva i documenti. Mi girai d’istinto, dietro di me
c’era Franco. “ah…sì!” esclamai, “…lui è mio marito!”. Dopo essersi presentati, l’ex
monaca riportò con calma i miei dati al computer e subito dopo, uscendo dalla sua
scrivania, mi invitò a seguirla. “Clelia, vero?”, “Sì…” risposi “…Clelia!”. “Sali quella
rampa di scale, appena finita, sulla sinistra, c’è il dormitorio… scegliti un armadietto dove
sistemare le tue cose ed un lettino… sono tutti liberi per il momento! Se hai bisogno di
altro chiedimi pure, ok?”. “Sì…” risposi, “…grazie!”.
(...)Avvertivo la tristezza di Franco per il distacco, ma feci finta di niente. Lui mi salutò
appoggiando le sue labbra sulle mie e poi si raccomandò “stai attenta, non fidarti sempre di
tutti, non vedere sempre tutti belli dentro… non è così!”. “…Non preoccuparti! Va’ ora che
è tardi”.
Lo guardai mentre si allontanava, con la tristezza nel cuore, con quella 126 bianca che
sembrava borbottare come una vecchia signora stanca, con i piedi dolenti e tanta strada
ancora da fare.
(...)Ritornai nel parcheggio per fumare una sigaretta, era già buio. Mi rannicchiai in me
stessa, seduta sulla panchina, faceva freddo e lo stomaco brontolava per la fame!
Incominciai a sentirmi un po’ smarrita in quell’ambiente che non conoscevo e in quel
silenzio che mi opprimeva il cuore, “Dio” pensai “…cosa ci faccio qui da sola, che sto
cercando, da chi sto fuggendo?”, mi si riempirono gli occhi di lacrime, era la prima volta
che mi allontanavo dalla mia famiglia, dalla mia casa…ma se ero lì era perché l’avevo
voluto, sentivo il bisogno di staccarmi da tutti, o forse, mi ero già staccata emotivamente e
volevo stare sola, leccarmi le ferite e capire quali erano i miei limiti, le mie paure e
soprattutto cosa riuscivo ad essere o a fare sola, lontano dalla protezione di tutti, ecco
volevo conoscermi e sentivo che, era un mio diritto, farlo.
Quel mattino un insistente scampanellio mi svegliò, assonnata mi avviai alla porta e l’aprii.
Un monaco dal viso scarno e corporatura minuta mi fissava, come un bambino che viene
colto in flagrante durante una marachella. Ma non fermò la sua mano che continuava ad
agitare mantenendo lo stesso ritmo della campanella che stringeva tra l’indice ed il pollice.
Con lo sguardo smarrito di chi ignora, e che ha lasciato nel sonno la propria lucidità, lo
fissai interdetta.
“È l’ora della meditazione!” disse capendo l’origine del mio smarrimento. “Se vuoi…”
continuò nel suo forte accento francese “…inizia alle sette nel Gompa”.
Rimasi sull’uscio a pensare se andarci o tornare a letto, ancora caldo ed invitante. In quel
mio esitare mi ritrovai a guardarlo mentre passava da una stanza all’altra portandosi nella
mano il suono del suo scampanellare.
Il mio sguardo vuoto gli arrivò alle spalle, si girò un paio di volte a guardarmi con un lieve
sorriso, che colsi con un invito. Così mi preparai di corsa e mi recai nel Gompa, trovai tutti
seduti, monaci e non, avvolti da un profumato silenzio, in posizione loto su cuscini di vari
colori e dimensioni, e con lo sguardo rivolto verso il Budda. Ai suoi piedi vi erano tre
monaci tibetani, ognuno sulla propria sedia e con lo sguardo rivolto verso gli adepti. Al
centro sedeva il più anziano, un ometto piccolo che si portava sul viso, come una vecchia
tartaruga, profonde e lunghe rughe, lasciate non solo dallo scorrere degli anni, ma anche da
un pesante passato, fatto di lotte e sofferenze sui monti del Tibet. Ai lati, come vigorose
colonne della Magna Grecia, vi erano i due giovani monaci dal viso solare e con un
meraviglioso sorriso che partiva dalla mandorla degli occhi per poi sbocciare su labbra
scure e carnose.
In quell’alternanza di odori, di vibrazioni acute, basse quasi da raschiare la gola e il
diaframma del vecchio monaco, mentre recitava con sentita padronanza l’antico suono
primordiale dell’Om, sentii partire dal coccige un leggera vibrazione che come un’eco si
espanse in tutto il corpo, proiettando verso un vuoto di serenità la mia mente ed il mio
cuore.
(...) Quella mia prima esperienza a Pomaia servì a farmi conoscere ed a conoscere.
L’amicizia con Cinzia, la vera segretaria, sostituita da Adalia la sera del mio arrivo, si
rafforzò solo nei miei successivi soggiorni, forse per la mia timidezza ma anche per il suo
aspetto burbero da toscanaccia che, nascondeva un cuore tenero come il burro.
Passarono così quei miei quindici giorni a Pomaia, tra la piacevole meditazione delle prime
ore del mattino, il lavoro in cucina con Aldo e le lunghe passeggiate per i solitari sentieri
assaporando come un balsamo il silenzio e l’odore della terra umida che entrava nel naso
ad ogni sollevare dei miei passi.
Inviato da FRANCESCA POMARICI, BENI CULTURALI, UNIVERSITÀ DELLA TUSCIA
M. PROUST - LA STRADA DI SWANN (SOLITUDINE/NOSTALGIA)
Mio padre, non era possibile dirgli grazie; sarebbe stato irritarlo con ciò ch'egli chiamava
svenevolezze. Restai lì senza osare muovermi; era ancora davanti a noi, grande nella sua camicia da
notte bianca sotto il casimir indiano violetto e rosa che s'annodava intorno alla testa da quando
soffriva di nevralgie, col gesto di Abramo nella stampa del quadro di Benozzo Gozzoli, regalatami
da Swann, in atto di dire a Sara che deve staccarsi da Isacco. Tanti anni son passati da allora. Il
muro delle scale, su cui vidi salire il riflesso della sua candela, non esiste più da un pezzo. In me
pure si sono distrutte molte cose che credevo dovessero durare sempre, e ne son sorte di nuove,
generando sofferenze e gioie nuove, che allora non avrei potuto prevedere, così come le antiche mi
son divenute difficili a comprendere. Da molto tempo anche mio padre ha cessato di poter dire alla
mamma: - Va col bambino -. La possibilità di ore simili non rinascerà mai per me. Ma, da qualche
tempo, ricomincio a percepire assai bene, se tendo l'orecchio, i singhiozzi ch'ebbi la forza di
trattenere davanti a mio padre, e che non scoppiarono se non quando mi ritrovai solo con la
mamma. In realtà, non sono mai cessati; e solo perché la vita ora tace più spesso intorno a me, io li
sento di nuovo, come quelle campane di conventi che i frastuoni della città coprono così bene
durante il giorno che si crederebbero ferme, ma riprendono a suonare nel silenzio della sera.
Inviato da GIULIANA POMO, LICEO ARTISTICO, NAPOLI
S. QUASIMODO - ED È SUBITO SERA (SOLITUDINE)
Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
Inviato da OLIMPIA MATARAZZO, STUDENTESSA DI PSICOLOGIA
R. M. RILKE – GIORNO D'AUTUNNO (SOLITUDINE)
Signore: è tempo. Grande era l'arsura.
Deponi l'ombra sulle meridiane,
libera il vento sopra la pianura.
Fa' che sia colmo ancora il frutto estremo;
concedi ancora un giorno di tepore,
che il frutto giunga a maturare, e spremi
nel grave vino l'ultimo sapore.
Chi non ha casa adesso, non l'avrà.
Chi è solo, a lungo solo dovrà stare.
leggere nelle veglie, e lunghi fogli
scrivere, e incerto sulle vie tornare
dove nell'aria fluttuano le foglie.
inviato da AMBRA VIVIANI, LICEO ARTISTICO, NAPOLI
A. DE SAINT EXUPÉRY – IL PICCOLO PRINCIPE (SOLITUDINE)
« Buona notte », disse il serpente.
«Su quale pianeta sono sceso?» domandò il piccolo principe.
«Sulla Terra, in Africa », rispose il serpente.
« Ah!... Ma non c'è nessuno sulla Terra? »
« Qui è il deserto. Non c’è nessuno nei deserti. La Terra è grande », disse il serpente.
Il piccolo principe sedette su una pietra e alzò gli occhi verso il cielo:
« Mi domando », disse, «se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la
sua. Guarda il mio pianeta, è proprio sopra di noi ... Ma come è lontano! »
« È bello », disse il serpente, « ma che cosa sei venuto a fare qui? »
« Ho avuto delle difficoltà con un fiore », disse il piccolo principe.
« Ah! » fece il serpente.
E rimasero in silenzio.
« Dove sono gli uomini? » riprese dopo un po’ il piccolo principe. « Si è un po’ soli nel deserto ... »
« Si è soli anche con gli uomini », disse il serpente.
Il piccolo principe lo guardò a lungo.
«Sei un buffo animale», gli disse alla fine, « sottile come un dito!... »
«Ma sono più potente di un dito di un re », disse il serpente ..
inviato da PATRIZIA DI MARTINO
J. P. SARTRE – LA NAUSEA (SOLITUDINE /DIVERSITÀ)
Lunedì, 29 gennaio 1932
M’è accaduto qualcosa, non posso più dubitarne. È sorta in me come una malattia, non come una
certezza ordinaria, non come un’evidenza. S’è insinuata subdolamente, a poco a poco; mi sono
sentito un po’ strano, un po’impacciato, ecco tutto. Una volta installata non s’è più mossa, è rimasta
cheta, ed io ho potuto persuadermi che non avevo nulla, ch’era un falso allarme. Ma ecco che ora si
espande.
Io non credo che il mestiere dello storico disponga all’analisi psicologica. Nella nostra partita noi
abbiamo a che fare soltanto con sentimenti completi, ai quali diamo nomi generici come Ambizione,
Interesse. Tuttavia se avessi un’ombra di conoscenza di me stesso questo sarebbe il momento di
servirsene.
Nelle mie mani, per esempio, c’è qualcosa di nuovo, una certa maniera di prendere la pipa o la
forchetta. Oppure è la forchetta che adesso ha un certo modo di farsi prendere, non lo so. Or ora,
entrando in camera mia, mi sono fermato di colpo sentendomi nella mano un oggetto freddo che
attirava la mia attenzione con una specie di personalità. Ho aperto la mano ed ho guardato: tenevo
semplicemente la maniglia della porta. Stamane in biblioteca, quando l’Autodidatta è venuto a
dirmi buongiorno, mi sono occorsi dieci secondi per riconoscerlo. Vedevo un volto sconosciuto,
semplicemente un volto. E poi la sua mano, come un grosso verme bianco, nella mia mano. L’ho
abbandonata subito e il braccio è ricaduto mollemente.
Anche nelle strade c’è una quantità di rumori sospetti che strisciano.
Dunque in queste ultime settimane si è verificato un cambiamento. Ma dove?
È un cambiamento astratto che posa sul nulla.
Sono io che sono cambiato? Se non sono io allora è questa camera, questa città, questa natura;
bisogna scegliere...
inviato da GABRIELLA BECHERUCCI
SENECA – EPISTOLA 56, 12 (DISTACCO)
Che io muoia, se il silenzio è tanto necessario, come sembra, al raccoglimento e allo studio. Ecco, mi
circonda da ogni parte un chiasso indiavolato: abito proprio sopra uno stabilimento balneare.
Immaginati ora ogni sorta di voci che possano frastornare le orecchie. Quando i campioni si allenano a
sollevare palle di piombo e si affaticano o fingono di affaticarsi, io li sento gemere; e, ogni volta che
mettono fuori il fiato trattenuto, sento i sibili del loro respiro affannato. Quando capita qualcuno più
pigro, che si contenta di una comune frizione, io sento la mano che fa massaggi sulle spalle, con un
suono diverso secondo che si muova aperta o concava. Se poi sopraggiungono coloro che giocano a
palla e cominciano a contare i punti fatti, è finita. Aggiungi ora l'attaccabrighe o il ladro colto sul fatto,
o quello a cui piace sentire la propria voce durante il bagno; poi il fracasso provocato da quelli che
saltano nella piscina. Oltre a questi, le cui voci, se non altro, sono normali, pensa al depilatore che, per
farsi notare, parla in falsetto e non sta mai zitto, se non quando depila le ascelle e costringe un altro a
urlare in sua vece. Infine c'è il venditore di bibite, con le sue esclamazioni sempre diverse, il salsicciaio
e il pasticciere e tutti i garzoni delle bettole, ciascuno dei quali, per vendere i suoi prodotti, ha una
caratteristica inflessione della voce.
inviato da CLELIA CONIGLIO, DOCENTE I.T.C. MARIO PAGANO
M. SOLDATI – NAPOLI 1944 ( NOSTALGIA)
Fischia il vento al Calascione
tra le case diroccate:
siamo cinque o sei persone
mal nutrite, mal pagate.
Fischia il vento. È già domenica:
l’avanzata come va?
Sono fermi. È ancora domenica:
Roma sempre sta di là.
Noterella quasi filologica di Gabriele Baldini.
Per comodità dei futuri editori (filologici) e chiosatori dell’opera poetica di M.Soldati,
traccio, qui sotto, brevi linee di commento alla sua canzone Napoli 1944, prima de Il Canzoniere
del Profugo, raccolta, assieme ad altre poche – a formare, in nuce, una prima silloge del Soldati
lirico – in appendice al volume Fuga in Italia (Longanesi, 1947). Ecco, per comodità del lettore, la
prima strofa: Fischia il vento al Calascione / Tra le case diroccate:/ siamo cinque o sei persone /
mal nutrite, mal pagate.
Il fischia il vento del verso 1 allude alla rigida stagione invernale (tardo dicembre) e al fatto che
gran parte delle imposte dell’abitazione in cui si trovano i profughi è rimasta senza vetri a causa dei
noti e funesti bombardamenti napoletani. Al Calascione, dello stesso verso, sta per “la casa del viale
Calascione”, tale è, infatti, il nome d’un vicolo strettissimo che si parte dalla via Monte di Dio, in
direzione di Castel dell’Ovo e termina in uno spazio prospiciente, a circa un venti metri di altezza,
la sottostante piazza dei Martiri: luogo amenissimo nel cuore di Napoli, oasi di pace, di frescura e
d’ordine pulito nel bel mezzo del pittoresco e insieme terrifico brulicame del quartiere detto
Pallonetto o Pizzofalcone. “Calascione” sarebbe, secondo lo stradario del Doria, “denominazione
piuttosto recente (non figura, infatti, negli stradarii anteriori al 1850), e nondimeno di assai difficile
spiegazione … si può pensare, com’è sempre in estrema ratio in siffatti casi dubbii, al cognome di
un proprietario locale. Un etimologista alla D’Ambra penserebbe a un calascione, corrotto da
calatone, e suggerito dalle prossime rampe Caprioli. Un’anima poetica, invece, opterebbe per lo
strumento musicale ... “ Tra i più illustri abitanti attuali del viale (?) Calascione si contano il
professor Giuseppe Toffanin, ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Napoli, l’avvocato
D’Urso, il professor Caccioppoli e, infine, last but not least, l’editore Gaspare Casella che, nel
momento cui si riferisce la canzone era l’unico, però, ad abitarlo effettivamente.
Tra le case diroccate del verso 2 costituisce un accenno, peraltro ovvio, ai bombardieri che
avevano erose, torno torno al Calascione, così le abitazioni sottostanti lungo la rampa Caprioli,
come quelle altre sulla via Monte di Dio.
Per ciò che riguarda le cinque o sei persone del verso 3, il commento dovrà indugiare per
provare una identificazione plausibile. Una di esse, anzitutto, va identificata nel poeta stesso, come
risulta da quel siamo: restano così da identificare le quattro o cinque, dacché il numero vuole essere
lasciato oscillante secondo questo rapporto. Di tre, fra queste quattro (o cinque), ci suggerisce
l’identità un luogo del diario di Viaggio, che precede il Canzoniere del profugo (cfr lo stesso
volume sotto la data Martedì 28 [settembre 1943], aggiungo io) dove si legge “Verso le dieci arrivo
improvviso ed impensatissimo dei cari amici L.S. ed F., anch’essi scappati da Roma pochi giorni
dopo di me.” Dietro la prima iniziale si nasconde l’identità dell’editore-scrittore-pittore-giornalista
Leo Longanesi, popolarissima (anche tra gli avversari, che non gli mancano) figura del mondo
letterario italiano che non abbisogna certo qui di ulteriori illustrazioni; dietro quella del secondo si
cela Stefano Vanzina, più noto con lo pseudonimo di Steno con il quale stila piacevoli e garbate
prose umoristiche nelle maggiori gazzette che spacciano il genere, oltre ad essere acclamato autore
radiofonico; e dietro la terza ed ultima iniziale, infine, si nasconde il regista cinematografico
Riccardo Freda. Restano così da identificare altre due persone, una (si badi) fissa e l’altra variabile,
nel senso che può esserci, come pure che può non essere sempre la stessa. Quanto alla prima, la
persona, cioè, fissa, essa presenta, per l’autore del presente commento, un caso di identificazione
affatto semplicissimo, dal momento che non è altri se non egli stesso che si trovava presente ai fatti
di cui è oggetto la lirica ed ebbe a coabitare assieme al Soldati (il poeta), al Longanesi, allo Steno ed
al Freda … (com’è narrato nell’opera diaristica del suddetto Longanesi, apparsa di recente per i tipi
dello stesso autore, sotto il titolo di Parliamo dell’elefante, della cui narrazione e della cui
eccellenza è già un preannuncio in una frase di Soldati (cfr. Fuga in Italia p.112 [88]) là dove
dice:”L. col suo stile pittoresco, vivacissimo, racconta subito la sua fuga che è piena di incidenti,
gravi pericoli ed episodi comici, molto più varia ed interessante della mia. Il racconto dura, forse,
tre ore …”, una frase che è, a un tempo, il maggior commento che si possa fare al diario di
Longanesi e, soprattutto, il riflesso della sua superiorità, quanto a materiale e a umore, su quello del
Soldati che trae, invece, la sua prima ragione d’essere da un’analisi minuta e spesso felicemente
risolta quanto all’espressione, fin quasi a sfiorare uno stato poetico, delle reazioni psicologiche del
protagonista durante il viaggio di fortuna incontro agli alleati nell’autunno dell’armistizio …) …
ebbe a coabitare per circa tre mesi, al secondo piano del numero 37, del viale Calascione assieme
alle quattro persone, compiendo in tal modo, il quintetto “fisso”. Quanto all’eventuale “sesta”
persona, secondo quel che la memoria mi consente, essa può identificarsi con un ospite di turno,
scelto, secondo le circostanze, o tra gli abitanti del piano di sopra, tra i quali si ricordano Umberto
Morra, Aldo Garosci, Alberto Cianca, il povero Giaime Pintor (prima che trovasse la morte in
campo l’1 dicembre), Francesco Flora, Ian Greeniees e un signore del quale non siamo ancora
riusciti a capire se si chiamasse Gasperini, Gentili o Valente, perché, allora, spacciava tutt’e tre
questi nomi indifferentemente e, ora, è stato perso, si può dire, di vista e comunque il problema
dell’identificazione del suo nome non presenta un interesse sostanziale ai fini dell’attuale
commento. Il Longanesi, comunque, vi accenna sempre come al “signor Gasperini”. Alla figura del
Gasperini-Gentile-Valente è, infatti, intimamente legato il verso che segue, “mal nutrite, mal
pagate”, perché il suddetto teneva, in effetti, l’amministrazione da cui dipendeva il nostro lavoro
(che consisteva, sia detto di passaggio, nella redazione di un giornale di propaganda destinato oltre
le linee e in una rubrica radiofonica settimanale di gran successo, intitolata Stella bianca, e che era
ideata, scritta, sceneggiata, musicata ed infine anche interpretata da noi cinque con valido concorso,
per quest’ultima parte, del geniale regista Ettore Giannini e dall’attore Arnoldo Foà): per essere
sincero devo dire che il verso 4 della lirica soldatiana suona un po’ severo e riflette più l’avidità del
poeta che infierì crudelissima in quel tormentato scorcio d’autunno che non un sostanziale stato di
cose del quale non avvenne che ci lamentassimo altro che per burla: in realtà eravamo nutriti, se non
abbondantemente, per lo meno sufficientemente e quanto a essere mal pagati, dirò che avevamo
l’alloggio ed il servizio gratuiti e che, insomma, ci restava sempre un qualche margine per le
sigarette (sigari toscani, per il poeta).
La seconda ed ultima quartina della lirica:
Fischia il vento. È già domenica:
l’avanzata come va?
Sono fermi. È ancora domenica:
Roma sempre sta di là.
riflette chiaramente ed efficacemente, senza bisogno di ulteriori commenti, lo stato di ansia per la
liberazione di Roma, insieme alla nostalgia per le persone care che si trovano in questa città.
Più interesserebbe, il problema delle attribuzioni: distinguere, cioè, le varie mani che
prestarono la propria opera a comporre la lirica che, nel volume, viene data al Soldati come alla
mente direttrice e coordinatrice dei sentimenti che la compongono e come al geniale e sottile
cantore (si pensi alla musicalità e, insieme, alla progressione drammatica contenuta in quel “Fischia
il vento”) ma che in realtà non ne fu solo autore, al modo stesso che Shakespeare non fu il solo
autore di taluni drammi che vanno sotto il suo nome; il complesso problema delle attribuzioni, che
per mancanza di spazio non può essere trattato in questa sede, interesserà i filologi avvenire. Perché
fin d’ora si possano raccogliere dati precisi atti ad illuminare quel fitto problema, dirò che il verso 2
(“tra le case diroccate”) è mio, e che il verso 6 (“l’avanzata come va?”) è sicuramente del
Longanesi.
In origine l’odicina aveva un disegno più ambizioso; rappresentare, cioè, figure e commenti
della vita del profugo. Le seguenti due quartine:
“Donna Rosa, don Peppino,
ci volete fare i gnocchi?”.
Con ambiguo strizzar d’occhi
Rispondevano di sì.
Come topi sospettosi
s’insinuavan nelle stanze;
ahi, deluse le speranze
d’allorquando si partì.
interamente del Soldati, tolte alla stesura definitiva dell’odicina, danno saggio sufficiente di ciò che
essa sarebbe dovuta essere, secondo quel più ambizioso disegno. Non sarebbe inutile, comunque,
informare il lettore che donna Rosa e don Peppino erano i portieri del Calascione.
[da M.Soldati: Fuga in Italia Sellerio editore pp.115-121]
inviato da GIUSEPPE BARILE, ATTORE
O. SORIANO – TRISTE, SOLITARIO Y FINAL (SOLITUDINE/DISPERAZIONE)
Fa giorno con un cielo tutto rosso, sembra di fuoco, eppure il vento è fresco e umido e l'orizzonte una
foschia grigia. I due uomini sono saliti in coperta e sono due facce ben diverse quelle che guardano verso la
costa, celata dalla nebbia. Gli occhi di Stan hanno il colore della foschia; quelli di Charlie, il colore del
fuoco. La brezza salata spruzza i loro visi di gocce trasparenti. Stan passa la lingua sulle labbra e sente, forse
per l'ultima volta in questo viaggio, il gusto salato del mare. Ha gli occhi celesti, piccoli e obliqui, le
orecchie grandi, i capelli ispidi e arruffati. È immerso in un'aria afflitta e malgrado i suoi diciassette anni è
abituato a fabbricare sorrisi. Adesso, lontano dal circo, lontano da Londra, il suo piccolo corpo è teso e sente
che la paura gli è piombata sopra da qualche parte.
Charlie, che di fronte al pubblico è un pagliaccio triste, ora sorride, con aria di sfida, freddo. Affacciato a
poppa, ha sporto il suo corpo in avanti, quasi volesse stare più vicino a Manhattan, quasi avesse fretta di
assalire il gigante.
- Mio padre ha detto che il cinema ucciderà i comici, - dice Stan.
Lo dice con amarezza, perché si è ricordato di suo padre, che è attore anche lui e ha visto in faccia l'ansia dei
curiosi, la disperazione dei falliti, la momentanea allegria di una smorfia; le ha viste mille volte, e lo ha
raccontato mille volte a tavola durante la cena nella vecchia casa del Lancashire. Le prime luci vengono su
dalla nebbia e Stan sa che ormai non può piú tornare indietro, che qualunque sarà il suo destino lui è lì per
accettarlo.
-Ucciderà i comici senza talento, - ha risposto Charlíe, senza guardare il suo compagno sempre piú lontano,
incantato dalle luci. Sente che l'ora sta arrivando, che tutto il Nordamerica è un pubblico in silenzio che
aspetta di vedergli metter piede sulla costa.
Sente le esclamazioni di meraviglia, gli applausi, gli evviva della folla, sente che qualcuno lo abbraccia e
piange. La sirena della nave lo scuote, gli fa aprire gli occhi chiari che hanno dentro più fuoco che mai e
scopre attorno a sé la gioia dei suoi compagni della troupe che festeggiano l'arrivo. Stan sorride in fretta. Si
copre il viso con le mani perché una sensazione vaga e fastidiosa lo prende al cuore e allo stomaco.
Attraverso le dita aperte che recingono i suoi occhi, guarda Charlie e sente di volergli bene come a nessun
altro, perché sa di essere di fronte a un vincitore.
Le chiatte si accostano alla nave e la prendono a rimorchio. Il giorno è luminoso e la nebbia s'è alzata.
Alcuni attori bevono scotch e lanciano urla incomprensibili. Torneranno presto a Londra, abbracceranno
mogli e figli e racconteranno l'avventura della tournée. Stan e Charlie non hanno biglietto di ritorno. La nave
ha attraccato e dalla stiva emerge bestiame sudicio e muggente. Una ad una le vacche toccano il suolo
americano e nessuno invidia il loro destino. Charlie ha acceso una sigaretta e attende il suo turno sulla
passerella. Non fa piú parte della troupe.
Un'ondata di sangue caldo inonda le vene di Stan e la sua faccia si riempie di vita. Indovina che Charlie sta
scommettendo sul successo e sulla fama. Da una tasca estrae una manciata di scellini e li scaraventa con
forza in mare. È rimasto solo e se potesse vedersi proverebbe vergogna.
- Non mi uccideranno, papà, - dice, e salta a terra.
inviato da GIANNA GENCARELLI, MEDICO
G. TOMASI DI LAMPEDUSA – IL GATTOPARDO (DISTACCO)
In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è
semplicemente quello di “fare”. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli
almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori,
nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il la; noi siamo dei bianchi
quanto lo è lei, Chevalley, e quanto lo è la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni
siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.
(…) I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti;
la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche,
se siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza,
rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli differenti,
essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero lei,
Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale?
(…) La ragione della diversità dev’essere in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio
siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c’è
niente da fare. Compiango, ma, in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero.
Questi sono discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le
avesse dette lei, me ne sarei avuto a male.
inviato da SILVIA RANUCCI, CNR
TOTÒ – ‘A LIVELLA ( SOLITUDINE/DISTACCO)
Ogn'anno, il due novembre, c'é l'usanza
per i defunti andare al cimitero.
Ognuno ll'adda fà chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.
Ogn'anno, puntualmente, in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch'io ci vado, e con dei fiori adorno
il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.
St'anno m'é capitata 'navventura...
dopo di aver compiuto il triste omaggio.
Madonna! si ce penzo, e che paura!,
ma po' facette un'anema e curaggio.
'O fatto è chisto, statemi a sentire:
s'avvicinava ll'ora d'à chiusura:
io, tomo tomo, stavo per uscire
buttando un occhio a qualche sepoltura.
"Qui dorme in pace il nobile marchese
signore di Rovigo e di Belluno
ardimentoso eroe di mille imprese
morto l'11 maggio del 31"
'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto...
...sotto 'na croce fatta 'e lampadine;
tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto:
cannele, cannelotte e sei lumine.
Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore
nce stava 'n 'ata tomba piccerella,
abbandunata,senza manco un fiore;
pe' segno,sulamente 'na crucella.
E ncoppa 'a croce appena se liggeva:
"Esposito Gennaro - netturbino":
guardannola, che ppena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!
Questa è la vita! 'ncapo a me penzavo...
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero maronna s'aspettava
ca pur all'atu munno era pezzente?
Mentre fantasticavo stu penziero,
s'era ggià fatta quase mezanotte,
e i'rimanette 'nchiuso priggiuniero,
muorto 'e paura...nnanze 'e cannelotte.
Tutto a 'nu tratto,che veco 'a luntano?
Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...
Penzaje: stu fatto a me me pare strano...
Stongo scetato...dormo, o è fantasia?
Ate che fantasia; era 'o Marchese:
c'o' tubbo,'a caramella e c'o' pastrano;
chill'ato apriesso a isso un brutto arnese;
tutto fetente e cu 'na scopa mmano.
E chillo certamente è don Gennaro...
'o muorto puveriello...'o scupatore.
'Int 'a stu fatto i' nun ce veco chiaro:
so' muorte e se ritirano a chest'ora?
Putevano sta' 'a me quase 'nu palmo,
quanno 'o Marchese se fermaje 'e botto,
s'avota e tomo tomo..calmo calmo,
dicette a don Gennaro:"Giovanotto!
Da Voi vorrei saper, vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir, per mia vergogna,
accanto a me che sono blasonato!
La casta è casta e va, sì, rispettata,
ma Voi perdeste il senso e la misura;
la Vostra salma andava, sì, inumata;
ma seppellita nella spazzatura!
Ancora oltre sopportar non posso
la Vostra vicinanza puzzolente,
fa d'uopo, quindi, che cerchiate un fosso
tra i vostri pari, tra la vostra gente"
"Signor Marchese, nun è colpa mia,
i'nun v'avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a ffa' sta fesseria,
i' che putevo fa' si ero muorto?
Si fosse vivo ve farrei cuntento,
pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse
e proprio mo, obbj'...'nd'a stu mumento
me ne trasesse dinto a n'ata fossa".
"E cosa aspetti, oh turpe malcreato,
che l'ira mia raggiunga l'eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
avrei già dato piglio alla violenza!"
"Famme vedé..- piglia sta violenza...
'A verità, Marché, me so' scucciato
'e te sentì; e si perdo 'a pacienza,
me scordo ca so' muorto e so mazzate!...
Ma chi te cride d'essere...nu ddio?
Ccà dinto, 'o vvuo capì, ca simmo eguale?...
...Muorto si'tu e muorto so' pur'io;
ognuno comme a 'na'ato é tale e quale".
"Lurido porco!...Come ti permetti
paragonarti a me ch'ebbi natali
illustri, nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?".
"Tu qua' Natale...Pasca e Ppifania!!!
T''o vvuo' mettere 'ncapo...'int'a cervella
che staje malato ancora e' fantasia?...
'A morte 'o ssaje ched'è?...è una livella.
'Nu rre, 'nu maggistrato, 'nu grand'ommo
trasenno stu canciello ha fatt'o punto
c'ha perzo tutto, 'a vita e pure 'o nomme:
tu nun t'è fatto ancora chistu cunto?
Perciò, stamme a ssentì...nun fa’ o restivo,
suppuorteme vicino - che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"
inviato da LUCIA FALCONE, IMPIEGATA
UNGARETTI – NOSTALGIA (SOLITUDINE)
Quando
la notte è a svanire
poco prima di primavera
e di rado
qualcuno passa
Su Parigi s'addensa
un oscuro colore
di pianto
In un canto
di ponte
contemplo
l'illimitato silenzio
di una ragazza
tenue
Le nostre
malattie
si fondono
E come portati via
si rimane
Inviato da PINA DI GENNARO
P. VERLAINE – CHANSON D’AUTOMNE (TRISTEZZA)
I singhiozzi lunghi
dei violini d'autunno
mi feriscono il cuore
con languore
monotono.
Ansimante
e smorto,
quando l'ora rintocca,
io mi ricordo
dei giorni antichi
e piango;
e me ne vado
nel vento ostile
che mi trascina
di qua e
di là
come la foglia
morta.
1
inviato da MARIATERESA SIGNORE
O.WILDE – L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ERNESTO (DIVERSITA’)
LADY BRACKNELL (sedendosi) Si può accomodare, Mr Worthing. (Cerca in tasca un taccuino e
una matita).
JACK No, la ringrazio, preferisco stare in piedi.
LADY BRACKNELL (taccuino e matita in mano) Mi sembra giusto premettere che lei non figura
nella mia lista di partiti possibili, benché abbia la stessa lista della cara Duchessa di Bolton. Infatti
lavoriamo insieme. Tuttavia sono perfettamente pronta ad aggiungere il suo nome, se le sue risposte
corrisponderanno alle esigenze di una madre amorevole. Lei fuma?
JACK Veramente sì, devo confessare che fumo.
LADY BRACKNELL Mi fa piacere. Un uomo dovrebbe sempre avere una occupazione. Sono già
in troppi a Londra a non far niente. Quanti anni ha?
JACK Ventinove.
LADY BRACKNELL Ottima età per sposarsi. Sono sempre stata dell'opinione che un uomo che
desidera sposarsi debba o saper tutto o non saper niente. A quale categoria appartiene?
JACK (dopo un attimo di esitazione) Io non so niente, Lady Bracknell.
LADY BRACKNELL Ne sono felice. Disapprovo tutto ciò che turba la nativa ignoranza.
L'ignoranza è come un delicato frutto esotico. Basta toccarlo, e appassisce. Tutta la teoria moderna
sull'educazione è radicalmente sbagliata. Per fortuna, almeno in Inghilterra, l'educazione non ha
nessun effetto. Altrimenti costituirebbe un serio pericolo per le classi alte, e condurrebbe
probabilmente ad atti violenti in Grosvenor Square. Qual è il suo reddito?
JACK Tra sette e ottomila sterline all'anno.
LADY BRACKNELL (prende un appunto nel suo taccuino) In terreni o in investimenti?
JACK In investimenti, soprattutto.
LADY BRACKNELL Questo è soddisfacente. Tra le tasse che bisogna pagare da vivi e quelle che
vengono esatte dopo il decesso, le terre non sono più né un profitto né un piacere. Danno una
posizione sociale e impediscono di mantenerla. Tutto qua.
JACK Io ho una casa di campagna con un po' di terra, naturalmente, circa seicento ettari, più o
meno, credo; ma il mio vero reddito non viene da lì. Infatti, per quanto ne so, i bracconieri sono i
soli a trarne profitto.
LADY BRACKNELL Una casa di campagna? Quante camere da letto? Ma questo punto può essere
chiarito in seguito. Lei ha una casa in città, spero? Non si può pensare che una ragazza semplice e
innocente come Gwendolen risieda sempre in campagna.
JACK Ecco, possiedo una casa in Belgrave Square, ma è affittata di anno in anno a Lady Bloxham.
Naturalmente posso riprenderla quando voglio, con sei mesi di preavviso.
LADY BRACKNELL Lady Bloxham? Non la conosco.
JACK Oh, esce pochissimo. È una signora molto avanti negli anni.
LADY BRACKNELL Ah, oggigiorno questo non è una garanzia di rispettabilità. Belgrave Square,
dice: numero civico?
JACK 149.
LADY BRACKNELL (scuotendo il capo) Non il lato alla moda. Mi aspettavo che ci fosse qualcosa
che non andava. Ma si può rimediare.
JACK Al lato di Belgrave Square o alla moda?
LADY BRACKNELL (con severità) Ad entrambi, suppongo, se fosse necessario. Qual è la sua
posizione politica?
JACK Veramente temo di non averne alcuna. Sono un Unionista Liberale.
LADY BRACKNELL Oh, quelli contano come Tories. Vengono a pranzo da noi. O piuttosto la
sera dopo pranzo. Passiamo ai punti minori. I suoi genitori sono ancora vivi?
JACK Ho perso entrambi i genitori.
LADY BRACKNELL La perdita di un genitore, Mr Worthing, può essere considerata come un
infortunio; la perdita di entrambi mi sa di sbadataggine. Chi era suo padre? Evidentemente, doveva
essere benestante. Era nato in quella che i giornali radicali chiamano la porpora del commercio, o si
è elevato a partire dai ranghi dell'aristocrazia?
JACK Mi dispiace, ma non ne ho la minima idea. Vede, Lady Bracknell, io ho detto di aver perso
entrambi i genitori; ma sarebbe più esatto dire che i miei genitori sembrano aver perso me...
Insomma, la mia origine mi è ignota. Sono... ecco, sono un trovatello.
LADY BRACKNELL Un trovatello!
JACK Il defunto Mr Thomas Cardew, un vecchio gentiluomo di natura molto generosa e
caritatevole, mi ha trovato e mi ha dato il cognome di Worthing, perché il caso voleva che avesse in
tasca un biglietto di prima classe per Worthing in quel momento. Worthing è un paesino nel Sussex.
È un luogo di villeggiatura balneare.
LADY BRACKNELL E quel gentiluomo caritatevole che aveva un biglietto di prima classe per
Worthing, dove l'ha trovato?
JACK In una borsa.
LADY BRACKNELL In una borsa?
JACK (molto serio) Sì , Lady Bracknell. Ero in una borsa - una borsa di pelle nera, piuttosto grande,
con delle maniglie - insomma, una borsa come tutte le altre.
LADY BRACKNELL E in quale località quel signor James, o Thomas, Cardew si è imbattuto in
questa borsa comune?
JACK Al deposito bagagli di Victoria Station. L'impiegato l'aveva scambiata per la sua.
LADY BRACKNELL Il deposito di Victoria Station?
JACK Sì, quello della linea per Brighton.
LADY BRACKNELL La linea non conta, Mr Worthing. Confesso di essere un po' stupita da ciò
che lei mi ha appena detto. Mi sembra che essere nato, o piuttosto allevato e cresciuto, in una borsa,
con o senza maniglie, dimostri un disprezzo per le convenzioni ordinarie della vita di famiglia che
ricorda i peggiori eccessi della rivoluzione francese. E immagino che lei sappia a che cosa ha
portato quell'infausto movimento. Quanto al luogo particolare in cui questa borsa è stata rinvenuta,
il deposito bagagli di una stazione ferroviaria può servire a nascondere un faux-pas sociale - e senza
dubbio è stato utilizzato spesso a questo scopo. Ma non può affatto essere considerato come una
base solida per una posizione riconosciuta nella buona società.
JACK Posso chiederle cosa mi consiglia di fare? Inutile dire che farei qualsiasi cosa al mondo per
assicurare la felicità di Gwendolen.
LADY BRACKNELL Le consiglierei fermamente di cercare di acquisire al più presto qualche
parente, e di fare un vero sforzo per poter produrre almeno un genitore, di un sesso o dell'altro,
prima che la stagione sia finita del tutto, Mr Worthing.
JACK Veramente non vedo come potrei. Posso produrre la borsa in qualsiasi momento. Si trova
nella mia anticamera, a casa. Spero che questo possa soddisfarla, Lady Bracknell.
LADY BRACKNELL Soddisfarmi, signore? La cosa non mi riguarda. Non penserà davvero che io
e Lord Bracknell potremmo mai sognarci di permettere che la nostra unica figlia - una ragazza
educata con le massime cure - s'imparenti per vie matrimoniali con un deposito bagagli e si unisca
con un pacco. Buon giorno, Mr Worthing! (Lady Bracknell esce in un vortice di maestosa
indignazione.)
inviato da VALENTINA BARLETTA, FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRUGIA,
SPECIALIZZAZIONE
R. YATES – IL DOTTOR GECO (SOLITUDINE)
«Bene, purtroppo per questa volta dobbiamo smettere, Warren», disse Miss Price. «C’è giusto il
tempo per un'altra relazione. Chi viene ora? Arthur Cross?»
Ci fu una leggera protesta perché Arthur Cross era il più tonto della classe e le sue relazioni erano
sempre una gran noia. Questa volta si produsse nel monotono racconto di una gita fatta a Long
Island per andare a trovare uno zio. A un certo punto fece uno sbaglio, disse «botomarca» invece di
«motobarca», e tutti giù a ridere con quella particolare nota di disprezzo riservata ad Arthur Cross.
Ma la risata si interruppe all'improvviso quando dal fondo della classe si unì al coro generale un
suono aspro e roco. Era Vincent Sabella che rideva anche lui, a piena bocca, coi suoi denti verdi.
Tutti stettero a guardarlo finché non la smise.
Finite le relazioni, ognuno si concentrò sulla lezione normale dimenticando completamente Vincent
Sabella. Al momento della ricreazione i compagni si ricordarono di nuovo di lui, ma solo per
garantirsi che rimanesse escluso da ogni cosa. Vincent Sabella infatti non stava né col gruppo dei
ragazzi che si accalcavano intorno alla sbarra orizzontale in attesa del proprio turno per attaccarvisi
e dondolare avanti e indietro né col gruppo che parlava piano piano in fondo al cortile,
complottando per far cadere Nancy Parker nel fango con uno spintone; né con quello più numeroso
di ragazzi, tra cui c'era persino Arthur Cross, che s'inseguivano in circolo in una sfrenata variazione
del gioco dell'acchiapparella. Non poteva naturalmente unirsi alle femmine, o ai ragazzi delle altre
classi, e così rimase solo solo, sul marciapiede al bordo del cortile, vicino alla scuola, fingendo per
la prima parte della ricreazione di essere tutto occupato con i lacci delle sue scarpe. Si accucciava
per slegarli e legarli, poi si alzava e faceva qualche passo di prova alla maniera scattante degli atleti,
quindi si riabbassava e cominciava di nuovo a maneggiare i lacci. Dopo cinque minuti di questo
esercizio la smise, raccattò una manciata di sassi e prese a tirarli lontano verso un bersaglio
invisibile. Il gioco andò bene per cinque minuti, ma ce n'erano altri cinque da passare e Vincent non
seppe trovare di meglio che starsene là, prima con le mani in tasca, poi con le mani sui fianchi, e
infine con le braccia conserte in maniera dignitosa.
inviato da TULLIO SPAGNUOLO VIGORITA
W. BUTLER YEATS- WHEN YOU ARE OLD (NOSTALGIA)
WHEN you are old and grey and full of sleep,
And nodding by the fire, take down this book,
And slowly read, and dream of the soft look
Your eyes had once, and of their shadows deep;
How many loved your moments of glad grace,
And loved your beauty with love false or true,
But one man loved the pilgrim Soul in you,
And loved the sorrows of your changing face;
And bending down beside the glowing bars,
Murmur, a little sadly, how Love fled
And paced upon the mountains overhead
And hid his face amid a crowd of stars.
inviato da CLAUDIA NANNOLA
M. YOURCENAR – MEMORIE DI ADRIANO (SOLITUDINE/DIVERSITÀ)
"......c'è un punto solo nel quale mi sento superiore alla generalità degli uomini:io sono più libero e,
al tempo stesso, più sottomesso di quel che non osino esserlo gli altri.
Quasi tutti ignorano del pari in che consista la loro autentica libertà e il loro servaggio, imprecano
alle loro catene; a volte, si direbbe che se ne vantino. D'altro canto, trascorrono il tempo in
trasgressioni vane; non sanno imporre a se stessi il giogo più lieve, quanto a me, ho cercato la
libertà più che la potenza, e quest'ultima soltanto perchè, in parte, secondava la libertà. Quel che mi
interessava non era una filosofia dell'uomo libero - mi hanno sempre tediato tutti quelli che vi si
provano - ma bensì una tecnica: volevo trovare una cerniera ove la nostra volontà si articola al
destino; ove la disciplina, anziché frenarla, asseconda la natura. Comprendimi bene: qui non si tratta
della dura volontà degli stoici, di cui tu ti esageri il potere, e neppure di una qualsiasi accettazione,
o di astratto diniego, che offende le condizioni reali del nostro mondo che è pieno, continuo,
formato di sostanza e di corpi; io ho aspirato ad un’acquiescenza, a un consenso più segreto, più
duttile. La vita, per me, era un destriero di cui si sposano i movimenti, ma dopo averlo addestrato
quanto meglio ci riesce, dato che in fin dei conti tutto consiste in un atto volitivo interiore - lento,
insensibile, tale da implicare anche l'adesione del corpo - mi studiavo di raggiungere gradualmente
questa condizione di libertà, o di sottomissione, quasi allo stato puro. A questo fine mi dava grande
aiuto la ginnastica e anche la dialettica. Sulle prime, non cercai che una libertà fatta di vacanze, di
momenti liberi: non c'è esistenza ben regolata che non ne abbia, e chi non sa trovarseli non sa
vivere. Poi, andai oltre: anelai a una libertà di simultaneità, nella quale fossero possibili due
condizioni allo stesso tempo, o due azioni: ad esempio imparai a dettare, come faceva Cesare,
parecchi testi nello stesso momento, a conversare mentre leggevo".......
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