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(26) Giuseppe Limone IL DIRITTO DELLA FORZA, LA FORZA DEL

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(26) Giuseppe Limone IL DIRITTO DELLA FORZA, LA FORZA DEL
Il diritto della forza, la forza del diritto, in G. Limone (a cura), La forza del diritto il diritto
della forza, L’Era di Antigone, Quaderni del Dipartimento di Giurisprudenza della Seconda
Università degli Studi di Napoli, n. 7, FrancoAngeli, Milano 2013, ISBN 9788820480981,
pp. 7-42.
(26)
Giuseppe Limone
IL DIRITTO DELLA FORZA, LA FORZA DEL DIRITTO
1. Tra la forza e il diritto
È stato Jean-Jacques Rousseau a impostare in termini magistrali, praticando
a modo suo lo spirito dell‟Illuminismo, la questione del rapporto tra la forza e il
diritto. Il pensatore ginevrino lo fa, nel capitolo 3 del libro I del Contratto sociale,
in modo ironico e penetrante. Egli afferma: «Il più forte non è mai abbastanza forte
da essere sempre il padrone se non trasforma la sua forza in diritto e l‟obbedienza in
dovere»1.
La domanda, in termini radicali, è: come può fare la forza a chiedere
obbedienza? Si sta parlando, qui, della forza imperativa, ossia di quella forza che è
capace di trasformarsi nell‟obbedienza dell‟interlocutore. Infatti, la forza, se si pone
come pura forza, sarà tale soltanto per gli effetti reali che produce. Ma gli effetti
reali della forza sono necessariamente limitati a ciò che la forza, nelle sue
conseguenze reali, può per natura produrre. Infatti, la forza è, sul piano fattuale del
suo essere forza, solo causa di effetti, che sono cosa diversa dall‟obbedienza. Non
potendo essere la forza illimitata, essa manterrà necessariamente aperti alcuni varchi
nella sua capacità di dominio, varchi al cui interno potrebbe inserirsi in ogni
momento la disobbedienza.
1
Rousseau, in realtà, si sta domandando: davanti a una forza che mi si
impone, debbo obbedirle anche nei momenti in cui essa provvisoriamente cessa o si
distrae? E, se le obbedissi anche in questi casi, su quale base si costituirebbe la mia
obbedienza? Esiste forse un dovere di obbedire alla forza anche nei momenti in cui
la forza cessa?
Qui Rousseau sta ponendo la questione alla radice. Altro è la forza come
fatto, altro la forza come diritto. Una tale impostazione, in realtà, significa che altro
è la forza come fatto, altro la ragione.
Il nocciolo del problema, in definitiva, sta nella differenza tra la forza in
quanto esercita i suoi effetti nel mondo naturale e la forza in quanto esercita i suoi
effetti nel mondo umano. In questo secondo caso, perché una forza possa conseguire
i suoi effetti, occorre necessariamente passare per un minimo di partecipazione –
anche debolissima – da parte del soggetto. Una tale partecipazione può esprimersi in
forme diversificate: nella paura, nell‟imitazione gregaria, nella pigrizia, nella viltà,
nell‟inerzia, nell‟accettazione, nella fiducia, nella consapevole e intenzionale
volontà. In ogni caso, la forza non può tradursi tutta e direttamente nell‟obbedienza
perché, per quanto riguarda il rapporto col soggetto umano, non può non
presupporre un minimo di partecipazione da parte dello stesso.
Vari apologhi hanno illustrato questa verità, che costituisce anche
un‟evidenza empirica. Hobbes osserva che anche il più forte di tutti è esposto al
pericolo che il più debole lo uccida: con l‟astuzia o accordandosi con gli altri. Hart
osserva che non si può non distinguere fra il diritto che ti impone di obbedire e il
bandito che ti impone la medesima cosa. È noto altresì l‟apologo con cui si dice che
un tiranno non può dormire sulle baionette. Eric Voegelin, discorrendo intorno alle
forme della rappresentanza politica, individua la rappresentanza trascendentale,
cioè quella con cui il potere, per farsi obbedire, dichiara di rappresentare un
significato forte, così forte da persuadere all’obbedienza.
1
Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, trad. Roberto Gatti, Rizzoli, Milano 2005, p. 59.
2
Le predette riflessioni girano tutte, in realtà, intorno a un solo problema: una
forza imperativa, per potersi realizzare nel mondo umano, abbisogna di un minimo
di partecipazione da parte del soggetto da cui pretende obbedienza. Uno dei modi
per conseguire una tale partecipazione è il procedimento attraverso cui la forza si
auto-giustifica, allo scopo di pretendere obbedienza. Una forza, per poter
trasformarsi in positiva obbedienza, ha, perciò, imprescindibile bisogno di un
fondamento capace di essere efficacemente persuasivo, cioè di un fondamento
simbolico. Ogni forza imperativa abbisogna di una sua antropodicea. Uno dei modi
per persuadere all‟obbedienza è stato, nel corso dell‟evoluzione umana, il ricorso
all‟idea della “ragione”. In realtà, questa idea è uno dei modi – non l‟unico –
attraverso cui la forza imperativa ha cercato di sopperire alla lacuna strutturale
implicita nella sua forza. La ragione, perciò, si presenta come fondamento
simbolico, ossia come forza capace di persuadere all‟obbedienza, condensando in
un unico significato fattori intellettuali e fattori emozionali.
A ben vedere, Rousseau, nella sua impostazione argomentativa, ha
mostrato di saper svolgere una critica interna – e non semplicemente esterna – al
problema di una qualsivoglia forza imperativa che intenda presentarsi come
autosufficiente. Il pensatore ginevrino, cioè, non sta dicendo che alla forza bisogna
contrapporre un‟altra forza, ma sta sottolineando che qualsiasi forza, per quanto
forte, non riesce mai a essere tanto forte da prolungarsi in modo autosufficiente
nella obbedienza umana correlativa.
Proviamo adesso a esaminare questo fenomeno al rallentatore. In una
prima approssimazione, possiamo dire che de facto una forza non riesce mai a
trasformarsi interamente in obbedienza umana, perché possono aprirsi sempre falle
imprevedibili nell‟esercizio efficace del suo dominio. Rousseau, in merito,
ironicamente scrive: se il rapinatore si distrae, sono ancora obbligato a consegnargli
il portafoglio?
In una seconda approssimazione, possiamo dire che de iure, anche nel
caso ipotetico in cui la forza si trasformasse interamente in obbedienza, non si
tratterebbe affatto di obbedienza umana, ma semplicemente di effetto naturale
3
derivante da una causa naturale. Se materialmente trascino con la forza un uomo da
un posto a un altro, non potrò certamente dire che il trascinato mi stia obbedendo. Il
suo esser trascinato costituisce semplicemente l’effetto di una causa. In tale ipotesi,
non sta affatto accadendo un fenomeno di obbedienza, fondata sul rapporto tra
comandare ed eseguire, ma un semplice fenomeno della natura, fondato sul rapporto
tra causa ed effetto.
Sia nel primo che nel secondo caso (l‟ipotesi de facto e l‟ipotesi de iure), è
possibile capire come, perché ci sia obbedienza umana, occorra un minimo di
partecipazione, per quanto debolissima, del soggetto all‟esecuzione di quanto la
forza impone.
In una terza approssimazione, può dirsi che la forza, per trasformarsi in
obbedienza umana, deve necessariamente avvalersi di alcuni moventi propri
dell‟azione umana: la paura, la tendenza gregaria a obbedire, la pigrizia, una più
generale adesione emozionale, una consapevole adesione volontaria. Quando
Herbert
Hart
provocatoriamente
compara
l‟imposizione
del
diritto
con
l‟imposizione del bandito, sta segnalando – all‟interno di due forme diverse di
obbedienza umana – il confine tra un‟obbedienza dovuta soltanto alla paura, legata
al qui e ora e priva di ogni interiorizzazione duratura, e un‟obbedienza dovuta a un
minimo di interiorizzazione partecipante, che è l‟unica a fare del diritto una struttura
ragionevolmente durevole e, corrispettivamente, dell‟esecuzione una obbedienza
ragionevolmente umana.
In una quarta approssimazione, possiamo dire che la forza imperativa può
esprimersi in più modi e in più tappe: nei confronti di un uomo singolo, a cui quella
forza chieda obbedienza qui e ora; nei confronti di un uomo singolo, a cui quella
forza chieda obbedienza duratura; nei confronti di un gruppo umano a cui quella
forza chieda obbedienza qui e ora; nei confronti di un gruppo umano a cui quella
forza chieda obbedienza duratura. Passando da una tappa all‟altra, la forza
imperativa in discorso presenta, nella sua pretesa auto-sufficienza, sempre più
lacune. In ogni caso – e ancor più nell‟ultimo caso – la forza imperativa, per
4
realizzarsi nei confronti di un gruppo, avrà intrinseco bisogno, da parte dei soggetti
chiamati a obbedire, di un minimo di interiorizzazione del comando dato.
Nell‟ipotesi dell‟obbedienza collettiva duratura, Max Weber ha idealtipizzato, com‟è noto, tre forme di potere, che in realtà sono tre forme di forza
imperativa: quella fondata sulla consuetudine, quella fondata sul carisma e quella
fondata su un‟istanza razionale che si presenta in forma legale. A ben vedere,
nell‟indagare il complessivo fenomeno sociale per cui si obbedisce, molteplici
ulteriori specificazioni e integrazioni potrebbero individuarsi oltre la tipizzazione
weberiana, il che comporterebbe una visione più articolata all‟interno della chimica
sociale per la quale un ordine sociale permane. Ma qui non è necessario
ulteriormente ideal-tipizzare. Qualunque sia la struttura ideal-tipica pensata, la
necessità di un fondamento simbolico della forza rimane.
In tutte le ipotesi sopra individuate appare chiaro che una forza che voglia
trasformarsi in obbedienza collettiva duratura deve necessariamente passare, per
ragioni interne e non per ragioni esterne, attraverso un minimo di autogiustificazione persuasiva capace di trasformarsi, a sua volta,
in una
interiorizzazione obbediente. Una forza, per ragioni interne e non per ragioni
esterne, ha strutturalmente bisogno di un minimo di auto-giustificazione persuasiva.
In ultima analisi, il fondamento simbolico fa parte intrinseca del fenomeno della
forza che voglia realizzarsi come forza. Ogni forza, per restare forza, deve
persuasivamente auto-fondarsi – e non può non farlo – sotto pena della sua
inevitabile catastrofe. Non solo. Una tale capacità auto giustificativa deve saper
durare nel tempo, perché, in caso contrario, la forza imperativa varcherebbe le
condizioni che costituiscono la sua soglia di dominio e si estinguerebbe in un crollo.
Di una forza imperativa, perciò, fa parte costitutiva la sua falla e, d‟altra
parte, questa falla esige di essere saturata da un fondamento simbolico, che diventa
parte intrinseca di quella forza, andando a costituire una forma di vita razionale a
cui quella forza rinvia. Senza quel fondamento simbolico quella forza non sarebbe
forza e, d‟altra parte, quel fondamento simbolico diventa parte carnale di quella
forza. Quel fondamento simbolico, in realtà, rinvia alla sottostante forma sociale di
5
vita che lo alimenta. Si tratta, a ben vedere, di un rinvio non recettizio, in base al
quale il fondamento simbolico attinge a quella forma di vita razionale assumendone,
lungo il tempo che passa, tutte le successive evoluzioni.
Ma che cosa è, in tale contesto, il fondamento simbolico e che cosa è il
simbolo? Per rispondere a una tale domanda, è necessario istituire i lineamenti di
una teoria del significato e, al suo interno, di una teoria del significato simbolico. In
una prima generalissima prospettiva, diremmo che, affinché si dia un significato,
occorrono tre elementi costitutivi: una forza, una struttura ideale e/o affettiva e un
corpo, là dove la forza è l‟elemento generatore, il significato la struttura leggibile da
una coscienza che lo rifletta e il corpo il modo di manifestarsi di un tale significato.
Se da una teoria del significato si intende passare, più specificamente, a una teoria
del significato simbolico, si trova che in quest‟ultimo sono individuabili cinque
elementi costitutivi: una forza, un significato ideo-affettivo (cioè, congiuntamente
mentale e emozionale), un corpo, un qui e ora e un‟istanza di durevolezza in quel
qui e ora concentrata. In questo senso, il significato simbolico è quel significato che
non solo trasmette l‟esistenza di una forza, ma è esso stesso forza, che si concentra
nel corpo specifico in cui si manifesta. Se quel significato simbolico trasmettesse
soltanto, trasmetterebbe una mera notizia, ma quel significato simbolico non
soltanto trasmette: è esso stesso forza. Non solo. Questo significato-forza, che si dà
in un corpo per manifestarvisi, viene sperimentato dalla coscienza del fruitore come
forza in atto, che accade qui e ora, ma in un qui e ora in cui si viva la
concentrazione di una durevolezza che sente di debordare oltre il momento vissuto.
Ciò è esemplarmente sperimentato nella differenza fra il simbolo e il concetto: nel
simbolo si vive il qui e ora, nel concetto no. D‟altra parte, se questo simbolo ha
significato di simbolo sociale, alle cinque caratteristiche delineate bisogna
aggiungerne una sesta: il carattere della sua sociale condivisione. Il significato
simbolico perciò – in quanto evento-forza che si traduce in un corpo, in un qui e ora
e in una durevolezza concentrata – si realizza nel vissuto del fruitore come forza di
gravitazione, che attrae un duraturo sentire-operare, esprimentesi, nella forma
sociale, come duraturo e interiorizzato obbedire.
6
In questa prospettiva, premesso che della forza imperativa fa costitutiva
parte il suo corredo simbolico, tale corredo si pone, di diritto e di fatto, come
fondamento persuasivo di quella forza. Nel corso della storia la forza imperativa
può dotarsi di fondamenti simbolici diversi, che variano nel tempo, ma non può non
dotarsene: essa deve munirsi di un fondamento simbolico che, pur variando, è
inevitabile e costitutivo.
Nella storia dei popoli, diverse, perciò, sono state le strutture persuasive
attraverso cui la forza imperativa, per saturare la sua intrinseca lacuna, ha cercato di
trasformarsi in duratura obbedienza. Potremmo indicarne, sulla falsariga di Eric
Voegelin, alcune: la forza del capo mongolo, in quanto esprime l‟energia sottostante
dell‟universo; la forza del re, in quanto esprime l‟energia sottostante di una polis; la
forza dell‟imperatore, in quanto esprime l‟energia sottostante di un Dio; la forza del
monarca, in quanto esprime l‟energia sottostante di Dio e della Nazione; la forza
dello Stato in quanto esprime l‟energia sottostante dell‟idea di popolo, e si potrebbe
continuare.
A ben vedere, nell‟era dell‟Illuminismo viene culturalmente elaborato uno
specifico rapporto tra la forza imperativa e il suo fondamento simbolico. Tale
rapporto si concentrerà intorno all‟idea di una sovranità illuminata, nella quale la
forza sovrana deve essere caratterizzata dalla Ragione come suo limite e
fondamento. Si porranno così le basi per quel modello di forza che, introiettando un
qualificato legame tra Stato e Ragione, si chiamerà Stato di diritto, là dove il diritto
diventa propriamente il fondamento e il limite dello Stato, concentrando in sé la
Ragione, intesa come diritto della ragione. In sintesi, lo Stato di diritto viene a
costituirsi come la forza sovrana fondata sulla forza del diritto. In una tale
prospettiva, la forza del diritto sarà espressa dalla Legge, considerata come quella
istanza razionale specifica che, nella sua esteriore procedimentalità, si realizza
attraverso norme pre-date, poche, scritte, chiare, astratte, generali, stabili, coerenti,
costituenti un ordine completo tale da scongiurare la necessità di norme che seguano
i comportamenti umani invece che precederli. In tale contesto, la Legge, in quanto
segnata dalle predette caratteristiche, si configura come l‟espressione positiva della
7
Ragione, di quella Ragione che costituisce, a sua volta, il limite e il fondamento
auto-giustificativo della forza del sovrano, cioè dello Stato. In realtà, dal punto di
vista rigorosamente logico, una Legge che, presentandosi come ordinamento, si
pretenda pre-data e completa, presumendo di poter prevedere tutti i casi possibili, si
auto-propone, in realtà, come forza che agisce ultra vires, cioè oltre le sue stesse
possibilità. Non è possibile prevedere tutti i casi possibili non soltanto dal punto di
vista banalmente empirico, ma dal punto di vista rigorosamente logico, perché non è
possibile prevedere tutte le condizioni di principio e di fatto, che costituiscono il
presupposto ontologico di ciò che la Legge imperativamente disciplina. Come già
Bernhard Windscheid nell‟Ottocento sapeva nella sua teoria della presupposizione
(1865) – la quale mostrava di sapere qualcosa già prima delle teorie novecentesche
di incompletezza di Kurt Gödel (1931) –, un qualsiasi apparato imperativo e
normativo strutturalmente si svolge all‟interno di condizioni presupposte non
interamente prevedibili, che solo il tempo potrà eventualmente far venire alla luce.
Non è possibile, cioè, prevedere le condizioni generali dentro cui opera una
qualsiasi previsione, il che mette in questione radicale non solo la capacità
universale di quella previsione, ma la sua stessa capacità di regolare ogni caso –
reale e possibile – secondo un medesimo metro e secondo una medesima ragione
giustificatrice, capace di trattare equamente ogni caso, cioè regolando in modo
uguale l‟uguale e in modo proporzionalmente disuguale il disuguale. In questo
contesto di riferimenti, una qualsiasi Legge – o meglio, un qualsiasi Ordinamento –
non riuscirà mai, alla luce di tutti i fatti che a quella Legge e a quell‟Ordinamento
seguiranno, a presentarsi razionalmente fondata sulla base di un‟unica ragione
giustificativa.
Il problema del necessario fondamento simbolico della forza imperativa
subirà, nel corso dei secoli, ulteriori evoluzioni, legate alla necessità di rispondere
alle sempre nuove esigenze che la forza statuale dovrà soddisfare per trasformarsi in
obbedienza. Esaminiamo rapidamente soltanto alcune delle modalità strutturali con
cui la forza statuale ha cercato di rispondere alle sue necessità di fondamento
simbolico.
8
Una prima modalità strutturale è stata certamente quella di potenziare la
forza simbolica della Legge e del Diritto attraverso la forma di una Costituzione,
esprimente in modo chiaro ed esplicito i fondamenti invalicabili dello Stato, e
soprattutto attraverso la forma di una Costituzione rigida, cioè non modificabile
secondo i più agevoli procedimenti con cui si modifica una qualsiasi legge
ordinaria. Una seconda modalità strutturale è stata certamente quella di garantire,
attraverso la Costituzione, alcuni fondamentali diritti di libertà, da intendere come
diritti civili, intesi come forme garantite di libertà negative, cioè di libertà rispetto a
cui lo Stato non deve fare. Una terza modalità strutturale è stata certamente quella di
garantire, attraverso la Costituzione, alcuni fondamentali diritti sociali, a cui
corrisponderanno speciali obblighi – da parte dello Stato – di un positivo facere,
tali da costituire il fondamento di quello che si chiamerà Stato sociale e, più tardi,
Stato sociale di diritto. Una quarta modalità strutturale sarà certamente quella per
cui la forza imperativa si dichiarerà democratica, e quindi fondata sulla volontà
popolare e sul suffragio universale. Una quinta modalità strutturale sarà quella per la
quale la forma democratica si richiamerà esplicitamente alla democrazia liberale, e
perciò a una democrazia fondata, ancor prima che sul consenso, sul dissenso,
strutturalmente garantito e capace di sostituire il precedente governo senza
rivolgimenti violenti. Una sesta modalità strutturale sarà quella per la quale la
democrazia liberale si richiamerà alla difesa di diritti fondamentali – civili, politici e
sociali – garantiti a ogni cittadino attraverso l‟azione efficace di una Corte
Costituzionale, in grado, come struttura indipendente, di far prevalere i diritti
fondamentali dei singoli su ogni legge che eventualmente li abbia violati.
Si tratta, in ogni caso, di modalità progressive con cui una forza imperativa,
di carattere statuale, ha cercato di darsi un fondamento simbolico per realizzare un
ordine sociale fatto di obbedienza e consenso.
Ma nel rapporto tra forza imperativa e ragione appare importante, a questo
punto, esaminare uno snodo cruciale. Quello che segna il discrimine fra tre modelli
specifici: la concezione politologica dell‟ordinamento giuridico, la concezione
giuspositivistica e la concezione giusnaturalistica. Ma, per fare ciò, occorre
9
sottoporre ad analisi i significati del simbolico e del giuridico. E, a questo punto,
diventano istruttive, finanche spaesanti, le posizioni contrapposte di Hans Kelsen e
di Carl Schmitt.
2. Una prospettiva del simbolico
Chiamiamo “simbolo” un significato-forza che si incarna in un segno e
struttura un campo gravitazionale, un campo di senso. Si tratta di un significato che,
nel suo farsi segno, è direttamente forza e non soltanto notizia di forza. Parliamo di
un segno che può essere un qualsiasi segno: visivo, uditivo, olfattivo, sensoriale
tout court, ma che può consistere anche in una rappresentazione mentale, o
proposizionale, o verbale (un‟idea, una frase, una parola, etcetera). Una forma di
una forza, che è corpo. Corpo che può manifestare significati a più strati.
Non a caso diciamo campo di senso. Campo in un‟accezione precisamente
analoga a quella del mondo fisico, energetico. Campo nel senso del campo di forze:
luogo gravitazionale – a dimensione interumana e intraumana – in cui in una forma
(in una “Gestalt”2) si strutturano dinamicamente fenomeni, vicende, trasformazioni,
di cui può compiersi una lettura rigorosa3.
Indipendentemente da quale sia la natura di questa forza – l‟Archetipo di
Jung, l‟Inconscio di Freud, il Ça di Lacan, l‟Immaginario di Bachelard, etcetera – e
indipendentemente da chi o da che cosa ne sia la fonte (lo stesso “soggetto”, la
“natura”, il “divino”, l‟“inconscio”, la “struttura desiderante”, etc.), il “simbolo” in
senso forte non è un mero denotante o designante semeiotico, ma è il risuonare di
una forza generatrice che, in quanto tale, produce gravitazione. Gravitazione non nel
fisico, ma nel fenomenologico, nel vissuto.
2
Si pensi alla lettura dei fenomeni psicologici e sociali che, per esempio, ha dato il gestaltista
Kurt Lewin. Si veda, in proposito, Kurt LEWIN, Teoria dinamica della personalità, Editrice
Universitaria, Firenze 1965.
3
Ci permettiamo rinviare, in proposito, a Giuseppe LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte
Tipografica, Napoli 1997.
10
In una tale prospettiva, la “forza” non si dà necessariamente in questo o in
quel segno, perché può darsi in qualsiasi segno. Essa, però, al tempo stesso, deve
poter darsi in un segno. Che un segno in un contesto sia simbolo e in un altro non lo
sia, dice, contemporaneamente, l‟invarianza di questo dover poter darsi e la
varianza di questo poter darsi. Un “simbolo”, infatti, può, in quanto simbolo4, nel
corso dei passaggi storici che vive, morire, diventando una mera traccia culturale
del passato (è la sua morte nel tempo), o può, nel corso dei passaggi interculturali,
opacizzarsi al vissuto, perdendo intensità simbolica e riducendosi a mera traccia
antropologica (è la sua morte nello spazio).
Ciò non toglie che il segno simbolico, 1) da un lato, nel contesto storicoculturale di riferimento, concentri una forza reale che struttura un campo di senso;
2) dall‟altro lato, nel corso delle trasformazioni del culturale, possa essere sostituito
da altri segni nella capacità di risonare di quella forza; 3) infine, alla varianza
culturale dei mille possibili segni espressivi si accompagni l‟invarianza simbolica
della forza che deve poter esprimersi in segni.
Una specifica scommessa epistemologica può consistere, oggi, nel costruire
una “fisica sociale del simbolico” quale fisica della percezione e dell‟azione sociale.
Ciò, per certi versi, in analogia con le modalità con cui nel Novecento la
Gestaltpsychologie si è cimentata nella ricerca di una fisica del “percettivo”: là dove
indici strutturali invarianti ed esperienza passata variabile vanno a costituire
specifici nodi diffrattivi e ricostitutivi del guardare5. Si tratterebbe, qui, di
individuare nodi diffrattivi e ricostitutivi del percepire e dell‟agire sociale. Come la
ragione epistemologica della Gestaltpsychologie ha cercato gl‟indici duri (ossia
indipendenti dalla consapevolezza) delle diffrazioni che stanno a fondamento del
costituirsi dell‟oggetto percepito, allo stesso modo una epistemologia del simbolico
può costituire una fisica del simbolico come analisi dei modi e dei segni
4
In senso forte, cioè. Per una lettura fenomenologica del simbolo, vedi Sandro BRIOSI, Il
simbolo e il segno, Mucchi, Modena 1993.
5
Per un contributo critico, vedi David KATZ, Gestaltpsychologie, Benno Schwabe & Co,
Basilea, 1948, tr. it. di Enzo Arian, La Psicologia della Forma, Boringhieri, Torino 1973. Vedi,
anche, la citata lettura gestaltica di Kurt Lewin.
11
destrutturativi e ristrutturativi del senso. Si tratta, com‟è noto, di una prospettiva
epistemologica su cui ha lavorato, nel Novecento, Kurt Lewin.
A ben guardare, la prospettiva simbolica è stata sempre, dagli opposti
versanti del logico e dell‟empirico, radicalmente sospettata. Sospettata di inserire
nella logica rigorosa della scienza la fenomenologia friabile dell‟illusione. Ma essa,
la prospettiva simbolica, pur sospettata di illusorietà, lascia alle altre due prospettive
– quella logica (analitica) e quella empirica (sperimentale) – il problema
dell‟esistenza di quei fatti di cui esse non riescono a rendere ragione, di quei fatti la
cui ragione fa apparire, invece, in modo nuovo la prospettiva simbolica. Sicché la
prospettiva simbolica si rivela alle altre due in un‟ottica in cui il simbolico appare,
per così dire, in controluce, trasformato dal diverso modello epistemologico che lo
guarda. Infatti:
1) Nella prospettiva analitica, il “simbolico” appare come “finzione”. Si
vede operare, al suo posto, un “come se”, un “fare finta che”.
2) Nella prospettiva empirica, il “simbolico” appare come un effetto da fata
morgana. Si vede operare, al suo posto, un‟illusione. Si assiste, cioè, a una sorta di
illusione efficace (o, in alcuni casi, per dirla con Popper, a una profezia che si
autoadempie).
Nell‟eventuale intersezione delle due prospettive (l‟analitica e l‟empirica)
sul simbolo, si ha la percezione cognitiva di un quid che, per così dire, funziona
perché finziona. Si tratta, a ben vedere, qui, del “fingere” latino nel suo doppio
significato.
Ora, considerati gli esiti nelle due prospettive di cui sopra (il simbolico in
quanto ha lo status logico del “come se” e il simbolico in quanto ha lo status
empirico dell‟“effetto sperimentale da illusione”), il simbolico, per l‟autonomia con
cui si autocomprende, non si coglie né come l’uno né come l’altro modo. Ma,
d‟altro canto, capire come esso epistemologicamente appare agli altri versanti è
capire l’uno, l’altro e lui stesso.
12
C‟è da domandarsi: 1) Che cosa, nel livello della prospettiva logicoanalitica, fa sì che la ragione usi come selettore il come se e non gl‟infiniti possibili
altri? Qual è, cioè, il criterio selettore che sceglie questo criterio selettore?
E c‟è da domandarsi, ancora: 2) Che cosa, nel livello della prospettiva
empirico-sperimentale, fa sì che alla ragione un effetto osservabile appaia come
un‟illusione?
Una risposta a tali domande non è possibile se non si apre un altro spazio
prospettico: lo spazio del “simbolico”, appunto.
Collocata in campo, per così dire, una figura solida a più facce (collocato,
per esempio, un cristallo), occorre non solo poter vedere la faccia del simbolico a
partire dalla faccia logica e da quella sperimentale, ma anche poter vedere le loro
prospettive intersecate. E, fra queste, la stessa faccia del simbolico a partire da sé.
La
prospettiva
simbolica
introduce
alla
lettura
di
una
forza,
fenomenologicamente percorsa, che si esprime a più strati6. Si tratta
dell‟espressione simbolica intesa come espressione di forza, colta nella struttura a
catena dei suoi significati.
Rispetto a una tale forza, il sapere analitico potrà avere l‟illusione che il
come se sia sostituibile ad libitum con un qualsiasi altro come se; il sapere empirico
potrà credere che l‟effetto sperimentale osservato sia una mera illusione; il sapere
empirico-analitico (logico-sperimentale) potrà figurarsi, da parte sua, che l‟“effettoillusione”, in quanto riconducibile al “come se”, sia dissolvibile col semplice gesto
di una razionale azione illuminatrice. Ma è il sapere simbolico a mostrare come la
comprensione di un intero – interumano e intraumano – non possa giammai esser
fatto consistere nella comprensione dei suoi pezzi separati.
Il simbolico, a seconda delle tesi che l‟indagano, può decifrarsi in relazione a
vari criteri diversificati:
1) in relazione all‟assenza che esso richiama. In questo senso, il simbolico si
dà come la «capacità di rendere effettuale, cioè produttrice di effetti reali, qualcosa
6
Su una lettura multifattoriale del simbolico, vedi Sandro BRIOSI, Il segno e il simbolo, cit.
13
che sotto l‟aspetto della presenza si è ormai dileguata» (Domenica Mazzù, nelle
coordinate di Freud);
2) in relazione alla fattualità che al simbolico si connette. In questo senso, il
simbolico si dà come quella capacità di “creazione di senso” che, nominando la
fattualità, la inserisce in un progetto che l’ingriglia in un “oltre”: per così dire, in
un controfattuale che “proietta” il fattuale nell‟oltrefattuale; in un “rinominare” che
si dà quale prolessi costantemente pro-duttiva e ri-produttiva (Bruno Romano, nelle
coordinate di Lacan, di Heidegger, di Hegel)7;
3) in relazione alla costituzione di spazio che il simbolico produce (Luigi
Alfieri, nelle coordinate di Nietzsche; vedi, in questo senso, anche la ricerca di
Roberto Escobar)8;
4) In relazione alla persuasività retorica del potere sullo spazio e sul tempo,
che il simbolico innesta (Giulio Chiodi, nelle coordinate d‟una teoria critica della
società)9;
5) in relazione all‟energia sociale destrutturatrice (e ristrutturatrice) di cui
il simbolico è vettore (Claudio Bonvecchio, nelle coordinate di Jung)10;
6) in relazione al mondo di figure di cui il simbolico è generatore
(Domenico Corradini, nelle coordinate di una poesia e di una simbolica narrante:
vedi, in un tale contesto di approcci, fra gli altri, i contributi di Bachelard, Kerenyi,
Eliade, Zolla)11;
7
Bruno ROMANO, Per una filosofia del diritto nella prospettiva di Jacques Lacan, Bulzoni,
Roma 1991.
8
Luigi ALFIERI, Il Terzo che deve morire, in AA.VV., Simbolica politica del Terzo, a cura di
Giulio M.Chiodi, Giappichelli, Torino, 1996, pp. 25 ss. Vedi anche Roberto ESCOBAR, Rivalità
e mimesi: lo straniero, in AA.VV., La contesa tra fratelli, cit., pp.337 ss.
9
Giulio Maria CHIODI, Sul simbolico nelle scienze politico-sociali, in AA.VV., L’immaginario
e il potere, a cura di Giulio M.Chiodi, Giappichelli, Torino 1992, pp. 7 e ss.
10
Claudio BONVECCHIO, Bellum omnium contra omnes. Il simbolico e la guerra postmoderna,
in AA.VV., Il nuovo volto di Ares o il simbolico nella guerra postmoderna, CEDAM, Padova
1999, pp.61 ss.
11
Domenico CORRADINI, Miti e archetipi. Linguaggi e simboli della storia e della politica,
ETS, Pisa. Si veda anche: Luigi ALFIERI-Domenico CORRADINI, Abissi. Meditazioni su
Nietzsche, KERÉNYI, Umgang mit Göttlichem e Wesen und Gegenwärtigkeit des Mythos, Albert
Langen – Giuffrè, Milano 1992. Per un fondamentale approccio mitico-narrativo al simbolico,
vedi Karl Georg Müller Verlag GmbH, München-Wien 1985, tr. it. di Maria Anna Massimello, Il
rapporto col divino, Einaudi, Torino 1991.
14
7) in relazione al configurarsi dei nomi in cui il simbolico si sedimenta e si
cela (Carlo Sini, nelle coordinate di Cassirer e oltre)12;
8) in relazione all‟uomo come animale onirico (Franco Fornari)13;
9) in relazione all‟uomo come animale segnico (connotato, da un lato, dal
bisogno di produrre segni – “fecondità”– e, dall‟altro, da quello, simmetrico, di
interpretarli – “ermeneuticità” –) : in riferimento, da un lato, all‟umano non “dover
fidarsi” ma “dover poter fidarsi”, e, dall‟altro, all‟umano non “dover ricevere
fiducia” ma “dover poter ricevere fiducia”;
10) in relazione a un‟analisi della logica primaria – “simmetrica” – che nel
simbolo psicanaliticamente si esprime, analisi da condurre fino in fondo con
procedura rigorosa14;
11) in relazione a uno studio della struttura segnica vista come un
combattersi di significati che fanno del simbolico una forma a più strati: una
“nebulosa a risonanze di significato” (Umberto Eco) o una “vertigine di rinvii”
(Umberto Galimberti);
12) in relazione a una prospettiva che, superando l‟episteme “cartesiana”,
colga la vita emozionale come intrinseca alla vita mentale, ed entrambe – vita
emozionale-mentale – come intrinseche alla vita reale15;
13) in relazione a un‟ottica che tematizzi l‟essenziale struttura gnoseologica
del “conferimento/ritrovamento di senso” (il dover poter farlo) nella percezione
cognitiva dei segni (tracce, rappresentazioni mentali, oggetti): sia in quanto
“inventati”, sia in quanto “trovati”, sia in quanto prodotti da altri (“ermeneuticità”),
sia in quanto prodotti da sé (“fecondità”), sia in quanto coincidenti col gruppo
sociale (costitutività della “comunità”), sia in quanto coincidenti col sé (costitutività
della “singolarità”): una prospettiva che colga in questa ricerca di senso la forza
12
Carlo SINI, Il simbolo e l’uomo, EGEA, Milano 1991. Per il fondamentale approccio
cassireriano, Ernst CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1988.
13
Per una lettura simbolica delle Istituzioni, vedi Franco FORNARI, Introduzione a una
socioanalisi delle istituzioni psichiatriche, in <<Rivista di psicoanalisi>>, XVII, 1971, ora in
Franco FORNARI, Simbolo e codice, Feltrinelli, Milano, 1976.
14
Ignacio MATTE BLANCO, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Einaudi,
Torino 1981.
15
generatrice di un campo di vissuto a struttura gravitazionale. Dove si assiste, in
realtà, a un continuo trasformarsi di centri di energia cinetica in centri di energia
potenziale e viceversa16;
14) in relazione a una prospettiva che veda il simbolico anche nel puro fatto
segnico, a più o meno forte condivisione sociale e/o naturale (Elias, Sebeok)17;
Molte e disparate, quindi, le interpretazioni del simbolico, e molte le
interpretazioni dei suoi rapporti con l‟analitico e con lo sperimentale. Compito del
prossimo futuro sarà, forse, una possibile rimessa in circuito di queste molteplici –
ma concorrenti e, forse, componibili – piste. Non solo. Innumerevoli e importanti
possono essere, in proposito, i terreni di sperimentazione costituiti dalle opere
letterarie e dalle scienze che le riguardano. Si pensi, solo a mo‟ di esempio, al Don
Chisciotte del Cervantes, alle figure di Borges, alle rappresentazioni del “Potere” di
Canetti18.
3. Una genealogia del simbolico
C‟è forse un luogo in cui il “simbolo” può meglio – in modo più conciso e
pregnante, cioè – rivelare le sue più specifiche matrici. É il luogo del “sacro”.
Intendiamo riferirci, qui, in modo particolare, all‟analisi che ne svolge Rudolf Otto
nell‟ormai classico Il sacro19.
Il “sacro” – detto da Otto anche il “santo” – è, per lui, innanzitutto, il
“numinoso”. Si tratta di quel “numinoso” che è il “sovrappotente”20, il
“tremendo”21, il “deinós”22: ciò verso cui e a partire da cui l‟uomo non può far altro
15
Antonio DAMASIO, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1995 (vedi spc. pp. 336 ss).
Sul punto, ci permettiamo rinviare a Giuseppe LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte
Tipografica, Napoli 1997, p. 35 ss. e p. 31 ss.
17
Norbert ELIAS, Teoria dei simboli, Il Mulino, Bologna 1998; ID:, Saggio sul tempo, Il
Mulino, Bologna 1986; Thomas A.SEBEOK, Sguardo sulla semiotica americana, Bompiani,
Milano 1992.
18
Per un esempio efficace vedi, a proposito del Signore delle mosche di Goding, il contributo di
Luigi Alfieri in AA.VV., La contesa tra fratelli, Giappichelli, Torino 1992 , p.227 ss.
19
Rudolf OTTO, Il sacro.L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale,
Feltrinelli, Milano 1989.
20
Op. cit., p.28 e p.30.
21
Op. cit., p.24.
22
Op. cit., p.51.
16
16
che vivere l‟assoluta propria inermità dipendente in quanto condizione del nulla23.
Il “numinoso”, in questo senso, è ciò che assolutamente non può essere detto
attraverso determinazioni razionali. Di più. Il “numinoso” è ciò che non può essere
detto neanche attraverso determinazioni ontologiche, fossero pure determinazioni
ultrarazionali24. Unilaterale ed erroneo sarebbe, quindi, in una tale visione, tradurre
“santo” con “trascendente”, ossia con quella specifica connotazione ontologica che,
per così dire, pur indicando il “soprarazionale”, lo indica in modo pur sempre
“razionale”25. Il “numinoso” è, nel suo fondo, una reazione radicale dell‟anima non
spiegabile per concetto26. Quella reazione che si accompagna «al momento dello
sgomento»27. Otto dice anche: «il fondo dell‟anima». Un a priori.
Per intendere bene una tale prospettiva, bisogna capire come il Nostro
critichi lo stesso sentimento di dipendenza che Friedrich Schleiermacher colloca a
fondamento del fatto religioso, perché un tale sentimento è considerato – da Otto –
anch‟esso incapace di capire il numinoso. Si tratta di un sentimento, infatti, che
individuerebbe il “numinoso” a partire dalla corrispondenza con una troppo
generica situazione di creaturalità28, laddove il “numinoso” è “una cosa” che
«nonostante tutte le somiglianze e tutte le analogie, è qualitativamente diversa da
tutti i sentimenti analoghi»29.
Per intendere appieno una simile prospettiva, bisogna capire come Otto,
mentre critica la stessa «sedicente teologia dialettica»30 e il suo discorso
sull‟“Altro”, afferma che «l‟autentico mirum è [...] “il completamente altro”, il
thàteron, l‟anyad, l‟alienum, l‟aliud valde, l‟estraneo straniero [...] assolutamente
fuori dell‟ordinario e con l‟ordinario in contrasto, e ricolmante quindi lo spirito di
sbigottita sorpresa»31. Davanti a un simile evento, «le raffigurazioni degli spiriti e
23
Op. cit., pp.30 ss., p.94, pp.36-37.
Op.cit., p.62.
25
Op.cit., p.62.
26
Op.cit., p.22.
27
Op.cit., p.21.
28
Op.cit., pp.22-23, p.48, p.142 e passim.
29
Op.cit., p.20. La sottolineatura è nostra.
30
Op.cit., p.186.
31
Op.cit., p.35.
24
17
le concezioni affini sono piuttosto tutte forme posteriori di “razionalizzazione”, che
tentano di chiarire in una qualsiasi maniera l‟enigma del mirum, e hanno sempre
l‟effetto di indebolire e assottigliare l’esperienza stessa. Da essa rampolla non già
la religione, bensì la traduzione razionale della religione, la quale finisce poi in
una così massiccia teoria, con interpretazioni così banali, che il mistero ne è
decisamente cacciato»32.
Tutto il lavoro compiuto dall‟interpretazione del numinoso si rivela, in
realtà, come lo sforzo malcelato di tradurre un “irrazionale” in “schemi razionali”.
«Le nozioni e i concetti razionali che si sviluppano parallelamente a questo
momento irrazionale dell‟affascinante – [il «tremendo che repelle, ricco di
majestas33»] – e lo traducono in schemi sono l‟Amore e la Misericordia, la Pietà, il
Conforto; tutti elementi “naturali” della comune esperienza psichica, solamente
pensati nella perfezione»34.
Il “numinoso”, per la sua sovrappotenza ingovernabile, da un lato, può
conoscere un climax discendente di “addolcimenti” emotivi (climax che si sviluppa
nel trasmutarsi evolutivo e continuo da un sentimento a un altro «in rapporto col
cambiamento delle circostanze in cui mi muovo, attraverso il lento affievolirsi
dell‟uno e l‟acuirsi dell‟altro»35: «anche il sublime è genuino “schema” [ossia
traduzione concettuale] del sacro stesso»36).
Dall‟altro lato, lo stesso “numinoso” abbisogna, per così dire, di un lavoro
progressivo di neutralizzazione. Tutto il lavoro di traduzione concettuale – sia la
riconduzione complessiva a un insieme di categorie ontologiche, sia la riconduzione
complessiva a un insieme di categorie razionali, sia l‟articolazione in distinte
categorie ontologiche e razionali – tutto questo lavoro si rivela, in realtà, in quanto
fenomeno di progressiva “comprensione”, fenomeno di progressiva neutralizzazione
(«Di uno spirito “compreso” non si ha più terrore, come mostra lo spiritismo. Cessa
32
Op.cit., pp.35-36. Il corsivo nostro.
Op.cit., p.43.
34
Op.cit., p.43; vedi anche p.29.
35
Op.cit., p.55 e p.56.
36
Op.cit., p.58; vedi anche p.57 e p.54.
33
18
pertanto di costituire argomento di indagine religiosa»37). E, si potrebbe aggiungere,
se la ragione è comprensione progressiva del numinoso come primus movens
dell‟uomo, che all‟uomo fa problema, l‟elaborazione dei concetti primi dell‟uomo –
esprimentesi nei concetti ontologici primi – non è se non elaborazione delle prime
articolazioni del numinoso. «...le idee razionali dell‟assolutezza, della completezza,
della necessità, della sostanzialità come quella del buono, quale valore assoluto e
oggettivamente, validamente cogente, non si “evolvono” affatto da una qualsiasi
percezione sensibile. Ed una qualsiasi “epigenesi” o “eterogonia”, come del resto
qualunque altra formula sia adoperata di compromesso e di incertezza, non fanno
altro che mascherare il problema. Il rifugiarsi nel greco non è qui, come in molte
altre occasioni, se non un confessare la propria insufficienza. Noi veniamo respinti
da ogni percezione sensibile, per ripiegarci su quel che è indipendente da ogni
“esperienza esteriore” e poggia sulla “ragion pura” dello spirito con il suo potere più
originale»38. In realtà, l‟“assoluto”, il “necessario”, il “trascendente”, pur indicando
il “soprarazionale” – l‟“irrazionale” – sono, a guardare a fondo, idee razionali. Il
“modo” – neutralizzando il “come” – trasforma il “che”.
Si tratta, a ben vedere, del surrettizio e progressivo processo di
«moralizzazione del divino»39: là dove «attraverso tutte le molteplici sembianze si
effonde, collegato intimamente, un impulso singolarmente potente di un Bene che
solamente la religione conosce e che è sostanzialmente irrazionale. Lo spirito lo
avverte alla maniera di un presentimento e lo scopre attraverso oscuri e insufficienti
simboli espressivi»40.
L‟uomo, consegnato al fatto della propria soccombenza al numinoso – alla
irresistibile sua tremendità – deve poterglisi affidare. Non può non farlo. Deve poter
(anche) scegliere di farlo. A ben vedere, tutto il percorso di discussione medievale
intorno ai concetti di “Potestas absoluta” e di “Potestas ordinata” – tutto il
plurisecolare dibattito fra il “volontarismo teologico” e il “razionalismo teologico”
37
Op.cit., p.185.
Op.cit., p.114.
39
Op.cit., p.134.
40
Op.cit., p.48.
38
19
(“Dio vuole il Bene perché è Bene oppure, all‟inverso, il Bene è Bene perché Dio lo
vuole?”) – non sono che un travagliato commentario a questo problema, in cui
giocano non solo tonalità interpretative variegate ma Stimmungen diverse di
temperamenti teoretici.
Se il “numinoso” è, nella sua pienezza, il “mistero tremendo” della
“sovrappotenza” – ciò che è attraente e terrifico, «ciò che sgomenta», l‟«irrazionale»
nella sua radicale pienezza41 –, d‟altra parte, la ricerca dei predicativi “razionali” del
“numinoso” ne costituisce una sostanziale interpretazione neutralizzatrice42.
«Anche se i predicati razionali sono generalmente collocati in prima linea, essi
esauriscono così poco la nozione integrale del divino, da risultare validi solo come
attributi di un irrazionale»43.
Un possibile banco di prova è, in questo senso, l‟impresa filosofica di Hegel.
Dice Otto: «In Giovanni il cristianesimo assimila dalle religioni rivali luce e vita e a
pieno diritto, poiché solo nel cristianesimo luce e vita si trovano a casa loro. Ma che
cosa sono luce e vita? Chi non lo sente è di legno. Ma nessuno può dirlo. Sono
un’esaltazione dell’irrazionale. Non si creda che tutto ciò non sia vero anche per
quell‟inciso giovanneo, al quale i razionalisti amano riportarsi con più vivo
compiacimento: “Dio è Spirito”(IV, 24). A queste parole faceva appello Hegel per
riconoscere e proclamare il cristianesimo come la religione più sublime, perché la
genuinamente spirituale, poggiante cioè su Dio come Spirito, vale a dire come
assoluta ragione. Ma questo si chiama grossolanamente fraintendere poiché,
parlando di Spirito, Giovanni non pensa affatto all‟assoluta ragione, bensì a ciò che
è in assoluto contrasto con tutto il mondo, con ogni carne, all‟essenza cioè
puramente celestiale e miracolosa, a tutto ciò che è misterioso e sorprendente, a ciò
che è al di là di ogni comprensione e di ogni intelligenza umana. Ha di mira cioè lo
Spirito che “dove vuole, soffia. Tu cogli molto bene la sua voce, ma non sai donde
41
Op.cit., p.68.
Op.cit., p.54, p.62, p.71, p.48, p.16.
43
Op.cit., p.16.
42
20
venga e dove si diriga”... Onde quell‟inciso, dall‟apparenza tutta razionale, richiama
nella maniera più vigorosa l’irrazionale dell’idea biblica di Dio»44.
Si capisce, quindi, come «nell‟esperienza religiosa di Lutero [...] è l‟armonia
dei contrasti che forma l‟intima essenza nella religione di Lutero»45.
L‟«irrazionale» di Otto – il “numinoso” in quanto “irrazionale” – non è,
quindi, il “non razionale” in quanto opposto al “razionale”; né è il “non razionale”
in quanto distinto dal razionale; non è nemmeno il “non razionale” in quanto “soprarazionale”: ma è, invece, la sovrappotenza percepita e vissuta in quanto anteriore a
tutte queste distinzioni/articolazioni. Il numinoso è – da un punto di vista che sappia
di essere ex post, a valle della loro possibile articolazione – il venire a coincidere e a
combattersi di quelle specifiche articolazioni di cui, guardando appunto ex post, si è
tentati, a torto, di ritenere la preesistenza. Siamo, anche da questo punto di vista,
davanti al venire a coincidere e a combattersi di dimensioni risonanti insieme:
davanti a un “simbolo”46.
Potrebbe anche dirsi: l‟esserci umano, sconvolto dalla forza del numinoso –
in quanto lo nomina e in quanto attiva, nel nominarlo, la “funzione simbolica” che
lo dice (quella funzione di cui, nel suo richiamo a Lacan/Heidegger/Hegel, parla
Bruno Romano) – lo “trova” simbolo. Lo inventa/trova come “simbolo”. Come
espressione di una forza che cerca una forma – un segno un nome una
rappresentazione mentale un‟idea – che ne ri-generi e faccia risonare la forza.
In questa prospettiva gli attributi ontologici di “Potenza”, di “Ordine”, di
“Bene”, di “Giusto”, di “Bello” si rivelano, in realtà, progressive enucleazioni –
“estrazioni” – di idee “razionali” dal costato del numinoso. Mettendo il
“numinoso” in regolato assetto di “ragione”. E potremmo, qui, accorgerci di aver
nominato – per un caso che non è un caso – alcuni dei medievali “trascendentali”
dell‟“Essere”.
44
Op.cit., p.98.
Op.cit., p.104.
46
Ci permettiamo rinviare a Giuseppe LIMONE, Dimensioni del simbolo, cit.
45
21
Ma che cosa sono queste progressive estrazioni dal costato del Numinoso?
Esse non sono, in realtà, meri concetti razionali: sono simboli. La Potenza è
simbolo. L‟Ordine è simbolo. Il Bene è simbolo. Il Giusto è simbolo. Il Bello è
simbolo. Sono “rappresentazioni mentali” – segni – in cui si dà e risuona, del
simbolo, una forza fascinatrice.
Ma che cosa accade se questi “simboli”, razionalmente distinti, vengono
riconnessi al loro fuoco comune? Che cosa accade nell‟“intersecarli”? Dire
“Ordine” della “Potenza” significa dire che in essa è leggibile una Lex (ossia: non le
appartiene il Tremendum dell‟Imprevedibile). Dire “Bene” dell‟“Ordine” significa
dire che in questa Lex è leggibile un “Bene”, un “Giusto” (ossia: non le appartiene
il Tremendum del Male). Dire “Bello” di questo “Giusto” significa dire che il suo
“Fascinare” è positivo (ossia: non gli appartiene il Tremendum dell‟Orrido). Sono le
Indistinzioni tremende che vivono negli Dei indoeuropei di cui si è occupata la più
agguerrita critica antropologica (vedi Kerenyi, Dumézil, Zimmer, Eliade, etc.) 47.
Ma dire questi attributi nella loro distinzione (formale, o modale, o
accidentale) – se non nella loro separazione – significa dire che questi attributi
possono essere còlti anche nella loro relativa autonomia (dire “Potenza” non
significa
necessariamente
dire
“Ordine”;
dire
“Ordine”
non
significa
necessariamente dire “Giusto”; dire “Giusto” non significa necessariamente dire
“Bello”). Non solo. Impiegare questi attributi significa dire che il “Numinoso” è
stato messo in assetto di ragione. In articolato, addomesticato, neutralizzato assetto
di “Ragione”.
È evidente che – in questa specifica forma in cui l‟emozione, il fatto e il
valore si dànno come un tutt‟uno indistinto nella “reazione radicale dell‟anima”,
anteriore a ogni articolazione – in questa forma la distinzione razionale moderna tra
“fatto” e “valore” non ha senso. E si rivelerebbe anzi, in questo punto specifico,
connotata da una paradossale fallacia: una fallacia razionalistica che deriva dalla
tentata cancellazione della potenza energetica di cui ritiene di parlare.
47
Vedi, fra gli altri, Georges DUMÉZIL, Gli dei sovrani degl’indoeuropei, Einaudi, Torino
1985.
22
In sintesi, la genealogia del simbolico dal numinoso ci fa scoprire che una
potenza energetica non può essere tradotta in semplici forme concettuali senza che
la stessa potenza sia tradita. Il simbolo, l‟espressione simbolica intende trasmettere
quella forza rispetto alla quale il concetto non è adeguato.
4. Due criteri indipendenti: il grado energetico e il tratto identitario
Ci preme, a questo punto del discorso, istituire due criteri indipendenti. La
potenza, se si trae spunto dal discorso di Otto sul numinoso, può declinarsi secondo
due criteri indipendenti fra loro. Il primo criterio istituisce una distinzione per tratti
identitari; il secondo una distinzione per grado energetico. In base al primo criterio,
distingueremmo una potenza assoluta, un ordine (inteso come potenza ordinata) e
una giustizia (intesa come potenza ordinata, il cui ordine sia giusto). In base al
secondo criterio, distingueremmo una scala in cui al primo livello si trova l‟energia,
al secondo livello si trova l‟idea intesa come traccia energetica e al terzo livello il
concetto come traccia spenta e conclusa di quella energia e di quella idea. I due
criteri, pur indipendenti fra loro, vanno ulteriormente guardati nel loro incrocio.
Consideriamo innanzitutto che, in base al primo criterio, la potenza rappresenta il
tratto identitario del religioso e/o del politico, l‟ordine rappresenta il tratto
identitario del diritto e l‟ordine giusto il tratto identitario dell‟etica, dell‟etica in
quanto giustizia interiorizzata. In un tale contesto di riferimenti, la potenza, tratto
distintivo del religioso e/o del politico, si declinerà secondo il grado dell‟energia,
dell‟idea e del concetto; e, secondo la stessa struttura, si declineranno l‟ordine
(come istanza giuridica) e la giustizia (come istanza etica). Tutto ciò significa che il
potere politico, il diritto e la giustizia potranno declinarsi secondo tre distinti gradi
(energia, idea, concetto). L‟energia, così, progressivamente si depotenzia in idea e
in concetto. Essa, nel depotenziarsi in idea, lascia traccia di sé all‟interno di un
noema che, da un lato, conserva un minimo energetico e, dall‟altro, si apre a una
direzione, incarnandosi in un contenuto noematico senza chiudersi in una forma
completa. Al primo grado energetico si realizza l‟accadere di una potenza cui
23
corrisponde la scossa di un vissuto; al secondo grado energetico si realizza un
contenuto noetico aperto e direzionato; al terzo grado energetico si realizza un
contenuto noetico definito e completo. Esempio istruttivo di questo paradigma può
essere dato dal tratto identitario del diritto, che nel suo grado energetico massimo è
valore, nel suo grado energetico intermedio è principio e nel suo grado energetico
minimo è norma48. Naturalmente, stiamo qui parlando del “valore” non come
semplice noema, ma come potenza vissuta di cui si sente la scossa emozionale in
atto. In un tale contesto e in una tale scala, il valore si incarna attraverso quei
princìpi che sono un apparire dell‟idea e s‟incarna, in un passo ulteriore, in quelle
norme che sono un precisarsi e circostanziarsi del concetto. In definitiva, il valore
sta al principio e alla norma come la potenza emozionale sta all‟idea e al concetto.
La potenza del politico può pertanto guardarsi secondo il grado dell‟energia,
dell‟idea o del concetto, così come accade dell‟ordine in cui si sostanzia il diritto e
dell‟ordine giusto in cui si sostanzia l‟etica. In un tale contesto di riferimenti, il
primo grado esprime il livello simbolico, il secondo grado segna il livello ideale e il
terzo grado definisce il livello concettuale. Potremmo anche dire, in una tale
prospettiva, che il primo grado esprime il livello del simbolico forte e il secondo
grado il livello del simbolico debole, laddove nel terzo grado il simbolico,
depotenziandosi, si spegne. Dal primo livello al terzo un‟energia si spegne in un
noema concluso; dal terzo livello al primo un noema si apre e acquista forza di
vissuto.
In una tale ottica, quando si parlerà di potere politico (nel senso della
potenza), di diritto (nel senso dell‟ordine) e di etica (nel senso della giustizia),
bisognerà precisare a quale livello energetico ci si colloca nell‟impiegare questi
nomi.
L‟intera prospettiva qui delineata potrà rappresentarsi sinotticamente
secondo un quadro in cui in una prima riga saranno collocati i tre tratti distintivi
48
Su questo percorso ci permettiamo richiamare Giuseppe Limone, Tra il principio dell’intero e
il principio dell’eccezione: l’equità dell’etica, l’etica dell’equità, in L’era di Antigone. L’etica
dell’equità, l’equità dell’etica,Vol. 4.1, a cura di Giuseppe Limone, Quaderni del Dipartimento di
scienze giuridiche, FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 9- 44.
24
(potenza, ordine, giustizia), mentre in una seconda e in una terza riga saranno
indicati i livelli del loro progressivo depotenziarsi (energia, idea, concetto). In una
tale rappresentazione s‟incroceranno così i due criteri, fra loro indipendenti, dei
tratti identitari e del grado energetico di riferimento.
In un tale quadro d‟insieme, per quanto riguarda il diritto, distingueremo
pertanto un vissuto dell‟ordine giuridico (livello simbolico in senso forte), un‟idea
dell‟ordine giuridico (livello simbolico in senso debole, quello dei princìpi) e un
concetto dell‟ordine giuridico (livello dell‟ordine normativo concreto).
Proponiamo, per una migliore comprensione del percorso, la seguente tavola
sinottica:
POTENZA (POLITICA)
ENERGIA
IDEA
CONCETTO
ORDINE (DIRITTO)
GIUSTIZIA(ETICA)
VISSUTO DI POTENZA
VISSUTO DI ORDINE
(POTERE POLITICO COME
FORZA IN ATTO)
(ORDINE COME PIANO
DEI VALORI)
VISSUTO
DI GIUSTIZIA
IDEA DI POTENZA
IDEA DI ORDINE
(POTERE POLITICO COME
PRINCIPIO)
(ORDINE COME PIANO
DEI PRINCIPI)
CONCETTO DI POTENZA
CONCETTO DI ORDINE
(POTERE POLITICO COME
COMANDO
CONCETTUALIZZATO)
(ORDINE COME PIANO DELLE
NORME)
(ORDINE GIUSTO COME
VALORE)
IDEA
DI GIUSTIZIA
(ORDINE GIUSTO COME
PRINCIPIO)
CONCETTO
DI GIUSTIZIA
(ORDINE GIUSTO COME
CONCETTO)
5. Una prospettiva del giuridico
Per cogliere più significativamente l‟incrocio fra il “simbolico” e il
“giuridico”, preferiamo sperimentare, in un tale contesto di premesse, la teoria
analitica dell‟autore che forse più potentemente degli altri non si presterebbe a
quest‟incrocio: il teorico del diritto Hans Kelsen. Talvolta, affrontare il leone nella
sua tana è il miglior modo per saggiarne la ferocia.
Vediamone uno dei punti capitali: la cosiddetta “norma fondamentale”. La
“norma fondamentale” di Kelsen costituisce, per molteplici aspetti, un paradosso.
Essa ha attirato gl‟interessi e i fulmini dei critici più agguerriti, critici che hanno
25
preferito,
per
saggiare
la
teoria
kelseniana,
proprio
intorno
a
questa
“fondamentalità” stringere l‟assedio. La norma fondamentale è un paradosso. Anzi,
un labirinto paradossale. La sua “sperimentazione mentale” è, però, produttiva. Essa
ci consente di guardare in controluce Kelsen e i suoi critici. E, forse, ci consente di
chiarificare, attraverso una scomposizione prismatica di Kelsen, la distinzione che la
teoria politica cerca fra “obbligo politico” e “obbligo giuridico”. Anzi: fra obbligo
giuridico, obbligo politico e obbligo morale.
In sede analitica, il primo paradosso è, come è noto, quello del potere: si
obbedisce perché c‟è il potere o c‟è il potere perché si obbedisce? Oppure, nei
termini di Carlo Marx: è il re che fa i sudditi o sono i sudditi che fanno il re?
Ma il problema della “norma fondamentale” kelseniana è più complesso.
Essa, infatti, come è noto e come Kelsen più volte precisa, non è “posta” dal potere,
ma “presupposta” dallo scienziato del diritto.
È noto che, in questa chiave, viene scartata la tesi interpretativa – che per via
obliqua sempre si riaffaccia (vedi lo stesso Capograssi su Kelsen49) – per la quale
tesi la “norma fondamentale” fonderebbe il sistema giuridico posto o, addirittura,
fonderebbe il potere costituito che si è imposto. A una simile tesi, che contesta a
Kelsen di fondare il diritto sulla mera potenza, Kelsen sempre risponderebbe: «La
norma fondamentale della dottrina pura del diritto non è affatto un diritto diverso
dal diritto positivo, ma è soltanto il fondamento, la condizione logico-trascendentale
della sua validità e, come tale, non ha un carattere etico-politico, bensì
epistemologico»50.
Ma se la “norma fondamentale” è solo l‟ipotesi “logico-trascendentale” che
lo scienziato del diritto presuppone per dare unità e validità al sistema giuridico da
lui studiato, perché Kelsen la chiama “norma”? Essa dovrebbe essere la
proposizione descrittiva di una norma: ossia, la proposizione descrittiva di una
49
Giuseppe CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, in ID:, Opere, vol.V, Giuffrè,
Milano 1959, p. 313 ss.
50
Hans KELSEN, Il problema della giustizia, Einaudi, Milano 1975, p.125, ed.or. Wien 1960. Su
alcuni profili problematici della norma fondamentale, vedi anche le osservazioni di Francesco
GENTILE, Intelligenza politica e Ragion di Stato, Giuffrè, Milano 1984, p.147 ss..
26
proposizione prescrittiva. Ma una proposizione descrittiva non è una “norma”. La
Soll-Satz non è la Soll-Norm. In realtà, Kelsen sembra chiamarla “norma” non solo
perché si tratta di una proposizione che descrive una proposizione prescrittiva (sorta
di “immagine specchiante” che si confonde con l‟“oggetto specchiato”), ma perché
tra le condizioni costitutive del suo essere ciò che è (del suo essere, cioè, la
proposizione descrittiva fondamentale del sistema) c‟è che l‟altra “norma
fondamentale” – la “norma fondamentale” non in senso kelseniano: la norma posta
dal potere effettivo – sia effettiva, sia cioè effettivamente obbedita. Chiamare
“norma” l‟ipotesi logico-trascendentale che è a fondamento dell‟unità e della
validità del sistema è, in realtà, la strategia teorica obliqua attraverso cui Kelsen in
forma brachilogica e in modo indiretto suggerisce che essa è ipotesi fondamentale
che rispecchia – “riflette” – una norma: quella del potere costituito. La cosiddetta
“norma fondamentale” è una “proposizione” (logica) fondamentale che rispecchia
una “norma” (fondamentale) “reale”. Infatti, Kelsen esplicitamente nota che, se una
rivoluzione riesce, e quindi il potere costituito cambia, anche la “norma
fondamentale” cambia: perché, essendo cambiata la “norma fondamentale” “reale”,
non può non cambiare la cd. norma fondamentale – la „norma logica‟ – che la
“riflette”51.
Ora, la “norma fondamentale” di Kelsen descrive quella specifica “norma”
che comanda di obbedire all‟ordinamento in quanto l‟ordinamento è effettivamente
obbedito. Ossia, la cd. “norma fondamentale” descrive una norma che comanda di
obbedire poiché di fatto già si obbedisce. Comandare di obbedire perché di fatto già
si obbedisce sembra un assurdo. In realtà, si tratta di una “duplicazione”: 1) non
assurda, perché tratta di una traslazione dal piano reale al piano logico; 2) non
inutile: a. perché l‟obbedienza di fatto di cui si parla è “a grandi linee”, e perciò fra
l‟obbedienza in re e l‟obbedienza intimata c‟è una differenza strutturale52; b. perché
l‟obbedienza realizzata a grandi linee, qui e ora, non implica necessariamente il
permanere di questa situazione nel tempo; 3) tecnicamente pertinente, perché il fine
51
52
Hans KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1952, pp. 99 ss.
Vedi, in proposito, H.KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit.
27
(anche razionale) della duplicazione logica è quello di far reagire, attraverso gli
operatori giuridici, l‟ordine logico sull‟ordine reale rendendolo ordine tecnologico
(potrebbe, qui, rivelarsi, per certi aspetti, l‟efficacia teorica della “funzione
simbolica” di cui parla Bruno Romano53).
6. Una genealogia del giuridico
Ma la “norma fondamentale” effettiva – quella intesa in senso non
kelseniano, di cui la cosiddetta “norma fondamentale kelseniana” è la “descrizione
logica” – non è l‟atto del potere costituente. Non è l‟atto del potere costituente,
perché Kelsen più volte nettamente distingue fra “decisione” e “norma”, fra
“volontà” e “norma”, fra “decisore” e “norma”. La “decisione”, la “volontà”, il
“decisore” esistono hic et nunc: sono fatti esistenziali. La “norma”, invece, è
“depsichizzata”, trascende l‟hic et nunc, si colloca in un ordine spaziotemporale
(fatto di “coerenza” e “stabilità”) che prescinde dagli accidenti dell‟atto decisorio,
dallo psichismo della volontà, dalla morte del decisore54. Si noti. La “norma” si
differenzia dalla “decisione”, dalla “volontà”, dal “decisore”, non perché sia
“generale e astratta” laddove la “decisione” e la “volontà” tali non sarebbero. Una
simile interpretazione, infatti, riguarderebbe solo il Kelsen degli Hauptprobleme,
quello pre-merkliano, che vede nella “norma” dello Stato solo quella “generale e
astratta”. Ma, qui, la distinzione fra “norma” da una parte e “volontà/decisione”
dall‟altra riguarda tutto Kelsen, ossia anche il Kelsen “merkliano”, quello che vede
come “norma” anche la “norma individuale”. Infatti, qui la distinzione significa che
la “norma” posta dalla decisione, dalla volontà, dal decisore è istitutiva di un
ordine: e va quindi guardata “come se” la decisione fosse depsichizzata, “come se”
la volontà fosse devolontarizzata, “come se” il decisore non morisse più. La
decisione è “esistenzialità” hic et nunc, la norma è “ordine”.
53
Vedi, in proposito, Bruno ROMANO, Per una filosofia del diritto nella prospettiva di Jacques
Lacan, cit.
54
Su questi profili critici della norma fondamentale e dell‟ordinamento, vedi anche: Alfonso
CATANIA, Il diritto tra forza e consenso, ESI, Napoli 1987; ID:, Manuale di teoria generale del
28
Ma c‟è da chiedersi: quando Kelsen, parlando degli effetti, ai fini della
dottrina pura del diritto, di un movimento riuscito di rovesciamento del potere55,
afferma derivarne che «cessa l‟ordinamento antico e comincia ad avere effetti il
nuovo»56, compie un passaggio analiticamente rigoroso? Noi non lo crediamo. Che
dall‟imporsi di un potere esistenziale derivi l‟imporsi di un ordine (dire
“ordinamento” è dire “ordine”) – e che quindi il “comando” esistenziale, hic et
nunc, di questo nuovo potere si trasformi direttamente nella “norma” che costituisce
il suo “ordine” – è passaggio improprio. Tanto più insidioso perché apparentemente
innocente. Infatti, dire che quel nuovo potere effettivo, in quanto si è imposto,
costituisca “ordinamento”, e quindi “norma”, e quindi “ordine”, significa implicare
che chi a quel potere obbedisce in quanto gli si è imposto, lo viva “come se” fosse
“depsichizzato”, “come se” emanasse norme indipendenti dalla vita concreta di chi
di fatto esistenzialmente comanda. Significa, cioè, dire che il potere esistenziale,
reale, è visto “come se” fosse “ordinamento”. Significa dire che chi a questo potere
obbedisce già gli sta conferendo il senso – duraturo e depsichizzato – di
“ordinamento”. Ma, sul piano logico, “non” c‟è passaggio logico “immediato” –
non c‟è “deducibilità logica” – dal “potere esistenziale” al suo “ordine”. E ciò in due
sensi. 1) Non c‟è passaggio – non c‟è “deducibilità logica” – dal punto di vista degli
“attori consocianti”, ossia di quelli che, istituendo il potere, ipso facto istituiscono i
correlativi consociati: non si spiegherebbe, infatti, come si potrebbe passare dal
qualificarlo “potere esistenziale” al qualificarlo “ordinamento”. 2) Né c‟è passaggio
dal punto di vista dei “consociati”: perché, come Wittgenstein osserva, dai
comportamenti dei soggetti “non” possono inferirsi le regole osservate (Amedeo
Conte)57.
diritto, Laterza, Roma-Bari, 1998; spc. ID., Manuale di filosofia del diritto, ESI, Napoli 1995, p.
180 ss., p. 188 ss., p. 208 ss., p. 219 ss.
55
H.KELSEN, Enleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, Franz Deuticke Verlag,
Wien 1934, tr. it. Lineamenti di dottrina pura del diritto, cur. Renato Treves, Einaudi, Torino
1952, pp. 99 ss.
56
Op.cit., p. 99. La sottolineatura è nostra.
57
Per alcuni contributi di Amedeo G. Conte, vedi in AA.VV., Problemi di teoria del diritto, a
cura di Riccardo Guastino, Il Mulino, Bologna 1980 (pp. 197 ss. e pp. 325 ss); Fenomeni di
fenomeni, in «Riv.int.le di fil.diritto», 1986, pp. 29 ss.
29
Ma, se passaggio (non logico ma) di fatto c‟è, un tale passaggio può essere
osservato solo richiamando un livello che Kelsen non richiama: il “simbolico”.
Infatti, perché il potere esistenziale possa “diventare” ordinamento, occorre che sia
visto “come se” lo fosse. Occorre che gli sia dai consociati riconosciuta/conferita la
forza del suo costituirsi così: come “ordinamento”. Occorre che i consociati se lo
rappresentino e lo vivano come ordinamento58. Ma, perché ciò avvenga, occorre che
accada il fenomeno complesso per cui il rappresentarsi il Potere come Ordinamento
da parte di ogni consociato divenga, in risonanza a spirale con quello di ogni altro,
un rappresentarsi – in larga misura – condiviso, ossia una forza.
Per passare dal “potere esistenziale” alla “norma” dal punto di vista logico,
si esige che il “deciso” dal potere esistenziale sia guardato “come se” fosse norma.
Per passare dal “potere esistenziale” alla “norma” dal punto di vista del fatto, si
esige che il “deciso” dal potere esistenziale sia vissuto “come se” fosse norma. E
perché accada tutto questo, occorre che questi sguardi e questi vissuti entrino – sia
gli uni sia gli altri – in risonanza al loro interno in un fenomeno condiviso come
forza interiorizzata. Qui il simbolico non si “vede”. Ma il “simbolico” è un
assassino che non lascia tracce.
La norma fondamentale rivela, quindi, a uno sguardo attento, un triplice
strato: 1) una proposizione descrittiva – ipotesi logico-trascendentale del sistema
scientifico – che descrive; 2) una norma “fondamentale” effettiva, prescrittiva,
quella “posta” dal costituirsi simbolico del potere come “ordine”, come
“ordinamento”: una norma “fondamentale” effettiva che ri-dice con forza simbolica
(“come se” istituisse un ordine permanente e depsichizzato); 3) il comando concreto
che con forza reale nell‟hic et nunc si sostanzia nel potere costituito che dice:
“obbedisci”.
E viceversa: il “comando” esistenzialmente concreto che con forza reale
nell‟hic et nunc il potere costituito impone (“obbedisci a quanto comando”) diventa
– nel suo depsichizzarsi e devolontarizzarsi – norma di pari contenuto (“obbedisci a
58
Per l‟importanza, in Kelsen, della “rappresentazione mentale” come fattore direttamente
produttivo, vedi Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 146 ss.
30
ciò che il potere costituito comanda”). La quale norma, avvenuta questa
morfogenesi, diventa a sua volta l‟“oggetto” che la proposizione descrittiva
fondamentale del sistema kelseniano – la “norma” fondamentale – descrive.
Tutte le costruzioni analitiche condotte nell‟interpretazione di Kelsen si
arenano dentro il labirinto del rapporto fra l‟“empirico” e l‟“analitico”, fra il
“logico” e lo “sperimentale”, perché epistemologicamente si autoinibiscono di
aprirsi lo spazio teorico a quel livello senza il quale non c‟è possibile passaggio: il
“simbolico”, un simbolico rappresentato dall‟idea di ordine che si costituisce come
forza interiorizzata. Non c‟è, infatti, solo la fallacia naturalistica del passaggio
ingiustificato dall‟“essere” al “dover essere” perché, in un‟indagine che si svolga sul
“reale funzionamento del reale”, l‟invocazione della “fallacia naturalistica” è
un’antifallacia fallace. Non c‟è, infatti, solo la fallacia naturalistica del passaggio
ingiustificato dall‟“essere” al “dover essere”: c‟è anche la fallacia razionalistica
della separazione ingiustificata fra queste supposte articolazioni del reale59.
In realtà, Kelsen stesso, pur non individuando questo spazio teorico nella
sua autonomia e pur non chiamandolo “simbolico”, è sotterraneamente consapevole
della natura simbolica del problema: «Tutte le manifestazioni esterne, in cui si suole
ravvisare la forza dello Stato, le prigioni e le fortezze, le forche e le mitragliatrici,
sono di per sé oggetti inanimati. Si trasformano in strumenti della forza dello stato
soltanto quando gli uomini si servono di essi nel senso di un determinato
ordinamento,
soltanto
quando
questi
uomini
sono
determinati
dalla
rappresentazione di questo ordinamento e dalla credenza di dover agire
conformemente ad esso»60. Qui Kelsen sta dicendo che il complesso degli oggetti
inanimati è, al tempo stesso, vissuto di un ordine che s‟impone e idea di un ordine
che s‟impone.
Se vediamo la questione da un altro punto di vista, quello di un‟analitica
dell‟“esserci”, possiamo osservare che, se è vero che l‟attore sociale “può” obbedire
59
Si guardi, in proposito, a tutte le costruzioni analitiche su Hobbes, e al loro arrestarsi davanti al
paradosso dell‟“Hobbes logico” in quanto spiega e presuppone l‟“Hobbes realista”: e si pensi, in
questo senso, al significativo rapporto Hobbes-Schmitt.
60
H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura, cit., p. 146. Le sottolineature sono nostre.
31
e “può” non obbedire a un potere che gli s‟imponga come tale, e se è vero quindi
che egli non “deve” obbedire – non è necessitato a obbedire – al potere esistenziale
che gli s‟imponga come tale, perché non è un automa, è vero altresì che l‟attore
sociale deve poter obbedire a un potere che gli s‟imponga come tale. Nel
concentrarsi – nella struttura del potere costituito – del venire a coincidere e del
combattersi fra il poter obbedire, il poter non obbedire e il dover poter obbedire –
c‟è un annuncio della sua simbolicità sociale condivisa, derivante dal vissuto della
forza ordinante e dall‟idea della forza ordinante. Detto in altri termini, l‟obbligo
politico corrisponde al “simbolo” della “potenza”, l‟obbligo giuridico al “simbolo”
dell‟“ordine” in quanto tale (non l‟“ordine giusto” ma l‟“ordine”), l‟obbligo morale
al “simbolo” dell‟“ordine giusto”. In ogni caso, quando diciamo simbolo,
intendiamo dire forza, non concettualmente metabolizzabile, ossia non riducibile a
mera concettualizzazione. Su questa falsariga, una possibile distinzione fra “obbligo
morale”, “obbligo politico” e “obbligo giuridico” è avvistata.
In questo contesto, siamo davanti a tre forme del dovere. Nel dovere etico si
dà un dovere realizzato secondo la modalità della convinzione; nel dovere giuridico
si dà un dovere realizzato secondo la modalità di una persuasione rinforzata
attraverso un ordine interiorizzato (ordine sia come vissuto, sia come idea); nel
dovere politico si dà un dovere realizzato secondo la modalità di una costrizione
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Se vediamo, infine, la questione da un ulteriore punto di vista, quello del
modello epistemologico adottato, può osservarsi che, nella successione dei modelli
conoscitivi che hanno caratterizzato, nel suo processo plurisecolare, la scienza,
questa è passata da un “trovare” l‟ordine (Aristotele, Tommaso d‟Aquino) a un
“conferire” l‟ordine (Kant) fino – col neokantismo della Scuola di Marburgo (si
pensi a Cohen, di cui Kelsen è epistemologicamente debitore) – a un “produrre”
l‟ordine come ordine formale del discorso indipendentemente dall‟oggetto empirico
di riferimento.
In realtà, sia che la scienza trovi l‟ordine sia che lo conferisca sia che lo
produca come puro ordine formale, è sempre dell‟“ordine” che si tratta, dell‟idea di
32
ordine: ossia del (surrettizio) trànsito di un medesimo nocciolo simbolico all‟interno
di un diverso modello di conoscenza. In questo senso, se è vero che Kant ha
realizzato una “rivoluzione copernicana” nell‟adottare, rispetto all‟empirico, il
punto di vista del conferire l‟ordine e non quello del trovarlo, la sua rivoluzione
non è tanto copernicana da non ruotare intorno a uno degli antichissimi simboli
della ragione: l‟“ordine”, l’idea di ordine, là dove si dà contemporaneamente un
criterio di regolarità, ripetibilità e prevedibilità in un contesto di coerenza (in cui si
sostanzia un‟idea della ragione). Si tratta di una cosa che vale anche per gli
epistemologi (à la Cohen) nel loro parlare di un ordine formale.
7. Per una disamina dell‟“ordine”
Dicevamo che la “decisione” è “esistenzialità” hic et nunc, laddove la
“norma” è “ordine”. Che la prospettiva di Kelsen sia questa è detto dalla sua
vicenda intellettuale, là dove, in due scritti61, istituendo una precisa analogia fra la
dottrina politica e la teologia (fra lo Stato e Dio62), in questi due specifici scritti
Kelsen si batte contro il dualismo fra Stato e Diritto: «...il peculiare contrasto in cui
la teoria tedesca del diritto pubblico [öffentliches Recht] ha messo il concetto di
Stato col concetto di diritto – in barba a tutte le interne contraddizioni, a dispetto di
tutte le esigenze della logica – si spiega con lo sforzo di rimuovere la costituzione
positiva costituzionale-democratica, il cosiddetto “Stato di diritto”, interpretando
l‟“essenza dello Stato” a favore del principio monarchico-assolutistico dello Stato di
polizia. Dimostrarlo nei fatti sarebbe tanto facile quanto meritevole»63. E ancora64:
«Come Dio per la teologia, così lo Stato è per la dottrina del diritto pubblico, a
rigore, l’unica persona». Mantenere il dualismo fra Stato e Diritto significa pensare
61
Hans KELSEN, Il rapporto fra Stato e Diritto dal punto di vista epistemologico, in «Zeitschrift
für öffentliches Recht», Neue Folge, Bd 1, 1921, pp. 453-510, e Hans KELSEN, L’essenza dello
Stato, in «Internationale Zeitschrift für Teorie des Rechts», Bd 1, 1926, pp.5-17: entrambi in
tradotti in Hans KELSEN, L’anima e il diritto, a cura di Agostino Carrino, Edizioni Lavoro,
Roma 1989, di seguito così citati.
62
(«Tra “Dio” e “Stato” non c‟è solo un parallelo logico ma anche una certa relazione reale» Hans
KELSEN, L’anima e il diritto, cit., p. 44; «...la validità dell‟ordinamento normativo, di cui Stato
o Dio sono espressioni» Hans KELSEN, Op.cit., p. 65.
63
Op.cit., p. 47.
33
a uno Stato che, nella sua esistenzialità temporale concretissima, contrasti
perennemente la possibilità di un ordine che lo vincoli, esattamente come, nel
dualismo teologico fra Dio e Natura, Dio, facendo miracoli, si sottrae tutte le volte
che vuole all‟ordine della Natura. Il bersaglio, come è chiaro, è l‟«esistenzialità»
della «decisione politica» à la Schmitt, verso la quale, invece, l‟«ordine giuridico»
deve costituire, per Kelsen, rete di vincolo e contenimento. In una tale prospettiva, il
superamento del dualismo giuspubblicistico, conducendo all‟identificazione dello
Stato con l‟Ordinamento giuridico, costituisce l‟analogo del superamento del
dualismo teologico, che, consumando Dio nella Natura, gli sottrae l‟arbitrio dei
miracoli. Potrebbe dirsi: Dio autore di miracoli sta alla Natura come lo Stato
esistenziale dell‟eccezione (di Schmitt) sta al Diritto (di Kelsen)65.
Quindi, l‟“ordine” della “norma” costituisce vincolo – oggettivo vincolo –
all‟esistenzialità temporale del “potere costituito”, del “potere politico concreto”,
dello “Stato”.
In realtà, il paradosso epistemologico di Kelsen è nel fatto che, mentre
combatte contro la teoria dello Stato metagiuridico per vincolarlo, combatte
contemporaneamente contro la dottrina giusnaturalistica attraverso la tesi secondo
cui il diritto positivo non può essere vincolato. Ma quest‟“ordine”, che può, per
Kelsen, porsi come argine nei confronti dello Stato metagiuridico, non è – non
“può” essere – un “ordine giusto”: è un “ordine”. L‟Ordine non va confuso con
l‟Ordine Giusto. Ma è, pur sempre, Ordine. Si tratta di una “giustizia” sui generis,
consumata in quella proceduralità ripetitiva che costituisce ordine non “sostantivo”,
ma, per così dire, “sintattico”. Si tratta di un ordine che si consuma nel proprio
vincolare ciò che regola attraverso una “regola” qualsivoglia (si veda al rapporto fra
“rex” e “regula”: e alle possibili assonanze metaforiche con la “ruota”)66: regolare il
“da-regolare” producendolo come ordine in atto. Borges, parlando della sua
«Biblioteca di Babele», scrive: «...gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine
64
Op.cit., p. 56, sub nota n. 97.
Sulla significatività forte del rapporto metaforico fra Dio e Stato in Kelsen vedi anche Hans
KELSEN, L’illecito dello Stato, a cura di Angelo Abignente, ESI, Napoli, 1988, p. 25.
66
Sul punto vedi anche Domenica MAZZU‟, Violenza, colpa e riparazione, cit., pp. 203 ss.
65
34
(che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine)»67. Ma che cos‟è mai questo “Ordine”
dissaldato dall‟“Ordine giusto” se non una particolare declinazione del simbolico?
Che cosa è se non una forza del “razionale” intesa come forza regolatrice? Potrebbe
dirsi: “L‟ordine giuridico di Kelsen sta al potere esistenziale di Schmitt come
l‟ordine giuridico dei giusnaturalisti sta all‟ordine giuridico di Kelsen”.
Ma domandiamoci: ha l‟”ordine giuridico” di Kelsen un suo spessore, un
suo specifico – teoricamente collaudabile – spessore nei confronti del “potere
politico esistenziale”?
8. Per una critica dell‟“ordine”
É da dire, però, che Kelsen, mentre combatte la battaglia per la dottrina pura
del diritto – ossia per il superamento del dualismo giuspubblicistico (allo scopo di
conseguire l‟identificazione dello Stato con l‟Ordinamento) –, deve, d‟altra parte,
affrontare l‟altra difficoltà che gli deriva dall‟aver costruito nei Hauptprobleme il
diritto «come sistema formato soltanto da norme giuridiche generali»68. Nella sua
opera accade, cioè, che, «poiché i Hauptprobleme der Staatrechtslehre non avevano
ancora raggiunto la nozione più lata di diritto e si limitavano quindi a prendere in
esame soltanto le norme giuridiche generali, sorgeva una contraddizione: da una
parte, il punto finale dell‟imputazione giuridica non poteva essere fuori
dall‟ordinamento giuridico stesso e quindi si rendeva necessario affermare che stato
e diritto erano tutt‟uno; d‟altra parte, poiché lo stato entra in contatto con la società
soprattutto sotto forma di norme giuridiche individuali, era inevitabile affermare che
esso non coincideva col diritto costituito dalle sole norme giuridiche generali...»69.
Ma, conseguita la nozione più lata di diritto, ossia la nozione per la quale il
sistema delle norme giuridiche generali veniva completato con l‟inclusione delle
«norme giuridiche individuali»70, c‟è da chiedersi: qual è il rapporto logico che si
instaura fra le norme del sistema?
67
Jorge Luis BORGES, Finzioni, tr. di Franco Lucentini, Einaudi, Torino 1995, p. 78.
Mario G. LOSANO, Forma e realtà in Kelsen, Edizioni di Comunità, Milano 1981, p. 28.
69
Op.cit., p. 32.
70
Op.cit., p. 28.
68
35
Amedeo Conte71 ha puntualmente analizzato come l‟identificazione, da
Kelsen posta, fra “validità” ed “esistenza” della norma, reagisca sui rapporti fra
diritto e logica. A prima vista sembrerebbe, infatti, che, ove mai sussistano
proposizioni prescrittive contraddittorie, una delle due sia invalida. «Ma – nota
Conte – Kelsen nega»72. E, in secondo luogo, sembrerebbe che alla proposizione
prescrittiva generale possa applicarsi il principio di inferenza e, quindi, che dalla
validità della prima possa inferirsi la validità della seconda. «Ma – nota Conte –
[anche qui] Kelsen nega»73.
In realtà, il rapporto fra le norme non è rapporto fra meri noemi logici, fra i
quali sussistono il principio di non contraddizione e il principio di inferenza, ma è
rapporto fra esistenti, fra i quali non sussiste né il principio di non contraddizione né
il principio di inferenza: fra i quali, cioè, in caso di conflitto sussiste, come Kant
direbbe, non una contraddizione logica, ma un’opposizione reale.
9. Alcune implicazioni
La (tentata) combinazione del criterio simbolico dell‟“ordine” (deve esserci
un criterio ripetuto nel rapportarsi delle proposizioni prescrittive) col criterio
dell‟“esistenza”, ossia l‟individuazione del criterio dell‟ordine fra esistenti – in
quanto simbolicamente posto – produce alcune importanti conseguenze, a nostro
avviso aporetiche, che non possiamo qui circostanziare, sulla configurazione del
“sistema giuridico”.
1) L‟inesistenza delle lacune. L‟ordinamento viene visto come se la presenza
di lacune fosse puramente ideologica.
2) Una tensione contraddittoria fra la contraddizione fra enti logici e la
contraddizione fra esistenti logici. Si veda, da un lato, la tematica dell‟alternativa fra
“annullabilità” e “inesistenza” degli atti giuridici e, dall‟altro lato, il problema
71
Amedeo G. CONTE, In margine all’ultimo Kelsen, in AA.VV., Problemi di teoria del diritto, a
cura di Riccardo Guastini, Il Mulino, Bologna 1980, pp. 197 ss.
72
Op.cit., p. 197.
73
Op.cit., p. 200.
36
dell‟“illecito dello Stato” (guardato anche sub specie della secolarizzazione
dell‟idea di Dio)74.
3) L‟inserimento della “persona” vista come “ordinamento particolare”
senza che sia sufficientemente fondato perché mai essa costituisca “ordinamento” se
è vero, come è vero, che nelle premesse kelseniane ogni ordinamento deve avere
una “fonte”: e qui la fonte non c‟è75. Potrebbe forse dirsi, in proposito, che
l‟esigenza simbolica dell‟ordine (dell‟idea di ordine), a livello del microsociale fa sì
che un tale “ordinamento particolare” venga presupposto senza fondarlo: effetto
distorsivo, questo, provocato da un certo operare del simbolico all‟interno del
sistema.
4) L‟insufficiente tematizzazione degli esiti teorici della differenza fra il
livello della scienza giuridica in quanto fa parte del diritto concretamente operato e
il meta-livello della stessa scienza in quanto rifletta sul diritto e sul suo operare
(oltre che sul proprio stesso operare di scienza). Infatti, nel caso del diritto come
oggetto scientifico, la scienza che lo riguarda, nel conoscerlo, lo produce.
10. Due questioni
1) Ora, se si tratta di un ordine non fra “noemi logici” ma fra “esistenti
(logici)”, se cioè le proposizioni descrittive delle norme (prescrittive) assumono
queste ultime, le norme prescrittive, “come se” fossero “esistenti” e se le stesse
proposizioni descrittive (del prescrittivo) vengono a loro volta assunte come se
fossero esistenti – ci si domanda: nel momento in cui il sistema giuridico nel quale
si identifica e consuma lo Stato è costituito di norme generali e individuali (che, in
quanto esistenti, ammettono contraddizioni e non rendono logicamente automatiche
inferenze rigorose), quale vincolo costituirebbe mai l’ordinamento giuridico nei
confronti di uno Stato esistenziale metagiuridico privo di vincoli? In altri termini: in
che cosa la kelseniana identificazione fra Stato e Ordinamento giuridico si
74
Sul punto, di veda Hans KELSEN, L’illecito dello Stato, cit.
Vedi «Parolechiave», 10.11.1996, voce Persona, p. 103. L‟obiezione è in F. D‟Alessandro,
Persone giuridiche e analisi del linguaggio, CEDAM, Padova, 1989.
75
37
differenzierebbe rispetto alla schmittiana teoria della predominanza assoluta dello
Stato esistenziale metagiuridico senza vincoli, per arginare il quale Kelsen impiega
l’Ordinamento giuridico che assorbe in sé lo Stato esistenziale? Si risponderà che
una differenza pur rimane: è l‟Ordine. Ma si tratta di un Ordine fortemente
problematico, in teoria compatibile con qualsiasi Dis-Ordine. In ispecie, compatibile
con un qualsivoglia conglomerato di contraddizioni possibili, con un Multiverso di
“disordini”. Un Ordine compatibile con qualsiasi Disordine, quindi, è da trattare
“come se” fosse ordine?
La stessa idea kelseniana per la quale l‟interpretazione è una “decisione” – e
non una “cognizione” – ossia l‟idea che l‟interpretazione sia un‟arbitraria decisione
esercitata all’interno dello schema normativo, cela in realtà il fatto che lo stesso
atto “cognitivo” concernente i limiti dello schema è frutto pur sempre di una
“decisione” che, in teoria, potrebbe, in apicibus, essere in contraddizione con lo
schema.
2) Posta in forma consapevolmente estremizzata, la questione, pur nelle
necessarie relativizzazioni critiche, che qui non si ha il tempo di circostanziare,
appare in questi termini. Delle due l‟una: o Kelsen deve rinunciare al superamento
del dualismo fra Stato e Ordinamento per mantenere l‟ordine giuridico come argine
(“intrinsecamente valoriale” nel suo essere sintatticamente vincolante) nei confronti
di uno Stato esistenziale concreto, fatto di decisioni sovrane arbitrarie e illimitate,
oppure Kelsen deve rinunciare a mantenere l‟ordine giuridico come argine e
realizzare, a questo punto, il superamento (“scientifico”) del dualismo fra Ordine
giuridico e Ordine politico.
In ogni caso, l‟unico vero “residuo” non eliminabile – resto essenziale di un
conflitto epistemologicamente appena governato – appare la messa in circuito –
contro il potere esistenziale hic et nunc, in quanto tale arbitrario – della forza
simbolica del “diritto” percepita come ordine “reale”. O meglio: la messa in circuito
di un “ordine” (del diritto) consumato così tanto al grado zero da divenire simbolo
di sé. E, al tempo stesso, radicale punto interrogativo su di sé.
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Una cosa è certa. Se il Diritto realizza l‟Ordine, l‟idea di ordine, ciò non
significa che l‟Ordine realizzato dal Diritto vada confuso con l‟Ordine giusto. Ma
nemmeno significa, d‟altra parte, che un tal Ordine non abbia un suo specifico quid,
un proprio preciso nocciolo duro di connotati rispetto a un “Sistema” qualsiasi di
arbitrii deliberati. Ci si domanda, infatti: può l‟Ordine costituire un vincolo al
Sistema delle decisioni ove si comporti come un linguaggio compossibile con
qualsiasi “Sistema” di arbitrii decisionali? E, se invece esso non è compossibile con
qualsiasi Sistema di arbitrii decisionali, perché non riconoscere, a questo punto, che
l‟Ordine rivendicato epistemologicamente al diritto celi, in realtà, nel suo fondo –
consapevole o no che ne sia il rivendicante – un Ordine altro, un Ordine come
valore simbolico, un‟idea di ordine che, calata nel Diritto, costituisce pur sempre un
argine rispetto a un Sistema qualsiasi di arbitrii decisionali? Hans Kelsen,
collocandosi fra la polemica contro Schmitt e la polemica contro i giusnaturalisti e
nel passare dalla dottrina premerkliana della norma astratta e generale alla dottrina
postmerkliana delle norme anche individuali, occupa con la sua teoria uno spazio
paradossale. Il positivismo giuridico kelseniano, in quanto positivismo razionale, si
mostra come quello che, in quanto veramente razionale, non riesce ad essere
interamente positivista. Perché, nel caso del diritto come oggetto scientifico, la
scienza che lo riguarda, nel conoscerlo, lo produce. Lo studioso del diritto, nel
momento in cui studia il suo oggetto, non si limita a riprodurlo contemplativamente,
perché partecipa, consapevole o no, alla produzione del diritto che studia, dal
momento che mette in circolo concetti e interpretazioni che modificheranno lo
stesso oggetto studiato. Nel saper questo, il positivismo razionale kelseniano sottace
che l‟ordine razionale non è soltanto un modo del guardare scientifico (nel senso del
guardare contemplativo), ma fa transitare in ciò che è guardato (sia in quanto
conosciuto che in quanto prodotto) l‟ordine simbolico, ossia un‟idea di ragione
come idea della ragione: un Ordine, a cui lo scienziato guardante si è sottomesso nel
guardare. Il positivismo giuridico kelseniano si mostra come quello che, in quanto
veramente giuridico, non riesce ad essere veramente positivista. Perché, nel dire ciò
che dice, cela, nel performativo del suo dire, un‟anima giusnaturalista.
39
11. La ragione della forza, la forza della ragione: oltre la contraddizione?
A ben vedere, Schmitt e Kelsen rappresentano, nel rapporto tra forza e
ragione, due figure esemplari. Esse costituiscono, al massimo livello, modelli
rigorosi per esprimere due ideal-tipi del ragionare.
Ma Schmitt e Kelsen costituiscono, per altri versi, due modelli molto più
vicini di quanto essi stessi sospettino. E, per altri versi, la loro non sovrapponibilità
nasconde una distanza ben maggiore di quanto chi vede la somiglianza sospetti.
Schmitt e Kelsen sono, al tempo stesso, vicini e lontani, il che rende importante
chiarificare la prospettiva in cui sono vicini e quella in cui sono, invece, lontani.
Pensiamo, per progressive approssimazioni, al nocciolo duro del loro
confronto intorno al problema della forza e del diritto. Kelsen pensa che la forza
vada regolata dalla norma, anzi dall‟ordinamento normativo e nell‟ordinamento
normativo. Schmitt pensa, invece, che a fondamento dello stesso ordinamento
normativo ci sia – e nelle condizioni di emergenza si riveli – il potere di chi decide
sullo stato di eccezione.
In una prima approssimazione, potrebbe dirsi che Schmitt pensa alla forza
esistenziale, che si dà qui e ora, mentre Kelsen pensa alla ragione normativa, che si
dà in modo astratto, generale e duraturo, che prescinde dai “qui e ora” anche se tutti
in schema li contiene.
In una seconda approssimazione, però, come si è già detto, può rilevarsi che
la ragione normativa di Kelsen, in quanto ragione del diritto, ha due precisi limiti,
che costituiscono l‟orizzonte della sua identità: da un lato, tale ragione normativa
rifiuta di avere suoi contenuti valoriali, sicché si pone come ragione puramente
procedurale – sintattica – che opera connettendo qualunque contenuto semantico le
norme abbiano secondo i soli criteri della forza gerarchica e delle operazioni
logiche; dall‟altro lato, questa ragione normativa opera a partire dal presupposto di
40
una forza reale che si è trasferita nella forma di una norma fondamentale, di
carattere logico-trascendentale. In questo orizzonte, la ragione formale kelseniana
non è quella ragione umana piena, che presuppone e contiene una forma di vita
secondo la quale procede, riflette, discute valori, esamina criticamente presupposti
epistemologici e assiologici. La ragione formale kelseniana è una ragione scientifica
che proietta e trova nell‟insieme delle disposizioni normative un ordine formale,
cioè proceduralmente costruito secondo i criteri della forza gerarchica e dei
contenuti semantici. Nell‟orizzonte epistemologico di Kelsen, la ragione è dimagrita
fino al punto da diventare puramente calcolante, procedurale.
In una terza approssimazione, può notarsi che Kelsen precisamente reagisce
contro la prospettiva schmittiana. Egli rigorosamente ritiene, cioè, che la sua
prospettiva procedurale, in quanto razionale, rappresenti qualcosa di diverso dalla
prospettiva schmittiana, puramente e consapevolmente esistenziale. Sembra
scorgersi, nella opposizione kelseniana, la convinzione che la pura forma
procedurale, pur fondata sulla forza, sia più “diritto” di quanto possa essere diritto la
forma esistenziale schmittiana.
La domanda, a questo punto, testardamente rimane. In che cosa una forza
che si esprime in una procedura può essere diversa da una forza che si esprime in
una decisione esistenziale che dura? Potrà certo rispondersi che il sovrapporsi della
forza kelseniana e di quella schmittiana costituisca solo un caso-limite, perché quasi
sempre una procedura realizza almeno una forma di uguaglianza fra le situazioni
regolate. Ma in che modo – con quale forza argomentativa – una tale risposta
risolverebbe la sostanza “razionale” che la posizione di Kelsen sembra difendere
contro la posizione di Schmitt?
In sostanza, mentre Schmitt sostiene che sovrano è chi decide sullo stato di
eccezione, Kelsen sostiene che sovrano è l‟ordinamento giuridico. La prospettiva di
Schmitt mette soprattutto a fuoco l‟emergenza esistenziale del qui e ora, ma ciò non
toglie che sia leggibile sotto quell‟emergenza lo stato di una struttura che la precede;
la prospettiva di Kelsen, invece, mette a fuoco soprattutto la durevolezza di un
assetto di regole, ma ciò non toglie che questo assetto sia stato preceduto da un
41
gruppo di chi che l‟ha imposto. Nel darsi di una struttura imperativa prevale il chi o
il che? Prevale l‟atto esistenziale di un attore politico o un assetto di regole? Posta
in questi termini, la questione appare indecidibile. Infatti, bisognerà pur sempre
guardare alla singola situazione strutturale di cui ci si occupa, nella quale potranno
prevalere il chi, il che o entrambe le istanze combinate. E, d‟altra parte, per quanto
concerne il futuro di una struttura, colui che si imponga – à la Schmitt – per farla
durare, non può non porsi il problema di quali saranno i modi regolatori in cui essa
durerà, mentre, per altro verso, chi decida in una situazione di emergenza potrà ben
essere letto – à la Kelsen – come uno che stia istituendo, con un colpo di Stato o
con una rivoluzione, una nuova «norma fondamentale». In ogni caso, sia nella
soluzione prospettica di Schmitt che in quella di Kelsen, rimane ontologicamente
presupposta una forza che sostenga il chi dell‟atto schmittiano o il che della
struttura kelseniana. E, d‟altra parte, rimane impregiudicata la questione intorno al
fondamento simbolico di questa forza. Che si tratti del chi di Schmitt o del che di
Kelsen – dell‟emergenza di Schmitt o dell‟assetto di regole di Kelsen – in entrambe
le prospettive non si dice – cioè, non si ritiene rilevante dire – quale debba essere il
fondamento persuasivo attraverso cui quella forza possa restare forza. In ultima
analisi, sia che prevalga la prospettiva esistenziale del chi sia che prevalga la
prospettiva normativa del che, una tale prospettiva è pur sempre fondata
sull‟esistenza di una forza. E, d‟altro canto, chi guarda al chi non può non porsi il
problema del che, così come chi guarda al che non può non porsi il problema del
chi. Per certi aspetti, la vera differenza tra Schmitt e Kelsen sembra ridursi al tipo di
sguardo epistemologico: di carattere politologico nel primo e di carattere giuridico
nel secondo. È anche vero, però, che qui, paradossalmente, Schmitt e Kelsen,
mentre sembrano epistemologicamente lontani, sono più vicini che mai. A questo
punto, la distinzione fra la prevalenza prospettica dell‟atto esistenziale, legato a
un‟emergenza, e la prevalenza prospettica della regola astratta e generale, legata alla
durata, appare di scarso rilievo rispetto al più decisivo problema su quale sia il
fondamento auspicabile, in condizioni storiche date, per l‟insediarsi di una forza.
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È certamente vero che, quando Kelsen si oppone a Schmitt, sembra
implicare nel suo discorso un richiamo al valore del diritto. Ma, poiché questo
valore per Kelsen è null‟altro che il risultato di una forza, ciò significa che Kelsen
affida tutto il valore del diritto a quell‟unica luce che è la sua sintassi procedurale,
leggibile attraverso la ragione scientifica, costituente l‟ultimo residuo di un
giusnaturalismo dimagrito fino al grado zero della pura sintassi eguagliatrice.
Sia il sovrano di cui parla Schmitt che il sovrano di cui parla Kelsen, in
realtà, costituiscono una forza solo a condizione che questa forza sia effettiva, cioè
obbedita. Uguale in entrambi, pertanto, è l‟effettività come fondamento. Ma diversa
è la qualità ontologica di quella forza che realizza l‟effettività. Per Schmitt questa
qualità è nella potenza esistenziale di un chi, per Kelsen è nella potenza regolatrice
di un che.
La querelle tra Kelsen e Schmitt, pertanto, mostra due diversi e precisi modi
con cui si cerca di realizzare lo sguardo sul potere: da un lato, attraverso il modo
formale di Kelsen, richiamandosi a un che, cioè a un modello; dall‟altro, attraverso
il modo esistenziale di Schmitt, richiamandosi a un chi, cioè a un soggetto. Sia il
modello del che, sia il modello del chi, sono, però, insufficienti. Il modello del che è
insufficiente in quanto non riesce a entrare in contatto con l‟evento esistenziale che
qui e ora si consuma nell‟imporlo; il modello del chi è insufficiente in quanto non
riesce a mostrare le modalità strutturali attraverso cui l‟atto esistenziale che si
impone durerà.
In realtà, un modello plausibile di caratterizzazione deve necessariamente
connettere insieme l‟uno e l‟altro modello, perché, da un lato, la prospettiva non si
riduca a quella su una struttura anonima e, dall‟altro lato, non si riduca a quella su
un intervento soggettivo semplicemente legato al qui e ora, all‟istante.
Fin qui, sulla base della strutturale lacunosità della forza imperativa,
abbiamo parlato dei modi storicamente determinati con cui questa forza ha
ottemperato alla necessità di giustificarsi allo scopo di realizzare l‟obbedienza
sociale. Abbiamo parlato, cioè, dei modi in cui la forza ha cercato di realizzare,
attraverso la forza del diritto, il diritto della sua forza.
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Dobbiamo però, sulla base della inevitabile presenza di una forza all‟interno
di una società che voglia realizzare il diritto, occuparci anche dei modi in cui è
auspicabile che una forza si renda – alla sensibilità degli uomini contemporanei –
ragionevolmente giustificabile.
In una prima approssimazione, possiamo dire che è utile a questi fini
l‟esistenza di una rappresentanza democratica, costituendo l‟esistenza di un
consenso maggioritario un fattore che riduce la frustrazione derivante dall‟essere
sottomessi a un potere. Ma una tale rappresentanza è esposta a molteplici obiezioni.
In primo luogo, l‟esistenza di un consenso maggioritario non esclude la presenza di
ingiustizie, anche gravi. Una maggioranza può costituire una discriminatoria
tirannide. In secondo luogo, lo stesso consenso può essere, in modi occulti o palesi,
estorto o comprato. In terzo luogo, non sempre la presenza di una maggioranza
garantisce la praticabilità del dissenso da parte di una minoranza.
In una seconda approssimazione, possiamo dire che la rappresentanza
democratica deve poter riguardare una democrazia liberale, fondata sulla pubblica
praticabilità del dissenso, che va a costituire il fattore popperiano di falsificabilità
del sistema e la sua caratterizzazione come sistema aperto. Ma anche una tale
rappresentanza democratica può essere esposta a obiezioni. In primo luogo, perché
il dissenso di una minoranza può ancora costituire una forza che schiaccia nel suo
seno una interna minoranza, e così via all‟infinito. In secondo luogo, perché la
stessa presenza del dissenso non garantisce abbastanza contro l‟esistenza di singoli
soprusi. In terzo luogo, perché l‟esistenza del consenso e del dissenso non risultano
ancora fondati su una forza più forte, che si ponga strutturalmente in termini
costituzionali.
In una terza approssimazione, possiamo dire che la rappresentanza
democratica, espressione di una democrazia liberale, deve poter essere garantita da
una forza costituzionale che ne garantisca l‟esercizio.
In una quarta approssimazione, possiamo dire che la stessa garanzia
costituzionale deve riguardare non solo i diritti civili e politici, ma anche i diritti
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sociali, che consentano un minimo di azione previdenziale e assistenziale nei
confronti dei singoli da parte dello Stato.
In una quinta approssimazione, possiamo dire che, perché una forza
imperativa sia ragionevolmente giustificabile, occorre andare oltre lo stesso criterio
della rappresentanza. In questo senso, bisogna pervenire a una legittimazione che sia
tale non solo da garantire la rappresentanza, cioè la rappresentazione delle volontà,
e non solo la rappresentatività, cioè la rappresentazione delle culture e degli
interessi, ma anche quella legittimazione più radicale che è la legittimazione
esistenziale, ossia quella che riguarda le dignità delle singole persone, colte nei loro
bisogni minimi e ineludibili, al di sotto dei quali non è lecito essere ridotti. Una tale
legittimazione implica l‟esistenza di una garanzia, realmente efficace, più forte e più
penetrante. Occorre, cioè, una garanzia costituzionale, realizzabile da una Corte che,
in condizioni di indipendenza rispetto allo stesso Stato-amministrazione e allo
stesso Stato-legislatore, faccia prevalere, nel conflitto concreto fra singoli diritti
fondamentali violati e la legge, i singoli diritti violati.
In una sesta approssimazione, dobbiamo dire che una forza imperativa che
voglia realizzare un fondamento razionale allo scopo di persuadere all‟obbedienza
deve essere capace di garantire a ogni singola persona quei diritti fondamentali che
costituiscano le condizioni minime perché una vita possa essere degna di essere
vissuta. Qui la forza imperativa può trovare – almeno nei termini di un‟idea
regolativa – le condizioni migliori perché la sua lacunosità strutturale realizzi il
rispetto della forza del diritto, là dove il diritto non è semplicemente il diritto
astratto e generale, ma il diritto fondamentale di ogni persona. Davanti alla forza
imperativa dello Stato, che è forza, sta l‟esistenza della singola persona, che è
anch‟essa forza, esistenziale forza. Qui la pura forza può realizzarsi come forza solo
a condizione di rispettare quella forza del diritto, che è il diritto fondamentale di
ogni persona, considerata – al modo di Antonio Rosmini – come diritto sussistente.
In questa prospettiva, la pura forza, di per sé strutturalmente lacunosa, deve
assumere come fondamento simbolico un‟altra forza, che non costituisce soltanto il
suo fattore antagonista, ma il suo complemento essenziale. Il diritto della forza
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trova, così, il suo fondamento simbolico e la sua legittimazione esistenziale nella
forza del diritto della persona. Possiamo concludere, in questa luce: il diritto di
esistere è il fondamento dell‟esistere del diritto.
Karl Popper, com‟è noto, ha individuato in termini epistemologici, due
livelli della falsificazione. Al primo livello, si dà la considerazione per cui qualsiasi
proposizione empirica di carattere generale deve essere permanentemente esposta
alla possibilità che un singolo caso empirico ne smentisca la formulazione. Un
giudizio empirico, in quanto empirico, non può non essere fondato sulla sua
possibile smentita.
Al secondo livello, si dà la considerazione per cui una teoria è scientifica
non solo se verificabile, ma se si espone alla possibilità che un singolo caso
empirico la smentisca: la teoria scientifica, per essere scientifica, deve poter essere
smentita da un singolo fatto empirico, perché, in caso contrario, sarebbe atto di fede
e non teoria scientifica.
È individuabile, in realtà, un terzo livello della falsificazione, in quanto
trasferita sul piano politico della democrazia liberale. In questa prospettiva, un
sistema democratico è tale se non solo è sostenuto da un consenso maggioritario, ma
se è strutturalmente esposto alla possibilità che un pubblico dissenso possa mettere
il governo in discussione ed esercitare la garantita possibilità di sostituirlo. Una
democrazia liberale è, pertanto, fondata sulla possibilità garantita di un pubblico
dissenso, che costituisce l‟esposizione di quel governo alla sua possibile smentita.
È possibile individuare, come abbiamo altrove già sostenuto, un quarto
livello della falsificazione, che concerne non soltanto il semplice sistema
democratico, ma un sistema democratico fondato sulla garanzia costituzionale di
diritti fondamentali. In tale contesto, un sistema che si dichiari fondato sui diritti
fondamentali è tale non solo se li dichiara e tende a garantirli, ma se si espone alla
possibilità che anche un solo consociato – qualsiasi consociato – possa
efficacemente obiettare nei confronti del sistema la violazione del suo diritto
fondamentale. In altri termini, anche qui, il sistema fondato sui diritti fondamentali
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deve poter essere efficacemente smentito da chi si dichiari leso e deve poter essere
da quel sistema efficacemente protetto attraverso la rimozione della lesione.
Tornando alla formula di cui dicevamo (il diritto di esistere è il fondamento
dell‟esistere del diritto), si possono conclusivamente riconoscere in essa tre strati.
Al primo strato, si dà una forza che si impone come pura forza; al secondo strato, si
dà una pura forza che, in quanto strutturalmente lacunosa e bisognosa di
fondamento, assume per fondamento simbolico la forza del diritto come forza della
ragione; al terzo strato, questo stesso fondamento simbolico si dà come forza della
ragione in quanto rinvia a ogni persona, a ogni persona intesa come diritto
sussistente: a ogni persona, nessuna esclusa, una per una considerata, a partire
dall‟ultima. Se nella prospettiva esistenziale schmittiana il sovrano è la forza di chi
decide sullo stato di eccezione, nella prospettiva esistenziale personalista la persona
è l‟eccezione che resiste allo stato della pura forza. Si tratta dell‟eccezione costituita
da ogni singolarità in ogni suo qui e ora, almeno nei limiti in cui viene in luce la sua
inviolabile
dignità.
In
questa
prospettiva,
la
persona
è
l‟anti-sovrano,
esistenzialmente e universalmente collocato. Per altro verso, se nella prospettiva
formale kelseniana sovrano è il diritto come ordinamento, cioè come schema (come
schema individuato dalla ragione scientifica calcolante, proceduralizzata), nella
prospettiva esistenziale personalista la persona è la singolarità esistenzialmente
irriducibile allo schema, il quale, in quanto tale, non potrà mai in se stesso risolvere
una concreta esistenza. Tra lo schema e l‟esistenza concreta si dà sempre un limite
insuperabile, costituito da due forme intrinsecamente connesse. Dati, infatti, uno
schema e una concreta esistenza, lo schema è segnato dalla strutturale incapacità a
incontrare una esistenza viva: da un lato, lo schema trasforma quella esistenza in un
mondo puramente intellettuale, che è strutturalmente separato da una esistenza
reale; dall‟altro lato, lo schema assume il calco intellettuale di quella esistenza reale
in una forma classificatoria che pretende ridurre alla sua prospettazione l‟intero ente
mentale di cui si occupa. In questa situazione di separazione strutturale, uno schema
non potrà mai incontrare una esistenza concreta, e una esistenza concreta non potrà
mai essere ospitata da uno schema. Lo schema compie, nei confronti dell‟esistenza
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reale,
due
trasformazioni
inevitabili,
che
sono
altrettanti
snaturamenti.
Trasformazioni che passano inosservate e che, però, non sono innocenti. Lo schema,
istituendo un mondo virtuale, trasforma l‟esistente reale in un ente mentale, separato
dall‟esistenza, e riduce questo ente mentale a una sua forma classificata, separata
dalla stessa interezza dell‟ente di cui discorre. Lo schema inevitabilmente
intellettualizza e mutila, consumandosi in un modello in cui dell‟esistenza reale –
carnale e qui e ora vivente – non c‟è più traccia.
La sovranità schmittiana del chi e la sovranità kelseniana del che trovano, in
ogni caso, fondamento in una effettività che dura. Ma questa effettività – una
qualsiasi effettività – non può, come già si diceva, darsi se non attraverso una forma
di persuasività simbolica. Ove mai questa persuasività accetti di esprimersi nella
valorialità della persona, il chi schmittiano e il che kelsiano troveranno davanti a sé
un unico e comune limite, costituito da una forza – una persona – che è,
contemporaneamente, un chi e un che: un chi irriducibile e universale, dotato di un
che irriducibile e universale.
Ma l‟esistenza personale non costituisce limite soltanto rispetto alla forza
schmittiana e rispetto allo schema kelseniano. Essa è limite nei confronti della
stessa idea di popolo e della stessa idea di ragione. Sia l‟idea di popolo che l‟idea di
ragione debbono, cioè, a loro volta, essere valorialmente limitate, nelle loro pretese,
dall‟idea di una singola persona, còlta nel nucleo inviolabile della sua esistenziale
dignità. Né al “popolo” né alla “ragione”, se il valore è la persona, si può sacrificare
la persona. Si tratta, come si diceva, di ogni persona, una alla volta considerata, a
partire dall‟ultima. Una tale formulazione non è affatto enfatica, in quanto possiede
un suo preciso contenuto semantico, chiarificabile e vincolante, che è etico e
metodologico. Si tratta di istituire una visione in cui sia rovesciata la logica per cui
una superiore sovrabbondanza dovrebbe progressivamente includere gli esclusi. In
una logica rovesciata, invece, occorre non includere progressivamente gli esclusi,
ma partire dal nucleo inviolabile degli ultimi per costituire le basi di un‟eventuale
sovrabbondanza. Non si tratta, cioè, di guardare secondo una prospettiva della
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inclusione, ma secondo una logica della ri-fondazione. In questo senso, la persona –
ogni persona – è, restando quella persona, direttamente bene comune.
In ultima sintesi, in una rappresentazione assolutamente schematica,
abbiamo, da un lato, una forza che si impone come pura forza e, dall‟altro lato, una
persona la cui esistenza si pone come forza che resiste alla pura forza. Si osservano,
qui, due forze a confronto. Ove mai la pura forza, che ha necessità strutturale di una
saturazione persuasiva, “accetti” – cioè, sia costretta ad assumere – come proprio
fondamento simbolico la forza esistenziale della persona, di ogni persona, ciò
significherà che la forza di questa esistenza personale andrà a costituire il
fondamento simbolico mai esauribile di quella pura forza, che ogni volta sarà
chiamata a render conto del suo “accettato” fondamento.
Ma una tale impostazione, che cerca di connettere – attraverso l‟idea della
persona – la struttura della pura forza col fondamento simbolico della ragione, non
rimuove affatto dal mondo reale la contraddizione tra quella forza e questa persona.
Una tale contraddizione resta, dal punto di vista reale, insuperabile. Essa non è
risolvibile in termini puramente ideali, anche se non è inutile porsene il problema.
L‟unico modo di contribuire a risolvere la contraddizione è quello di provvedere,
anche idealmente, a che essa venga ogni volta individuata e governata – caso per
caso – secondo previste strutture di garanzia. Le contraddizioni reali non possono
essere risolte con soluzioni puramente intellettuali, per quanto idealmente
strutturate. Le soluzioni puramente intellettuali diventerebbero, di fatto, soluzioni
verbali. Ma prevedere forme di soluzione e strutture di garanzia non è cosa da poco.
In questo senso, prevedere queste strutture, garantirne la messa in opera in ogni qui
e ora e predisporre la generale possibilità di controllarne di fatto – caso per caso –
l‟efficacia, anche su impulso della stessa persona lesa, rappresentano un test
permanente e capillare – quasi popperiano ma non solo popperiano – sulla
persuasività valoriale di una forza, di ogni forza, e sullo stato di salute di un sistema
che intenda testimoniare e conservare – in una situazione storica determinata – un
rapporto con l‟umano.
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Abstract - Italiano
É possibile oggi rappresentarsi politica diritto e giustizia secondo un aspetto
simbolico e secondo un aspetto analitico. Può scoprirsi così che il positivismo
giuridico di Kelsen ha uno statuto logico paradossale. Esso, mentre combatte contro
il potere esistenziale di Schmitt in nome dell‟ordine giuridico, combatte
contemporaneamente contro l‟ordine giuridico naturale in nome dell‟ordine
giuridico positivo. Kelsen perciò, mentre invoca contro il giusnaturalismo la forza
dell‟ordine positivo, invoca contro il potere politico esistenziale il principio della
ragione.
Abstract – English
It is now possible to represent political, law and justice according to a
symbolic and an analytical aspect. What can be discovered is that Kelsen‟s legal
positivism hides a paradoxical logical status that, while fighting against Schmitt‟s
existential power in the name of the legal system, fights simultaneously against the
natural juridical order in the name the legal order. While calling the power of the
positive legal system against the natural law, Kelsen invokes the principle of reason
against the existential political power.
Title - English: ANALYTICAL CODES AND SYMBOLICAL CODES. BETWEEN
KELSEN AND SCHMITT : LEGAL POSITIVISM AS AN EPYSTEMOLOGICAL PARADOX
Key words: Symbolical Aspects of Law, Legal Order, Political Power,
Energy, Concept, Idea, Synoptic System
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