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Rivista dell`istruzione 6 - 2014

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Rivista dell`istruzione 6 - 2014
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
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Coordinamento redazionale
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Mario Castoldi
Giancarlo Cerini
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Massimo Gatti
Carlo Marzuoli
Angelo Paletta
Tiziana Pedrizzi
Carlo Petracca
Gruppo redazionale
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Roberto Baldascino (Marche)
Paolo Cortigiani (Liguria)
Pasquale D’Avolio (Friuli-Venezia Giulia)
Antonio d’Itollo (Puglia)
Cinzia Mion (Veneto)
Maurizio Muraglia (Sicilia)
Maria Pietropaolo (Molise)
Damiano Previtali (Lombardia)
Gian Carlo Sacchi (Emilia-Romagna)
Alberto Tomasi (Trentino-Alto Adige)
Rivista fondata da:
Gianfranco Branchi, Sergio Sadotti,
Renato Zaccaria e Tommaso Marradi
Redazione
Via del Carpino, 8
47822 Santarcangelo di Romagna (RN)
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Sommario
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Il punto
Governo e ‘buona scuola’
di Fiorella Farinelli
DO
IER
SS
4
Dossier: “A proposito di ‘Buona Scuola’”
“La Buona Scuola”: tra ascolto e decisione
di Mario Ricciardi
Un patto per “La Buona Scuola”
di Gian Carlo Sacchi
9
14
Focus: “Professione docente”
La questione insegnante
di Maurizio Muraglia
17
I docenti italiani: chi sono, quanti sono, cosa fanno
di Reginaldo Palermo
22
La femminilizzazione del ruolo docente
di Cinzia Mion
27
“La Buona Formazione”: passo dopo passo…
di Giancarlo Cerini
32
Un’altra didattica è possibile
di Enzo Zecchi
35
Il docente pratico-riflessivo
di Giuseppina Di Guida
41
Osservatorio internazionale
I docenti italiani nel Rapporto Talis
di Gemma De Sanctis
45
Professionalità
Middle management: dalle figure di sistema ai quadri intermedi
Network “Chiamalascuola”

A
53
Saperi di cittadinanza
La rendicontazione nella Riforma della Pubblica Amministrazione
di Anna Maria Poggi
59
Pratiche dell’autonomia
Il ‘sistema duale’. Un progetto pilota nella Motor Valley
di Maria Grazia Accorsi
64
Governance
Povera scuola. Facciamo i conti al sistema di istruzione
di Emanuele Barbieri
68
Osservatorio giuridico
Pubblico e privato: verso un’integrazione
di Loredana Bondi
2
74
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Strumenti e cultura della valutazione
L’autovalutazione in quattro mosse
di Mario Castoldi
79
Maria Grazia Accorsi
Ex cathedra
L’evaporazione dell’autorità paterna: e i docenti?
di Francesco Piazzi
Hanno collaborato
86
Emanuele Barbieri
Loredana Bondi
Matita rossa e blu
Meriti individuali e lavoro di squadra
di Giovanna d’Arco
91
Giancarlo Cerini
Giovanna d’Arco
Sillabario
Luogo comune
di Lorella Zauli
94
Gemma De Sanctis
Giuseppina Di Guida
Immagini
“Maestri d’arte e l’arte di essere maestri”
a cura di Alessandra Falconi
Mario Castoldi
Alessandra Falconi
95
Fiorella Farinelli
Cinzia Mion
Le immagini di questo numero sono tratte dal quaderno “I maestri d’arte e l’arte
di essere maestri” a cura di Alessandra Falconi, realizzato in collaborazione con
Fo.Cu.S. Fondazione Culture Santarcangelo. Alle pagine 95 e 96 ulteriori specificazioni.
Maurizio Muraglia
Network “Chiamalascuola”
Reginaldo Palermo
Francesco Piazzi
Prossimamente...
Anna Maria Poggi
Numero speciale sull’autovalutazione delle scuole
Mario Ricciardi
• Nasce il Sistema nazionale di valutazione
Gian Carlo Sacchi
• Autovalutazione al via
Lorella Zauli
• Come gestire indicatori e dati
Enzo Zecchi
• Valutare gli apprendimenti e competenze
• Le strategie per il miglioramento
• Dal Rav al bilancio sociale
Nuovo Concorso Dirigenti. Com’è sua tradizione, Rivista dell’Istruzione sta
dedicando molti articoli alla figura del dirigente scolastico, nella consapevolezza del suo ruolo decisivo per la qualità della scuola. Questi contributi saranno
potenziati, anche in relazione all’imminente NUOVO CONCORSO per dirigenti
scolastici. Bando di concorso in fase di elaborazione.
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Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Governo
e ‘buona scuola’
di Fiorella Farinelli
Il punto
Gli elementi di novità
Nel documento
del governo
del 3 settembre 2014
ci sono molti
spunti innovativi,
ma anche
retaggi
del passato
e qualche silenzio
di troppo
C’è aria nuova nel documento sulla
‘buona scuola’. In alcune proposte, e
nella cura dei dati che le corredano. Ciò
incoraggia commenti diretti e costruttivi. Non è un pregio da poco, e c’è da
augurarsi che le modalità attrezzate per
la consultazione non ne mortifichino gli
obiettivi. Apprezzabili, in primo luogo,
sono l’intenzione di investire risorse più
generose, dopo anni di straordinarie
avarizie, e la volontà di metter fine alle
troppe contrarietà che hanno impedito
di intervenire in campi fondamentali: la
valutazione delle scuole come autodiagnosi su processi e risultati; un nuovo
stato giuridico degli insegnanti; un reclutamento come apprendistato professionale guidato e valutato; carriere
che riconoscano meriti e impegno; una
formazione continua degna di questo
nome.
Apprezzabile è anche la decisione di
stabilizzare il personale che copra le
postazioni vacanti tutto l’anno, e l’intenzione di aprire le porte a insegnanti
giovani, motivati, preparati.
Non nuovo, in verità, ma finalmente
sdoganato dalle contrarietà dei tempi
in cui erano altri a sostenerlo, è il riconoscimento del contributo alla modernizzazione dei curricoli delle cosiddette ‘tre I’, l’informatica, l’inglese, l’impresa (o meglio il rapporto, nell’apprendimento, tra scuola e esperienza del lavoro), nonché di discipline e linguaggi
culturali oggi trascurati.
I ‘mantra’ del passato
4
A guardar bene, però, bisogna riconoscere che c’è anche un’eccessiva continuità con approcci che non hanno
portato vantaggi al nostro sistema educativo. L’approccio ‘quantitativo’, per
esempio, per cui la qualità della scuola e ogni sua nuova esigenza passerebbero in primo luogo dalla moltiplicazio-
ne degli addetti, non importa se appositamente qualificati e selezionati. L’uniformità nelle politiche per il personale, indipendentemente dalle diversità
tra primo e secondo ciclo e tra primaria e secondaria/e, immancabile portato della pretesa di governarlo dal ‘centro’ e delle contrarietà a rivedere una
‘unicità’ della funzione docente che ha
invece fatto il suo tempo.
In continuità con il passato è anche la
non considerazione delle articolazioni
di un sistema che non si esaurisce nei
percorsi scolastici del primo e del secondo ciclo ma comprende settori strategici da sviluppare o riorganizzare: sia
le scuole per gli adulti e l’apprendimento permanente che la nuova filiera
dell’istruzione e formazione professionale, oggi a rischio oltre che per il mancato sviluppo nelle aree che ne avrebbero più bisogno per l’irrisolta duplicità tra istituti professionali e formazione
professionale.
I silenzi di oggi
Le sparse suggestioni cosiddette ‘liberal’ (le risorse dei privati, la competitività tra le scuole...) non danno vita a
uno sguardo davvero laico sui ruoli attuali della scuola. La sua modernizzazione culturale, per esempio, e la richiamata necessità di una maggiore ‘apertura al mondo’, contrastano con il silenzio sulle domande che derivano dalla pluralità di lingue, culture, religioni
degli 800mila studenti con background
straniero. Domande che riguardano
non solo come migliorare un successo
scolastico ancora troppo scarso anche
dei nati in Italia ma il perché e il come
trasformare tutto ciò in vantaggio culturale per tutti, italiani e non.
È poi a dir poco strano che la più promettente ma ‘incompiuta’ innovazione
ordinamentale, cioè l’autonomia scolastica, non costituisca affatto il perno di
un nuovo modello organizzativo, ma sia
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
piuttosto lo strumento su cui scaricare
– senza peraltro curarsi di un’adeguata implementazione tecnico-amministrativa – la gestione della stabilizzazione in un colpo solo dei 148.000 precari iscritti alle Gae (graduatorie a esaurimento). Ma come assicurarla, se da un
lato sembrano non esserci priorità rigorose nell’utilizzo del nuovo organico, e
dall’altro non si attribuisce all’autonomia la responsabilità di una gestione
più flessibile (orari, calendari, cattedre,
funzioni, figure) di tutto il personale,
‘aggiuntivo’ e non?
La fattibilità tecnica e politica
Ci sono dunque più motivi per ritenere
insoddisfacente l’impianto della proposta e i suoi ‘vuoti’: tra cui ci sono importanti temi di tipo ordinamentale, come la riduzione a 12 anni del ciclo di
istruzione e l’introduzione nella secondaria superiore di aree opzionali che
consentano agli studenti di verificare le
proprie motivazioni, ma anche un’incapacità culturale di collocare le proposte relative a una nuova carriera docente in una valorizzazione del profilo cooperativo del ‘mestiere docente’.
E tuttavia, se è da questa ‘buona scuola’ che si deve passare, c’è da lavorare, anche di fino, per assicurare una fattibilità politica e tecnica che al momento non c’è, sapendo, anche per l’esperienza delle ‘dotazioni organiche aggiuntive’ di qualche decennio fa, che gli
organici aggiuntivi non sono mai di per
sé ‘funzionali’, e che possono dar luogo a utilizzazioni approssimative se non
a sottoutilizzazioni. Analizziamo più da
vicino, dunque, alcuni temi, senza la
pretesa di esaurire l’intero campo delle questioni.
‘Senso’ e consenso
per i nuovi investimenti
L’investimento più significativo è per la
stabilizzazione degli iscritti alle Gae (di
cui sono tutte da verificare, come si ammette, sia la condizione di effettivo ‘pre-
cariato’, sia la disponibilità alla mobilità). La destinazione di un incremento
dell’organico docente pari al 25% circa
dell’attuale richiede l’individuazione di
obiettivi di significato e valore indiscutibile. Una regola che dovrebbe valere
sempre ma tanto più in questo caso in
cui non è affatto da escludere l’insorgere, in una categoria docente malpagata
e da troppo tempo in attesa di rinnovi
contrattuali, di reazioni negative ai due
divari – di investimento finanziario e di
tempi di attuazione – tra stabilizzazione
degli iscritti alle Gae e incrementi retributivi connessi alla nuova carriera.
Anche indipendentemente dal gradimento – ancora tutto da verificare – di
un’idea di carriera che azzera del tutto
il criterio dell’anzianità (che pure è una
componente non unica ma importante
della professionalità docente), è evidente che il rinvio al 2018 dell’avvio di ‘scatti per merito’ dal valore economico modesto – e solo per il 66% degli insegnanti – non può assicurare il consenso a un
investimento così importante concentrato sull’eliminazione delle Gae.
È del resto noto che le discontinuità didattiche non sono prodotte solo dalla
‘supplentite’ ma da un’anomala mobilità ‘a domanda’. Nella secondaria, poi,
soprattutto di secondo grado, non si
può ignorare che neppure organici aggiuntivi di scuola o di rete potranno mai
coprire tutte le supplenze brevi in un’organizzazione connotata, oltre che da
una grande pluralità di discipline specifiche, dalle rigidità organizzative degli
orari ‘a scacchiera’ e dall’assenza di un
monte ore annuale comprensivo di qualche impegno aggiuntivo all’orario frontale a classe intera. Ciò premesso, bisognerebbe definire destinazioni e numeri capaci di produrre senso e consenso
a un incremento graduale dell’organico.
Il punto
La priorità
sembra rivolta
alla stabilizzazione
del personale
precario
piuttosto che
alla valorizzazione
dei docenti
in servizio,
magari
con proposte
più incisive
sul piano
professionale
Le opportunità
per la scuola primaria
E qui c’è da fare una distinzione tra scuola per l’infanzia e scuola primaria da un
lato, e secondaria/e dall’altro, sebbene si
5
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Il punto
Appunti per rapidi disegni alla lavagna (am)
La maggiore
disponibilità
di personale docente
dovrebbe essere
destinata
a tempo pieno,
educazione
degli adulti
e integrazione
multiculturale
debba notare che – Gelmini a parte – anche questa volta le politiche degli organici premiano gli 8 anni di scuola dell’infanzia e primaria rispetto agli 8 delle due
secondarie; è indubbio che nel primo caso una collocazione funzionale è più agevole che nel secondo.
A parte musica, sport e lingue straniere (finalmente liberate, sembrerebbe,
dall’antica prassi di attingere solo alla
cosiddetta ‘classe magistrale’), c’è
un’evidente esigenza di sviluppare in
tutto il Paese il tempo pieno, o comunque si decida di rimodularlo, in entrambi i settori scolastici. Lo chiedono bisogni educativi e didattici insoddisfatti
(tra cui le classi ‘multiculturali’), e una
domanda in crescita delle famiglie: in
primo luogo delle mamme che, nella
crisi, tentano anche nel Mezzogiorno di
entrare più che in passato nel mercato
del lavoro. Facciamo due conti, e definiamo quanti insegnanti servono.
Qui tutto è più facile – anche per la copertura delle supplenze brevi – grazie
alla non segmentazione disciplinare del
core curriculum. Chi potrebbe avere da
ridire, se non i soliti avversari pregiudiziali di un modello organizzativo che
trova riscontro in tutta Europa, sul suo
valore sociale e sui benefici sul piano
educativo e didattico? C’è da chiedersi, anzi, per quali motivi non sia stata
già messa al centro con la determinazione politica che merita.
Le nuove domande
per la secondaria
6
Per le due secondarie, la proposta deve avere altre caratteristiche per la seg-
mentazione delle discipline, la rigidità
degli orari a scacchiera, l’obbligo (da
rivedere?) delle cattedre a 18 ore, l’insostenibilità (da considerare anche rispetto all’introduzione di altre discipline) di una dilatazione del tempo scuola attuale: con alcune variabili, ovviamente, su quello della scuola media. Ci
sono comunque diverse ipotesi.
Le più banali (ma non per chi ignora
l’importanza strategica di certe questioni) riguardano lo sviluppo di un
settore decisivo per l’Italia così come
rappresentata dall’ultima indagine
Piacc sulle competenze della popolazione adulta e per l’emergenza di un
gran numero di neet senza qualifiche
o diplomi, come quello dell’apprendimento permanente e dei percorsi di
seconda opportunità. Il divario tra offerta e domanda nelle nostre scuole
per adulti dovrebbe quanto meno
consigliare di allentare i vincoli di organico che si frappongono allo sviluppo dell’offerta.
Altrettanto importante è attrezzare in
tutte le scuole ad alta densità ‘multiculturale’ – numerose nel Centro-Nord
e destinate a moltiplicarsi – laboratori
permanenti di sviluppo della padronanza linguistica e dell’italiano ‘per lo
studio’. Con insegnanti, però, non presi a caso nel mucchio, ma appositamente qualificati per farlo. Di esigenze di questo tipo nella scuola italiana
ce ne sono anche altre, questi sono
solo esempi di un possibile ribaltamento della logica del documento, che
parte da quel che c’è nelle graduatorie, invece che da quello che occorre
nella scuola.
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Autonomia: un’organizzazione
più efficiente e più flessibile
Ipotesi meno ‘banale’, valida per tutta
la realtà scolastica, è utilizzare l’organico aggiuntivo per costituire, con gli
insegnanti più motivati ed esperti,
dentro le graduatorie – se ci sono – e
fuori, quei ‘quadri dell’autonomia’,
senza i quali è impossibile mettere in
atto un’organizzazione della scuola più
stabile e più funzionale di quella praticata con ‘funzioni obiettivo’ o incarichi effimeri, sottoposti alla variabile
volontà dei collegi e della dirigenza e
attribuiti non in base a portfolio di
competenze leggibili con riferimento a
precisi standard. Le elaborazioni in
questo campo ci sono, e basterebbe
riprenderle per attrezzare proposte
convincenti e coerenti con le nuove
carriere. Ma qui il terreno sembra essere in salita, considerato il silenzio sui
temi di una nuova governance scolastica così come su questioni di cui si
discute da decenni come l’onnicomprensività, l’articolazione, la flessibilità dei tempi di lavoro del personale
docente. Eppure non può esserci vera e profonda innovazione, sia didattica che di arricchimento dell’offerta formativa, senza innovazione organizzativa. Né può esserci autonomia scolastica senza una gestione più flessibile
del personale decisa negli specifici
contesti, ma in base a standard e criteri di tipo nazionale.
Ragionando sui ‘crediti’
Una via d’uscita, limitata da questa impostazione e tuttavia indispensabile per
assicurare senso e consenso alle nuove carriere, è lavorare sulle tre tipologie
di ‘crediti’. Sebbene dal documento
non emerga che i crediti comportano
necessariamente una misurabilità delle attività/competenze cui si riferiscono, è evidente che una carriera basata
su meriti e impegni implica una definizione precisa sia di che cosa intendere per ciascuna delle tre tipologie pro-
poste sia degli standard che possono
consentirne la certificazione/misurazione. Tenendo presente, fra l’altro, che
per tutti gli insegnanti, anche quelli non
disponibili ad attività diverse da quelle
strettamente connesse alla didattica, la
via dell’avanzamento di carriera deve
essere offerta, anche se con velocità
diversificate di raggiungimento di determinati standard.
Il punto
Crediti didattici
Da questo punto di vista, e finalizzato
a un superamento dell’inerzia professionale che, soprattutto nella secondaria, rende ancora troppo diffusi la didattica ‘frontale’ a classi intere e impegni
docenti sostanzialmente individualistici, è indispensabile lavorare sui crediti
didattici.
Un diverso sviluppo
professionale
può basarsi
su un sistema
di crediti,
con priorità
per il credito
didattico
capace
di riconoscere
la qualità
del lavoro in classe
I crediti didattici
• Misurabilità dell’impegno in termini di
didattica individualizzata;
• utilizzo delle nuove tecnologie e dei
laboratori;
• condivisione dei criteri di valutazione
dell’apprendimento;
• analisi e riflessione collettiva sui risultati e sui processi di miglioramento
anche in relazione all’autovalutazione
di istituto;
• documentazione del lavoro, di recupero dei debiti, di partecipazione a
sperimentazioni innovative, di rapporto con le famiglie.
Per ciascuna delle attività riferibili ai
crediti didattici devono essere definiti
degli standard (in un range che contempli diversi livelli/quantità di impegno) e criteri di misurabilità e certificazione.
Crediti professionali
Un’analoga logica va seguita per le altre due tipologie di crediti. Quelli professionali, in cui vanno inserite le funzioni di coordinamento, le responsabilità su temi e aree specifiche di interesse dell’istituto, gli incarichi di collabo-
7
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Il punto
Il successo
dell’operazione
è legato
a più consistenti
riconoscimenti
economici
e alle opportunità
offerte
a tutti i docenti
(gz)
razione gestionale, le attività di mentoring, la partecipazione ai nuclei di valutazione/autovalutazione.
Crediti formativi
Nei crediti formativi va collocata la
partecipazione ad attività formative individuali e collettive, con relativo impegno in termini di tempo dedicato annualmente e/o su un periodo più lungo e di certificazione dei risultati (lo
standard quantitativo, in presenza di
formazione continua ‘obbligatoria’,
dovrebbe essere di almeno 40 ore annuali).
Carriere ‘aperte’ e
riconoscimenti generosi
8
Carriere basate su meriti e impegno
non hanno però significato se non servono a mobilitare le energie nel miglioramento della didattica e nella cooperazione professionale. Possono essere
controproducenti se le possibilità di
avanzamento individuale, sia pure con
tempi diversificati, non dovessero essere aperte a tutti. Sono poco convincenti – e non è un problema da poco –
se gli ‘scatti di competenza’ dovessero essere premiati con investimenti
troppo avari. Anche da questo punto di
vista, sarebbe consigliabile un diverso
equilibrio tra gli investimenti sulla ‘stabilizzazione’ e quelli per l’uscita dal ‘grigiore dell’indifferenziato’. E poi, per favore, si cancelli quell’idea perversa secondo cui gli insegnanti potrebbero,
per ottenere un avanzamento, trasferirsi in scuole dove raggiungerlo più facilmente. Chi l’ha avuta non è un liberal,
è solo mille miglia lontano dalla ‘buona
scuola’.
Fiorella Farinelli
Esperta di sistemi di istruzione e formazione
[email protected]
DO
di Mario Ricciardi
R
“La Buona Scuola”:
tra ascolto e decisione
SSI E
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Dossier
Tempo di buona scuola
Lo si può giudicare un sogno di mezza
estate, oppure un elenco di cose piuttosto risapute e ri-scritte con un certo
pathos; comunque la si pensi, il corposo documento “La Buona Scuola” pubblicato dal governo il 3 settembre 2014
rappresenta un progetto con cui occorre confrontarsi, se non altro perché è
preannunciato che da lì prenderà le
mosse un’ulteriore puntata della lunga
telenovela intitolata “La riforma della
scuola (e dello stato giuridico del personale docente)” in Italia.
Abbiamo scritto non a caso ‘del personale docente’ perché nelle oltre 130 pagine del documento non si fa quasi
nessun riferimento al personale tecnico amministrativo, se non per un breve accenno ai Dsga, e la dimenticanza,
se di dimenticanza si tratta, non è di
poco conto.
Va detto innanzitutto che gli obiettivi
enunciati, come quasi sempre accade
quando si enunciano orientamenti di tipo generale, sono in larga parte condivisibili, né potrebbe essere diversamente, visto che il protagonista neanche
tanto implicito del documento è un personaggio che riesce istintivamente simpatico, cioè l’innovatore: il documento
è ‘offerto’ a ‘tutti gli innovatori d’Italia’
che secondo il documento in Italia sono ‘tanti’ e tra essi vi sono gli ‘innovatori silenziosi’ e gli ‘innovatori naturali’.
che sono state dette e sviscerate (quasi) tutte, ma starebbe nella capacità di
sceglierne qualcun’e di metterla in pratica, di precisare i dettagli (il Maligno,
si sa, vi si annida volentieri) e, soprattutto, di ‘armarla’ con un bel po’ di risorse, in modo da portare l’investimento in istruzione un po’ più vicino all’Europa di quanto oggi non sia.
Quanto alle risorse, il documento sembra esserne davvero prodigo, almeno
in teoria, e non solo per le utili, ma un
po’ scontate affermazioni secondo cui
la ‘buona scuola’ non può vivere senza, ma a partire dall’annunciata stabilizzazione e immissione in ruolo di
148.100 ‘precari’, cioè tutti quelli oggi
parcheggiati nelle varie graduatorie, per
un impegno finanziario che si stima in
circa tre miliardi.
Si può dire che se questa promessa si
realizzerà entro il prossimo anno sarà
davvero, anche solo per questo, un
momento storico per la scuola italiana,
non più alle prese con le umilianti giostre di docenti sbattuti qua e là, licenziati e riassunti, assoggettati a ‘chiame’
che ricordano quelle dei braccianti degli anni Cinquanta. Se poi se ne gioverà la qualità dell’insegnamento, se cioè
la stabilizzazione darà motivazioni e
nuovo vigore a un esercito di persone
qualche volta fiaccate da anni e anni di
attese e speranze frustrate, è un dato
che andrà verificato nel tempo.
La stabilizzazione
del personale
precario
è una scelta storica,
ma i suoi effetti
sulla qualità
dell’insegnamento
sono tutti
da verificare
Formare i docenti e valorizzarli
La ‘manovra’ sulle ‘risorse
umane’
Tuttavia l’innovazione, come si sa, può
avere segni molto diversi, ed è sempre
opportuno andare a vedere dove si dirige. E allora si può dire che buona parte del documento d’innovazione ne
contiene pochina, nel senso che, dopo
anni e anni di fervido e in buona parte
inconcludente dibattito sulla scuola, c’è
davvero poco da inventare: la vera innovazione non sta dunque nelle idee,
Appare evidente che le opportunità di
rinnovamento e ringiovanimento del
corpo docente saranno affidate soprattutto alle nuove leve da reclutare una
volta esaurita la sanatoria. Qui il progetto prevede un iter piuttosto lineare,
composto da una fase di formazione
universitaria da completare con un
biennio di laurea magistrale a numero
chiuso orientata sul lavoro di formazione, e da un successivo periodo di tirocinio presso una scuola. È un progetto
9
DO
R
SSI E
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Dossier
La proposta
sul merito
si ispira
a due precedenti
poco incoraggianti:
il ‘concorsone’
di Berlinguer
e la premialità
di Brunetta
razionale, che richiederà però tempi
adeguati per le necessarie modifiche
ordinamentali a livello universitario. Il
docente così abilitato e dopo aver superato il concorso avrà poi davanti a sé
prospettive di crescita professionale
che il documento traccia con lineamenti che in buona parte restano nel vago,
e dunque sono evidentemente ancora
da costruire.
Sembra essere stata scartata l’ipotesi
di costruire una carriera, cioè una differenziazione dei docenti basata su vere e proprie diversificazioni giuridiche e
retributive del ruolo, come immaginava, ad esempio, la proposta di legge
Aprea. Il termine ‘carriera’ scritto nel
documento Renzi-Giannini è evidentemente usato (impropriamente) come sinonimo di progressione economica. La
cosiddetta ‘carriera’ si riduce in realtà
alla sottrazione del meccanismo dei
gradoni alla generalizzata corresponsione al personale correlata al semplice trascorrere del tempo. Il nuovo meccanismo dovrebbe prevedere il ripristino della cadenza triennale, ma la corresponsione degli aumenti (60 euro netti) dovrebbe indirizzarsi soltanto ai due
terzi dei docenti di ogni scuola, quelli
che avranno maturato più crediti nel
triennio precedente.
La filosofia premiale
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Non è dato sapere se chi ha escogitato questo meccanismo abbia avuto
memoria di alcuni episodi accaduti in
passato, su questo scivolosissimo terreno: forse sì, visto che sembra essersi almeno in parte premunito di evitare
alcuni degli scogli contro cui naufragarono i due precedenti tentativi di selezionare rigidamente gli aumenti da corrispondere al personale (docente, e
della Pubblica Amministrazione in generale) nel 1999 e nel 2009. Ci riferiamo, ovviamente, al ‘concorsone’ del
ministro Berlinguer, e alle ‘tre fasce’ del
ministro Brunetta.
Il ‘concorsone’ previsto dal CCNL prevedeva, com’è noto, l’erogazione di un
aumento ai docenti che avessero superato una prova, in parte riguardante
le competenze disciplinari, e in parte
l’abilità didattica. Lo scoglio contro cui
naufragò quel progetto fu costituito
dalle modalità tutte centralistiche e abbastanza cervellotiche con cui l’apparato ministeriale pretese di concretizzare le prove, trasformando il tutto in
una sorta di ‘quizzone’ che determinò
la rivolta della categoria e la caduta del
progetto e del ministro.
Quanto al decreto legislativo 150/2009,
esso prevede, come è noto, la distinzione del personale in tre fasce, soltanto a due delle quali, corrispondenti ai
due terzi del personale, può essere erogata la retribuzione di produttività,
mentre il restante terzo resta a bocca
asciutta. La norma che prevede questa
selezione, affidata al dirigente con la
collaborazione dell’organismo indipendente di valutazione, è stata però contestata fin dall’inizio, tanto da essere
stata di fatto lasciata cadere dai governi successivi, e la stessa ministra della
funzione pubblica dell’attuale governo
ne ha criticato l’eccessiva rigidità.
Docenti a credito
“La Buona Scuola” delinea un meccanismo assai simile a quello previsto dalla riforma Brunetta, evitando però di affidare la selezione a un organo monocratico, ma assegnando il premio a
quei due terzi di docenti che vinceranno una sorta di gara dei crediti didattici, formativi e professionali. E qui bisognerebbe fermarsi, perché, al di là della prosa entusiastica, è davvero difficile capire che cosa saranno, come e da
chi saranno assegnati questi crediti,
È condivisibile l’idea che la formazione
in servizio debba essere basata soprattutto sulle scuole, ma le modalità attraverso cui si intende disboscare la foresta pluviale della formazione sono
tutt’altro che chiare, e non contribuisce
a sciogliere l’enigma il riferimento alle
associazioni professionali dei docenti
o addirittura a queste singolari figure di
DO
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Rivista
dell’istruzione
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‘innovatori naturali’ che, se non saranno il frutto di uno screening genetico,
è piuttosto difficile dire come verranno
identificate. L’idea che in ogni scuola
debba esservi comunque una quota di
due terzi di premiati per legge, in base
a criteri che, per quanto buoni, saranno sempre imperfetti e discutibili, sembra essere destinata più a creare conflitti che a produrre coesione.
Davvero difficile da valutare è, infatti,
l’acrobatica previsione secondo cui i
docenti ‘così così’ finirebbero per abbandonare le scuole dove il livello di
qualità del corpo docente è troppo alto per le loro mediocri capacità, volgendosi a cercare i sessanta euro ogni tre
anni spostandosi in scuole anch’esse
un po’ (troppo) ‘così così’, dove il basso livello della docenza rende più facile prendere il bonus, con il risultato di
innalzarne la qualità: potenza della concorrenza e del mercato! La retribuzione del singolo docente sarà poi completata da una parte accessoria collegata agli incarichi specificamente attribuiti, uno dei quali, quello del cosiddetto ‘mentor’ viene analiticamente descritto nel documento.
Un’ipotesi alternativa
Il progetto, pur scartando l’idea della
‘carriera’ come fatto giuridico omogeneo per tutto il sistema, e a parte le
menzionate bizzarrie, mantiene un’impostazione piuttosto centralistica, nonostante le concessioni verbali all’autonomia delle scuole. Ben diverso sarebbe invece un approccio veramente
autonomistico, che si articolasse sostanzialmente attraverso tre passaggi:
- la determinazione degli obiettivi di
miglioramento dell’offerta formativa
elaborati e formulati dalla comunità
d’istituto, e modulati sulle caratteristiche dell’ambiente sociale, dell’utenza, del contesto produttivo;
- il controllo e l’autovalutazione dei risultati ottenuti, eventualmente certificati da un organismo indipendente, e l’assegnazione di risorse cor-
relate al raggiungimento dei risultati medesimi;
- l’utilizzo e la distribuzione delle risorse secondo modalità prestabilite dalla stessa comunità d’istituto.
Dossier
Autonomia e poteri dirigenziali
L’autonomia scolastica è, in effetti, l’altra grande questione in gioco, ancor più
dello stato giuridico, e certamente più
della cosiddetta ‘carriera’, e anche su
questo il documento esprime alcune
condivisibili intenzioni, ma è vago sugli
strumenti da adottare concretamente.
Autonomia non può non significare innanzitutto autorganizzazione. E qui il
documento sembra puntare decisamente verso uno spostamento dei poteri dal collegio dei docenti, dalle Rsu e
da organismi collegiali (tutti da ricostrui­
re) verso il dirigente scolastico, al quale viene attribuito il potere di “scegliere
tra i docenti coloro che coordinano le
attività di innovazione didattica” (saranno questi gli ‘innovatori naturali’?), la
valutazione o l’orientamento (ma non il
mentor, scelto invece dal nucleo interno di valutazione) e di “premiarne, anche economicamente, l’impegno”, ma
anche di scegliere i docenti che dovranno dare sostanza al progetto educativo
della scuola (e qui non si capisce come
si concilia questo meccanismo con la
mobilità volontaria).
Sugli organi collegiali si dice che dovranno essere aperti, agili ed efficaci, e
non è chiaro se la sbrigatività derivi da
sottovalutazione o da mancanza di
idee. In realtà, invece, proprio il problema della governance delle istituzioni
scolastiche rappresenta uno dei temi
cruciali per la costruzione di una ‘buona’ scuola, e uno dei temi più complessi e delicati su cui si è esercitato il dibattito di questi anni.
Se il merito
va legato
al miglioramento,
allora è opportuno
correlare il premio
al raggiungimento
di risultati
prefissati
a opera
dell’intera comunità
scolastica
La crisi dell’autonomia
Il fatto è che il problema della governance è stato mandato alla deriva da
una serie ripetuta di scelte/non scelte
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Rivista
dell’istruzione
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Dossier
Le prospettive
dell’autonomia
si sono indebolite:
governance incerta,
ruoli confusi,
risorse limitate,
rischi di leaderismo
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che tutti i governi, al di là delle intenzioni manifestate, hanno compiuto (almeno) negli ultimi trent’anni. Ricostruirne la traiettoria sarebbe troppo lungo,
ma se ne possono ricordare i passaggi principali.
1.Gli organi collegiali, costruiti con lo
sguardo rivolto alla realtà politicosociale degli anni Settanta, sono
stati abbandonati a se stessi, nonostante il calo di partecipazione e l’inadeguatezza a rappresentare una
realtà sociale in profondo mutamento. Tra istituzioni scolastiche e ambiente sociale in cui sono inserite si
è creato spesso un clima di incomunicabilità. Gli utenti (studenti e famiglie) sono stati spesso degradati da
interlocutori a fornitori supplenti di
risorse che la scuola dovrebbe, ma
non può avere a disposizione.
2.La dirigenza delle scuole è stata costruita come semplice prolungamento della vecchia figura dei capi
d’istituto, caricandole addosso una
quantità di competenze di vario tipo, sempre rinviando il tema della
sua valutazione, e senza mai risolvere l’ambivalenza tra dirigenza burocratica e leadership educativa.
3.Le figure di sostegno all’autonomia,
create con il contratto del 1999 come ‘telaio’ portante degli istituti, sono state ben presto svuotate con la
complicità di una radicata propensione egualitaria dei sindacati e
dell’incapacità dell’amministrazione
di dar loro un’identità più solida.
4.Le risorse economiche necessarie
per dare respiro all’autonomia scolastica sono state date con il contagocce e poi tagliate. Non sarà inutile ricordare che il 7 agosto 2014, meno di un mese prima della presentazione de “La Buona Scuola”, è stato
firmato all’Aran un accordo in base
al quale viene ulteriormente amputato lo stanziamento destinato al fondo d’istituto (che è ormai circa la metà di quello che era pochi anni or sono) per trasbordare la somma al finanziamento dei gradoni: che è esat-
tamente il contrario di quella valorizzazione della professionalità e delle
prestazioni di cui parla con enfasi il
documento del governo.
Tra leader empatici e consigli
d’amministrazione
La costruzione della governance è insomma una sfida importante e difficile,
perché sotto molti aspetti c’è da partire quasi da zero. Vi sono probabilmente due rischi che è opportuno evitare,
nell’opera di ricostruzione alla quale il
governo sembra volersi meritoriamente dedicare.
Il primo è quello gerarchico, di affidarsi alla mitologia dell’uomo solo al comando, che è una tentazione di gran
moda, affiorante anche nel documento, ma che è provato da tutte le esperienze, nazionali e internazionali, essere gravemente inadatta per l’ambiente
scolastico.
Il secondo rischio è quello della governance basata sulla rappresentanza
spartitoria, cioè su strutture di rappresentanza simil-consiglio d’amministrazione, che forse possono sembrare appetibili per raggranellare qualche risorsa, ma finirebbero per irrigidire il rapporto tra la scuola e l’ambiente circostante
in una fase in cui tutti i sistemi di rappresentanza sono messi in discussione, e
il problema è semmai quello di creare
una sensibilità diffusa della comunità
scolastica verso i segnali molteplici e
contraddittori che la ‘società liquida’ invia ai sistemi della conoscenza.
Il piglio dell’innovazione
o la saggezza dell’esperienza?
Infine, resta il problema degli strumenti attraverso i quali costruire la ‘buona’
scuola, che è poi quello degli interlocutori da scegliere. L’idea che un’impresa di questo genere, anche soltanto
pensando alle questioni dello stato giuridico e della governance, per non parlare degli ordinamenti, possa essere affrontata con una consultazione online
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Rivista
dell’istruzione
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Dossier
Una riforma
non si risolve
con una
consultazione
online,
ma richiede
equilibrio
tra decisione
e ascolto,
tra innovazione
ed esperienza
(fn)
sembra davvero bizzarra. Se i tempi del
pansindacalismo sono passati, ed è
bene che sia così, l’idea di affidare il futuro dell’istruzione a un’indistinta consultazione popolare online sarà pure di
moda, ma assomiglia straordinariamente a una variante autoctona e moderna del peggiore populismo.
Occorre ricordare, ad esempio, che la
democrazia occidentale moderna è stata costruita anche sul ruolo dei corpi intermedi, e il fatto che essi siano attualmente in crisi non è un buon motivo per
archiviarne brutalmente l’apporto, tanto più se non c’è nulla con cui sostituirli. I sindacati, e nello specifico i sindacati del lavoro pubblico, hanno certamente le loro colpe, e anche per questo
sono meno forti, ma ciò non significa
che tutto quanto è stato costruito anche
grazie al loro contributo sia da rifiutare.
Se si passa dall’immagine alla sostanza, è facile verificare che molte delle cose che oggi sono presentate come novità dell’ultima ora sono già state scritte in accordi e contratti di lavoro.
Il problema è, insomma, quello di trovare il giusto equilibrio tra la responsabilità della decisione e il dovere dell’ascolto, il piglio dell’innovazione e le risorse dell’esperienza: è questo forse il
compito più difficile, per chi voglia far
transitare la riforma della scuola italiana dalle parole scritte sulla carta ai fatti concreti.
Mario Ricciardi
Coordinatore del Corso di laurea magistrale in Politica,
amministrazione e organizzazione, Università di Bologna
[email protected]
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Un patto per
“La Buona Scuola”
di Gian Carlo Sacchi
Dossier
La proposta
di riforma
contiene
molti punti
da chiarire,
ma va accentuato
il valore
dell’autonomia
e del decentramento
14
Che cosa c’è di nuovo?
Piccoli passi, scenari incerti
Governo che arriva, nuove proposte
per la scuola. Questa volta sono state
elaborate da un ‘cantiere’, in cui sono
all’opera esperti, vecchi e nuovi, che
oltre a evocare un più deciso intervento nel campo dell’edilizia scolastica,
con l’utilizzo di fondi sparsi qua e là
nelle pieghe dei bilanci, ha iniziato a
porre le basi per cambiamenti nel sistema, che da anni richiedono di essere
apportati e che ogni governo dice di
voler affrontare in via definitiva.
È sempre la stampa a gettare il sasso
in piccionaia e inizia a far discutere un
po’ superficialmente chi è in prima linea, che aspetta miglioramenti e che
scopre con il tempo che anche quello
che è stato recepito in provvedimenti
legislativi poi non è stato applicato,
perché alla fine i vincoli di bilancio la
fanno da padroni.
Un’altra consultazione nazionale; in
passato furono promosse conferenze
nazionali e stati generali sulla scuola
che produssero numerosi libri ma pochi cambiamenti. Oggi la consultazione avviene on line, un modo efficace
per raggiungere direttamente la popolazione: speriamo che almeno per la
storia sia dato conto di quello che sarà espresso dagli operatori, ma più in
generale dai cittadini e dai giovani.
Non si tratta di una nuova scuola, ma
di una ‘buona scuola’. Bonificare la situazione attuale è un problema soprattutto di volontà politica e di investimenti, che superano i conflitti ideologici mai
del tutto sopiti anche se si adotta la
teoria dei piccoli provvedimenti, che
comunque hanno bisogno di rispecchiarsi in alcune scelte di fondo, che
non vengono del tutto chiarite. Si pensi ad esempio alle nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo e al modello didattico per la scuola primaria con il ritorno al maestro unico. Basta cavarsela con un po’ di organico in più per l’educazione musicale?
Il documento nazionale dedica ampio
spazio al buon insegnante, privilegiando la visione amministrativa; dovremo
aspettare un’elaborazione successiva
per conoscere il profilo sul quale costruire la qualità professionale. Del precariato hanno parlato in tanti prima,
aspettiamo solo che avvengano le assunzioni. Anche sulla preparazione di
base è necessario intervenire, in quanto la professione docente ha bisogno
di ‘tirocini’ che vengano da lontano,
forse già dai licei delle scienze umane.
Del dirigente scolastico sappiamo solo che sarà reclutato dalla Scuola superiore della Pubblica Amministrazione e questo non può essere certo considerato un passo credibile verso il leader educativo.
Ciò che è stato messo sul piatto può
costruire un circolo virtuoso a condizione che i diversi provvedimenti si
tengano e abbiano alle spalle una riforma fondamentale, che non costa
tanto e in parte è già presente nella
nostra legislazione, per consentire ai
diversi pezzi di camminare speditamente e proficuamente, cioè la governance dell’intero sistema. Non può
esistere autonomia senza reali poteri
da parte delle scuole sul piano organizzativo, didattico e finanziario, senza nuovi organi di gestione e senza un
reale ‘sistema delle autonomie’ da costruire attraverso il nuovo titolo quinto della Costituzione che guardi al decentramento.
La sburocratizzazione non riguarda soltanto l’introduzione delle nuove tecnologie, ma la capacità delle scuole di autodeterminazione sulla base di ‘norme
generali, livelli essenziali delle prestazioni’ dello Stato. In un recente passato si era arrivati a pensare agli ‘statuti’
delle scuole autonome, oggi si arriva fino alle reti, più in là tutto viene governato dall’amministrazione scolastica. Il
ruolo delle Regioni e degli enti locali
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Rivista
dell’istruzione
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sembra essere molto ridimensionato rispetto a quanto indicato dalle leggi
Bassanini. Rimarrà deluso chi voleva
un ‘consiglio nazionale dell’autonomia
scolastica’.
Autonomia e organico
funzionale
Se il curricolo di istituto deve essere l’espressione dell’identità della scuola,
non può limitarsi a una percentuale di
quello nazionale, ma andrà centrato
sull’autonomia della comunità professionale, nuovo punto di riferimento per
le politiche di utilizzo del personale e
del contratto, sulla base della quale si
devono organizzare gli orari di servizio
con le varie aperture, perché la scuola
diventi un ‘presidio pedagogico del territorio’.
Siamo già in ritardo; nel momento in cui
anche i nidi dovranno diventare parte
del sistema educativo nazionale, si parla di funzionamento 24 ore su 24. Or-
Dipinto di Federico Moroni
ganici di istituto, di reti di scuole, concertati tra Stato e Regioni dovrebbero
consentire alle scuole stesse di aumentare la flessibilità e migliorare la qualità
dell’offerta, sulla base dei rapporti con
il territorio.
Solo con una reale autonomia ha senso potenziare la valutazione. È chiaro
che qui andrà previsto tutto un sistema
di incentivi, più che scatti di anzianità,
sul piano economico, di carriera e nuove figure professionali, senza dimenticare la qualità del lavoro didattico in
senso stretto. Non sembra facile però
prevedere scuole autonome che contengono docenti con carriere diverse
decise dall’amministrazione scolastica:
un’impostazione individualistica di
fronte a una professionalità a forte impronta collegiale.
Ci dovrà essere un reclutamento nazionale per caratteristiche culturali, ma decentrato per organizzazione didattica.
Non è tanto chi li sceglie i docenti, ma
come si scelgono e per quali compiti.
Dossier
Il merito
deve valorizzare
e incentivare
una professionalità
a forte impronta
collegiale
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dell’istruzione
6 - 2014
Dossier
tinuo tra Stato e Regioni, con in mezzo due legislazioni costituzionali e forse un nuovo Senato e ancora non si è
deciso.
Re-immaginare il futuro
Le vere
innovazioni
dovrebbero
affrontare
anche nodi
ordinamentali
(durata degli studi,
formazione
professionale,
alternanza)
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(am)
Urge la revisione delle classi di concorso nella scuola secondaria, con particolare riferimento al primo grado dove
sarebbe necessario superare le materie per lasciare spazio alle aree disciplinari, e nel biennio delle superiori dove
sono già possibili gli assi culturali. Un
registro nazionale che favorirà la chiamata diretta dei docenti e la loro mobilità, ma solo per la quota di organico
funzionale?
Otium et negotium
Una buona scuola dovrà avere un raccordo costante con il mondo del lavoro: ‘una via italiana al sistema duale’?
In Germania tale sistema è stato fondato da oltre due secoli sulla pedagogia del lavoro, da noi sull’antagonismo
tra otium e negotium.
Alternanza (solo però negli istituti tecnici e professionali) e apprendistato,
per combattere la dispersione/disoccupazione. Laboratori dentro e fuori la
scuola; scuole-imprese in conto terzi e
scuole-bottega per recuperare antiche
professioni artigianali. Potenziare l’orientamento anche attraverso la mappatura della domanda di competenze
nel Paese: come se non ci fossero abbastanza indicazioni di questo genere
in campo europeo. Poli tecnico-professionali, ITS.
“Rafforzare il sistema di formazione
professionale, mettendolo definitivamente a sistema con il sistema dell’istruzione”. Dalla riforma Bassanini in
poi si è verificato un tira e molla con-
Uscire oggi a 18 anni è un’esigenza dei
giovani che sanno già guardarsi intorno e cogliere opportunità anche a livello europeo; il problema però non è il liceo di quattro anni, per risparmiare a
parità di risultato. Se anticipare il termine delle superiori potrebbe essere vantaggioso per entrare prima nella formazione superiore o nel mercato del lavoro, il nostro sistema fa acqua proprio la
dove c’è da trovare la propria strada.
Va bene il liceo economico, ma non si
tratta di aumentare gli indirizzi crescendoli separati, quanto di creare, come
aveva ben previsto una sperimentazione, parola che il documento recepisce
con un certo fastidio, dove l’economia
era definita una disciplina imprescindibile per il potenziamento della ‘licealità diffusa’.
Soldi ce ne sono pochi: un asilo al giorno per mille giorni forse è una battuta,
e vengono legati al miglioramento e alla qualità delle prestazioni; il mof è in
crisi nera. Ormai le famiglie devono intervenire un po’ su tutti i fronti. In attesa del crowdfunding forse si arriverà a
regolamentare le lezioni private intra
moenia.
Viene ripresa la costituzione delle ‘fondazioni’ per intercettare finanziamenti
privati, anche attraverso bond per premiare imprese che investono nel sistema formativo, ma un progetto di scuola pubblica è un ‘sistema integrato’ fondato sulle autonomie: giuridiche, pedagogiche, territoriali.
Gian Carlo Sacchi
Esperto di politiche scolastiche e formative
[email protected]
La questione
insegnante
di Maurizio Muraglia
Rivista
dell’istruzione
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Focus
La maschera e il volto
L’insegnante del nostro tempo è diventato uno sconosciuto. Nessuno sa più
quale sia il suo vero compito. Se ne dà
per scontata l’esistenza e se ne parla
tra i decisori politici, i pedagogisti, le
associazioni, i sindacati, le famiglie, gli
studenti, ma appena si tenta di delinea­
re il perimetro della sua azione diventa
difficilissimo andare oltre qualche frase scontata.
Alcuni si sono esercitati nell’elencarne
le competenze, e mentre scriviamo un
nucleo di ‘esperti’ sarà chiamato a ridefinire uno status giuridico, ma questi
elenchi hanno soltanto il sapore delle
petizioni di principio: chi potrebbe negare che occorrano ai docenti competenze disciplinari, metodologiche, relazionali, organizzative e quant’altro si
vuol mettere in campo?
Ma cosa implica ciascuna di queste
competenze? A quale idea di società, di
cultura, di lavoro fa riferimento? È un’identità ormai sfuggente, quella di chi ha
il compito di insegnare, anche nei casi
migliori. Anche nel caso di chi instaura
un buon rapporto con gli studenti e con
le famiglie, anche tra i cosiddetti ‘bravi
insegnanti’ è lucida la consapevolezza
di un compito complesso, carico di contraddizioni, di ambiguità, riferibile a un
quadro normativo cangiante, che forse
vorrebbe supporre una certa idea di insegnante, ma di fatto naviga a vista, tra
prescrittività di traguardi e autonomia di
scelte progettuali.
Il trittico studenti, saperi,
insegnanti
L’antica costituzionale ‘libertà di insegnamento’, che servì per tutelare gli insegnanti dalle ingerenze della politica,
molto spesso – con evidente fraintendimento – rimane la patetica trincea di
chi vuole difendersi dall’assalto dei dirigenti, delle famiglie o anche degli
stessi colleghi. E questa autodifesa fi-
nisce per essere un modo di ritagliarsi
un’identità, di proteggere un territorio.
Ma cosa abita quel territorio? Qual è
l’essenziale del territorio presidiato
dall’insegnante?
Apparentemente la risposta è semplice: gli studenti, gli stessi insegnanti, i
saperi. In fondo cosa serve di più? Eppure, anche questo tentativo di rievocazione dell’essenziale non soddisfa,
anzi rischia di favorire pericolosi ritorni
a un minimalismo trasmissivo, all’antica sequenza lezione-compiti per casainterrogazione-voto che tanto ha rassicurato nella più recente stagione di turbolenza ordinamentale. Ma non funziona. Non funziona perché anche il trittico studenti-insegnanti-saperi ha in sé
elementi di complessità che sfuggono
a ogni tentazione riduzionistica.
Gli studenti al tempo
dell’evaporazione del padre
Gli studenti, in primo luogo. Un pianeta variegato, per nulla omogeneo al suo
interno come si vuol far credere, perché le differenze sociali e culturali ci sono e la scuola le riproduce soprattutto
nelle sue canalizzazioni d’accesso al
secondo ciclo. Un pianeta attraversato da un’infinità di stimoli e di tensioni,
minacciato da un futuro incerto, che
rende l’impresa educativa priva di un
orizzonte che contribuisca a giustificare la fatica di studiare. Un pianeta avvolto da una gigantesca rete di comunicazione che rende ogni studente perennemente ‘connesso’ e che ha fatto
saltare la mitologia dell’aula quale luogo impermeabile a qualsiasi interferenza. La lotta contro i telefonini in classe
rischia di assumere contorni ridicoli se
non si assume la prospettiva di trasformare le tecnologie comunicative in risorse per la didattica.
Essere bambini, ragazzini, adolescenti, oggi, è un’altra cosa rispetto al passato. Gli stili dell’autorità non sono più
quelli di una volta perché rispetto a so-
L’insegnante
presidia
faticosamente
un territorio,
la classe,
dove l’incontro
degli studenti
con i saperi
assume forme
assai diverse
dal passato
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Rivista
dell’istruzione
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Focus
Di fronte alla
mutazione
antropologica
degli allievi
e alla
riconfigurazione
dei saperi
il ruolo
del docente
si fa
assai delicato
li trent’anni fa è del tutto mutato lo scenario del rapporto tra le generazioni, e
chi incontra quotidianamente bambini
e ragazzi non può ignorare non solo le
questioni che attraversano il mondo dei
giovani, ma anche e soprattutto il nuovo configurarsi della relazione educativa nel tempo dell’evaporazione del padre (1), per seguire la suggestione di
Jacques Lacan risalente ormai a quasi
50 anni fa.
Insegnanti, testimonial ‘esperti’
L’insegnante prima di essere tale rimane un adulto e la sua azione di insegnamento è segnata dal modo in cui egli
vive la sua dimensione di adulto.
Non è più tempo di modelli onniscienti e infallibili, che risulterebbero oggi
poco credibili e incapaci di instaurare
relazioni significative con i ragazzi. È
tempo semmai di figure adulte autentiche, autorevoli, compagne di strada,
conviviali se possibile, capaci di attraversare i linguaggi delle nuove generazioni e di situarsi rispetto a esse né come censori né come sodali acritici,
bensì quali testimoni esperti del tempo
in cui vivono i ragazzi.
Si parla di ‘mutazione antropologica’ a
proposito delle generazioni che popolano le nostre aule scolastiche, ma i riflessi di questa mutazione, qui soltanto
sommariamente evocata, sui processi
di apprendimento sfuggono in larga misura alla didattica ordinaria, che a causa di una formazione in servizio occasionale, frammentaria, disorganica si attarda ancora su protocolli trasmissivi, incapaci di armonizzare lo spazio culturale e mediatico degli allievi con lo zoccolo duro del sapere scolastico.
I saperi: ovvero la conoscenza
organica dei contenuti?
Appunto, i saperi, l’altro elemento del
trittico. Neppure i saperi sono più quel1) Si veda in questo numero l’articolo
18
di F. Piazzi.
(fm)
li di una volta, e la scuola è chiamata a
prenderne atto.
Qual è il sapere della scuola, oggi? E
quali sono le forme attraverso cui gli insegnanti favoriscono il rapporto tra gli
allievi e la conoscenza? Il campo di riflessione è sterminato, chiama a raccolta questioni epistemologiche, psicologiche, pedagogiche, didattiche. Chiama in causa l’eterno dilemma tra trasmissione e ricostruzione della conoscenza, e con esso il tema della capacità di favorire lo sviluppo di competenze culturali di cittadinanza negli studenti, come raccomanda l’Europa.
Ma come si può affrontare il tema delle competenze culturali dimenticando
che negli ultimi vent’anni è completamente cambiato il rapporto di tutti con
le tradizionali ‘nozioni’, ormai accessibili con una facilità tale da far pensare
che alla scuola e agli insegnanti tocchi
un compito più raffinato, di selezione,
di configurazione, di riposizionamento
critico dei saperi?
Gli studi sui confini disciplinari e sulla
continua riconfigurazione dei saperi – si
pensi soltanto a Morin – hanno messo in
evidenza la precarietà dell’idea stessa di
‘contenuto’ quale materia inerte da trasferire nelle menti di chi impara. È rimessa in discussione da tempo l’idea stessa di ‘enciclopedia’ quale recinto concluso del sapere. Eppure le griglie di valutazione predisposte dalle scuole con-
Rivista
dell’istruzione
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tengono ancora espressioni quali ‘conoscenza organica dei contenuti’, come se
organicità e completezza fossero ancora requisiti di cui andare in cerca.
Il tema delle competenze, a dire il vero, non è riuscito a scardinare del tutto
l’impostazione sostanzialmente contenutistica e aproblematica delle didattiche, che purtroppo continua a generare in moltissimi studenti demotivazione
e insuccesso.
L’aula non è più una riserva
indiana
Il trittico studenti-insegnanti-saperi
rappresenta il sale della professione
docente. Ogni meccanismo valutativo,
esterno o interno che sia, non può
ignorare che la qualità degli apprendimenti discende dalla capacità del sistema di sostenere questa circolarità.
La progettazione del curricolo formativo è la competenza principe dell’insegnante, frutto della sua capacità di gestire saperi, metodi e relazioni in un
contesto segnato dalla turbolenza tipica dell’età infantile e giovanile. Si tratta di una competenza complessa, perché si situa al confine tra campi disciplinari diversi, e in mancanza di una formazione continua e obbligatoria per
tutti, capace di rafforzare e fare evolvere questo know-how della professione
docente, è vano immaginare un miglioramento della qualità dell’offerta formativa delle scuole.
Proprio la nuova antropologia giovanile e la complessità delle questioni poste dai saperi contemporanei sfidano il
sistema a non lasciare soli gli insegnanti. Soli a presidiare quella riserva indiana dove talvolta credono di starsene al
sicuro, navigando a vista tra le pagine
dei libri di testo e le ritualità del fare
scuola quotidiano, per mancanza di riferimenti formativi solidi e costanti.
Il difficile lavoro in team
Si annida qui il difetto di collegialità che
si riscontra nel lavoro dei docenti, que-
sta chiusura autoreferenziale che rende le occasioni di progettualità comune scarsamente gratificanti.
Si ritiene comunemente che la capacità di lavoro collegiale avrebbe riverberi positivi sulla qualità del lavoro individuale, ma è una verità solo a condizione di comprendere, come mostra l’esperienza, che solo gli insegnanti dotati di una professionalità matura sono
capaci di uscire dalla riserva indiana e
di mettere in comune il proprio stile di
insegnamento con gli altri, con i colleghi del consiglio di classe, del dipartimento, con le funzioni strumentali, col
dirigente scolastico. La collegialità appare empiricamente piuttosto il frutto
di individualità ben formate che il suo
presupposto, ma non vi è alcun dubbio
che in seconda battuta una buona capacità di lavoro in team diventa essa
stessa esperienza di apprendimento
continuo per i singoli. Insegnanti demotivati e scarsamente formati non possono contribuire alla costruzione di percorsi collegiali qualificati.
I nuovi barbari premono…
Da qui nasce la sindrome della riserva
indiana in cui rifugiarsi. Ma è un bunker illusorio. Manca il filo spinato a
quella riserva, non si vedono confini
capaci di proteggere chi insegna dai
‘nuovi barbari’ che premono e neppure finestre, perché la vita quotidiana ha
ormai fatto comunque irruzione nelle
aule e l’insegnante è costretto a prenderne atto se non vuole portare indietro le lancette dell’orologio. È questo
oggi il tema forte: il rapporto tra scuola e vita, la necessità che la scuola
esca dal fortino dell’autoreferenzialità
e sia capace, mantenendo se stessa
e la propria specificità, di incrociare
l’esperienza e l’esistenza degli studenti attraverso la cultura.
In fondo l’accento sulle competenze,
che caratterizza la riflessione europea
sull’educazione, rappresenta proprio
per questo la massima sfida al sapere
professionale degli insegnanti. La com-
Focus
Il sapere
delle competenze
non può
essere trasmesso,
ma rinegoziato
e ricostruito
insieme
in classe,
in una dimensione
cooperativa
e metacognitiva
19
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
Non basta ragionare
di scatti e orari,
occorre ricostruire
il profilo culturale
e pedagogico
della professione
docente
Particolare del murales dipinto dagli alunni di Flavio Nicolini in un’aula della scuola
“Maria Pascucci” di Santarcangelo di Romagna
petenza è il sapere agito, il sapere che
entra in gioco di fronte a un dibattito, a
un problema, a un compito di realtà. La
competenza è la possibilità di un sapere durevole, che consenta a un individuo non di ‘tenere a mente’ tante cose, attitudine da cui resta ancora sedotto l’immaginario contemporaneo,
ma di sapere imparare ancora e sempre nuove cose. Ma il sapere per la
competenza non è il sapere veicolato
per essere riprodotto, ma per essere rinegoziato e ricostruito insieme, in classe, in una dimensione cooperativa e
metacognitiva che presuppone forte interesse e motivazione negli studenti.
Insegnare: una raffinata
professione culturale
20
È in altri termini un compito di mediazione culturale quel che oggi è riserva-
to a una professionalità docente evoluta: un compito alto, culturalmente raffinato, che richiede attenzione all’umano in tutte le sue sfaccettature. Per
questo la professione docente non può
essere un ripiego e nessuna cura della
professione è immaginabile senza investire risorse importanti nella formazione iniziale e nella formazione in servizio. La posta in gioco è sotto gli occhi di tutti: la cessazione della desiderabilità della professione da parte dei
migliori intelletti, e per desiderabilità qui
si intende la possibilità di immaginare
una vita dedita alla costruzione del futuro di un Paese attraverso l’azione
educativa. Educativa senza retorica.
L’educativo a scuola passa attraverso
la cultura e l’istruzione, e quanto più l’istruzione acquista i contorni della significatività e della profondità, tanto più
essa diventa educativa.
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Educatore in quanto mediatore culturale, l’insegnante non può che essere
un ricercatore e un intellettuale. Tutt’altro che un impiegato. Il problema
dell’insegnante non è la timbratura del
cartellino, la quantità di ore trascorse a
scuola, la disponibilità a tappare i buchi nelle classi. A questo possono appassionarsi soltanto le strategie di contenimento della spesa. Il problema della professione docente è la costruzione del suo profilo culturale e pedagogico. Di questo si è andato fin qui discutendo e questo sembra accamparsi all’ordine del giorno della politica
scolastica, a giudicare da quanto si legge nel rapporto governativo “La Buona
Scuola” pubblicato il 3 settembre scorso e sottoposto alla discussione pubblica.
Merito: maneggiare con cura
Quale insegnante dunque può situarsi al crocevia di tensioni contrapposte,
tra scuola e società, tra scuola e politica, tra scuola e lavoro, tra scuola e
media, tra scuola e vita familiare? Alzi
la mano chi conosce un insegnante
capace di gestire consapevolmente il
traffico che afferisce a questo crocevia. Siamo certi che questo sia l’insegnante che tutti inseguono per attribuirgli il cosiddetto ‘merito’? Per premiarlo in virtù della sua comprovata
capacità di contribuire all’innovazione? In effetti non vi è chi non sia convinto che l’insegnante ‘meritevole’ esista e che basterà soltanto individuare
un criterio oggettivo (meglio ‘condiviso’) per distinguerlo magari da chi invece dedica meno ‘tempo’ alla professione. Eppure, nel momento in cui si
prova a fare la conta, qualcosa sfugge, e si scopre quel che si è prima detto: che non è questione di quantità di
lavoro, ma di finezza pedagogica, che
va coltivata e sostenuta.
Occorrerà molta finezza valutativa per
non rischiare di occultare professionalità che investono tempo ed energie su
dimensioni del fare scuola, culturali, re-
lazionali, affettive, che è difficile ritenere inessenziali – perché rappresentano
la nervatura del trittico studenti-insegnanti-saperi di cui si è fin qui parlato
–, ma che possono sfuggire a una valutazione di superficie. Si tratterebbe
pertanto di riuscire a osservare, comprendere e valutare come si delinea la
virtus pedagogica di un insegnante nel
senso della sua capacità di rendere formativo il sapere che insegna, ove per
formativo deve intendersi il connubio
inscindibile tra istruzione ed educazione, o se si vuole tra conoscenza e competenza.
Lasciare il segno
È stato scritto dal Rapporto governativo che sarà la qualità del lavoro d’aula
il primo indicatore di bravura. È un
buon punto di partenza, per non rischiare di erigere a modello un insegnante che entra in aula di striscio perché è tutto preso da incombenze organizzative oppure, aggiungiamo qui, che
vi entra con l’ansia dei risultati e la conseguente deplorevole (e deplorata dallo stesso Miur come recitano le Indicazioni per il primo ciclo) prassi del teaching to test. Un insegnante cioè che
viene meno alla manutenzione paziente del curricolo formativo e si concentra esclusivamente su voti, punteggi e
prestazioni.
Se prevalesse quest’ottica, uno come
il prof. Keating de L’attimo fuggente
potrebbe sfuggire a ogni forma di investitura perché, semplicemente, onora l’etimo della sua professione lasciando un segno nella vita degli studenti. Il segno del saper pensare con
la propria testa.
Focus
L’apprezzamento
della qualità
dell’impegno
del docente
non può
essere ristretto
a ruvide misure
quantitative
Maurizio Muraglia
Docente di lettere nel Liceo delle scienze umane
“G.A. De Cosmi” di Palermo
[email protected]
21
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
I docenti italiani:
chi sono, quanti sono,
cosa fanno
di Reginaldo Palermo
Diamo i numeri...
Esiste un divario
tra i posti fissati
negli organici
(di diritto)
e l’effettivo numero
degli insegnanti
in servizio
Per quanto possa sembrare strano, è
difficile sapere con precisione quanti
sono i docenti italiani. Probabilmente la
risposta esatta non la conosce neppure il Ministero dell’istruzione. Basta
consultare un po’ di documenti ufficiali, ma di diversa provenienza (Miur, Mef,
Istat, Censis…), per rendersi conto che
non vi è mai concordanza di dati.
Il motivo si spiega abbastanza facilmente: intanto, come sanno tutti coloro che lavorano nel mondo della
scuola, il calcolo cambia a seconda
che si parli di organico di diritto e di
organico di fatto; in secondo luogo
non sempre i dati fanno riferimento alla stessa tipologia di docenti (per
esempio i docenti di religione cattolica vengono considerati in alcuni casi
e non in altri).
Un altro elemento che rende difficile
e complesso il calcolo consiste nel
fatto che non sempre esiste corrispondenza precisa fra posti in organico e numero dei docenti; se un insegnante è assegnato alla sede X ma
si trova in posizione di part time, su
un unico posto risultano presenti i nominativi di due docenti. Per non parlare poi dei distacchi sindacali e dei
comandi che complicano ulteriormente i conteggi. In taluni casi (per esempio per i comandi) queste situazioni
incidono poco sui numeri complessivi, ma in altri casi le differenze possono diventare significative: i posti di
sostegno in deroga, ad esempio, sono ormai quasi 20mila e quindi modificano in modo importante le grandezze in gioco.
Diverse fonti dei dati
22
Va rilevato che tutto questo fa sì che
anche i conti economici dello Stato re-
lativi alle spese del personale docente
risultino spesso piuttosto complicati,
con differenze non trascurabili fra le
previsioni iniziali e il conto di cassa di
fine anno.
Bisogna quindi accontentarsi di cifre
mai precise all’unità. Ma, soprattutto,
bisogna mettere in conto che in documenti anche ufficiali, si possono trovare dati diversi per la stessa tipologia
presa in considerazione.
C’è infine un elemento che va considerato: fino a qualche anno fa il Miur pubblicava più o meno regolarmente voluminosi rapporti con una grande quantità di dati sia aggregati a livello nazionale sia disaggregati a livello territoriale. Da qualche anno non esistono più
pubblicazioni periodiche che possano
essere confrontate fra di loro e quindi
anche il confronto di carattere storico
fra i dati diventa molto arduo.
Unico dato indiscusso e sempre identico è quindi per il momento il numero
complessivo dei posti in organico di
diritto, in quanto si tratta di un valore
‘bloccato’ da un preciso articolo di
legge
L’organico di fatto
Fatta questa premessa metodologica
incominciamo esaminare alcune ‘dimensioni’ del complesso e variegato
mondo dei docenti italiani.
Un dato complessivo ufficiale è contenuto in una recente pubblicazione del
Miur che riporta una sintesi delle diverse variabili del sistema scolastico nazionale. Nella tabella 1 sono riportati i
dati relativi all’organico di fatto dell’anno scolastico 2014-15.
Sono questi i dati che stanno alla base
delle previsioni sullo sviluppo del sistema scolastico nazionale contenute nel
documento La Buona Scuola di cui si
parla dal settembre 2014.
Rivista
dell’istruzione
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Focus
Tabella 1 – Docenti della scuola statale. Organico di fatto, a.s. 2014-15
Scuola
infanzia
Piemonte
6.657
Lombardia
10.642
Veneto
4.392
Friuli-Venezia Giulia
1.679
Liguria
1.937
Emilia-Romagna
4.824
Toscana
5.955
Umbria
1.672
Marche
3.044
Lazio
7.933
Abruzzo
2.739
Molise
638
Campania
13.029
Puglia
7.880
Basilicata
1.232
Calabria
4.356
Sicilia
9.544
Sardegna
2.962
Totale
91.115
Scuola
Scuola
Scuola
primaria
sec. I grado sec. II grado
17.651
11.543
14.877
41.594
25.859
29.310
19.924
13.284
17.237
4.734
3.034
4.301
5.487
3.698
5.135
17.055
10.149
14.649
14.237
8.931
13.347
3.612
2.396
3.498
5.864
3.820
5.947
24.433
16.151
22.191
5.049
3.718
4.900
1.271
902
1.319
25.010
21.265
25.342
16.039
12.404
17.319
2.560
1.956
2.947
9.233
6.993
9.022
21.477
17.710
21.210
6.528
5.050
7.303
241.758
168.863
219.854
Totale
50.728
107.405
54.837
13.748
16.257
46.677
42.470
11.178
18.675
70.708
16.406
4.130
84.646
53.642
8.695
29.604
69.941
21.843
721.590
Fonte: Miur, D.G. per gli studi, la statistica e per i sistemi informativi, Anticipazione sui principali dati della scuola statale. A.s. 2014-15.
La stabilizzazione dei precari
Come è ormai ampiamente noto, il Piano prevede l’assunzione di 148mila docenti su posti di differenti tipologie (tabella 2).
Dal confronto dei dati di tabella 2 con
quelli della percentuale di docenti preca-
ri nei diversi segmenti del sistema scolastico (tabella 4), si può dedurre che 148mila assunzioni potrebbero essere davvero
sufficienti per risolvere in modo definitivo
il problema della copertura dei posti di diritto e di fatto, in questo modo soddisfatti senza il conferimento di incarichi a tempo determinato di durata annuale.
Il quadro
complessivo
dei docenti
in servizio
segnala
la presenza
di una quota
consistente
di personale
precario
(non di ruolo)
Tabella 2 – Piano assunzioni “La Buona Scuola”
Tipologia assunzioni
Previsione
Assunzioni sui posti lasciati liberi dalle ordinarie cessazioni dal servizio
15.000
Assunzioni su posti di sostegno per a.s. 2015-2016 già autorizzati da
precedenti disposizioni di legge
8.900
Posti che mancano per completare organico di diritto, attualmente
coperti da supplenze annuali di 12 mesi
14.200
Spezzoni aggregabili su posti interi che mancano per completare organico di fatto, attualmente coperti da supplenze annuali di 10 mesi
14.000
Spezzoni non aggregabili su posti interi, che mancano per completare
organico di fatto, attualmente coperti con supplenti annuali di 10 mesi
assunti a orario ridotto
Ulteriori assunzioni
12.000
Totale
148.100
Fonte: Miur, La Buona Scuola, 2014.
84.000
23
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
Tabella 3 – Personale stabile e precario nel comparto scuola. Serie storica
Anno
2007
2008
2009
2010
2011
2012
Personale
stabile
903.753
908.053
879.625
862.376
882.033
873.191
Personale
precario
233.866
221.810
195.147
180.908
133.556
140.136
Totale
1.137.619
1.129.863
1.074.772
1.043.284
1.015.589
1.013.327
Fonte: Mef, Elaborazione su dati di Ragioneria Generale dello Stato, Analisi di alcuni dati del conto
annuale del periodo 2007-2012.
La presenza
di personale
precario
e l’eccessiva mobilità
costituiscono
fattori critici
che indeboliscono
i livelli
di apprendimento
Dinamiche e ragioni
del precariato
La previsione di assorbimento dei precari viene confermata anche da dati ricavati dal Conto annuale dello Stato
che riportano però il dato complessivo
del comparto scuola, compreso il personale Ata (si tenga comunque conto
che i docenti rappresentano all’incirca
l’80% dell’intero comparto) (tabella 3).
Può essere interessante in proposito riportare pressoché integralmente quanto scrivono i tecnici del Ministero dell’economia nella relazione sul conto annuale dello Stato: “Quasi la metà dei lavoratori non a tempo indeterminato del
pubblico impiego (circa il 46%) è costituito da personale legato al mondo
dell’istruzione in cui una quota di personale non stabile è necessaria a coprire
le fisiologiche oscillazioni nel numero di
cattedre che si formano ogni anno o per
coprire le cattedre che restano scoperte, come nel caso delle sostituzioni per
maternità, evento tutt’altro che raro vista la composizione di genere del comparto. Per questo settore – concludono
i tecnici del MEF – il problema è rappresentato dal riassorbimento dell’eccesso
di precariato creatosi negli anni per ricondurre la dimensione del fenomeno
entro i limiti fisiologici”.
Turnover e qualità
dell’insegnamento
24
Va anche detto che molti ritengono
che la soluzione del problema del pre-
cariato, oltre ad innegabili risvolti sociali e occupazionali, potrebbe indirettamente contribuire anche a migliorare la qualità complessiva del sistema
di istruzione.
In questi anni, infatti, diverse indagini
hanno evidenziato che l’eccessivo turnover del personale docente è una delle cause degli esiti non sempre brillanti dei processi di insegnamento/apprendimento.
Il rapporto Labour market for teachers:
demographic characteristics and allocative mechanisms (2008) riporta i risultati di una ricerca condotta dal Ministero dell’istruzione in collaborazione
con il Dipartimento di analisi economica strutturale della Banca d’Italia.
In quello studio si segnalava che il grado di turnover a livello nazionale corrisponde annualmente al 50% degli insegnanti e tende ad aumentare mano
a mano che si sale nel livello scolastico; nella secondaria è minimo nei licei
classici e massimo nei professionali; i
livelli più bassi si riscontrano a Nord
mentre i più alti si hanno al Sud.
I ricercatori hanno correlato i dati sul
turnover con quelli relativi alla efficacia
delle azioni di insegnamento e hanno
mostrato che il turnover è tanto più elevato quanto più bassi sono i risultati di
apprendimento degli studenti.
Un corpo docente al femminile
Ci sono altre due caratteristiche che
servono a descrivere meglio il complesso mondo dei docenti italiani che,
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Tabella 4 – Composizione del corpo docente italiano. Anno finanziario 2012
Insegnanti
di cui Infanzia
di cui Primaria
di cui Secondaria I grado
di cui Secondaria II grado
di cui Personale educativo
Insegnanti di sostegno
di cui Infanzia
di cui Primaria
di cui Secondaria I grado
di cui Secondaria II grado
Docenti di religione
di cui Infanzia + Primaria
di cui Secondaria I grado
di cui Secondaria II grado
Totale insegnanti
Dirigenti scolastici
Totale
Uomini
(*)
674.886 124.188
84.656
536
211.830
7.937
149.396 31.834
226.494 82.353
2.510
1.528
98.261 15.522
9.122
133
36.793
1.875
28.833
7.431
23.513
6.083
26.038
6.007
14.440
1.184
3.096
831
8.502
3.992
799.185 145.717
7.991
3.707
Donne
550.698
84.120
203.893
117.562
144.141
982
82.739
8.989
34.918
21.402
17.430
20.031
13.256
2.265
4.510
653.468
4.284
% donne precari % precari
sul totale
(**)
sul totale
81,6
69.786
10,3
99,4
3.384
4,0
96,3
11.596
5,5
78,7
24.500
16,4
63,6
29.942
13,2
39,1
364
14,5
84,2
35.581
36,2
98,5
3.777
41,4
94,9
12.891
35,0
74,2
9.139
31,7
74,1
10.074
42,8
76,9
12.746
49,0
91,8
7.737
53,6
73,2
641
20,7
53,0
4.368
51,4
81,8
118.413
14,8
53,6
==
==
(*) Il dato comprende sia i docenti di ruolo sia quelli con contratto annuale.
(**) Il dato percentuale relativo ai docenti di sostegno non è più attuale in quanto l’organico di diritto del sostegno è stato aumentato in modo significativo negli ultimi anni.
Fonte: Conto annuale dello Stato, 2012.
proprio per questi due elementi, è diverso da quello di altri Paesi europei.
La prima riguarda la ‘femminilizzazione’ del corpo docente. La maggioranza degli insegnanti italiani (più
dell’80%) è donna; le insegnanti sono
invece pari al 70% in Germania e nel
Regno Unito e intorno al 67% in Francia e Spagna.
In tutti i Paesi europei gli insegnanti del
livello primario sono in maggioranza di
sesso femminile: si va dal 52% in Turchia, al 68% in Danimarca fino al 95%
in Italia. La percentuale diminuisce rapidamente se si passa alla secondaria
di primo grado e poi a quella di secondo grado come risulta dalla tabella 4,
che riprende i dati contenuti nel Conto
annuale dello Stato del 2012, l’ultimo
disponibile.
L’età (avanzata)
dei docenti italiani
La seconda, riguarda l’età media dei
docenti italiani, che è significativamen-
te più alta di quella di tutti gli altri Paesi europei.
Una recente indagine dell’Unione europea, Monitor 2014, fotografa molto
chiaramente il fenomeno.
In Italia il numero dei docenti con meno di 30 anni di età è statisticamente
irrilevante, mentre rappresenta il 20%
del totale nel Regno Unito, il 15% in
Belgio e in Romania, il 10% in Olanda.
Nel nostro Paese, peraltro, i docenti ultracinquantenni sono il 60% del totale
(in Germania il 50%, in Olanda poco
meno, in Francia e in Spagna il 30%).
Focus
La presenza
femminile
tra i docenti
supera l’80%:
è del 99,4%
alla scuola
dell’infanzia
e del 96%
nella scuola
primaria,
mentre solo il 53,6%
dei dirigenti
è donna
Il livello di preparazione
Nell’indagine dell’Unione europea che
abbiamo appena citato, il 38% degli insegnanti italiani viene definito ‘non abbastanza qualificato’, dato peraltro in
linea con la media europea (per carenza di preparazione pedagogica si intende, secondo la ricerca in questione,
che “gli insegnanti non sono preparati
ad affrontare le sfide che possono in-
25
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Figura 1 – L’età dei docenti in Europa
Fonte: European Commission Education and Training, Monitor 2014, in http://ec.europa.eu/education/tools/et-monitor_en.htm.
contrare, ad esempio soddisfare gruppi di apprendimento sempre più eterogenei, gestire il comportamento degli
studenti e utilizzare con efficacia le tecnologie della informazione e della comunicazione”). Non solo, ma, sempre
secondo l’Unione europea, i nostri docenti sono poco propensi ad aggiornarsi soprattutto per quanto attiene all’impiego delle tecnologie.
Per la verità bisogna anche dire che altre indagini (per esempio Talis 2009)
avevano evidenziato un dato diverso.
Da quella ricerca, per esempio, emergeva che i docenti considerano insufficiente l’offerta di formazione esistente
e chiedono invece una formazione continua seria e diversificata.
La stessa indagine evidenziava i temi
sui quali più di altri i docenti vorrebbero formarsi e aggiornarsi: nuove tecnologie, problemi di disciplina, insegnamento agli studenti disabili o con difficoltà di apprendimento.
Una formazione (quasi)
inesistente
Resta il fatto che, al di là di quello che
i docenti desiderano, negli ultimi 10
anni l’investimento statale in formazione e aggiornamento è letteralmente
crollato come si può vedere dalla tabella 5.
26
Non resta che augurarsi che i fondi che
la legge di stabilità mette a disposizione per la realizzazione del piano La
Buona Scuola possano servire non solo per affrontare il problema del precariato, ma anche per mettere le scuole
nelle condizioni di promuovere azioni
di sostegno allo sviluppo della professionalità docente.
Education and Training Monitor
Reginaldo Palermo
Già dirigente scolastico, autore di articoli e saggi su temi
di politica scolastica
[email protected]
La femminilizzazione
del ruolo docente
di Cinzia Mion
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
I dati parlano al femminile
Le statistiche hanno riconosciuto che
ormai le donne-insegnanti sono più dei
tre quarti di tutto l’organico a livello nazionale: quasi il 100% alla scuola
dell’infanzia, il 96% alla primaria, il 78%
alla secondaria di primo grado e il 60%
in quella di secondo grado.
Non a caso alcuni anni fa qualcuno
chiedeva a livello provocatorio, ma non
troppo, di istituire le ‘quote azzurre’ sia
nel campo della ‘cura’ sia in quello della scuola. Nell’Unione europea la quota delle donne docenti si ferma invece
al 60% circa.
Sarebbe interessante, prima di provare a investigare le conseguenze di questa femminilizzazione del ruolo docente, provare velocemente a dare un colpo di sonda – per quanto possibile in
questa sede e per quanto attendibile –
dentro all’analisi sociologica per cercare non di scandagliare, ma almeno accennare, ad alcune possibili cause che
hanno indotto tale fenomeno.
Possibili cause, vecchi
stereotipi, qualche intuizione
La prima riflessione, che forse risulta
però alquanto scontata, è che nel nostro Paese la professione docente dagli anni Settanta in poi è progressivamente scaduta dal punto di vista del riconoscimento sociale ed economico,
per cui appare poco appetibile per gli
uomini.
L’altra riflessione altrettanto scontata
è che lo stereotipato orientamento familiare, per cui fare la docente è preferibile a qualsiasi altra professione
perché “puoi fare meglio la moglie e la
madre”, non è ancora superato. La
considerazione infatti che quella del
docente è una vera e propria professione, non un mero mestiere esecutivo, per cui non bastano le ore di prestazione dell’insegnamento vero e
proprio, non ha ancora raggiunto l’uo-
mo della strada ma non ha ancora permeato nemmeno alcuni addetti ai lavori. Dai decreti delegati in poi parecchie ore del pomeriggio vengono comunque sottratte per impegni collegiali al vagheggiato lavoro part time
che qualcuno ancora si ostina ad
aspettarsi.
Questi ultimi sono quei docenti, in genere della scuola secondaria, che continuano a esercitare nel pomeriggio la
libera professione e quelle docenti che
fanno fatica a conciliare la vita familiare con la vita lavorativa, ma che hanno talmente interiorizzato ‘l’etica sacrificale’ femminile che non provano
nemmeno a distribuire il lavoro domestico tra figli (una volta cresciuti) e
partner.
L’opinione pubblica, artatamente manipolata, si incaponisce ancora a pensare che il lavoro del docente sia un impiego privilegiato, riconducibile all’orario semplice delle ore curricolari quando da tempo invece tutti noi sappiamo
che non è così.
Un’altra causa è quella della competenza relazionale che viene riconosciuta all’identità femminile in modo generalizzato, non solo per considerazione
del senso comune ma anche per riflessioni filosofiche desunte dal ‘pensiero
della differenza’.
La prevalenza
femminile
nel corpo docente
rispecchia
scelte culturali,
lavorative,
esistenziali
molto radicate
anche
nel senso comune
Pensiero della differenza
La corrente filosofica ‘pensiero della
differenza’, che ha in parte superato il
veterofemminismo, che puntava sul
principio dell’uguaglianza, scommette
invece sulla differenza: differenza di genere all’interno però ancora del paradigma culturale della linearità, per cui
vige la logica binaria dell’aut… aut. O
uguaglianza o differenza. Oggi, all’interno del paradigma della complessità,
noi cerchiamo invece di coniugare sia
l’uguaglianza che la differenza, secondo la politica culturale delle pari opportunità.
27
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
Tabella 1 – Graduatoria tra i Paesi
dell’indagine Talis per presenza femminile
tra gli insegnanti
Paese
Se si associa
la competenza
relazionale
all’identità
femminile,
per esaltarla,
si rischia
di porle
entrambe
ai margini
% docenti
femmine
1.
Giappone
39
2.
Messico
54
3.
Olanda
55
4.
Spagna
59
5.
Emirati arabi
59
6.
Australia
59
7.
Danimarca
60
8.
Alberta (Canada)
60
9.
Norvegia
61
10.
Cile
63
11.
Regno Unito
63
12.
Singapore
65
13.
Serbia
66
14.
Francia
66
15.
Svezia
66
16.
Media Paesi Talis
68
17.
Fiandre (Belgio)
68
18.
Corea
68
19.
Romania
69
20.
Malesia
71
21.
Brasile
71
22.
Irlanda
72
23.
Finlandia
72
24.
Portogallo
73
25.
Croazia
74
26.
Polonia
75
27.
Israele
76
28.
Repubblica Ceca
76
29.
Italia
79
30.
Bulgaria
81
31.
Repubblica Slovacca
82
32.
Estonia
84
33.
Lettonia
89
Fonte: Elaborazione su dati OECD, Talis 2013
Database (mtb).
28
Le differenzialiste però hanno rinforzato, senza averne l’intenzione, un pensiero implicito di basso profilo che già
circolava e che può essere espresso
dall’idea che essere donne è per metà
essere già docenti, secondo il cosiddetto mito della congenialità.
Naturalmente la corrente filosofica del
pensiero della differenza ha invece
usato, e usa ancora, livelli molto suggestivi e profondi di elaborazione affermando che la radice della differenza sessuale, che contraddistingue la
femminilità, sta nella relazione, in quel
pensiero materno dell’ordine del simbolico che si concretizza nell’etica della cura.
Una delle argomentazioni più utilizzate
dal pensiero della differenza, di cui A.
Cavarero è una illustre rappresentante,
è che la ‘differenza’, lungi dall’essere
una mancanza, deve diventare un motivo di orgoglio, un privilegio, una spinta ad affermare il proprio protagonismo
a fronte di un mondo a lungo dominato dal maschile, assunto come neutro.
Questo ‘ordine dell’uno’ è stato costrui­
to su ‘un’amnesia’, amnesia che ha fatto dimenticare o cancellare la differenza di genere, nella fattispecie quella
femminile.
Molte donne hanno fatto però un percorso di consapevolezza: per prime,
aiutate anche dal lavoro fuori casa,
hanno intaccato i vecchi stereotipi che
le riducevano a essere assoggettate e
incapaci di un proprio protagonismo,
indotte da una storia e una realtà connotate da un forte svantaggio. Il loro
percorso di crescita si è accompagnato a un progressivo processo di autorealizzazione che non può non riflettersi sulle loro figlie che stanno maturando accanto a loro.
Gli uomini sono vissuti di rendita e ora
provano spesso una situazione di disagio che non può non riverberarsi sui
giovani maschi fin dalla loro preadolescenza, come possiamo facilmente registrare sia nelle classi della scuola secondaria di primo grado sia nel biennio
di quella di secondo grado.
Il mito della congenialità
e i tre codici affettivi
La competenza relazionale, che dovrebbe accompagnare la professionalità docente, però non è un dato biologico dovuto semplicemente all’appartenenza al genere femminile, checché
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
ne dicano le differenzialiste. È questo il
rischio connesso al mito della congenialità. A scuola vanno intrecciati insieme i tre codici affettivi di cui parla Franco Fornari. Non è facile procedere a
questo intreccio ed è qui che si implementa la competenza professionale.
Il codice materno, espressione simbolica che non coincide con femminile,
consiste nella competenza di saper accogliere, ascoltare empaticamente, sostenere nell’apprendimento, porre attenzione al disagio di non apprendere,
incoraggiare.
È necessario in tutti gli ordini di scuola, non solo alla scuola dell’infanzia o
primaria. Lo stesso dicasi per il codice
paterno, che riguarda il contenimento
attraverso le regole, la guida, l’orientamento, la valutazione, l’induzione
dell’autonomia personale e di pensiero, o per quello fraterno, che attiva l’interazione tra i pari, l’aiuto reciproco e
la cooperazione all’interno della classe
che va intesa come una ‘comunità interattiva’.
Non è vero che basta essere docenti
donne per manifestare tale competenza. Serve una buona formazione che riguarda tutti i docenti sia donne che uomini. Si tratta di possedere innanzitutto, ma non solo, quella capacità di
orientarsi nella complessità che si
esplica nel saper rapportarsi alla multilogica e alla multidimensionalità, come dice E. Morin.
La competenza relazionale
Può essere senz’altro vero che l’utilizzo del codice materno sia più facilmente riscontrabile in una donna, ma potrebbe anche essere facile scivolare nel
maternage (presente a volte nella scuola dell’infanzia), che si esprime senza
quella distanza peculiare e indispensabile, utile a evitare identificazioni fusionali che trattengono i soggetti minori
nella dipendenza, così deleteria ai fini
del raggiungimento dell’autonomia.
Alla scuola secondaria può invece apparire un eccesso di codice paterno,
che non significa maschile, per la paura contraria. Può presentarsi infatti il timore di una identificazione con l’età
dell’adolescenza (propria) mal elaborata, che può portare allora alla spersonalizzazione della relazione per difesa.
Tale dinamica, legittimata dalla struttura della scuola, è volta a proteggere l’adulto da possibili e facili regressioni,
ma, come dice Renzo Carli, “tende a
impedire il manifestarsi nei giovani stessi di quei desideri, sentimenti o fantasmi che caratterizzano ogni rapporto
personale e profondo che l’insegnante
dovrebbe elaborare, comprendere e
sopportare”.
Azzarderei che è più facile che compaia nel docente maschio tale fenomeno
della spersonalizzazione, ma non ne
sono troppo sicura. Penso che l’insicurezza, accompagnata a irrigidimento
per tema di perdere il ruolo, giochi brutti scherzi sia a docenti donne che a docenti uomini.
Focus
In classe
occorre
saper dosare
codici materno,
paterno e fraterno,
utili a regolare
relazioni educative
appropriate
Contratto, tempo di lavoro,
carriera
Un’altra facile conseguenza della femminilizzazione del ruolo, identificata da
chi analizza i rapporti con i sindacati e
la partecipazione alle iniziative come lo
sciopero, è una tiepida reazione di fronte alle iniziative di rivendicazione sindacale. Secondo alcuni autori ciò sottende la semplicistica riflessione implicita: “quello che mi dai mi basta, ma
non chiedermi di più in termini di prestazione” perché il mio tempo è prezioso per la famiglia.
In altri termini si ascrive anche al fenomeno della femminilizzazione il radicarsi, non l’implementarsi, del patto
scellerato per cui alla docenza si richiede una formazione iniziale, che fino a oggi non è stata più verificata nel
corso successivo della vita professionale, e in cambio si tengono i salari
bassi.
Su questo patto scellerato si agitano al
massimo mugugni e lamentele di corridoio, ma alla scadenza di una riven-
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Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
Le identità
sociale e psicologica
(e di genere)
si costruiscono
attraverso rapporti
di inclusione
(somiglianza)
e di esclusione
(differenza)
30
Il Maestro Gianfranco Zavalloni
dicazione seria le donne-docenti spariscono sullo sfondo. In altri termini,
tranne qualche bellissimo esempio storico di protesta ai tagli – in cui c’è stata anche la rivolta delle ‘mamme’ – gli
scioperi nella scuola contano adesioni
limitate. I maligni aggiungono un’altra
causa: lo status di mogli di professionisti di moltissime insegnanti per cui la
rivendicazione di un miglioramento salariale è poco interessante a fronte del
rischio di trovarsi di fronte a un appesantimento del tempo da passare a
scuola o a una innovazione profonda
che potrebbe richiedere applicazioni
impegnative.
Sfuggono a questo destino le docenti
più impegnate, e a dire il vero ne conosco moltissime, e chissà quante ce ne
sono ancora che desiderano migliorare continuamente la loro professionalità e magari, perché no?, percorrere l’unica possibilità di progressione di carriera diventando dirigenti.
Il tema dell’identificazione
di genere
E. Erikson afferma che l’acquisizione di
una identità sia sociale che psicologica è un processo complesso che comporta un rapporto positivo di inclusione e un rapporto negativo di esclusione. Ci si definisce per somiglianze con
certuni e differenze con altri.
Anche l’identità di genere obbedisce a
questo processo.
Avviene un processo di identificazione
con le persone dello stesso sesso e di
differenziazione con quelle del sesso
opposto. Questo è comunque un problema che rimane aperto (su cui la ministra Carrozza aveva anche suggerito
una formazione dei docenti che si è
persa nei meandri del Miur) e che merita delle riflessioni serie e puntuali da
parte della scuola e non solo.
Ora però, riprendendo il riferimento alla coppia genitoriale, notiamo che
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
spesso questa ‘scoppia’, quindi è ineludibile il richiamo alle frequenti famiglie monoparentali, quasi sempre rappresentate dalla madre; oppure alle ancora rare famiglie arcobaleno, caratterizzate da genitori dello stesso sesso,
all’interno delle quali non sono presenti entrambi i generi.
In tutti i casi va fatto presente che l’identificazione primaria avviene nei confronti dei genitori ma quella secondaria, altrettanto importante, avviene nei
confronti delle figure significative secondarie che i bambini e le bambine, i
ragazzi e le ragazze incontrano crescendo. È ovvio che innanzitutto queste figure dovrebbero essere rappresentate dai docenti. È sempre stato così. Tutti noi ricordiamo qualcuna di queste figure importanti che hanno orientato la nostra vita con la loro importanza e valore.
A questa consapevolezza possiamo
aggiungere che c’è un rischio, però,
che potrebbe diffondersi all’interno della scuola. Si tratta dello stereotipo femminile della arrendevolezza e acquiescenza di cui, se le donne docenti non
si rendono accorte, potrebbero essere
inconsapevole veicolo. Ciò potrebbe
comportare ulteriori danni per lo sviluppo del senso di cittadinanza che recentemente ha allarmato Nadia Urbinati
tanto da farle usare l’espressione per
l’Italia di società democratica docile,
per cui il modo di porsi nei confronti del
potere è più quello del suddito che
quello del cittadino.
Sarebbe interessante aprire un dibattito su questo argomento…
Dall’evaporazione
del padre alla riscoperta
della testimonianza
appassionata
Oggi poi noi sappiamo che siamo in
presenza della cosiddetta ‘evaporazione’ del padre, insieme al principio di
autorità (Recalcati), ed è inevitabile che
il pensiero vada alla carenza appena
descritta di figure maschili nella scuo-
la. Sempre Recalcati, nel suo bellissimo testo Il complesso di Telemaco, afferma però che dal padre attualmente
i figli dovrebbero auspicare di ereditare non un regno, non una discendenza
illustre, non geni, né beni, ma la testimonianza silenziosa del Desiderio ed è
questo che si aspettano i vari ‘Telemaco’ che scrutano il mare in attesa del
padre.
E quale auspicio maggiore può esserci che anche la scuola, a prescindere
dall’essere quasi completamente femminilizzata, possa essere o diventare il
luogo della passione. Passione per la
conoscenza, per la comprensione profonda delle idee che hanno fatto crescere il mondo, per la cura della mente che sa collegarsi con il cuore, per la
scoperta di nessi e relazioni tra i mondi culturali, per l’intrecciarsi di relazioni interpersonali autentiche e significative, per l’incontro con docenti (donne
o uomini) che ci hanno fatto provare
brividi intellettuali da continuare a desiderare di riprovare per tutta la vita.
Che sono ancora in grado di far vivere ai loro allievi/e una scuola ricca di
senso.
Focus
Modelli femminili
e maschili
dovrebbero
andare oltre
gli stereotipi
evitando
i rischi
dell’arrendevolezza
o dell’evaporazione
Riferimenti bibliografici
A. Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale, in Diotima. Il pensiero della differenza, La Tartaruga, Milano, 1987.
F. Fornari, Simbolo e codice, Feltrinelli, Milano,
1976.
R. Carli, Aggiornamento degli insegnanti: una proposta di intervento psicosociale, La Nuova Italia, Firenze, 1980.
E. E rikson , Infanzia e società, Armando, Roma,
1950.
E. Morin, Le vie della complessità, in La sfida della
complessità, a cura di M. Ceruti e G. Bocchi, Feltrinelli, Milano, 1985.
M. Recalcati, Cosa resta del padre, Feltrinelli, Milano, 2011.
Cinzia Mion
Già dirigente scolastico, psicologa, formatrice
[email protected]
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Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
“La Buona Formazione”:
passo dopo passo…
di Giancarlo Cerini
Focus
Il contributo delle scuole
sperimentali
Esistono
scuole
sperimentali
che hanno messo
alla prova
modalità
innovative
di selezione,
formazione,
valutazione
dei docenti
32
Molti dei nodi controversi contenuti nel
documento del Governo oggetto di consultazione pubblica (“La Buona Scuola”) potrebbero essere affrontati ascoltando le esperienze più innovative messe già in atto in molte scuole del nostro
paese. In fondo, la ‘buona scuola’ c’è
già, ma non fa sistema: sono realtà
frammentate, isole disperse, che devono essere aiutare a fare arcipelago e poi
a diventare terraferma, cioè base solida
per l’intero sistema scuola.
È questo il caso delle tre scuola italiane appartenenti alla rete Wikischool
(scuola-città “Pestalozzi” di Firenze,
scuola “Don Milani” di Genova, scuola media “Rinascita” di Milano), che da
anni sono impegnate in attività di ricerca e sperimentazione sull’organizzazione didattica e professionale, avvalendosi della ‘copertura’ dell’art. 11
del d.P.R. 275/1999 che ancora consente di autorizzare sperimentazioni
strutturali con un lieve incremento del
numero dei docenti (organico funzionale).
Al di là di aspetti curricolari, didattici
ed educativi (la continuità verticale, le
tecnologie didattiche, la gestione della classe, i laboratori...) le tre scuole
offrono interessanti suggestioni e soluzioni operative nel campo dello sviluppo professionale degli insegnanti e
consentono di chiarire alcune delle
questioni più ‘calde’ che sono contenute nella proposta del Governo. Ad
esempio: come favorire un migliore
raccordo tra bisogni della scuola e
personale che chiede di insegnarvi,
superando meccanismi automatici di
assegnazione? Come far sì che la
scuola diventi un luogo di ‘crescita’
professionale dei docenti e con quali
impegni, condivisioni, ‘patti’? Come
favorire una dimensione collaborativa
e collegiale del lavoro docente, valorizzando apporti e impegni dei singoli
docenti, attuando un’idea non-competitiva di merito?
Cicli di vita professionale
Vediamo più nel dettaglio qual è il contributo che alcune innovazioni adottate nelle tre scuole sperimentali possono offrire all’intero sistema educativo
italiano.
Abbiamo immaginato (1) un ideale ciclo
di vita professionale, dalla formazione
iniziale alla maturità, mettendolo in relazione con le nuove proposte del Governo e le prospettive di una possibile
generalizzazione delle innovazioni.
Si tratta dei passaggi più significativi
di un percorso orientato al miglioramento continuo e al dinamismo culturale e progettuale. L’innesto nella comunità scolastica di appartenenza assicura un ‘imprinting’ e una visione
collaborativa del lavoro docente nella
convinzione che non solo i singoli
‘buoni docenti’ – adeguatamente formati, selezionati e individuati – faranno una buona scuola, ma che una
scuola con il suo stile, la sua storia, la
sua identità è in grado di far crescere
buone professionalità.
Un’emergenza:
la formazione in ingresso
Un contributo significativo le tre Wikischool lo possono offrire per la realizzazione di un sistema di formazione in
1) Le presenti riflessioni scaturiscono dalla
partecipazione al seminario delle scuole
sperimentali della rete “Wikischool”,
tenutosi a Milano il 21 ottobre 2014 (Gruppo
di lavoro: Reclutamento, formazione e
valutazione).
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
Figura 1 – Fasi dello sviluppo professionale
Valutazione/
valorizzazione
Formazione
in servizio
Formazione
in ingresso
Assegnazionie
docenti alle
scuole
Formazione
iniziale
Fasi
Cosa dice
“La Buona Scuola”?
Quali le esperienze
delle Wikischool?
Cosa si dovrebbe generalizzare in ogni scuola?
Qual è il ruolo di una
rete di scuole-polo?
Dopo un percorso universitario
scandito in 3+2 anni, sono
previsti 6 mesi di praticantato
a scuola, con la guida di un
insegnante mentor.
Le scuole sperimentali sono
contesti operativi idonei a
ospitare tirocini formativi in
accordo con le università.
Ogni scuola si accredita per
accogliere tirocinanti, inserendo la loro formazione pratica
tra i compiti istituzionali.
Predisporre strumenti di osservazione e supervisione della
pratica ‘guidata’. Formare figure di mentor, in collaborazione
con università.
Favorire la individuazione di
docenti per le esigenze ad
hoc di ogni istituto (anche sulla
base di un albo di docenti e di
un portfolio pubblico).
I docenti interessati partecipano a un bando e si sottopongono a un colloquio attitudinale,
dopo l’esame del loro curricolo
(a opera di una commissione).
Sulla base di una dotazione
organica di rete, ogni scuola
favorisce l’incontro tra domanda-offerta di posizioni di
insegnamento.
Affinare le modalità di matching
tra progetto della scuola e
risorse professionali disponibili
e motivate.
---
Il docente in ingresso viene affiancato da uno o più tutor che
lo supervisionano in momenti
‘forti’ del lavoro (didattica,
laboratorio, consigli...) per
almeno due anni.
Ogni scuola si prende ‘carico’
dei nuovi assunti con modalità
di accompagnamento (tutoraggio, osservazione in classe,
peer review, supervisione professionale).
Mettere a punto figure ad hoc
per il tutoraggio dei neo-assunti (mentor) e sperimentazione di
metodi e modelli di accoglienza orientati alla dimensione
collaborativa.
Sviluppare azioni formative
(obbligatorie) legate ai contesti e alle pratiche didattiche,
meglio se in rete.
L’attività formativa non consiste solo in frequenza di corsi,
ma in ‘laboratorio adulto’ di
ricerca, formazione e produzione di ipotesi didattiche, attraverso modalità collaborative.
Introdurre progressioni economiche differenziate, per
premiare meriti e impegni,
resi visibili da un sistema di
crediti formativi, professionali,
didattici.
La valutazione si riferisce alla
verifica dell’impegno, dello
stile e dei livelli di partecipazione del docente al progetto
della scuola.
Le scuole in rete danno vita a
laboratori di formazione-ricerca
fortemente orientati alla pratica
didattica e alla soluzione dei
problemi di gestione della classe. Alcune scuole si qualificano
per la loro ‘specialità’.
In base a criteri nazionali riferiti
a standard professionali (standard di prestazione o crediti
nelle aree della formazione in
servizio, degli impegni gestionali, della didattica) la scuola
accerta il raggiungimento delle
soglie di qualità prescritte e
‘valida’ lo sviluppo di carriera.
Essere punti di riferimento per
la formazione (art. 7, d.P.R. 275).
Le scuole sperimentali storiche
(assieme ad altre di solide tradizioni) costituiscono un ‘parco pedagogico’ delle scuole
innovative.
Diventare cantieri di ricerca
per ‘profilare’ e descrivere le
diverse tipologie di crediti con
particolare riferimento alla qualità delle pratiche didattiche:
-autovalutazione
-documentazione
-rendicontazione.
ingresso dei docenti neo-assunti
(28.000 quest’anno scolastico, presumibilmente 148.000 nel prossimo) che
vada oltre la routine degli incontri di aggiornamento e delle esercitazioni sulle
piattaforme digitali. Infatti, fin dal suo
ingresso nella scuola il neo-docente
potrebbe essere affiancato da figure di
tutor (tutoraggio diffuso) che lo guidavano in situazioni tipiche del lavoro: in
aula, nei laboratori, nella progettazione, nei consigli di classe. Le scuole
sperimentali hanno già messo a punto
appositi protocolli di osservazione dei
comportamenti professionali, schede
di sintesi con un giudizio espresso con
un punteggio sulla base di apposite rubriche descrittive (ove si apprezza in
particolare la capacità di lavorare con i
colleghi) (2).
L’intenzione non è quella di enfatizzare
il momento valutativo, ma di aiutare un
L’inserimento
‘guidato’
dei neo-assunti
è fondamentale
2)S. Bertone, M. Pedrelli, Il ruolo della
comunità in un modello di valutazione
professionale dei docenti, in “Rivista
dell’istruzione”, n. 6, novembre-dicembre
2014, Maggioli, Rimini.
33
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
- accogliere in classe un collega per
osservazioni formative (peer review)
sulle strategie didattiche adottate;
- condividere prove comuni di verifica e valutazione;
-ecc.
Rilanciare la ‘buona’ ricerca
(fm)
Il percorso
di prima
formazione
comprende
autovalutazione,
tutoring,
peer review
e un patto
per lo sviluppo
professionale
insegnante in un processo di riconoscimento della propria professionalità (dei
punti di forza e di criticità), di favorire
l’autovalutazione convalidata da un occhio terzo, a scopo formativo e di miglioramento. Il percorso di accompagnamento prevede anche l’impegno a
progettare una o più unità didattiche e
a realizzare colloqui di supervisione con
i propri tutor durante l’anno scolastico.
Un patto per lo sviluppo professionale
potrebbe formalizzare l’impegno del
docente ad arricchire la sua preparazione, in sintonia con la progettualità
della scuola in cui opera (3).
Questi elementi rappresentano la base
per il rilascio di crediti didattici agli insegnanti: si potrebbe anche non entrare nel merito della qualità della didattica (anche per la difficoltà ad adottare
criteri interpretativi univoci), ma limitarsi a un incisivo protocollo metodologico. Cioè ottiene crediti didattici il docente che è disponibile a:
- documentare una o più sequenze
didattiche del proprio insegnamento (attraverso modalità cartacee,
multimediali, prodotti autentici,
ecc.);
- discutere con un esperto delle caratteristiche della propria azione didattica;
La descrizione di varie tipologie di crediti richiede che scuole particolarmente propense all’innovazione possano
sperimentare strumenti, modelli, procedure fattibili. Qualcosa non convince nel meccanismo premiale dei 2/3 e
1/3 ipotizzato in “La Buona Scuola”.
Piuttosto che suddividere gli insegnanti in scaglioni prefissati rispetto a
una classifica (ranking) è opportuno
definire delle soglie di accettabilità (rating) che TUTTI i docenti possano
aspirare a raggiungere, marcando in
questo modo un effettivo miglioramento delle caratteristiche dell’insegnamento. La valutazione del merito
si assocerebbe così alla salvaguardia,
anzi al potenziamento della dimensione collaborativa in cui si esplica la funzione docente.
Le scuole sperimentali Wiki possono
dunque candidarsi nei prossimi mesi e
anni a promuovere le loro scuole come
laboratori per lo sviluppo professionale, mettendo a fuoco soluzioni operative nello stile comunitario che le contraddistingue.
www.wikischool.it/
3) Un esempio di “patto per lo sviluppo
professionale” adottato dalla scuola “Don
Milani” di Genova è ripreso in G. Cerini,
Crediti e portfolio, in Voci della scuola “La
Buona Scuola 1”, Notizie della Scuola 3-4,
34
ottobre 2014, Tecnodid, Napoli.
Giancarlo Cerini
Direttore di “Rivista dell’istruzione”
[email protected]
Un’altra didattica
è possibile
di Enzo Zecchi
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
Verso un nuovo paradigma
educativo
“Si avvertono segnali che evidenziano
l’inizio del tanto atteso passaggio a un
nuovo paradigma educazionale”. Questo l’incipit dell’editoriale del recente
numero di settembre-ottobre di Educational Technology a firma di Clinton B.
Chadwick (2014). I segnali di cambiamento riguardano l’apertura della scuola al pensiero costruttivista-costruzionista; l’orientamento verso una didattica per problemi, progetti e competenze, oltre l’approccio trasmissivo tradizionale; e soprattutto il passaggio a una
scuola centrata sull’alunno.
La necessità del cambio di passo è dichiarata da più parti. La Commissione
europea e il Miur chiedono di favorire
lo sviluppo e la certificazione delle
competenze e in letteratura la discussione su questo è aperta ormai da qualche decennio.
Vi sono organismi che studiano quali
dovranno essere le competenze del 21°
secolo. Gli stessi responsabili politici,
fino ai capi di Stato, auspicano che i
giovani sviluppino le competenze per
una cittadinanza piena e per un inserimento di successo nel mondo del lavoro. Il presidente americano Obama,
ad esempio, non cessa di stimolare il
sistema educativo a favorire nei giovani il problem-solving, il pensiero critico,
l’imprenditorialità e la creatività.
Marc Prensky, il creatore del fortunato
concetto dei ‘nativi digitali’, pensa che
sia addirittura giunto il momento di andare oltre le competenze del 21° secolo e di rifondare un nuovo curricolo:
“The world needs a new curriculum”
(Prensky, 2014).
Tutti questi segnali, e molti altri, spingono verso la necessità di ripensare il
modo di fare scuola, di evolvere verso
un nuovo paradigma educativo. Forse,
in Italia questi segnali sono meno evidenti: ci sono qua e là entusiasmi, insegnanti motivati e sperimentazioni av-
viate, ma l’attività largamente prevalente e visibile della scuola e il corpo docente sono ancora saldamente ancorati al modello di didattica trasmissiva.
Il cambiamento può disorientare
I docenti, messi di fronte a buone argomentazioni, condividono in grande numero l’idea di introdurre nuove forme
di didattica in grado di rispondere alle
sfide che oggi la scuola è chiamata ad
affrontare. Per molti questa condivisione non è di facciata, ma sincera e alcuni mostrano un entusiasmo inusuale
per la classe docente.
La voglia di cambiamento però scema
presto, anzi generalmente si azzera,
quando i docenti si ritrovano in classe
e quando, almeno quelli più volonterosi, il cambiamento cercano di realizzarlo davvero. Il problema del cambiamento in effetti è complesso, di difficile soluzione e va affrontato con l’attenzione
dovuta.
L’esperienza mostra che quando forme
di didattica attiva sono introdotte correttamente in classe, i ragazzi non faticano ad adeguarsi a esse, anzi generalmente si lasciano coinvolgere e partecipano alle attività con entusiasmo.
Durante la risoluzione di problemi e lo
sviluppo di progetti, imparano a lavorare in gruppo e ad apprendere per
scoperta: per loro, presto, questo diventa un approccio naturale. Al contrario, per i docenti l’introduzione di nuove forme di didattica è spesso un problema rilevante, non necessariamente
dovuto a pigrizia o inerzia, ma a cause
profonde che vanno analizzate singolarmente per arrivare a qualche soluzione.
L’ostacolo primo e principale che trattiamo qui di seguito è di natura culturale: in poche parole, il docente è stato formato in una scuola che da sempre ha privilegiato i contenuti rispetto
alle competenze. I saperi matematici,
linguistici, scientifici e sociali (M. Pren-
Esiste
un consenso
generalizzato
verso le innovazioni
didattiche,
ma il cambiamento
trova
inaspettati
ostacoli
tra i docenti:
perché?
35
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
Andare oltre
la didattica
trasmissiva
significa
sperimentare
un nuovo modo
di essere
docenti
36
sky, 2014) sono alla base dell’educazione di ogni docente, come di ogni
adulto. Tutti abbiamo investito molto e
a lungo nell’acquisizione di questi saperi e questo lavoro intenso ci rende
fieri e gelosi dei risultati ottenuti, al punto da ritenerli la base, il nucleo imprescindibile dell’educazione in generale.
La prospettiva di una scuola che vada
oltre questi saperi e privilegi piuttosto
le competenze e che metta al centro
l’alunno, ci disorienta nel profondo,
mette in discussione l’idea di buona
educazione che ci siamo costruiti.
La rassicurante didattica
trasmissiva
Il passaggio a una didattica attiva, di
taglio costruttivista/costruzionista risulta spesso per il docente un salto nel
vuoto, un passaggio disorientante, perché vengono a mancare i riti, i gesti, la
‘liturgia’ della didattica trasmissiva, vere pietre miliari della professione docente. Il docente ha avuto una formazione efficace alla professione negli anni della sua frequentazione scolastica,
una sorta di apprendistato durato il
tempo dei suoi studi e un’importante
iniziazione alla didattica trasmissiva.
Proprio perché parliamo di apprendistato, parliamo di formazione profonda
e quanto appreso è diventato parte per
così dire del Dna del docente, radicandosi al punto da rendere molto complessa qualsiasi mutazione. È grazie a
questo apprendistato che – almeno in
Italia – un laureato in qualunque disciplina si trasforma miracolosamente in
insegnante.
I laureati in discipline distanti dalla cultura pedagogica, quando iniziano a insegnare ritrovano da subito nel loro bagaglio cognitivo gli strumenti fondamentali per governare una classe in un
ambiente di didattica trasmissiva. Ed è
proprio questa padronanza, inconsapevole e profonda, dei gesti della didattica trasmissiva che rende improbabile e difficile un loro abbandono, anche solo parziale, soprattutto se il do-
cente non è certo di ritrovare l’ordito di
un nuovo tessuto di gesti e riti che gli
consentano di affrontare il nuovo ambiente con la consapevolezza di avere
gli strumenti per governarlo.
Anche i docenti più motivati che decidono di intraprendere un percorso di
didattica attiva rischiano, dopo poco
tempo, di abbandonare l’impresa per
trauma da cambio di ruolo. Abituati
all’ambiente di classe tradizionale, in
cui lo scenario prevalente è quello
dell’insegnante che spiega e degli alunni che ascoltano e in cui per gli alunni
è bandita qualunque forma di colloquio/collaborazione, i docenti si trovano catapultati in un ambiente completamente diverso.
Le ‘nuove’ didattiche
sono disorientanti?
Con le didattiche attive gli studenti generalmente lavorano in gruppo, e nei
casi migliori s’instaura un clima di collaborazione, di reciproco aiuto, in cui
ognuno contribuisce con la propria forma mentis, con le proprie abilità. S’instaura insomma un clima positivo, di
costruzione, in cui al silenzio e all’ordine auspicati nella didattica trasmissiva
subentra un’entropia costruttiva, ma
per molti docenti disorientante.
In questo diverso ambiente il docente,
da dominus assoluto del sapere si trasforma in coach: ruolo insolito e difficile, fonte di situazioni impreviste che lo
mettono a disagio. Emblematico il dover ammettere la propria ignoranza di
fronte a domande non immediatamente correlate alla propria materia e per
rispondere alle quali deve prendersi
tempo di ricerca e riflessione. Questa
situazione è fisiologica nella nuova didattica, ma viene vissuta dai più come
patologica e molti docenti che non riescono a tollerarla arrivano ad abbandonare qualunque velleità di cambiamento. Per non parlare della gestione
delle conflittualità emergenti nei gruppi e delle difficoltà nell’utilizzo delle tecnologie.
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Le problematiche individuali, soggettive vissute dal docente si amplificano
per il contesto organizzativo e relazionale nel quale si inseriscono. Le nuove
didattiche faticano a sincronizzarsi con
i ritmi della scuola tradizionale e il docente si trova sfasato rispetto ai colleghi impegnati in una didattica trasmissiva. L’introduzione di approcci didattici diversi, ad esempio di didattica per
problemi e progetti, induce indubbiamente delle dissonanze rispetto alla didattica tradizionale.
Un esempio per tutti: quello della valutazione. Dopo aver avviato un processo di didattica per progetti e aver impegnato attivamente i ragazzi anche
per tempi prolungati, spesso il docente si trova senza gli elementi di valutazione individuale che gli sono richiesti.
L’insegnante ha un’impressione complessiva di come stanno lavorando i
gruppi, vede i prodotti intermedi e finali dei progetti, ma non ha in mano gli
strumenti per valutare in modo documentato i singoli studenti. Rispetto ai
colleghi che hanno proceduto con una
didattica trasmissiva e che hanno in
mano i pacchi di compiti in classe corretti e gli esiti delle interrogazioni attuate, il docente che si è prodigato in un
lungo e impegnativo lavoro di Pbl
(Project-based Learning) si trova spesso disarmato in sede di consigli di classe o scrutini.
Per favorire il cambiamento
servono esempi operativi
L’opinione maturata dall’esperienza di
chi scrive è che il disagio di molti docenti nell’avvicinarsi alle nuove metodologie didattiche nasca soprattutto
dalla mancanza di proposte pedagogiche concrete che possano essere tradotte rapidamente nella vita quotidiana di classe.
Il primo passo da compiere è quello di
individuare le migliori strategie pedagogiche per ogni contesto e tradurle in
pratiche operative per i docenti. Questa attività analitica e propositiva non
può essere richiesta ai docenti (Norris
et al., 2013). Pensare che gli insegnanti, già oberati da vari compiti, possano
divenire progettisti di strategie e metodi didattici è illusorio e destinato a produrre esperienze fallimentari. Già si può
ritenere un buon risultato se gli insegnanti riescono, grazie al carisma personale, all’impegno e alla buona volontà, a governare un processo di didattica attiva in modo ‘artigianale’ nella loro classe, senza la pretesa che riescano anche a definire e implementare metodi e modelli replicabili e scalabili.
La creazione, ricerca e contestualizzazione di modelli didattici è compito da
affidare a qualcuno competente e dedicato, che lavori in stretto rapporto
con gli insegnanti in classe (Barab &
Squire, 2004). Altrimenti, continueremo
a dichiarare buone intenzioni e a raccontare secondo la tradizione accademica il grande pensiero pedagogico,
ma non forniremo mai ai docenti la
chiave per poterlo davvero tradurre in
classe.
Il docente ha bisogno di nuovi riti e di
nuovi deliverables che concretizzino
nella vita quotidiana di classe la strategia adottata. Chi scrive ha messo a
punto un metodo, “Lepida Scuola”, per
guidare il docente nella traduzione in
classe della strategia di Project-based
Learning, metodo in cui si fa un efficace utilizzo degli strumenti della valutazione autentica. Nel sito www.lepidascuola.org è possibile trovare una ricca documentazione e applicazioni concrete condotte da un gruppo di docenti che, dal nascere, hanno sperimentato e contribuito a migliorare il metodo
che oggi è applicato in molte scuole di
ogni ordine e grado.
Focus
Per cambiare
la didattica
servono
modelli,
esempi,
nuove procedure,
praticabili
in classe
… e le tecnologie
della comunicazione
e dell’informazione?
Le tecnologie della comunicazione e
dell’informazione (Tic) si stanno diffondendo in modo massivo in tutti i settori: dal mondo delle professioni a quel-
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Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
Figura 1 – Constructivistic Learning Environment – Cle (Jonassen, 1999)
Strumenti
per la
valutazione
Fattori
socio
ambientali
Le tecnologie
possono
aiutare
a realizzare
ambienti
di apprendimento
costruttivi
38
Casi
Correlati
Problemi
Progetti
Risorse
per la
Informazione
Strumenti
Collaborativi
Strumenti
Cognitivi
lo della pubblica amministrazione, dalla sanità all’editoria. Più difficile è il loro ingresso nella scuola, intendendo in
particolare l’inserimento in classe, nella didattica, ossia nel cuore del mestiere del docente. Diversamente da quanto succede altrove, qui le tecnologie
non sono finalizzate a organizzare, velocizzare e automatizzare procedure.
Nella scuola esse vanno a toccare un
ambito veramente complesso e delicato: quello degli apprendimenti dei ragazzi e più in generale della loro educazione.
È testimone di questa estrema difficoltà la sequenza dei numerosi insuccessi che hanno caratterizzato decenni di
tentativi d’integrazione delle tecnologie
digitali in aula (Cuban, 2003). Non avere le tecnologie in classe, di per sé non
è un problema. Se l’insegnante non ne
sente il bisogno, se l’inserimento del
computer avviene solo per moda, la
cosa migliore è lasciarlo fuori della
classe.
La questione vera è, e deve essere, pe-
dagogica. In un ambiente di didattica
trasmissiva qualunque tentativo d’inserimento fino a ora è stato vissuto più
come impiccio che non come reale occasione di miglioramento. L’esperienza mostra che nella trasmissione dei
contenuti anche un docente mediocre
è più efficace del migliore computer.
Dobbiamo perseguire piuttosto l’indicazione preziosa e ben nota di Jonassen: le tecnologie in classe “not to learn from, but to learn with” (Jonassen
et al., 1999a). Ed è sul “to learn with”
che avanziamo di seguito alcune indicazioni e proposte basate su una oramai solida evidenza sperimentale.
Ambienti per l’apprendimento
costruttivo
Il docente per attuare efficacemente il
cambiamento auspicato, ad esempio
per adottare con successo una didattica per problemi e progetti, ha bisogno
di un nuovo ambiente di apprendimento. Un modello efficace nella sua sem-
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Figura 2 – Modello del Doppio ambiente di apprendimento (E. Zecchi, 2007)
Focus
La formazione
per cambiare
gli ambienti
di apprendimento
dovrebbe essere
essa stessa
un ambiente
di apprendimento
plicità è quello a matrice costruttivista
denominato Constructivistic Learning
Environment (Cle) di Jonassen (Jonassen, 1999b). In figura 1 è possibile vedere quali e quanti siano gli elementi
necessari per implementare il modello
ed è facile intuire come nella scuola tradizionale sia pressoché impossibile
rea­lizzare questo tipo di ambiente per
le troppe risorse richieste. Tuttavia, da
quando Jonassen ha proposto questo
modello circa 15 anni orsono, le tecnologie si sono evolute, anche verso i bisogni della didattica, in modo impressionante: si consideri che la società
Google era appena nata e i social network non erano ancora apparsi.
Le risorse richieste dal modello di Jonassen sono oggi facilmente implementabili con strumenti digitali in gran
parte disponibili sul mercato, rendendo concretamente possibile quella che
nel 1999 appariva come un’utopia. L’inserimento auspicato delle Tic, per
quanto sempre complesso, è oggi non
solo possibile, ma necessario.
Un meta-ambiente
di apprendimento
Rimane la sfida di come formare i docenti; il problema è complesso e presenta importanti criticità da superare.
Ipotizzare una didattica trasmissiva per
formare il docente a pratiche costruttiviste sarebbe contradditorio: il docente deve invece fare, impegnarsi attivamente, esperire sul campo, così come
raccomanda la didattica costruttivista.
Per questo chi scrive ha proposto un
modello di formazione chiamato “Doppio ambiente di apprendimento” (figura 2) in cui i docenti, impegnati in classe in una didattica per problemi e progetti (i piedini dell’astronave), s’incontrano tra loro, seguiti da un docente
esperto in un ambiente di apprendimento (testa dell’astronave) analogo a
quello ipotizzato per la classe con gli
studenti. Qui i docenti apprendono sviluppando problemi e progetti, sia analoghi a quelli in cui sono impegnate le
classi, sia di progettazione didattica,
39
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
(gz)
La peer
education
è un metodo
efficace
di formazione
degli adulti
ossia finalizzati alla costruzione degli
strumenti pedagogici che utilizzeranno
nelle nuove pratiche didattiche.
La necessaria presenza del docente
esperto è la seconda criticità. La formazione più efficace per gli insegnanti è quella che possono ricevere da altri insegnanti: una sorta di peer education. Ciò richiede di trovare e preparare dei docenti che si rendano disponibili alla formazione dei colleghi, ma
la selezione per eventuali distacchi è
un problema complesso e il rischio di
distaccare docenti non adeguati è
molto elevato.
Piattaforma digitale
per i docenti
40
Da ultimo, ma non ultimo, vi è il problema della scalabilità delle soluzioni individuate, che amplifica ulteriormente le
criticità evidenziate. Una possibile soluzione su cui siamo impegnati e che
appare come una via molto promettente è quella di avvalersi anche in questo
ambito delle tecnologie. Ad esempio,
le Digital Teaching Platform sono tecnologie recenti e poco note che non
servono per insegnare a distanza, ma
nascono per essere utilizzate in ambienti dove l’insegnante è fisicamente
presente e possono diventare dei fenomenali facilitatori per l’introduzione dei
nuovi approcci didattici.
Le tecnologie potrebbero quindi diventare l’ossatura dell’ambiente di apprendimento rinnovato e questa ossatura
potrebbe aiutare l’insegnante non solo
a insegnare, ma anche a educarsi
all’approccio. È il caso di dire, con R.
Schank, “Educational technology is
the trojan horse of education”.
Riferimenti bibliografici
Barab S., Squire K. (2004), Design-Based Research:
Putting a Stake in the Ground, in “The journal of the
learning sciences”, 13 (1).
Chadwick C. (2014), Has the Education Paradigm
Begun Shift?, in “Educational Technology”, 54(5).
Cuban L. (2003), Oversold and underused: Computers in the Classroom, Harvard University Press,
Cambridge MA.
Jonassen D., Peck K., Wilson B. (1999a), Learning
with Technology, Merril by Prentice Hall.
Jonassen D. (1999b), Designing Constructivistic Learning Environments, in Reigeluth C.M. (a cura di),
Instructional design theories and models: A new
paradigm of instructional theory, Vol. 2, Erlbaum,
Mahwah NJ.
Norris C., Soloway E., Chun Ming Tan, Chee-Kit
Looi (2013), Inquiry pedagogy and smartphones:
enabling a change in school culture, in “Educational Technology”, 53(4).
Prensky M. (2014), The World Needs a New Curriculum, in “Educational Technology”, 54(4).
Ringraziamenti
Un particolare ringraziamento, per i preziosi suggerimenti,
a Stefano Kluzer e Marco Incerti Zambelli che mi hanno seguito in modo costruttivamente dialettico durante la stesura del contributo.
Enzo Zecchi
Fisico teorico, ideatore del metodo Lepida Scuola,
Reggio Emilia
[email protected]
http://www.lepidascuola.org
Il docente
pratico-riflessivo
di Giuseppina Di Guida
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
Una nuova antropologia
professionale
Pensiero riflessivo e sviluppo
professionale dei docenti
I mutamenti in atto nei profili professionali del mondo della scuola ci inducono a ripensare anche alla figurachiave dei processi di insegnamento/
apprendimento. Vogliamo provare a
definire il profilo del docente da una
prospettiva un po’ fuori dagli schemi,
utilizzando non concettualizzazioni legate al ruolo istituzionale o alle aspettative sociali, ma nuove categorie che
possiamo facilmente riconoscere come essenziali per lo sviluppo umano
e per la fondazione di un’etica pubblica.
Alla figura del docente ‘solista’, autocentrato e dai contorni ben definiti, si
può così gradualmente venire a sostituire un’antropologia professionale che
individua come tratti specifici dell’essere docente alcune delle capability indicate da Martha Nussbaum, quali l’interazione tra senso-immaginazione-ragione, l’intelligenza emotiva, la ragion
pratica, l’affiliazione, il gioco, la progettazione del proprio spazio fisico e culturale.
Appare fin troppo evidente che la riflessività dei docenti non può che essere necessariamente legata a contesti concreti e non può essere disgiunta dall’operatività. Il docente che riflette è infatti principalmente un operatore culturale che agisce per leggere e
trasformare i contesti, esercitando la
sua ragion pratica e le sue capacità
poietiche.
La competenza tecnico-scientifica non
è più sufficiente a governare la complessità. La complessità sappiamo
che ci mette a contatto con le incertezze, con il dubbio, con il rischio, con
i conflitti di valore che possono essere affrontati soltanto se conflitti e dilemmi, conseguenti a questa complessificazione, vengono lasciati emergere per farne oggetto appunto di riflessione.
La pratica riflessiva ha le sue fondamenta nel pensiero pedagogico di almeno un secolo. Basta rileggere
Dewey, secondo cui il miglior modo di
pensare è il pensiero riflessivo, quel tipo di pensiero che consiste nel ripiegarsi mentalmente su un soggetto e nel
rivolgere ad esso una seria e continua
considerazione. Nel saggio Il professionista riflessivo Schön usa il contesto di
Dewey per sviluppare idee sul pensare
come riflessione che sono state poi
ampiamente discusse e diffuse nel corso degli ultimi decenni.
Il lavoro di Schön sulla pratica riflessiva ha costituito un contributo fondamentale nei programmi di istruzione e
formazione per insegnanti ed educatori che ne adottano le nozioni di base
nell’organizzazione di esperienze e nei
contenuti dell’insegnamento. Schön distingue la riflessione nel corso dell’azione e la riflessione sull’azione, arrivando alla fusione fra la conoscenza
accademica e l’abilità fondata sulla
pratica. Secondo questi sviluppi, il rapporto tra teoria e pratica d’insegnamento non può essere compreso solo
in termini di regole, principi, tecniche
derivanti dalla ricerca empirico-analitica e l’insegnamento non deve più essere visto solo in termini tecnico-razionali, con risposte strumentali e pratiche
alle questioni teoriche.
L’insegnamento riflessivo pone particolare attenzione agli scopi, ai valori,
alle conseguenze sociali dell’educazione. Sebbene la pratica riflessiva venga
già utilizzata sia nella formazione iniziale dei docenti che a livelli intermedi ed
avanzati di carriera, ci sono ancora
molte richieste di riforma verso una pedagogia riflessiva nello sviluppo professionale dei docenti. Per garantire un efficace ed efficiente sviluppo professionale nel sistema di istruzione, i programmi di formazione ed aggiornamen-
Non bastano più
gli approcci
empirici
o tecnico-razionali
all’insegnamento,
oggi
entrano in gioco
scopi,
valori,
dinamiche sociali
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Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
Un docente
riflessivo
è in grado
di orientarsi
nelle situazioni
complesse,
attraverso
l’osservazione
e l’analisi ‘critica’
dei dati
42
to in servizio dovrebbero essere guidati e informati alla pratica riflessiva, alla
teoria dell’apprendimento situato ed alla pedagogia critica, principi che hanno il potenziale di trasformare le pratiche di insegnamento tradizionali e sviluppare docenti che riflettono sul loro
lavoro.
La riflessione sul proprio lavoro permette al docente di:
– verificare e valutare le proprie capacità e migliorarle;
– valutare l’appropriatezza delle strategie didattiche e dei materiali scelti;
– mettere in discussione i valori impliciti in quelle pratiche e riconsiderare gli obiettivi e gli scopi.
Come riconoscere un docente
riflessivo?
Diviene fondamentale creare contesti
professionali volti a implementare i virtuosismi riflessivi: la scuola è intesa come luogo di condivisione dei saperi,
formazione reciproca, capitalizzazione
delle competenze e della didattica. Per
allestire un contesto adatto alla riflessività diventa essenziale e preliminare
individuare i comportamenti attesi da
un docente riflessivo.
Cercheremo di definire i comportamenti attesi da un docente riflessivo, che
abiti consapevolmente il territorio della complessità dei processi educativi,
attraverso alcuni indicatori, correlati da
specifiche domande.
- Tolleranza dell’incertezza della situazione educativa
In che modo il docente risponde all’incertezza della situazione educativa?
Quali attività pone in essere?
Qual è il suo grado di tolleranza dell’incertezza?
Riesce a fronteggiare l’incertezza non
solo con attività di problem solving, ma
anche di problem setting?
È capace di rispondere all’incertezza
della situazione con la riflessione e con
tentativi di ristrutturare la sua percezione del problema?
O al contrario l’incertezza genera ansia
e induce a definizioni e soluzioni superficiali e sbrigative, o addirittura alla paralisi dell’azione e del pensiero?
- Osservazione dei dati e costruzione
di inferenze
Quanto un docente è capace di osservare i diversi aspetti della situazione,
raccogliere e selezionare dati e costruire inferenze a partire dalla base di dati?
In che modo utilizza i dati disponibili?
- Costruzione di mappe cognitive per
affrontare situazioni problematiche
In che misura il docente coinvolto in un
processo deliberativo riesce a costruire le proprie mappe della situazione
problematica e a confrontarle con le
mappe altrui?
Riesce a integrarle in una mappa pubblica della situazione, che rifletta le relazioni tra valori e presupposti e anche
la molteplicità delle diverse percezioni
che stanno alla base del problema?
- Attivazione di una struttura dialogica
con la comunità professionale
Il docente è in grado di intrattenere
conversazioni con tutti i soggetti coinvolti nei processi di insegnamento/apprendimento?
È propenso a condividere i materiali del
suo lavoro?
Quanta cura mette il docente nel mantenimento della struttura dialogica?
La struttura dialogica è aperta a tutti o
è molto selettiva?
Quanto sistematicamente utilizza i processi di domanda e risposta per scambiarsi informazioni e punti di vista ed
eventualmente per costruire un punto
di vista comune?
- Discutibilità pubblica degli assunti e
dei valori
Gli assunti vengono trattati come ipotesi tra molte altre possibili oppure vengono dati tacitamente per scontati, come
basi non discutibili della discussione?
In che misura tali valori vengono dichiarati pubblicamente e sono sottoposti a
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
Particolare del murales (fn)
critica con la ricerca di dati che possano eventualmente confutarli?
- Condivisione di una memoria collettiva
Che valore dà il docente alla memoria
dell’esperienza collettiva passata?
Come tale memoria viene costruita e
comunicata all’interno della comunità
professionale?
- Modalità di risposta all’errore
In caso di errore è capace il docente di
ristrutturare la percezione del problema
e di rivedere il modello di comportamento messo in atto?
- Trattamento dei dilemmi
Di fronte a conflitti di valore quali comportamenti tende ad assumere il docente?
È consapevole del conflitto o lo ignora?
Se è consapevole preferisce il compromesso e la mediazione oppure si mette
in gioco per la creazione di nuovi valori?
- Coerenza tra valori dichiarati e comportamenti concreti
In che modo il docente verifica la coerenza delle teorie dichiarate sulla situazione problematica con i suoi comportamenti concreti?
È incline o propenso a farlo pubblicamente?
In che misura, per esempio, verifica che
i valori e le regole per decidere consensualmente vengono poi onorati nella
pratica?
Valori in gioco:
consapevolezza
e conflitti,
coerenza
dei comportamenti,
orientamento
all’innovazione
- Abbandono di routine difensive a
favore della sperimentazione
In che misura il docente attiva routine
difensive della propria prassi?
In che misura è aperto all’innovazione
e alla sperimentazione?
Come si dispone rispetto alle sfide
educative?
- Orientamento alla sperimentazione e
al gioco esplorativo
Il docente è capace di progettare e di
condurre esperimenti pratici locali per
esplorare la complessità di una situazione o di un sistema?
È capace ad esempio di assumere un
atteggiamento sperimentale e quasi
di ‘gioco esplorativo’ per meglio
comprendere dove va la situazione e
per saggiare possibilità di azione che
siano più in armonia con la complessità strutturale ed evolutiva della situazione?
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Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Focus
Riesce a rinunciare al controllo unilaterale della situazione come obiettivo
strategico esclusivo (implicito o esplicito che sia)?
Oltre la retorica dell’ineffabilità
e il riduzionismo
della trascrizione burocratica
Per uscire
dall’autoreferenzialità
burocratica,
occorre
sperimentare
nuove forme
di documentazione
e di
rappresentazione
professionale
La comunicazione sull’attività didattica del docente è ridotta oggi per lo più
alle forme stereotipate della scrittura
formale, al mero trasferimento dell’informazione attraverso le sue varie forme istituzionali (programmazioni, relazioni, valutazioni, ecc.), con brevi momenti di tipo dialogico con l’utenza e
con la comunità professionale di cui
spesso non resta alcuna traccia. Una
buona pratica teorica ha invece bisogno di nuove parole per definirsi e
nuovi strumenti per riconoscersi in una
nuova identità sia individuale che collettiva.
La riflessività del docente necessita di
una narrazione specifica, più vicina alle forme della rappresentazione che
non a quelle della documentazione, e
di una validazione i cui parametri sono tutti da costruire.
Un approccio narrativo
44
Un contributo significativo può giungere sicuramente dalla psicosociologia, che suggerisce ad esempio di praticare l’intervista con un critical friend,
il diario, la narrazione autobiografica,
la drammatizzazione o role playing, il
portfolio delle competenze, la narrazione di storie o story telling, la scrittura drammaturgica o story board, la
documentazione anche con i nuovi
strumenti della multimedialità e delle
tecnologie dell’informazione.
Queste proposte vanno tutte nella direzione auspicata di accompagnare il
docente nella crescita e nello sviluppo
della sua professionalità, tema questo
di grande rilevanza anche sociale.
È necessario dunque, a nostro avviso,
che queste rappresentazioni diventino
modalità comunicative sempre più
praticate nelle istituzioni scolastiche
se si vuole che il docente esca dall’autoreferenzialità e sia sempre più consapevole che il lavoro in classe, nella
sua officina, è un’operazione culturale nel senso più pieno e pregnante del
termine.
Il gruppo di lavoro che opera all’interno
d e l l ’ a s s o c i a z i o n e p ro f e s s i o n a l e
PVMScuola per la qualificazione della
professionalità docente è coordinato
dall’autrice dell’articolo e costituito da:
Valeria Brunetti (docente di scuola secondaria – Puglia), Vanna D’Onghia (docente di scuola secondaria – Puglia),
Mariella Proietta (docente di scuola secondaria – Lazio) e Benedetta Zaccarelli (docente di scuola primaria – EmiliaRomagna).
Riferimenti bibliografici e normativi
L. Mortari, Il pensare riflessivo nella formazione, Carocci, Roma, 2011.
D.A. Schön, Il professionista riflessivo, Edizioni Dedalo, Bari, 1993.
M. Nussbam, Creare capacità, Il Mulino, Bologna,
2012.
G.F. Lanzara, La deliberazione come indagine pubblica, in L. Pellizzoni (a cura di), La deliberazione
pubblica, Meltemi, Roma, 2005.
F. Olivetti-Manoukian, Produrre servizi. Lavorare con
oggetti immateriali, Il Mulino, Bologna, 1998.
http://www.pvmscuola.it/
Giuseppina Di Guida
Presidente regionale per la Campania (Area dirigenti
scolastici) e componente del CdA dell’associazione
professionale PVMScuola, esperta in processi educativi
[email protected]
I docenti italiani
nel Rapporto Talis
di Gemma De Sanctis
Che cosa è Talis
Talis (Indagine internazionale sull’insegnamento e apprendimento) è l’indagine dell’Ocse che ha l’obiettivo di guardare ai problemi della qualità ed efficacia dell’istruzione avendo come punto
di osservazione gli insegnanti, le condizioni in cui lavorano, le loro opinioni
ed esperienze.
Le premesse alla base dell’indagine sono chiaramente esposte nella prefazione al rapporto a cura dell’Ocse, che
presenta i risultati dell’edizione 2013
dell’indagine (1).
“Nella nostra epoca, le competenze necessarie ai giovani per inserirsi nel mondo del lavoro e contribuire efficacemente alla crescita sono in costante
cambiamento. Tuttavia dal quadro generale emerge che i sistemi educativi
faticano ad adeguarsi al ritmo veloce
del mondo che li circonda. Le scuole
non sembrano essere troppo cambiate
nell’ultimo quarto di secolo”. Ed è innegabile che “sono gli insegnanti a
esercitare l’influenza più rilevante
sull’apprendimento degli studenti” (2).
I temi oggetto di analisi, su cui gli insegnanti e i dirigenti di scuola secondaria inferiore (3) sono stati invitati a riferire, riguardano, tra l’altro, la formazione iniziale e lo sviluppo professionale
dei docenti, gli stili di dirigenza, le pratiche didattiche, la valutazione formale
e informale del lavoro dei docenti, la
1) OECD (2014), Talis 2013, Results: an
international Perspective on Teaching and
learning, OECD publishing, http://dx.doi.
org/10.1787/9789264196261-en.
soddisfazione lavorativa e la fiducia
nelle proprie capacità professionali.
Talis 2013 è la seconda indagine con
queste caratteristiche, dopo la prima
svoltasi nel 2008. Rispetto a Talis 2008
s’è accresciuto il numero dei partecipanti (34 Paesi rispetto ai 23 di Talis
2008) (4). Nel valutare i risultati, occorre ricordare che le risposte fornite rappresentano pareri, opinioni e percezioni degli intervistati. Come è il caso delle indagini basate su questionari, i risultati sono soggettivi e possono differire da quelli di altre procedure di ricerca di tipo oggettivo.
Il profilo dei docenti italiani:
anzianità e genere
Chi sono gli insegnanti? Qual è il loro
profilo professionale? Come esercitano il loro mestiere?A queste domande
Talis fornisce le ‘sue’ risposte in chiave comparata iniziando a esaminare il
profilo dei docenti dai punti di vista demografico e professionale, nonché del
contesto in cui lavorano.
In Italia, più che altrove, il corpo insegnante è caratterizzato da due evidenti squilibri: un’elevata presenza femminile (79% vs 68% media dei Paesi Talis) abbinata a una struttura per età sbilanciata verso la mezza età (mediamente 49 anni vs 43 dei Paesi Talis) (figura 1). È un quadro di per sé problematico che meriterebbe un’analisi approfondita tanto sui motivi che hanno portato uomini e donne a sviluppare scel-
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Osservatorio
internazionale
La ricerca Talis
dell’Ocse
descrive
caratteristiche
del corpo docente,
ma anche opinioni,
percezioni
e aspettative
degli insegnanti
italiani,
con uno sguardo
internazionale
4) Paesi Ocse che hanno partecipato a Talis
2013: Alberta (Canada), Australia, Cile,
2) OECD (2014).
Corea, Danimarca, Estonia, Finlandia,
3)Il focus principale di analisi di Talis 2013 è,
Fiandre (Belgio), Francia, Giappone,
come per Talis 2008, la scuola secondaria
Inghilterra (GB), Islanda, Israele, Italia,
inferiore. Alcuni Paesi, tra cui l’Italia, hanno
Messico, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia,
ampliato l’indagine anche agli altri livelli di
Portogallo, Repubblica Ceca, Repubblica
istruzione. I risultati delle indagini
Slovacca, Spagna, Svezia, Stati Uniti. Paesi
‘facoltative’ saranno presentati
e economie partner: Abu Dhabi (UAE),
estesamente in un rapporto che l’Ocse
Brasile, Bulgaria, Croazia, Cipro, Lettonia,
pubblicherà successivamente.
Malesia, Romania, Serbia, Singapore.
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Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Osservatorio
internazionale
Figura 1 – L’insegnante ‘tipo’ in ITALIA secondo i dati Talis (scuola secondaria inferiore)
Il profilo dell’insegnante
‘tipo’ nei PAESI TALIS
Il 68% è donna
Insegnanti
più anziani,
con più esperienza
ma con minore
formazione.
Le situazioni
critiche
riguardano
l’attenzione
ai bisogni
educativi
speciali
Ha in media 43 anni
Il profilo dell’insegnante
‘tipo’ in ITALIA
Il 79% è donna
Ha in media 49 anni
Il 98% ha completato studi di livello universitario o equivalente
Il 96% ha completato studi di livello universitario o equivalente
Il 90% ha completato un programma di
formazione iniziale all’insegnamento
Il 79% ha completato un programma di
formazione iniziale all’insegnamento
Ha in media 16 anni di esperienza come
insegnante
Ha in media 20 anni di esperienza come
insegnante
L’82% è impiegato a tempo pieno e 83%
ha un contratto a tempo indeterminato
L’89% è impiegato a tempo pieno e 82%
ha un contratto a tempo indeterminato
Insegna in una classe con in media 24
studenti
Insegna in una classe con in media 22
studenti
Fonte: Miur, L’Italia nei dati Talis. Risultati chiave dell’indagine Talis su insegnamento e apprendimento, 2014.
te divergenti rispetto alla professione
d’insegnante nella scuola secondaria
quanto sulle sue conseguenze. A bilanciare la maggiore anzianità anagrafica
interviene, peraltro, il maggior patrimonio di esperienza professionale dei nostri docenti, che hanno in media 20 anni di anzianità di servizio contro 16 nei
Paesi Talis.
Un ambiente scolastico
in chiaroscuro
Nel complesso, gli indicatori sul clima
d’istituto segnalano che in Italia i docenti lavorano in contesti abbastanza
soddisfacenti rispetto ai colleghi dei
Paesi Talis. La qualità della vita scola-
stica sembra contraddistinta da un clima professionale positivo così come da
buoni rapporti tra studenti e docenti.
Cionondimeno, altre informazioni fornite dai dirigenti scolastici evidenziano ambienti di lavoro segnati da numerose carenze e criticità (tavola 1).
Oltre 3/4 dei docenti italiani (78%) lavorano in scuole dove la mancanza di
personale di supporto alla didattica
ostacola “in qualche misura se non
molto” la capacità della scuola di offrire un’istruzione di qualità (47% dei
Paesi Talis). Più della metà (58%) lavora in scuole dove c’è carenza di docenti di sostegno per gli studenti con
bisogni speciali d’apprendimento
(48% Paesi Talis).
Tavola 1 – Le risorse nelle scuole – Percentuale di docenti di scuola secondaria inferiore che lavora in scuole i cui dirigenti hanno indicato che la carenza di questi fattori ostacola “in qualche misura o molto” l’efficacia dell’insegnamento nella scuola
Mancanza di personale
Mancanza o inadeguatezza di materiale didattico
di docenti di
Scarsità o
di supporto sostegno per
di docenti
di
di
di Insufficiente
inadeguatezza di
alla
gli studenti
abilitati o materiali computer per software accesso ad
materiali
didattica
Bes competenti didattici l’insegnamento didattico
Internet
per la biblioteca
Italia
77,5
58,0
38,3
56,4
56,0
53,8
53,8
43,6
Nord
80,0
60,1
51,9
50,3
59,8
52,9
48,3
31,4
Centro
81,8
72,3
33,0
68,4
72,9
62,8
58,5
52,3
Sud-Isole
72,8
49,4
26,3
57,3
44,5
50,8
41,6
52,6
Media TALIS
46,9
48,0
38,4
26,3
38,1
37,5
37,5
29,3
Fonte: Ocse (2014), tavola 2.19. Per i dati delle aree geografiche elaborazioni su database nazionale TALIS.
46
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Dal lato delle risorse materiali, il 56%
dei docenti opera in scuole penalizzate dalla scarsità o dall’inadeguatezza
sia di materiali didattici sia di computer e software utili per l’insegnamento,
rispetto a valori mediamente più contenuti nei Paesi Talis (rispettivamente
26% e 38%). Infine, poco meno della
metà dei docenti italiani lavora in scuole i cui dirigenti scolastici hanno segnalato un insufficiente accesso a Internet
(47%) e l’insufficienza di materiali per
la biblioteca (44%) a fronte di una media dei Paesi Talis rispettivamente pari
al 30% e al 29%.
Figura 2 – Percentuale di insegnanti
che hanno svolto attività di sviluppo
professionale nei 12 mesi (o 18 mesi)
precedenti l’indagine TALIS
Poco formati?
La criticità del quadro si conferma allorché si passa a considerare il profilo
professionale del corpo docente.
In Italia, il 79% dei docenti riferisce d’aver completato una formazione iniziale
professionalizzante contro il 90% della media Talis. Il nostro Paese è agli ultimi posti nella classifica internazionale, in posizione migliore in ambito europeo solo alla Repubblica Ceca. Rispetto, poi, agli altri Paesi, la formazione iniziale dei nostri docenti risulta carente soprattutto nella pratica d’insegnamento. Nel complesso dei Paesi Talis il 67,3% dei docenti ha dichiarato
che la formazione ricevuta comprendeva esperienze di tirocinio in classe per
tutte le materie d’insegnamento, in Italia solo il 36%.
Tra i docenti tuttora in servizio, quindi,
una quota consistente ha avuto accesso all’insegnamento senza aver compiuto specifici percorsi professionalizzanti. L’analisi a livello nazionale segnala, comunque, che per alcune categorie, ad esempio i docenti più giovani, i
dati si allineano a quelli internazionali.
La crisi dell’aggiornamento
Non si può peraltro dire che le cose vadano meglio quando si considera la
formazione professionale in servizio o
sviluppo professionale.
Nota: A Talis 2008 parteciparono 24 Paesi, alcuni dei quali non hanno partecipato all’edizione 2013. Il campione 2008, non comprendeva
insegnanti di sostegno a studenti con Bes. Per
confrontare correttamente il 2008 e il 2013 l’Ocse ha eseguito opportuni aggiustamenti dei dati.
Fonte: Ocse (2014), elaborazione grafica su dati di tavola 4.6c
Il tasso di partecipazione dei docenti
italiani ad attività di sviluppo professionale è uno dei più bassi tra i Paesi Talis, uguale al 75% contro una media
dell’88%. Si è lontani di oltre 20 punti
percentuali dai valori massimi del Canada-Alberta (98%) e dell’Australia
(97%), più vicini invece ai valori registrati in Francia (76%) e in Finlandia
(79%).
Le differenze tra i Paesi possono essere ricondotte alle diverse disposizioni normative/contrattuali che regolano
la formazione in servizio nei diversi
contesti nazionali. In Italia, come è noto, la formazione in servizio si configura, tuttora, come un diritto-dovere che
può essere esercitato in modo facoltativo.
Questo può spiegare parzialmente il divario rispetto agli altri Paesi. Resta il
fatto che i dati rilevano un vistoso e
preoccupante calo di quasi 10 punti
Osservatorio
internazionale
Oltre a una
formazione
iniziale
poco orientata
all’operatività,
in Italia
è drammatica
la situazione
dell’aggiornamento
in servizio,
che sta subendo
un drastico
ridimensionamento
47
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Osservatorio
internazionale
La formazione
in servizio
viene considerata
costosa,
inefficace
e senza incentivi,
pur essendo
riconosciuta
indispensabile
Tavola 2 – I bisogni di sviluppo professionale espressi dagli insegnanti. Docenti che
hanno indicato un elevato bisogno di sviluppo professionale (in %)
Italia
Competenze nell’uso didattico delle tecnologie dell’informazione
e della comunicazione (Tic)
Insegnamento agli studenti con Bes
Nuove tecnologie nel contesto lavorativo
Comportamento degli studenti e gestione della classe
Didattica in contesti multilingui e multiculturali
Competenze pedagogiche e didattiche per la/e disciplina/e
insegnata/e
Valutazione degli studenti
Didattica delle competenze trasversali (es. problem solving,
imparare ad apprendere)
Approcci all’apprendimento individualizzato
Orientamento degli studenti
Approcci allo sviluppo di competenze trasversali intersettoriali
per esigenze di un futuro impiego o studio
Sapere e competenze nella/e disciplina/e insegnata/e Conoscenza del curricolo
Gestione e amministrazione della scuola
35,9
18,9
32,3
32,2
28,6
27,4
22,3
17,8
13,1
12,7
23,5
9,7
22,9
11,6
22,3
11,0
22,1
18,
12,
12,4
16,4
10,4
16,6
11,3
9,9
8,7
7,9
8,7
Fonte: Ocse (2014), tavola 4.12
percentuali rispetto ai valori registrati
nella precedente edizione di Talis 2008
(figura 2).
Le tipologie di formazione svolte dai
docenti e, ancor più, i bisogni formativi manifestati vanno nella direzione di
indicare che, al di là della disponibilità
personale, in Italia lo sviluppo professionale è carente soprattutto dal lato
dell’offerta.
I contenuti della formazione
in servizio
48
Media
Paesi TALIS
In Italia, i docenti, oltre ad aver svolto
esperienze di formazione su contenuti
più tradizionali (aggiornamento sui saperi e competenze delle discipline insegnate), hanno anche partecipato in misura
uguale, se non maggiore alla media Talis, a iniziative di formazione incentrate
sull’uso delle nuove tecnologie nella didattica (53% vs 54%) e nell’ambiente lavorativo (45% vs. 40% Paesi Talis), nonché sulle specifiche competenze necessarie per l’insegnamento agli studenti
con bisogni speciali d’apprendimento
(44% vs 32%) .Queste ultime sono an-
che le aree in cui i docenti italiani più sentono bisogno di crescita professionale.
In particolare, registra un salto notevole
rispetto a Talis 2008 l’esigenza di arricchire le competenze nell’uso delle nuove tecnologie, diventata nel 2013 la prima nella graduatoria dei bisogni formativi (36%). È un segnale di accresciuta
consapevolezza dell’efficacia dei nuovi
strumenti didattici rispetto ai quali i nostri docenti percepiscono un loro ritardo.
Infine, le risposte dei docenti ai quesiti in tema di supporti per la formazione
in servizio confermano da un’altra angolatura che in Italia la mancanza di sostegno agisce nel senso di demotivare
la partecipazione allo sviluppo professionale.
In particolare, il 53% dei docenti riferisce di essere scoraggiato dal costo
elevato della formazione (43,8% media
Talis), il 67% ritiene inadeguata l’offerta formativa proposta (media Talis
39%). Più di tutto incide negativamente l’assenza d’incentivi che più dell’80%
dei docenti percepisce come un freno
allo sviluppo professionale (48% media dei Paesi Talis).
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Pratiche professionali di routine
Talis esamina le pratiche professionali
dei docenti distinguendo tra forme di
collaborazione lavorativa più ordinarie,
quali lo scambio di materiale, le riunioni collegiali, la collaborazione per definire standard comuni di valutazione, la
discussione tra colleghi sui progressi
d’apprendimento di singoli discenti, e
forme di collaborazione che presuppongono rapporti professionali più
avanzati: insegnamento in compresenza, osservazione del lavoro in classe
del collega, attività e progetti in comune, attività di sviluppo professionale
collaborativo. Il questionario Talis chiedeva ai docenti di segnalare con quale
frequenza fossero praticati i rapporti
professionali sopra indicati.
Si osserva che in Italia il profilo delle pratiche professionali dei docenti appare
sbilanciato verso schemi di attività più ordinari, che nella letteratura in campo educativo sono considerati di cooperazione
per lo scambio e il coordinamento più
che di collaborazione professionale.
Un confronto all’acqua di rose…
Quasi tutti i docenti instaurano con i loro colleghi relazioni che si riconducono
sostanzialmente a quelle che si hanno
durante la partecipazione a riunioni collegiali e allo scambio di idee sui progressi di apprendimento di singoli alunni. Seguono le altre pratiche collaborative volte a garantire standard comuni di valutazione degli studenti e lo scambio del
materiale didattico.
Poco frequenti sono in Italia forme di
collaborazione più strette quali l’osservazione del lavoro in classe dei colleghi.
Circa il 69% dei docenti italiani dichiara
di non osservare mai quanto fanno in
classe gli altri colleghi contro il 45% della media Talis. In questo la posizione
dell’Italia è prossima a quella della Finlandia (70%) e della Francia (78%), distante invece da quella della Polonia e
dell’Inghilterra dove l’osservazione dei
colleghi in classe è più diffusa e solo il
17-18% dei docenti dichiara di non farlo mai. L’impegno a partecipare ad attività d’apprendimento collaborativo-professionale e a progetti comuni su diverse classi e gruppi di studenti sono relativamente più diffusi in Italia, ma in ogni
caso in misura minore rispetto alla media dei Paesi Talis.
Osservatorio
internazionale
Pratiche didattiche poco attive
L’attenzione di Talis è rivolta soprattutto all’impiego in classe delle pratiche
di insegnamento definite ‘attive’, tendenti a motivare e coinvolgere lo studente nell’apprendimento; sono considerate attive tre tipologie di pratiche:
- far lavorare gli studenti in piccoli
gruppi,
- impegnarli su progetti di almeno una
settimana,
- far loro impiegare le Tic per i progetti o nel lavoro in classe.
Controllare frequentemente i quaderni
degli esercizi e i compiti svolti a casa dagli studenti in Italia è praticato dall’85%
dei docenti, nei paesi Talis dal 72%. Sempre in Italia l’81% dei docenti riferisce di
trasmettere nuove conoscenze facendo
riferimento alla soluzione di problemi della vita quotidiana o del lavoro, altrove il
dato è del 68%; infine, far ripetere gli
esercizi fino a quando gli studenti non abbiano ben appreso i contenuti è praticato con frequenza in Italia dal 78% dei docenti, contro il 67% nei Paesi Talis.
Viceversa, le pratiche attive d’insegnamento appaiono sottoutilizzate. Solo il
32% dei docenti fa lavorare frequentemente gli studenti in piccoli gruppi per
soluzioni comuni dei problemi (47%
Paesi Talis), il 31% fa impiegare agli
studenti le Tic (38% Paesi Talis). In linea con la tendenza internazionale il
27% dei docenti che dichiara di impegnare gli studenti in progetti più complessi di almeno una settimana. Da rilevare comunque che una quota significativa di docenti indica di ricorrere
con frequenza a pratiche differenziate
in relazione al livello dei discenti (58%
Italia; 44% Talis) (tavola 2).
In Italia
le metodologie attive
(piccoli gruppi,
uso delle Tic,
progetti)
sono sottoutilizzate
e la collaborazione
tra docenti
consiste solo
in uno scambio
di vedute
49
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Osservatorio
internazionale
Quanto ai metodi di valutazione degli
apprendimenti, spicca il dato sull’interrogazione orale individuale, utilizzato
nei Paesi Talis dal 49% degli insegnanti, in Italia dall’80%.
Tra il dire e il fare
Almeno a parole
gli insegnanti
auspicano
un lavoro
più autonomo
per gli studenti,
nei fatti però…
Ciò che avviene in classe è in stretto rapporto con le opinioni più generali dei docenti in merito al processo d’insegnamento-apprendimento e al loro ruolo in questo processo. Al riguardo i docenti italiani di secondaria di I grado manifestano un
atteggiamento non del tutto chiaro, dietro
il quale è possibile scorgere la mancanza
di una precisa visione di riferimento.
Il 91,5% dei docenti italiani, valore non
distante dalla media Talis, condivide
l’affermazione che compito del docente è facilitare le ricerche autonome degli studenti (Talis 94,5%). Inoltre, in
grande maggioranza (87%) condividono l’idea che il ragionamento e la riflessione sono più importanti degli specifici contenuti curricolari. Tuttavia, quando si chiede loro se sono d’accordo
che gli studenti apprendono meglio trovando per conto proprio le soluzioni ai
problemi, i docenti italiani si rivelano
poco propensi a consentire che gli studenti costruiscano e organizzino in modo autonomo le proprie le conoscenze.
Percezioni di autoefficacia
degli insegnanti e soddisfazione
professionale
Talis 2013 ha indagato sul senso di autoefficacia e di soddisfazione sul lavoro dei docenti.
In tutti i Paesi, la grande maggioranza
degli insegnanti ritiene di svolgere un’azione formativa efficace nei confronti
degli studenti. Al contempo si dichiara
soddisfatta del proprio lavoro, da cui riceve gratificazioni.
In Italia, la quasi totalità dei docenti
(98%) ritiene di saper portare gli studenti a credere nelle loro capacità (86%
Talis), sente di saperli aiutare ad apprezzare il valore dell’apprendimento
(95% vs. 81%) e di saper “motivare
quelli che dimostrano uno scarso interesse per l’attività scolastica” (87% vs.
70%). In ciò sembrano favoriti da un
positivo clima di classe, in cui è contenuto entro limiti tollerabili il tempo distolto dall’insegnamento.
Di pari passo, il 93% dei nostri docenti riferisce di “essere soddisfatto dei risultati che ottiene nella scuola in cui
presta servizio”, l’86% “sceglierebbe
ancora di diventare insegnante” (78%
Talis). In sintesi, il 94% afferma che
“tutto considerato sono soddisfatto del
mio lavoro” (91% Talis).
Faccio riferimento a un
problema della vita quotidiana
o del lavoro per mostrare
l’utilità di nuove conoscenze
Lascio esercitare gli studenti
con lavori simili fino a quando
non ritengo che ogni studente
abbia compreso i contenuti
Presento un riassunto
di contenuti che gli studenti
hanno appreso recentemente
Affido lavori differenti
agli studenti che mostrano
difficoltà di apprendimento
e/o a quelli che vanno avanti
più velocemente
Gli studenti lavorano in
piccoli gruppi per trovare
soluzioni comuni ai problemi
e ai compiti assegnati
Gli studenti impiegano le TIC
(Tecnologie dell’Informazione
e della Comunicazione) per
i progetti o il lavoro in classe
Gli studenti lavorano
a progetti che richiedono
almeno una settimana
di impegno
Italia
Media TALIS
Controllo i quaderni degli
esercizi dei miei studenti,
o i compiti per casa
Tavola 2 – Pratiche didattiche utilizzate dagli insegnanti in classe. Percentuale di docenti che in riferimento a una “classe
campione” hanno dichiarato di utilizzare frequentemente (spesso o in tutte le lezioni o quasi) le seguenti pratiche didattiche
84,6
72,1
81,0
68,4
78,4
67,3
63,8
73,5
58,2
44,4
31,9
47,4
27,5
27,5
30,9
37,5
Fonte: Ocse (2014), tavola 6.1
50
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Figura 3 – Percezioni sul prestigio sociale dell’insegnamento. Percentuale di insegnanti
di scuola secondaria inferiore e superiore che sono “d’accordo o molto d’accordo” con
la seguente affermazione:
Fonte: Elaborazione grafica su data base nazionale Talis.
… e il prestigio?
In questo quadro che induce lecitamente all’ottimismo, si distacca il dato sullo
scarso prestigio che secondo gli insegnanti la società attribuirebbe alla loro
professione. Nei Paesi Talis meno di un
terzo degli insegnanti ritiene che la professione insegnante sia adeguatamente apprezzata dalla collettività (31%), valore che scende al 18% nei Paesi europei. In Italia solo il 12% degli insegnanti ritiene che l’insegnamento sia apprezzato a livello sociale, dato che colloca
l’Italia tra i Paesi con i valori più bassi.
Vale la pena di evidenziare alcune differenze che si costatano all’interno del
Paese. I docenti più pessimisti sono
quelli del Centro-Nord dove oltre il 90%
non ritiene l’insegnamento valorizzato a
livello sociale. Relativamente meno critici appaiono i docenti delle regioni meridionali, dove gli insoddisfatti si ‘circoscrivono’ all’81% (figura 3).
Soddisfazione e crescita
professionale
Attraverso la compilazione di un complesso questionario, i docenti italiani
hanno rilevato uno spaccato significa-
tivo della loro professione. Benché già
noti nel contesto nazionale, questi dati acquistano diverso rilievo e spessore quando considerati in un quadro di
confronto internazionale.
In base ai dati Talis i docenti italiani manifestano tanto un elevato grado di
soddisfazione professionale (anche superiore a quello dei colleghi di altri Paesi) quanto una elevata fiducia sul buon
esito del proprio lavoro, sulla capacità
di motivare gli studenti ad apprezzare
il valore di apprendere. Questo nonostante difficili condizioni di contesto: insufficienza di strumenti per la didattica,
presenza irrisoria di altre professionalità di supporto, scarso sostegno nella
formazione in servizio.
Offrire ai docenti adeguate opportunità di crescita professionale si configura per l’Italia uno snodo fondamentale,
tanto più necessario se si considera
che il nostro corpo docente ha una formazione anteriore ai nuovi sviluppi della tecnologie educative e alle loro evoluzioni ed è entrato nella professione in
periodi in cui la popolazione scolastica
poneva meno problemi di gestione della classe, essendo più omogenea sia
dal punto di vista sociale che etnico.
D’altra parte, l’efficacia con cui i docen-
Osservatorio
internazionale
In Italia
la percezione
da parte
degli insegnanti
della stima
sociale
verso di loro
è ridotta
al lumicino
51
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Osservatorio
internazionale
Per migliorare
la propria immagine
sociale
i docenti
devono essere
coinvolti
nei processi
decisionali
sulle innovazioni
Figura 4 – Percezioni sul prestigio sociale dell’insegnamento. Percentuale di insegnanti
di scuola secondaria inferiore e superiore che sono “d’accordo o molto d’accordo” con
la seguente affermazione: la professione insegnante è valorizzata nella società
Fonte: Ocse (2014).
ti dichiarano di saper intervenire sull’apprendimento degli studenti non sembra
tener conto che è il risultato di pratiche
e approcci educativi oggi ritenuti superati, portatori di risultati modesti, non
corrispondenti ai saperi e alle abilità richieste dalla società.
Tra gli obiettivi per lo sviluppo professionale decisivo appare quello di fornire agli
insegnanti un adeguato supporto volto a
promuovere la formazione di atteggiamenti e convinzioni in cui prevalgano stili di insegnamento aperti all’uso delle pratiche didattiche attive. Si tratta di dare
migliore sostegno all’uso di competenze
tecniche che da sole non appaiono sufficienti a generare apprendimento.
Insegnanti poco coinvolti
52
Nonostante la soddisfazione dichiarata
i docenti italiani percepiscono scarso
apprezzamento attorno alla loro professione. L’ampia diffusione di questa impressione nella maggioranza dei Paesi
è indicativa di una condizione problematica della figura insegnante, della sua
efficacia e del suo prestigio, che investe
la categoria ben oltre i confini nazionali. Nello specifico del nostro Paese vari
elementi possono aver contribuito negli
ultimi tempi a rafforzare questa sensazione. La scuola è stata parte consistente del generale contenimento della spesa e tanto gli studenti quanto gli insegnanti hanno risentito del processo di
razionalizzazione che ha investito il sistema educativo, in termini di servizi, di
ambienti e di blocco retributivo.
Su tale problema il rapporto dell’Ocse offre alla politica un interessante spunto di
riflessione sulle iniziative che si possono
prendere per attenuare il disagio. Le analisi indicano in tutti i Paesi una forte associazione positiva tra la partecipazione degli insegnanti ai processi decisionali e la
probabilità di percezione positiva dell’apprezzamento sociale dell’insegnamento.
Pur non spingendosi in ulteriori approfondimenti, i dati suggeriscono secondo
l’OCSE che un modo per migliorare il rapporto tra gli insegnanti e la società è quello di coinvolgerli sistematicamente nei
processi decisionali della scuola.
Gemma De Sanctis
Funzionario statistico Miur – Dipartimento
Programmazione e gestione risorse umane,
National Project Manager di Talis 2013
[email protected]
Middle management:
dalle figure di sistema
ai quadri intermedi
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Professionalità
AA.VV. in modalità di scrittura cooperativa
Valorizzazione professionale
e governance
La valorizzazione delle competenze del
docente è un tema di riflessione sempre attuale. Un primo tentativo di valorizzare le competenze professionali, attraverso l’assegnazione di responsabilità, va rintracciato nel CCNL scuola
2003 con l’individuazione delle cosiddette funzioni strumentali, evoluzioni
contrattuali delle precedenti funzioni
obiettivo (1999). Tali figure avrebbero
dovuto assumere la funzione di middle
leadership con l’obiettivo di dare concretezza alla libertà progettuale delle
istituzioni scolastiche autonome.
I contributi provenienti dalle teorie delle
organizzazioni e dai modelli teorici della complessità possono aiutare le scuole a governare i processi e a utilizzare le
risorse in modo efficace e condiviso, ma
nessuna vera rivoluzione può compiersi se la coevoluzione non incide anche
su una complessiva riconfigurazione
dell’organizzazione scolastica.
Complessità e modelli
di riferimento
Le principali scuole di pensiero definiscono l’organizzazione in modi diversi.
H. Fayol introduce una metodologia
basata sulla divisione del lavoro e su livelli esecutivi ‘corti’. Weber parla di
modelli di gestione fondati sulla routinizzazione dei processi all’interno delle pubbliche amministrazioni ed elabora un modello ‘burocratico’ di riferimento, espressione di una catena di potere basata su una rigida struttura gerarchica.
Nel primo Novecento, comunque, tutti
i maggiori studiosi delineano un sistema statico, basato sul controllo rigido
e diretto dei processi produttivi. Più re-
Il leader risonante
Goleman parla del leader risonante, come di colui che è capace di far emergere il meglio da ciascuno, incrementando l’efficacia dell’organizzazione. E non
si è leader sempre allo stesso modo: chi
esercita tale funzione, infatti, deve sapersi ‘adattare’ alle spinte degli assetti
socio-umani, senza mai perdere di vista mission e obiettivi dell’organizzazione.
Per essere riconosciuti leader bisogna
essere in grado di gestire con equilibrio
le situazioni e mobilitare in maniera efficace le risorse a disposizione.
Leader e follower
Il leader, pur non avendo un ruolo funzionale, è in grado di ampliare gli interessi dei follower, attraverso la capacità
di ispirare consapevolezza e consenso,
generando lealtà, stimolando le competenze, valorizzando e gestendo le differenze. Quello del dirigente scolastico è
un ruolo di confine, fra interno-esterno,
amministrativo-tecnico, conservativo-innovativo.
centi invece sono le scuole di pensiero che descrivono le organizzazioni come organismi in continua evoluzione
(Mayo, 1933), in grado di produrre innovazione e sviluppo (learning organization), al cui interno le relazioni umane assumono un ruolo significativo.
Con l’autonomia si sono aperti spazi di
gestione integrata, che riguardano le
specifiche funzioni dell’organizzazione
scolastica e che, per risultare adeguate,
necessitano anche di opportuni modelli
organizzativi, propri del management dirigenziale. La politica organizzativa del
middle management presuppone, però,
una struttura reticolare e un coraggioso
cambio della mentalità organizzativa e
degli stili comportamentali.
Una middle
leadership
richiede
una struttura
organizzativa
reticolare
e nuovi stili
comportamentali
53
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Professionalità
La collocazione
attuale
delle figure
intermedie
è assai fragile
e indebolita
dalla mancanza
di solidi criteri
nazionali
La funzione di middle leadership può
rappresentare un’opportunità per introdurre nelle istituzioni autonome
nuove forme di governance? A nostro
parere sì: ogni processo di cambiamento produce risultati se la specializzazione delle parti entra a far parte
delle regole del gioco e l’innovazione
– intesa come processo volto a raggiungere un obiettivo con modalità e
strategie compatibili – sia orientata e
sostenuta da figure trainanti, capaci di
motivare gli altri a vivere la collaborazione nella dimensione del gruppo.
Criticità della situazione attuale
Il dirigente scolastico (Ds) ha il compito di valorizzare le risorse umane promuovendo lo sviluppo delle professionalità esistenti e la diffusione di funzioni di leadership collaborativa. La nascita di figure di sistema intermedie che
diano forma e vigore alla cosiddetta gestione di mezzo (1) fa da sfondo a un
nuovo modello organizzativo che si interconnette direttamente alla complessità del sistema scuola.
Ai docenti che svolgono funzioni di interfaccia, partecipando direttamente ai
processi di middle management, spetta il delicato compito di specializzarsi
e curare i vari settori dell’organizzazione scolastica, secondo un modello reticolare o a matrice, con figure di sistema e gruppi di lavoro a responsabilità
distribuita (P. Romei, 1982).
Ma nella realtà scolastica italiana emergono non poche criticità. Le figure di
sistema non sono sufficientemente normate: mancano una definizione del profilo, delle funzioni e dei requisiti di ac-
cesso, un’adeguata retribuzione (2) indipendente dal Fis e dalla contrattazione di istituto; è assente una formazione specifica, valida per l’accesso e necessaria per il mantenimento della funzione; non vi è alcuna prospettiva di
sviluppo professionale, perché non esiste un loro autonomo ruolo; infine, lo
svolgimento di queste funzioni non
comporta un avanzamento nella carriera docente, ancorata al momento alla
sola anzianità di servizio, pur se il dibattito scaturito dalla consultazione su
La Buona Scuola individua e suggerisce elementi di premialità con avanzamento di carriera (3).
Le figure di sistema:
competenze professionali
e specificità
per il middle management
All’interno della scuola italiana è possibile delineare compiti e funzioni di
una serie di figure di sistema che concorrono con il proprio operato e con le
proprie competenze alla gestione delle istituzioni, affiancando il Ds e ricevendo dallo stesso incarichi e direttive
di massima per espletare il proprio
mandato.
Di seguito, pur constatando una notevole disomogeneità a livello nazionale
per ciò che attiene a procedure, funzio2) La retribuzione per questi incarichi è
oggetto di contrattazione tra Ds e RSU in
base a criteri non predefiniti a livello
nazionale e l’interessato non ha titolo a far
valere rivendicazioni in materia di
proporzionalità tra la prestazione
professionale resa e la retribuzione
percepita. Questo aspetto genera grandi
1) Dalle azioni dello staff sono coordinati i
processi che portano al raggiungimento
degli obiettivi attesi. Il middle management
54
differenze nella retribuzione da una scuola
all’altra per la stessa funzione.
3) Un aspetto non trascurabile della mancanza
favorisce la comunicazione tra dirigenza e
di chiarezza sulle figure intermedie è
stakeholder, per il buon funzionamento
rappresentato dall’elemento emotivo-
delle relazioni tra le parti e per un lavoro
esistenziale di tali figure, spesso ‘impigliate’
organico finalizzato al successo formativo:
tra richieste del dirigente, aspettative degli
co-costruire, monitorare, documentare,
altri docenti e non riconoscimento
rendicontare.
dell’impegno.
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
ni e compiti attribuiti alle diverse figure
di sistema, proponiamo una sintesi delle maggiori mansioni e responsabilità
da esse ricoperte nella scuola.
- I collaboratori del dirigente scolastico
L’art. 25 del d.lgs. 165/2001 al comma
5 prevede che il dirigente possa avvalersi di collaboratori (4), a cui vengono
delegati specifici compiti, trasferendo
loro l’esercizio della competenza, ma
non la titolarità: il Ds rimane responsabile in toto della gestione dell’istituzione. Essi sono individuati tra i docenti
della scuola e sono nominati dal Ds su
base fiduciaria. Il collaboratore è gerarchicamente sovraordinato agli altri docenti solo se esercita le competenze nei
periodi di assenza o impedimento del
dirigente. La sua figura è determinata
dal dirigente stesso e non rientra nella
normativa che regola la vice-dirigenza
del pubblico impiego. Gli aspetti retributivi possono variare da un’istituzione
scolastica all’altra, così come i compiti,
che sono finalizzati alla realizzazione e
al miglioramento dell’offerta formativa.
- Le funzioni strumentali
I docenti che svolgono il compito di
funzioni strumentali hanno l’incarico di
coordinare specifiche aree di intervento per realizzare gli obiettivi dichiarati
nel Piano dell’offerta formativa e sono
retribuite con il Mof. A differenza dei
collaboratori, scelti sulla base di un
rapporto fiduciario con il Ds, sono figure che devono rendere conto del loro
operato direttamente al collegio dei docenti, chiamato a valutare i risultati raggiunti nell’espletamento dell’incarico
specifico. In altri sistemi scolastici europei queste funzioni sono assolte da
insegnanti con particolari requisiti pro4) L’art. 31 del CCNL 2002-2005 individua in
due unità i docenti ai quali il Ds può
assegnare delega per specifici compiti,
designando uno di loro anche come
collaboratore principale o primo
collaboratore poiché non è più prevista la
figura del collaboratore vicario.
fessionali e culturali e, a volte, l’accesso alle stesse avviene tramite esami.
Le funzioni strumentali rispondono
all’esigenza reale di dedicare specifiche risorse umane al funzionamento didattico e organizzativo della scuola e,
accanto alle classiche aree di intervento (gestione del piano dell’offerta formativa, sostegno al lavoro dei docenti,
interventi e i servizi per gli studenti, realizzazione di progetti formativi d’intesa
con enti e istituzioni esterni alla scuola) si vedono ora attribuire nuove aree
di azione e di responsabilità nella gestione diretta dei processi.
La normativa non pone limiti prefissati
al loro numero e la loro individuazione
non prevede una concertazione con il
Ds che, come unico responsabile dell’efficacia e dell’efficienza formativa della
scuola, può operare affinché la scelta
dei docenti incaricati di svolgere tali funzioni sia rispettosa delle loro competenze e coerente con le scelte di fondo
dell’offerta formativa di istituto e con le
esigenze di gestione della scuola.
Figure emergenti coinvolte nei
processi di middle management
Accanto ai profili già tratteggiati, nell’organizzazione scolastica stanno emergendo altri profili di specializzazione
professionale, che possono essere a
vario titolo coinvolti nei processi di
middle management, pur non essendo
ancora dotati di uno specifico riconoscimento normativo e di compiti sempre ben delineati.
- Il coordinatore di dipartimento
La possibile articolazione del collegio
dei docenti in dipartimenti disciplinari
determina la necessità di riferirsi a docenti professionalmente qualificati per
raccordare, in maniera unitaria, i compiti di ogni singolo dipartimento. Per far
fronte a tale esigenza, si profila la figura di un docente che, assumendosi la
responsabilità della gestione di tali ‘microorganismi’, riesce a mettere in campo specifiche azioni di supporto e con-
Professionalità
Collaboratori
del dirigente
e funzioni
strumentali
sono ‘posizioni’
previste
dal contratto
di lavoro,
ma si stanno
delineando
nuove figure
nell’ambito
dell’autonomia
55
Rivista
dell’istruzione
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Professionalità
Nuove funzioni
riguardano
la didattica,
l’inclusione,
la gestione
di unità operative
(i singoli plessi)
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fronto dell’agire educativo e didattico,
orientandolo all’innovazione e allo sviluppo delle competenze. Nello scenario attuale, il coordinatore assume compiti di alta responsabilità e, a partire dai
contenuti delle Indicazioni, coordina il
lavoro dei colleghi, fornendo orientamenti in ambito educativo-didattico pur
lasciando grande autonomia al docente e rispettando la libertà di insegnamento di ciascuno.
Il coordinatore di dipartimento
Il coordinatore di dipartimento può svolgere compiti che vanno dall’individuazione delle finalità, dei nuclei concettuali, degli obiettivi cognitivi, delle conoscenze essenziali delle singole discipline, in riferimento all’intero corso di studi e a ciascun anno scolastico o alla definizione degli indicatori e dei descrittori, dei criteri di valutazione, atti a verificare il livello di conoscenze e di competenze degli studenti. Può inoltre curare
la preparazione di varie tipologie di verifica, finalizzate a scopi didattici diversi
(inizio anno, recupero, simulazione di
prove d’esame, compiti complessi...)
concordando con i colleghi la predisposizione di materiale didattico adeguato
alle scelte curricolari o individuando percorsi didattici disciplinari e interdisciplinari diversi.
- Il responsabile di plesso
Figura entrata ormai nella prassi organizzativa della scuola, svolge ruoli organizzativi finalizzati sia al buon andamento delle attività che al rispetto delle norme sulla sicurezza.
È esperto nell’organizzazione delle sostituzioni dei docenti temporaneamente assenti e nell’accoglienza dei supplenti; segnala problematiche strutturali con particolare riferimento alla sicurezza; gestisce e diffonde le circolari, le archivia e monitora firme e scadenze oltre che cura forme di comunicazione con altri plessi o con altri soggetti istituzionali; inoltre partecipa alle
riunioni di staff per rendicontare l’andamento organizzativo.
Operando in stretta sinergia con i collaboratori scolastici, con gli altri colleghi, con lo staff e con il Ds, il responsabile di plesso in genere è individuato tra i docenti esperti – intesi come conoscitori di quella specifica realtà scolastica – con competenze professionali anche dell’area comunicativa.
- Il referente per i Bes
Le novità normative introdotte negli ultimi anni nell’ambito delle politiche inclusive hanno delineato un diverso modello di ‘cura’ educativa, meno ‘clinico’
e più ‘pedagogico’, rendendo necessaria nella scuola la presenza di una figura professionale specifica che svolga un
ruolo di indirizzo, coordinamento e controllo, che rappresenti un punto di riferimento non solo per i docenti, ma per gli
stakeholder, e che possieda competenze psicopedagogiche, metodologico-didattiche e organizzativo-relazionali, finalizzate all’inclusione di tutti gli alunni e,
in particolare, di quelli con Bes.
Tale figura segue in particolar modo la
stesura e la realizzazione del Piano annuale per l’inclusione, promuove iniziative per la formazione sulla didattica inclusiva, coordina e costituisce punto di
riferimento per l’elaborazione del Piano didattico personalizzato, partecipa
alle riunioni del Gli (Gruppo di lavoro
per l’inclusione).
Figure emergenti
non direttamente coinvolte
nel Middle Management
La scuola autonoma, entro i limiti imposti dalla normativa, è libera di operare delle scelte ma ha la responsabilità di rendicontare i risultati ottenuti a
tutti i portatori di interesse. Da ciò deriva la necessità di diffondere la cultura della valutazione e del miglioramento continuo. Ecco perché, fra i profili
professionali fin qui delineati, si è avvertita la necessità di inserire alcune figure la cui presenza nelle scuole appare di fondamentale importanza per sviluppare un modello di valutazione con-
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dell’istruzione
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diviso e partecipato, che presuppone
però un profilo professionale altamente specializzato. Le possibili evoluzioni
che possono arricchire ulteriormente il
profilo professionale dei docenti sono
di seguito sinteticamente elencate.
- L’osservatore dei processi di insegnamento-apprendimento
Nell’ambito del progetto “Valutazione e
miglioramento”, promosso dall’Invalsi,
si è fatta recentemente esperienza di osservazione in classe dei processi di insegnamento-apprendimento. L’osservatore, opportunamente formato e con
esperienze di ricerca qualitativa, di tecniche di rilevazione e di raccolta dati, di
intervista, di gestione di focus group, rileva le dinamiche e i processi di insegnamento/apprendimento con l’ausilio
di una griglia sperimentale. Il progetto
ha dunque posto in essere un interessante strumento, la griglia di rilevamento per l’efficacia dell’insegnamento.
Quattro aree di attenzione sezionano e
valutano ciò che viene posto in essere:
le strategie didattiche, la gestione della classe, il sostegno e il supporto fornito dal docente agli alunni e il clima di
apprendimento.
In prospettiva si può immaginare un’evoluzione dell’osservazione in classe
con la creazione di competenze, all’interno delle scuole, in grado di fornire utili orizzonti di riferimento per migliorare il
lavoro dei docenti. Si può altresì immaginare, con una iperbole un po’ ardita, il
ruolo di tutoraggio che potrebbe assumere la figura dell’osservatore, anche
tracciando il profilo dell’osservatore
‘partecipante’: il collega ‘esperto’ che
supporta e sostiene il lavoro dei docenti neoarrivati o dei colleghi in difficoltà.
- L’esperto in valutazione
I valutatori esterni, dopo aver preso visione della documentazione della scuola e averne osservato le prassi organizzative e le dinamiche di apprendimento-insegnamento, redigono, sulla base
di precisi indicatori, un rapporto di valutazione a partire dal quale la scuola
progetta un piano di miglioramento.
La scuola, dopo un lavoro di autovalutazione e individuazione degli obiettivi
di miglioramento, secondo le priorità
evidenziate, attua il piano di miglioramento, avvalendosi della consulenza
dell’Indire e si sottopone a una ulteriore valutazione da parte di un nuovo Nucleo di valutazione esterno per verificare i risultati conseguiti.
La figura del valutatore esterno mette in
gioco una professionalità matura ed
esperta, capace di interpretare fatti, dati e situazioni in maniera coerente e
complessa, dando spazio a una capacità critica e valutativa che fa da sfondo
all’attitudine a entrare in contatto con
Professionalità
Stanno emergendo
nuovi profili:
l’osservatore
in classe,
il valutatore esterno,
il consulente
per il miglioramento
Micro-indagine condotta nel gruppo Facebook “Chiamalascuola”
sulle aree di competenza delle funzioni strumentali
57
Rivista
dell’istruzione
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Professionalità
La complessità
della scuola
richiede
un modello
organizzativo
‘distribuito’
contesti reali. L’alta professionalità connessa all’espletamento di tale compito,
ovviamente, non solo va riconosciuta
ma anche valorizzata da un preciso impianto normativo e retributivo, a cui va
affiancata la realizzazione di figure di coordinamento e di riferimento all’interno
delle singole istituzioni scolastiche.
- Il consulente per il miglioramento
Il consulente per il miglioramento accompagna le scuole nella progettazione
e nella realizzazione del Piano di miglioramento (Pdm), mediante attività online
e in presenza. Si delinea come figura
complessa che presenta sia le caratteristiche del mentor, attento nel rispondere alle diverse problematiche che la
scuola deve affrontare, sia del coach,
che accompagna il team di miglioramento nel riconoscimento delle potenzialità,
nella definizione delle priorità, dei nodi
critici e degli obiettivi da raggiungere.
La relazione che si instaura tra il consulente per il miglioramento e il Ds è
fondamentale per una collaborazione
efficace e produttiva in quanto tale figura è chiamata a svolgere un’attività
di orientamento, supporto e guida che,
sul piano metodologico, si caratterizza
in tutta una serie di azioni (autodiagnosi, preparazione del PdM e promozione di azioni riflessive) propedeutiche
all’attivazione del ciclo virtuoso del miglioramento continuo.
Autonomia e scelte organizzative
58
Il d.P.R. n. 275/1999 all’art. 3, comma
4 afferma che il Ds deve attivare i necessari rapporti con gli enti locali e
con le realtà istituzionali, culturali, sociali e professionali che operano sul
territorio per la realizzazione dell’offerta formativa che riflette le esigenze
della realtà locale. Il Pof contiene le
scelte educative, didattiche e organizzative della scuola nel rispetto dei criteri e degli indirizzi generali definiti dal
consiglio di istituto. In definitiva, la responsabilità gestionale e del raggiungimento dei risultati è attribuita al diri-
gente. Tuttavia, non si tratta di dimostrare diligenza nell’esecuzione di direttive, ma di assicurare il successo
dell’azione formativa; ciò comporta
una diversa organizzazione del lavoro.
Il quadro di riferimento normativo, istituzionale, sociale mostra in modo chiaro quanto le istituzioni scolastiche si
trovino a operare in un contesto di notevole complessità. Le unità operative,
connesse ai diversi servizi e alle diverse specializzazioni, agiscono secondo
un sistema di interazione talvolta poco
definito, prevalentemente affidato alla
costruzione autonoma di un ‘modello’
interno, adeguato al servizio e alla specificità del contesto, in cui la relazione
riveste fondamentale importanza.
In estrema sintesi, possiamo affermare
che middle management e high management rappresentano trama e ordito
dello stesso arduo compito.
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L’articolo è stato redatto in modalità di scrittura
cooperativa online dai seguenti autori: Marco Renzi
(Arezzo), Alessandra Silvestri (Roma), Aldo Domenico
Ficara (Messina), Vincenzo Molle (Roccasecca - Fr),
Laura Scanu (Magliano Sabina (Ri), Domenica Dibiase
(Bassano del Grappa - Vi), Emanuela Fanelli (Tarquinia
- Vt), Raffaele Fontanella (Castellammare di Stabia Na), Stefania Giovanetti (Modena), Giancarlo Onger
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Maio (Biella), Paola Liparoto (Borgetto - Pa), Claudia
S.Amico (Caltanissetta), Anna Martin (Roma), Rossella
De Luca (M.S. Severino - Sa), Antonietta Damiano
(Giugliano in Campania - Na), Alessandra Ansaldi
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Gruppo facebook Chiamalascuola
La rendicontazione
nella Riforma
della Pubblica
Amministrazione

Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Saperi
di cittadinanza
di Anna Maria Poggi
L’origine della rendicontazione
sociale: l’impresa privata
Il presente contributo ha come scopo
quello di contestualizzare il tema del bilancio sociale nel panorama istituzionale italiano. Contrariamente a quanto
comunemente si ritiene, infatti, esso
non nasce all’interno delle riforme della Pubblica Amministrazione e ciò non
solo a livello italiano, ma anche a livello internazionale.
Il tema del bilancio sociale si evidenzia
nel settore privato quando iniziano a
emergere le forti criticità connesse a
uno sviluppo incondizionato del capitalismo rispetto alla società nel suo
complesso: disastri ecologici, crescente divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri, diritti umani dei lavoratori negati,
scandali e fallimenti del privato.
Di fronte a questi rischi globali, sorgono i primi interrogativi rispetto a una responsabilità ‘sociale’, cioè pubblica,
delle imprese. Economisti, filosofi, sociologi, antropologi iniziano a chiedersi e a chiedere: l’azienda risponde solo al profitto, secondo la teoria liberale, oppure deve anche contribuire allo
sviluppo del bene comune? Un imprenditore deve solo massimizzare i profitti oppure preoccuparsi anche delle persone che lavorano con lui e degli effetti negativi del suo operare come azienda?
Sono soprattutto le imprese e in primo
luogo le imprese ‘globali’ a farsi carico
della responsabilità pubblica del loro
operare, seppure in un’ottica aziendalistica. Infatti, un’azienda, soprattutto
se globale, ha anche dei vantaggi nel
percorrere la strada della responsabilità sociale.
I casi Nike e Benetton sono stati assolutamente emblematici. Infatti, dopo che si diffuse la notizia che esse
producevano i propri manufatti in Paesi in cui venivano fatti lavorare minori
in condizioni che noi non potremmo
immaginare o sopportare, sia nel nostro Paese che nei Paesi fortemente
industrializzati, entrambe le aziende
ebbero un crollo di vendite. L’idea che
un’azienda, anche importante, potesse rendersi corresponsabile dello
sfruttamento minorile mutò immediatamente la sua immagine, e ovviamente il posizionamento dei suoi prodotti,
sul mercato.
Quindi, il bilancio sociale è per le aziende una sorta di controprova della loro
utilità sociale. Infatti le aziende dimostrano che oltre al profitto, che rimane
ovviamente il core della loro esistenza,
contribuiscono allo sviluppo anche sociale della collettività in cui producono.
In alcuni Paesi, come il nostro, la richiesta di utilità ‘sociale’ all’impresa ha un
fondamento costituzionale.
Il famoso articolo 41 della Costituzione, di cui spesso si parla a proposito
(ma a volte a sproposito), afferma al primo comma che l’iniziativa economica
privata è libera ma immediatamente
dopo, al secondo comma (che si legge
e viene letto molto di meno) puntualizza che essa non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà,
alla dignità umana”. La Costituzione,
dunque, tutela l’impresa privata e ne
costituzionalizza in qualche modo la finalità liberistica del profitto, ma nello
stesso tempo pone un limite a tale
obiettivo e questo limite è appunto l’utilità sociale.
Anche
le dinamiche
dell’economia
globale
rimandano
alla responsabilità
sociale
di impresa,
già affermata
dalla nostra
Costituzione
59

Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Saperi
di cittadinanza
La Pubblica
Amministrazione
è al servizio
della Nazione,
entità
che esprime
l’unità
di persone
e istituzioni,
radice
del bene comune
Pubblica Amministrazione
e interesse pubblico
Tutt’altro livello, tutt’altro tono, tutt’altro rilievo assume, invece, il tema della responsabilità sociale nella Pubblica
Amministrazione.
Per le imprese la responsabilità sociale è una sorta di bilanciamento tra lo
scopo principale, che è quello del profitto, e la dimostrazione della riduzione
dei costi sociali. Per la Pubblica Amministrazione, invece, la responsabilità
sociale non è un bilanciamento, ma è
lo scopo principale del suo modo di essere, anzi del suo stesso esistere.
Per le Pubbliche Amministrazioni la responsabilità sociale è l’unico obiettivo
da perseguire poiché coincide con il
perseguimento dell’interesse pubblico.
Noi giuristi lo chiamiamo interesse pubblico; ma che cos’è? In che cosa consiste e come si traduce all’interno della Pubblica Amministrazione? E qui, di
nuovo, occorre tornare alla Costituzione e cioè al fondamento normativo non
solo formalistico, ma sostanziale, del
nostro agire, del nostro comportarci. È
scritto in quattro norme che citerò non
secondo l’ordine numerico degli articoli, bensì in una sorta di ordine gerarchico che la Costituzione stessa pone rispetto al tema.
La chiave interpretativa: la
Costituzione
60
La prima e fondamentale norma è l’articolo 98 della Costituzione: il pubblico
impiegato, anzi i pubblici impiegati, sono al servizio della Nazione: non sono
al servizio né dello Stato, né della Repubblica. Si tratta di un passaggio molto rilevante che va sottolineato poiché
quando la Costituzione vuole indicare
la collettività di riferimento utilizza tre
termini dal significato assai differente:
Stato, Repubblica, Nazione.
Quando utilizza il termine Stato si riferisce allo Stato inteso come Amministrazione Pubblica, quindi agli articoli
95 e 97: il governo è inteso come in-
sieme dei ministeri e tutti gli apparati
pubblici (centrali e decentrati) da essi
dipendenti. Quando, invece, utilizza il
termine Repubblica si riferisce all’insieme degli enti territoriali secondo
quanto prevede l’articolo 114: “La Repubblica italiana è costituita da Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato”.
Quando, infine, utilizza il termine Nazione, come nel caso dell’articolo 98,
si riferisce alle collettività, alle persone
che per un motivo fondante (lingua, territorio, cultura) sono legate allo Stato
italiano. Si tratta di quella collettività
che fonda lo Stato e la Repubblica e
che li precede, perché l’uomo ‘precede’ sempre qualunque istituzione politica, se non altro perché tali istituzioni
non esisterebbero se non ci fossero
persone a costituirle.
La Nazione è la collettività ‘fondante’ di
tutte le istituzioni: la Repubblica come
insieme di persone stanziate su un territorio; lo Stato come insieme dei cittadini; e ancora tutte le altre istituzioni
pubbliche che dipendono dallo Stato e
dalla Repubblica. Proprio perciò Nazione è qualcosa di più: di essa fanno parte anche i cittadini non residenti in Italia ovvero coloro che, pur non essendo
nati italiani, vogliono acquisire la cittadinanza italiana.
Al servizio della Nazione...
La Nazione, in quanto fondante il legame che rende unite persone e istituzioni, esprime la radice del bene comune
e cioè la collettività, le persone. Sono
quelle persone di cui l’articolo 2 dice
che la Repubblica deve tutelare lo sviluppo, sono quelle stesse persone di
cui l’articolo 3 della Costituzione ci ricorda che sono tutte uguali senza distinzione di sesso, di lingua, di razza,
di condizioni personali, eccetera.
Quindi, il pubblico dipendente, e soprattutto il pubblico dipendente che ha
un ruolo apicale (come i dirigenti scolastici), prima ancora di essere dipendente dai suoi capi gerarchici è al ser-

Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Saperi
di cittadinanza
I dipendenti
pubblici
seguono
la bussola
dell’interesse
pubblico,
da perseguire
con disciplina
e onore
(gz)
vizio della Nazione. Dipende da un’amministrazione pubblica, ma la sua vera
dipendenza è rispetto alla realizzazione dell’interesse pubblico che quell’amministrazione dovrebbe perseguire.
Per far comprendere questo concetto, nel corso di diritto costituzionale
cito spesso l’esempio dell’appartenente alle forze armate che può rifiutarsi di eseguire un ordine che ritiene
illegittimo (per es.: sparare sulla folla
inerme). Il pubblico dipendente, dunque, ha dei capi gerarchici e deve
eseguire degli ordini ma la sua stella
polare è sempre l’interesse pubblico:
il fondamento del nostro agire è quel-
lo della realizzazione dell’interesse
che deve perseguire l’amministrazione di cui facciamo parte.
Con disciplina e onore…
L’articolo 54 della Costituzione (questa è la seconda norma da ricordare)
afferma che i dipendenti pubblici sono chiamati a esercitare il proprio lavoro con disciplina e onore. Non c’è
nessun altro lavoratore a cui sono
chiesti disciplina e onore. È tale immedesimazione del pubblico dipendente
con gli scopi della sua amministrazione di appartenenza, che lo obbliga a
61

Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Saperi
di cittadinanza
L’imparzialità,
il perseguimento
dell’efficienza
(buon andamento),
la responsabilità:
sono i principi
qualificanti
dell’azione
pubblica
62
Dipinto realizzato dagli alunni di Federico Moroni
tenere anche al di fuori del lavoro un
tipo di condotta che non si richiede ai
dipendenti privati. A questi, del resto,
non è chiesto di essere al servizio della Nazione; non è loro chiesta nemmeno questa immedesimazione organica, che, invece, è richiesta ai pubblici
dipendenti, proprio perché devono seguire la bussola della realizzazione
dell’interesse pubblico.
Con imparzialità…
Ecco il motivo per cui l’articolo 97, terza norma da citare, stabilisce che le
Amministrazioni Pubbliche devono essere imparziali e devono ispirarsi a principi di buon andamento degli uffici.
Certamente nessuno obbliga i pubblici
dipendenti a essere l’uomo senza volto
e senza qualità di Musil. Di solito le persone hanno un volto, delle idee e decidono quasi sempre secondo la loro visione del mondo. Come si concilia allora la possibilità di essere se stessi con
l’imparzialità? Attraverso le regole democratiche della trasparenza e della
motivazione. Il pubblico dipendente non
è obbligato a censurare la propria visione del mondo, tuttavia deve rendere palese che le decisioni che assume non dipendono direttamente da quella visione, ma hanno un altro scopo: la realizzazione dell’interesse pubblico.
Facciamo un esempio: a nessun pubblico dipendente, neanche a chi ha delle responsabilità di livello dirigenziale,
si può chiedere di non appartenere a
un’associazione, a un partito politico
(tolti i divieti che la Costituzione pone
per l’iscrizione a partiti politici di particolari categorie: magistrati, appartenenti alle forze di polizia).
Che cosa è chiesto però? Di dichiararlo, di renderlo manifesto, di non nasconderlo perché questo è il discrimine. Non si chiede di essere senza volto, ma chi vede agire il pubblico dipendente deve poter valutare se la sua
azione risponde a una particolare visione del mondo o all’interesse pubblico.
Il buon andamento...
L’articolo 97 ci dice ancora che la Pubblica Amministrazione deve perseguire
il buon andamento, che è l’efficienza,
perché il buon andamento contribuisce
alla realizzazione dell’interesse pubblico.
La Pubblica Amministrazione deve essere efficiente, non perché si deve privatizzare o copiare le modalità del privato. Il privato ha altre logiche (il profitto) che non potranno mai essere proprie dell’Amministrazione Pubblica,
mentre la modalità di azione efficiente
sì, poiché garantisce la miglior realizzazione dell’interesse pubblico.
L’Amministrazione deve essere efficiente perché è al servizio della Nazione e
per questo deve difendere il pubblico e
la scuola pubblica, non per difendere
una sacca di privilegi ma per dire che è
un modo per essere al servizio della Na-

Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
zione. Attenzione: all’esterno si percepisce bene quando si difende il pubblico per difendere una sorta di riserva indiana per interessi particolari o perché
si vuole la realizzazione dell’interesse
pubblico in quanto al servizio della Nazione.
Senza calpestare l’etica
pubblica
L’ultima norma da citare è l’articolo 28,
secondo cui tutti i dipendenti pubblici
sono responsabili a livello civile, penale, amministrativo: è una norma punitiva, per sanzionare le condotte illecite. Il
problema è non arrivare a ciò, non varcare la soglia che separa il lecito dall’illecito. Il problema, in altri termini, è l’etica pubblica, cioè l’idea che il lavoro
pubblico è al servizio della Nazione.
La responsabilità sociale
nella scuola
Per le scuole la responsabilità sociale
è stata accentuata. Questo è anche il
motivo delle tante difficoltà che il mondo della scuola ha vissuto e sta vivendo in questi ultimi tempi per due passaggi istituzionali che abbiamo avuto
nel nostro ordinamento.
Il primo passaggio è stato quello
dell’autonomia. Indubbiamente l’attribuzione dell’autonomia alle scuole ha
accentuato la richiesta di responsabilità sociale, perché con il passaggio
dell’autonomia le scuole da organi decentrati dello Stato (come le definiva la
manualistica degli anni Sessanta del
secolo scorso) sono diventate istituzioni scolastiche autonome.
Quindi all’esterno sicuramente questo
passaggio ha enfatizzato la richiesta di
responsabilità sociale: la scuola, infatti,
non è più percepita come appendice
terminale di un’amministrazione complessa, ma è essa stessa amministrazione. È evidente, allora, che ciò ha caricato sulle spalle delle scuole una responsabilità che in precedenza gravava
sul ministero, in maniera indistinta.
Il secondo passaggio è stato quello del
decentramento territoriale che, anche se
non è stato attuato completamente, in
parte lo è stato, perché il decreto legislativo 112 del 1998 ha attribuito agli enti locali responsabilità enormi sul sistema scolastico. Questa è una dinamica
diversa rispetto a quella precedente
dell’autonomia perché qui abbiamo un
fenomeno diverso, e cioè l’autonomia
delle scuole che si confronta con altre
autonomie. Il livello della responsabilità
è diverso ma ugualmente rilevante.
Enti locali, scuola e bilancio
sociale
Gli enti locali non sono semplici stakeholder (1), né le scuole percepiscono gli enti
locali come stakeholder. Questo significa
che il problema per la scuola non è dimostrare agli enti locali qualcosa, ma casomai giocarsi con gli enti locali il livello di
autonomia che compete loro. Il rapporto
tra enti locali e scuole è una dinamica tra
autonomie, semmai è un problema di responsabilità reciproca (non unidirezionale) perché procede a doppio senso.
Autonomia e decentramento hanno caricato di una connotazione diversa la
questione della responsabilità sociale,
dando luogo a nuovi studi, a nuove
prassi e all’elaborazione di nuovi strumenti, come il bilancio sociale.
Dunque, il bilancio sociale nella scuola
deve consentire di rendere evidente ciò
che la scuola è costitutivamente e costituzionalmente, in quanto Amministrazione Pubblica che ha uno scopo pubblico
e un interesse pubblico da perseguire.
Saperi
di cittadinanza
I passaggi
dell’autonomia
e del decentramento
territoriale
hanno caricato
le scuole
di inaspettate
responsabilità,
anche
sul piano sociale
1) Intervento del Direttore generale dell’Ufficio
scolastico regionale per l’Emilia-Romagna,
Stefano Versari, nell’ambito del seminario
“Bilancio sociale delle scuole”, svoltosi a
Bologna il 13 maggio 2014.
Anna Maria Poggi
Professore Ordinario di Diritto costituzionale presso il
Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi
di Torino
[email protected]
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A
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Pratiche
dell’autonomia
Il ‘sistema duale’. Un
progetto pilota nella
Motor Valley
di Maria Grazia Accorsi
Sistema duale: idee a confronto
Il sistema ‘duale’
fa riferimento
a percorsi
formativi
che si possono
realizzare
nelle aziende
e nella scuola,
in forma
complementare
64
Vale la pena chiedersi che cosa si intenda nel nostro Paese per ‘sistema
duale’. Come spesso accade, anche a
causa del susseguirsi nel tempo di ‘riforme della scuola’, medesimi significanti non di rado permangono pur assumendo nell’evoluzione normativa significati anche molto distanti. Questa
sorte è occorsa anche alla locuzione
‘sistema duale’.
Nell’architettura ‘a due gambe’ della
Riforma Moratti, con ‘sistema duale’
si intese prefigurare la pari dignità del
sistema dei licei (nel quale entravano
a fare parte anche gli istituti tecnici e
professionali) e di quello dell’istruzione e formazione professionale. A distanza di tempo, pur essendo la ‘seconda gamba’ alimentata dal sistema
IeFP per le qualifiche, dalla diffusione
degli IFTS e degli ITS post-diploma,
l’istruzione resta di gran lunga il principale canale, ponendo in ombra la
prospettiva ‘duale’.
Altra e diversa accezione del ‘sistema
duale’ è quella evocata nel documento La Buona Scuola (3 settembre 2014),
che fa riferimento al modello di integrazione fra scuola e lavoro, vero pilastro
del sistema formativo, lavorativo, sociale ed economico della Germania. Si
tratta di percorsi misti in azienda o in
training center (in genere 3-4 giorni la
settimana) e in scuola (1-2 giorni per
settimana), per giovani che sono lavoratori apprendisti e come tali stipulano
con l’azienda un contratto scritto che
include la definizione della qualifica,
delle competenze e conoscenze perseguite, della durata (2 o 3 anni a seconda della qualifica), del tipo di certificato che sarà conseguito, nonché di
tutte le condizioni di remunerazione, ferie, malattia, diritti e doveri, ecc.
Continuiamo a porre attenzione a progetti innovativi
in grado di rappresentare modelli o riferimenti per lo
sviluppo della cosiddetta ‘via italiana al sistema duale’. Nel numero 5-2014 di Rivista dell’istruzione abbiamo esaminato una sperimentazione dell’‘apprendistato per l’alta formazione’ (*) applicato in sette diverse
regioni in favore di studenti degli ultimi due anni della
secondaria superiore.
*) Tre sono le forme di apprendistato: per la qualifica
e per il diploma professionale; professionalizzante
o contratti di mestiere; di alta formazione e di ricerca.
Cfr. http://www.cliclavoro.gov.it.
La via italiana al ‘sistema duale’
Non vorremmo davvero che la ‘via italiana al sistema duale’ venisse interpretata come la male intesa creatività attribuita al genio dell’italianità, spesso
sinonimo di approssimazione, spontaneismo, debolezza normativa, a confronto con l’istituto tedesco, molto
strutturato e basato su una stringente
regolamentazione. Pensiamo invece
che si intenda che i percorsi si possono realizzare (in questo caso, sì, creatività come capacità di aderire alle esigenze e alle diverse opportunità e condizioni di sostenibilità) in una pluralità
di forme di collaborazione fra i due attori (scuola e impresa) e di modalità di
integrazione fra esperienze formative
nei due contesti, nel rispetto di principi di qualità ed efficacia.
Siamo autorizzati a pensarlo anche
perché nel documento La Buona Scuola vengono individuate 4 modalità da
adottare a seconda delle esigenze dei
ragazzi e del tipo di aziende e istituzioni: l’alternanza obbligatoria; l’impresa
didattica; la bottega scuola; l’apprendistato negli ultimi due anni della secondaria. È nostro intendimento pas-
A
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
sare in rassegna le diverse forme rappresentandole anche attraverso pratiche che possono offrirsi come esemplari.
Due esperienze innovative
Intendiamo proporre all’attenzione due
esperienze di alternanza scuola-lavoro
per la durata di due anni, in accordo tra
due istituti scolastici di Bologna con
Ducati Motor e Lamborghini.
Le due esperienze, pur avendo in comune il doppio sbocco, sia verso l’esame di Stato, con il conseguimento
del titolo scolastico e la prosecuzione
post-diploma in ambito accademico o
terziario non accademico, sia verso
l’attestazione di competenze professionali e il riconoscimento aziendale,
sono differenti per lo stato giuridico
dello studente. Nel primo caso, l’allievo ha un doppio status, stipulando egli
un contratto di lavoro con l’impresa,
grazie al quale gli vengono applicate
tutte le condizioni previste nel CCNL
della categoria di riferimento (inquadramento, ferie, recesso, malattia, remunerazione, ecc. Nel secondo caso
invece il beneficiario ha uno status di
studente che fa anche esperienza formativa in azienda e percepisce non
una remunerazione, ma eventualmente una borsa di studio; la responsabilità è in capo alla scuola, l’esperienza
on the job è parte integrante del percorso formativo. Si tratta della piena
attuazione del dispositivo dell’alternanza scuola-lavoro nella forma compiuta già prevista nel decreto 77/2005,
ma che, in virtù di uno scivolamento
linguistico (anche in questo caso), ha
di solito designato altro (tirocini, stage, ex Terza Area…) (1).
1) Per approfondimenti sul tema, cfr.
i contributi dell’autrice: Alternanza
Il progetto Dual Education
System Italy (Desi)
Il progetto DesiI (2) è esplicitamente
ispirato al modello duale tedesco e
prende il via tramite un’intesa fra Regione Emilia-Romagna, Ufficio scolastico regionale, Ducati motor, Automobili Lamborghini, Fondazione Volkswagen e due istituti di istruzione secondaria superiore di Bologna (Belluzzi-Fioravanti e Aldini Valeriani).
È la prima di una serie di ‘misure e progetti’ di cooperazione italo-tedesca,
previsti nel Memorandum di intesa già
sottoscritto fra i ministeri italiani (MIUR
e MLPS) e gli omologhi tedeschi (ministero del lavoro e Ministero dell’educazione e della ricerca) a Napoli il 12
novembre 2012 (3) e ratificato a Berlino il 10 dicembre dello stesso anno,
riguardanti in particolare procedure
collaudate per la transizione fra scuola e lavoro, partecipazione delle imprese nella formazione, realizzazione di
curricula misti tra formazione in aula e
in azienda, promozione del dialogo sociale, ecc.
I destinatari sono 48 giovani di entrambi i sessi in possesso di qualifica professionale che non hanno proseguito il
percorso di studi e non frequentano alcun percorso di istruzione, selezionati
con una procedura articolata (test, colloquio motivazionale e prova pratica),
con preferenza per soggetti provenienti da famiglie disagiate (25% dei posti
riservati). Riceveranno una borsa di
studio di 600 euro mensili.
Il percorso, per la durata di due anni, si
articola in una successione di mesi di
lezioni teoriche e pratiche presso gli
istituti scolastici e mesi di training on
the job, studio ed esperienze tecniche
presso i training center delle due aziende partner, con riferimento ai profili finali di Tecnici esperti di meccatronica
Pratiche
dell’autonomia
L’alternanza
scuola-lavoro
può far perno
sull’azienda
(con un contratto
di lavoro)
o sulla scuola
(con una borsa
di studio)
e apprendistato, in Check up alla
scuola che riparte, in “Voci della scuola”,
Tecnodid, n. 4/2013; Il tutor
dell’alternanza, in “Voci della scuola”,
Tecnodid, n. 5/2014.
2) Per i documenti del progetto (bando, ecc.) cfr:
http://www.regione.emilia-romagna.it/
notizie/2014/; http://www.iav.it/desi.
3) http://www.lavoro.gov.it/Notizie/2012/.
65
A
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Pratiche
dell’autonomia
Il modello
sperimentato
a Bologna
(con Ducati
e Lamborghini)
prevede
un partenariato
della scuola
con le aziende,
ma con una forte
regia pubblica
66
per i settori auto e moto e Operatori
controllo numerico. È previsto il tempo
pieno per 5 giorni la settimana per i due
anni.
La formazione in azienda non si svolge
nelle linee produttive, ma in laboratori
di progettazione e prototipazione. Il governo e la responsabilità del percorso
è in capo alla scuola, che valuta gli apprendimenti anche recependo come
elemento fondante la valutazione
espressa dal trainer aziendale e decide
l’ammissione al secondo anno e agli
esami finali.
Un partenariato forte
Il ruolo dell’ente pubblico (Regione e
Ufficio scolastico regionale) è essenziale proprio perché può garantire certezza e continuità degli atti tramite un
‘Comitato di governance’ paritetico e
assicurare il monitoraggio dell’andamento e dei risultati. Ma è centrale, in
analogia con il modello duale tedesco
nel quale le parti sociali sono protagoniste, la collaborazione dei lavoratori,
che hanno partecipato tramite le rappresentanze sindacali alla definizione
dell’accordo e tramite la Fondazione
dipendenti Volkswagen al finanziamento dell’iniziativa con oltre 2 milioni di euro (oltre al finanziamento delle
aziende).
A scendere in campo sono due aziende del gruppo AUDi Volkswagen, che
applicano qui lo stesso modello della
casa tedesca, già introdotto in diverse sedi internazionali del Gruppo (Ungheria, Belgio, Cina, Messico). Nella
regolamentazione tedesca i training
center sono gli ambienti attrezzati per
la formazione degli apprendisti all’interno dell’impresa, ubicati spesso nel
cuore stesso dell’edificio aziendale,
per esprimere il valore simbolico da attribuire alla formazione dei giovani collaboratori. Anche le imprese di minore dimensione e meno strutturate accedono al modello duale: in questo caso, i training center possono essere
centri extra aziendali (UBS) utilizzati
(am)
dagli apprendisti provenienti da piccole aziende che si organizzano e collaborano. Sono finanziati dalle aziende
stesse e da un contributo dei Länder
e dei Comuni.
Gli istituti scolastici e i percorsi
di istruzione degli adulti
Un’interessante particolarità del progetto Desi è che si attua nei due istituti scolastici nell’ambito dei percorsi di
istruzione degli adulti (IdA), in particolare “nel 2° e 3° periodo didattico del
secondo livello”, secondo il linguaggio
del nuovo assetto, adottando le nuove
regole definite dalla riforma dell’istruzione degli adulti (d.m. 263/2012), che
prende avvio a regime proprio in questo anno scolastico.
Il progetto formativo condiviso con l’azienda conduce al diploma e realizza il
‘profilo educativo culturale e professionale’ in coerenza con il titolo, ma i criteri di erogazione (valorizzazione dei
saperi pregressi e definizione del piano
formativo individuale, flessibilità, quadri orari, discipline, durata, ecc.) sono
adeguati al target adulto.
Buona scuola e ruoli istituzionali
per l’alternanza
La Buona Scuola propone di rendere
obbligatoria l’alternanza scuola-lavoro
(nel cui modello il caso esaminato rientra) per almeno 200 ore l’anno per gli
ultimi tre anni degli istituti tecnici e professionali. È evidente che oggi mancano le imprese pronte per un’esperienza strutturata per grandi numeri. All’appello debbono rispondere non solo le
imprese più grandi (anche se molte di
esse hanno smantellato negli ultimi anni le corporate school interne), ma an-
A
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
che le aziende di minori dimensioni
debbono impegnarsi in programmi cooperativi per organizzare una formazione congiunta, con il sostegno delle associazioni imprenditoriali e degli enti di
formazione.
“Ci si aspetta che diverse aziende dello stesso distretto (Motor Valley), ma
anche dell’area geografica più vasta,
anche grazie alla promozione e al supporto offerto dalle istituzioni, si rendano disponibili e interessate” dice l’Assessore regionale dell’Emilia-Romagna,
pensando anche ai settori del packaging, dell’industria alimentare, del biomedicale, ecc. “Questa vicenda ci ha
fatto capire ancora di più che una parte delle nostre aziende ha una fortissima relazione con il sistema tedesco”.
La Regione è scesa in campo dunque
per fare di questa esperienza un apripista, un battistrada, che consenta di
monitorare problemi, punti di forza, criticità, per ‘apprendere’ dall’esperienza
e per farsi garante e promotrice dell’estensione del modello.
Il nuovo modello formativo propone di:
- misurare il proprio successo sia sul
fronte formativo (anche verso la
continuazione degli studi post-diploma accademici e non) sia verso
ruoli lavorativi;
- essere esempio di collaborazione
fra istituzioni, mondo imprenditoriale e partecipazione da protagonisti
delle rappresentanze dei lavoratori;
- mettere in campo una nuova prospettiva per il nuovo mondo dell’istruzione degli adulti.
Una questione culturale
e sociale
Una questione fondamentale resta
aperta: il sistema duale tedesco è fortemente radicato nella cultura del Paese; è molto strutturato e molto affidabile; si basa su un sistema di infrastrutture solide; si avvale di una normativa
stringente (risalente al 1969 e modificata nel 2005) che disciplina l’elenco
delle figure professionali, le competen-
ze da acquisire, i percorsi formativi, i
modi in cui si combina la pratica in
azienda e la formazione a scuola, i requisiti dell’azienda che può ospitare
apprendisti, le caratteristiche e il percorso formativo dei meister e dei trainer, gli esami esterni, la possibilità di
condurre parte dell’esperienza all’estero, ecc.; forte è la partecipazione delle
rappresentanze aziendali dei lavoratori e dei lavoratori giovani; lo status di
apprendista ha una posizione riconosciuta nella scala sociale; è l’azienda
che investe.
Certo proprio ‘la via italiana al sistema
duale’, che prevede – secondo la nostra interpretazione – una gamma diversificata di soluzioni organizzative,
non esige che l’istituto dell’’alternanza scuola-lavoro’, finalmente uscito
dalla marginalità e occasionalità della
maggior parte delle esperienze che finora sono state ascritte a questa forma, esaurisca il fabbisogno, ma occorre forzare il più possibile verso l’estensione delle applicazioni del modello.
Per queste ragioni abbiamo bisogno
non solo che le istituzioni, come in questo caso, si facciano parte in causa, ma
anche di apprendere da questi tentativi di applicare un format – che ha le sue
condizioni di successo in una tradizione radicata – in contesti che non contemplano quella tradizione, spesso
pongono ostacoli anche culturali, stentano ad accettare una regolamentazione stringente.
Il progetto Desi è un banco di prova
che parte però con presupposti forti,
sia in virtù delle imprese partner, sia per
l’impegno istituzionale, sia per la nuova attenzione del Paese sulla scuola.
Pratiche
dell’autonomia
Il modello
‘tedesco’,
a cui si guarda
con favore,
si lega
al contesto
tipico
di quel Paese,
ma una via
italiana
è possibile
Maria Grazia Accorsi
Titolare Studio Accorsi, consulente in materia di
innovazioni formative, basate su standard, certificazione
e crediti.
[email protected]; www.studioaccorsi.com
67
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Governance
Povera scuola.
Facciamo i conti
al sistema di istruzione
di Emanuele Barbieri
Ce lo chiede l’Europa?
La spesa
per l’istruzione
negli ultimi anni
è diminuita
del 7%,
pur partendo
da una base
già insoddisfacente
Troppe volte abbiamo sentito giustificare scelte impopolari, anche se doverose, con la frase: “ce lo chiede l’Europa”. Raramente viene ricordata un’altra raccomandazione europea: “l’investimento in istruzione rappresenta una
condizione importante per sviluppare
l’occupazione, combattere e prevenire
la disoccupazione giovanile”.
Questo strabismo è giustificato anche
dal fatto che la crisi e i vincoli indiscriminati di bilancio inducono i governi a
scelte restrittive proprio nel settore
dell’istruzione. L’Italia, comunque, si distingue per la pesantezza dei tagli. Dai
dati pubblicati da Eurydice nel 2013,
nel biennio 2011-2012, otto dei venticinque Stati membri esaminati hanno
ridotto la spesa per l’istruzione. La riduzione è stata superiore al 5% in Grecia, Ungheria, Italia, Lituania e Portogallo.
Ma l’Italia partiva già da una situazione
svantaggiata. Nel primo decennio di
questo secolo, mediamente, nei Paesi
dell’UE-27 la spesa, partendo da un valore leggermente superiore al 5% del
PIL, cresce del 10%, mentre in Italia,
nello stesso periodo, pur partendo da
un valore del 4,1%, la spesa non ha
avuto incrementi: la quota impegnata
nel 2010 è leggermente inferiore a quella del 2000.
Cosa ci dice il PIL?
La figura 1 riporta i dati della spesa per
istruzione, in relazione al PIL, dal 1995
al 2011 e si commenta da sola; la riduzione continua anche nel 2012 e, dai
dati provvisori, sembra arrestarsi nel
2013.
Per avere un’idea più precisa e in valori assoluti di quanto avvenuto negli
ultimi anni, è sufficiente esaminare i
dati della fonte di spesa largamente
più rilevante, quella del Miur. Nel 2009,
dai dati della Ragioneria generale dello Stato, la spesa per la missione istruzione risultava pari a 45.324 miliardi di
euro (valori correnti); nel 2012 la stessa fonte indica una spesa di 42,143
miliardi di euro (valori correnti), con un
taglio pari a 3,181 miliardi di euro,
equivalente al 7% in termini monetari
e al 14% in termini reali. Nello stesso
intervallo di tempo gli alunni della
scuola statale non sono diminuiti ma
hanno registrato un leggero incremento (+ 28.070) passando dai 7.702.783
dell’a.s. 2008-09 ai 7.730.853 dell’a.s.
2011-12.
Figura 1 – Spesa per l’istruzione in percentuale del PIL, dal 1995 al 2011. Italia
4,4 4,3 4,2 4,1 4,0 3,9 3,8 3,7 3,6 3,5 3,4 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 spesa in % pil 4,1 68
Fonte: Eurostat.
4,3 4,2 4,2 4,2 4,1 4,2 4,1 4,2 4,0 4,1 4,0 4,0 3,9 4,1 4,0 3,7 Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Figura 2 – Numero complessivo di alunni in tutti gli ordini e gradi di scuola, pubblica e privata (in migliaia)
Governance
11,752 8,968 19
66
/
19 67 68
/
19 69 70
/
19 71 72
/
19 73 74
/
19 75 76
/
19 77 78
/
19 79 80
/
19 81 82
/
19 83 84
/
19 85 86
/
19 87 88
/
19 89 90
/
19 91 92
/
19 93 94
/
19 95 96
/
19 97 98
/
20 99 00
/
20 01 02
/
20 03 04
/
20 05 06
/
20 07 08
/0
9 8,714 Fonte: Dati ISTAT.
Figura 3 – Tassi di scolarità nella scuola secondaria di secondo grado. Valori percentuali
92,3 Maschi Femmine 2009/10 2008/09 2007/08 2006/07 2005/06 2004/05 2003/04 2002/03 2001/02 2000/01 1999/00 1998/99 1997/98 1996/97 1995/96 1994/95 1993/94 1992/93 1991/92 1990/91 1989/90 1988/89 1987/88 1985/86 55,7 1986/87 87,4 1984/85 100,0 95,0 90,0 85,0 80,0 75,0 70,0 65,0 60,0 55,0 50,0 Maschi e femmine Fonte: Dati ISTAT.
Il numero degli alunni non
è in calo
In passato, la stampa più volte ha evidenziato la contraddizione di una gestione della scuola in cui calavano gli
alunni e crescevano gli insegnanti e la
spesa. E questa tendenza al calo degli
alunni, verificatasi negli anni Ottanta e
Novanta (figura 2), per una sorta di effetto trascinamento, si è continuato a
ritenerla in atto anche successivamente. Questa sorta di strabismo, in un
contesto politico in cui la lettura della
rassegna stampa ha sostituito l’analisi
dei dati, si è tradotta in interventi di politica scolastica e di gestione della spesa basati sui racconti del passato. I tagli lineari sono stati definiti senza tener
conto delle variazioni della popolazio-
ne scolastica e della sua distribuzione
territoriale.
Sono stati trascurati due fenomeni rilevanti: l’aumento degli alunni con cittadinanza non italiana, passati da
147.406 nell’a.s. 2000-01, pari all’1,7%
di tutta la popolazione scolastica, a
786.630 nell’a.s. 2012-13, pari all’8,8%;
l’aumento dei tassi di scolarizzazione
nella scuola secondaria superiore, passati da 55,7% nell’a.s. 1984-85 a
87,4% nell’a.s. 2000-01, per salire ulteriormente al 92,3% nell’a.s. 2009-10
(figura 3).
Negli anni successivi, i tassi di partecipazione alla scuola secondaria di secondo grado hanno continuato a crescere, fino a raggiungere nel 2011-12
la percentuale media nazionale del
94,7%, cui vanno aggiunti gli alunni dei
Negli ultimi
dieci anni
si è assistito
a un aumento
della popolazione
studentesca,
in particolare
degli allievi
non italiani
e, in generale,
nella scuola
secondaria
superiore
69
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Governance
Tabella 1 – Tassi di partecipazione ai percorsi del secondo ciclo: scuola secondaria superiore e percorsi triennali di istruzione e formazione professionale nelle istituzioni formative. Valori percentuali
Scuola
secondaria
di II grado
88,7
88,7
99,5
98,4
95,2
94,7
Macro area
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud
Isole
Totale secondo ciclo
Percorsi triennali
in istituzioni
formative
8,1
8,1
2,6
0,8
2,9
4,5
Totale secondo
ciclo
96,9
99,9
102,1
99,2
98,1
99,2
Fonte: Nostra elaborazione su dati ISTAT.
Figura 4 – Variazione percentuale della popolazione di età tra 3 e 18 anni per Regione da 1.1.2002 a 1.1.2012
Emilia-­‐Romagna Valle d'Aosta Lombardia Veneto Friuli-­‐Venezia Giulia Piemonte -­‐15,7 -­‐15,4 -­‐12,7 -­‐12,0 -­‐11,6 -­‐6,3 14,5 14,7 12,7 13,0 10,7 12,1 Toscana 9,7 Liguria 6,8 Marche Lazio Italia Abruzzo Campania Puglia Sicilia Molise 4,5 9,5 TrenJno Alto Adige -­‐19,1 -­‐18,2 Sardegna Basilicata 1,2 9,4 Umbria 23,6 Calabria 30,0 25,0 20,0 15,0 10,0 5,0 0,0 -­‐5,0 -­‐10,0 -­‐15,0 -­‐20,0 -­‐25,0 Fonte: Nostra elaborazione su dati ISTAT.
La popolazione
scolastica
cresce
al Nord
e diminuisce
al Sud
70
percorsi triennali, pari al 4,5% per un
totale del 99,2% (tabella 1).
Tutti vanno a scuola?
In definitiva, si può osservare che oggi il numero di alunni è pari alla popolazione in età scolare. Potremmo dire
che tutti vanno a scuola (o almeno ci
provano). Anche se è vero che una
percentuale superiore al 20% viene
contata più di una volta, per le ripetenze, e nasconde il dato di quelli che non
frequentano. Comunque, statisticamente, considerati i tassi di partecipazione prossimi a 100, i dati sulla popolazione tra i 3 e i 18 anni risultano
comparabili a quelli della popolazione
scolastica.
Dai dati sulla popolazione emerge che,
nel decennio 2002-2012, la sostanziale stabilità complessiva è la risultante
di variazioni molto divergenti tra le diverse realtà regionali.
In generale, si registra un forte incremento della popolazione interessata alla scuola nelle regioni del Nord, che si
attenua nelle regioni del Centro, mentre si registra un forte decremento nelle regioni del Sud.
Livelli di apprendimento
e risorse
La programmazione e la distribuzione
delle risorse di personale non sembrano aver colto le esigenze e le opportunità offerte da questa redistribuzione
della domanda. I tagli di personale sono stati avvertiti in modo molto più acuto al Nord e al Centro, proprio perché
coincidenti con incrementi della popolazione ignorati o sottovalutati e, in generale, non è stata colta l’occasione
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Grafico 1 – Studenti per livello di competenza in scienze per regione. Anno 2012* (composizioni percentuali)
Governance
Livelli
di competenza
e tassi
di abbandono
sono assai diversi
nelle varie regioni
* Le Regioni sono classificate in ordine decrescente di percentuale di studenti 15enni nei livelli di
competenze pari o superiori a quelle base (da 2 a 6).
Fonte: ISTAT, Noi Italia 2014, Elaborazione su dati Oecd/Invalsi-Pisa.
Figura 5 – Giovani che abbandonano prematuramente gli studi, anno 2012. Valori percentuali
Sardegna Sicilia Campania Puglia Valle d'Aosta/Vallée Bolzano/Bozen Italia Calabria Toscana Liguria Piemonte Marche Emilia-­‐Romagna Lombardia Veneto Umbria Basilicata Friuli-­‐Venezia Giulia Lazio Trento Abruzzo Molise 30,0 24,8 25,5 21,5 21,8 25,0 19,5 19,7 17,2 17,3 17,6 17,6 20,0 15,3 15,4 15,7 16,3 14,2 13,8 13,7 13,0 13,3 15,0 10,0 12,0 12,4 10,0 5,0 0,0 Fonte: ISTAT, Noi Italia 2014.
per migliorare la qualità dell’offerta formativa al Sud, incrementando il tempo
pieno e sviluppando progetti in grado
di innalzare le competenze degli studenti di quelle regioni che nelle indagini nazionali e internazionali risultano al
di sotto della media nazionale, o per ridurre i fenomeni di abbandono precoce degli studi, come mostrano il grafico 1 e la tabella 5.
Il quadro che emerge non può che destare preoccupazione. Da un lato, si registra una crescita dei tassi di partecipazione al sistema di istruzione. Fenomeno che si può definire spontaneo:
una scelta dei giovani e delle famiglie
dovuta alla consapevolezza che il conseguimento di un diploma o di una qualifica professionale costituisce un traguardo da cui non si può prescindere.
71
Figura 6 – Giovani Neet di 15-29 anni per sesso e per macro area territoriale, anno
2012, valori percentuali
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Giovani NEET 35,0 30,0 25,0 Governance
20,0 15,0 10,0 5,0 0,0 Aumento
dei Neet
e calo
delle
immatricolazioni
universitarie
sono due facce
della medesima
medaglia
2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 Nord-­‐ovest 12,3 12,2 11,5 11,5 12,7 14,7 16,0 15,6 2012 16,8 Nord-­‐est 10,2 10,8 10,5 9,9 10,3 12,5 15,1 15,1 16,3 Centro 14,9 15,3 14,8 13,9 14,0 15,3 17,1 18,8 19,9 Centro-­‐Nord 12,5 12,7 12,2 11,8 12,4 14,2 16,1 16,4 17,6 Mezzogiorno 29,3 30,2 29,0 28,9 29,0 29,7 30,9 31,9 33,3 Italia 19,5 20,0 19,2 18,9 19,3 20,5 22,1 22,7 23,9 Fonte: Nostra elaborazione su dati ISTAT.
Figura 7 – Iscritti e immatricolati all’università. Valori assoluti/1000
11/12
Fonte: Nostra elaborazione su dati MIUR.
Dall’altro lato, emerge l’incapacità del
sistema di aggredire alcuni nodi strutturali del sistema scolastico: la velleitaria
funzione di orientamento della scuola
media; l’inesistente rapporto tra scuola
media e scuola secondaria superiore; l’inadeguatezza di un biennio della secondaria superiore evidenziata dagli elevati e inutili tassi di ripetenza; alcuni ritardi storici come il divario Nord-Sud e in
generale il divario tra i territori.
Scuola: ancora ascensore sociale?
72
La scuola, in definitiva, sembra aver
perso la sua funzione storica di ascensore sociale, importantissima per la valorizzazione e la promozione individuale, e la politica ha rinunciato ad asse-
gnare a essa la funzione di ricostituzione del capitale sociale indispensabile
per la rinascita civica, oltre che economica e sociale, di alcuni territori.
Sono due dati preoccupanti con cui è
necessario fare i conti, proprio in una
fase di crisi come quella attuale. La
crescita dei giovani Neet (1) (figura 6)
e il calo delle immatricolazioni universitarie (figura 7) sono sintomi molto
gravi: si rischia di tagliare fuori tutta la
generazione che sta per affacciarsi al
lavoro.
1) Not in Education, Employment or Training:
giovani non più inseriti in un percorso
scolastico/formativo ma neppure impegnati
in un’attività lavorativa. Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Figura 8 – Spesa dei Comuni e delle Province per alunno nel 2012
Fonte: Nostra elaborazione su dati ISTAT.
Obiettivi di convergenza
territoriale
Ritornando al tema iniziale, quello delle risorse, assunte come indicatore
dell’impegno per l’istruzione, è opportuno ricordare che alla spesa per l’istruzione concorrono diversi soggetti:
Stato, Regioni, Province, Comuni e
privati (essenzialmente le famiglie degli studenti).
A fronte di una spesa media complessiva di circa 6.500 euro per alunno, nel
2012, il Miur ha concorso con 5.200
euro e gli enti locali (Province e Comuni) hanno speso mediamente 873 euro/alunno (per la parte relativa a Regioni e famiglie non sono disponibili
dati aggiornati). Ma mentre il campo
di variazione della spesa statale è abbastanza contenuto, quello della spesa locale è molto ampio e, salvo alcune eccezioni, riflette la disponibilià di
risorse dei diversi territori.
Se si vuole migliorare il risultato complessivo (e quindi quello medio) del nostro sistema di istruzione è necessario
definire obiettivi di convergenza e politiche conseguenti, tenedo conto di tutte le risorse disponibili: nazionali, locali, private ed europee.
Il territorio dove uno nasce e la condizione socioculturale della famiglia determinano oltre il 50% della varianza
nei risultati scolastici. I giovani che non
studiano e non lavorano sono in costante crescita dal 2008. Più o meno
dalla stessa data sono in calo le immatricolazioni all’università.
Se si vuole parlare realmente di scuola, oltre ai sacrosanti problemi di organici, precari e reclutamento, è necessario ripartire da questi dati: qualsiasi
proposta finalizzata a curare i mali della scuola deve essere preceduta da
una seria diagnosi; le cure non possono essere il frutto di elaborazioni
astratte ma devono essere il risultato
di ipotesi sperimentate e verificate.
Governance
La spesa
per l’istruzione
degli Enti locali
esprime
ricchezza
e sensibilità
dei diversi
territori
L’autore è stato uno dei coordinatori della
redazione del Quaderno bianco sulla scuola (Mpi e Mef, 2007). Coordina gli autori del
“Rapporto sul sistema educativo italiano”,
pubblicato nel 2013 e nel 2014 a cura delle associazioni Aimc, Cidi, Proteo, Legambiente
Emanuele Barbieri
Già capo dipartimento Miur e vicepresidente del
Consiglio nazionale della PI, è autore di libri e articoli sul
governo del sistema scolastico.
[email protected]
73
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Osservatorio
giuridico
I servizi educativi
0-6 anni
sono stati
il banco di prova
per costruire
un sistema
integrato
pubblico-privato
Pubblico e privato:
verso un’integrazione
di Loredana Bondi
Agli albori dell’integrazione
dei servizi
Nel corso degli anni Novanta, grazie alle esperienze innovative di alcune regioni come Emilia-Romagna e Toscana, si è realizzata la prospettiva di un
‘sistema integrato’ dei nidi e delle scuole dell’infanzia, prima ancora della emanazione della legge sulla parità scolastica (n. 62/2000). Si parte dall’idea che
il diritto allo studio e alla formazione di
tutti i bambini debba comunque partire dai tre anni di età indipendentemente dal tipo di scuola frequentata (pubblica o privata). In Emilia-Romagna, per
esempio, con la legge regionale n.
52/1995, si introduce uno schema di
convenzione quadro che viene messo
a disposizione dei Comuni.
Anche in Europa, pur nella consapevolezza diffusa che i servizi per i più piccoli vanno estesi (obiettivi di Lisbona e
Barcellona), solo in alcuni Paesi si parla esplicitamente del bisogno di educazione e cura dei più piccoli, nonché
dell’esigenza di garantire i diritti dei
bambini offrendo anche il supporto necessario ai genitori.
Nasce il sistema pubblico
integrato
74
Negli ultimi decenni in periodo di vacatio legis nazionale, le Regioni hanno legiferato e gestito attraverso gli enti locali tutto il sistema di cura, educazione
e supporto organizzativo e, in linea col
principio di sussidiarietà previsto dalla
Costituzione, i servizi alla persona, sviluppando un modello di gestione dei
servizi 0-6 anni che già si configura come sistema pubblico integrato. Tale sistema si fonda, sotto il profilo della gestione, sulla compartecipazione di una
pluralità di soggetti pubblici e/o privati
in possesso di regolare autorizzazione
al funzionamento e /o accreditamento.
Occorre ricordare che ci si deve affacciare al nuovo secolo per avere una leg-
ge nazionale (la legge n. 328/2000) che
tratti della riorganizzazione dei servizi
sociali a livello territoriale, di nuovi modelli di governance, che proponga una
serie di strategie per la gestione dei
servizi come l’esternalizzazione, la privatizzazione, l’individualizzazione degli
interventi, anche al fine di agevolare il
lavoro delle donne, qualificando i servizi educativi per l’infanzia in termini di
investimento sociale.
È importante riaffermare che questo intero sistema sia considerato di ‘pubblica utilità’, in conseguenza del fatto che
viene riconosciuta la funzione pubblica
svolta dai diversi soggetti gestori (indipendentemente dalla loro natura giuridica), a precise e determinate condizioni: il protagonismo del cittadino a livello di partecipazione attiva nelle scelte,
la programmazione dei Comuni ispirata a logiche negoziali, un privato sociale che partecipi anche alla progettazione e implementazione organizzativa
dell’offerta.
La governance del sistema integrato
dei servizi rivolti all’infanzia consiste in
un approccio sistemico delle politiche
per cui un obiettivo non riguarda solo
l’ente pubblico, ma chiama in causa
tutti i soggetti che a diverso titolo partecipano a queste politiche e possono
concorrere a determinarne l’applicazione efficace ed efficiente.
Scegliere tra pubblico e privato
In anni più recenti la legislazione nazionale ha anche affrontato il tema del federalismo (ancora ‘in alto mare’) con
legge 5 maggio 2009, n. 42, ma molti
Comuni hanno preferito o saputo solo
distribuire la gestione dei servizi tra diversi tipi di ‘cooperative e privati’. Pur
sapendo che tale scelta è motivata soprattutto dal contenimento dei costi, si
rende un danno allo sviluppo dei servizi per l’infanzia, laddove oggi più che
mai servirebbe una costruzione vera
del sistema fra i vari soggetti gestori
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
con un controllo generale sul sistema
da parte del pubblico.
Anche il privato è in difficoltà a proporsi come gestore, perché i vincoli di spesa sono drastici e, per garantire la sostenibilità dei servizi, si trova davanti al
grave rischio di chiudere o restringere
l’offerta a discapito della qualità, sostanzialmente per il venir meno del sostegno economico del pubblico. Ma
non è dovunque così.
Pubblico e privato, soprattutto privato sociale, cercano in molte realtà nuove soluzioni, per esempio con nuove
tipologie di offerta educativa, ma il rischio, soprattutto del privato, è quello di dover ‘toccare’ alcuni aspetti fondamentali del lavoro educativo (rapporto educatore/ bambino, turnover
eccessivo, mancanza di formazione
ecc.) andando a incidere proprio sulla
qualità e in tal senso regredendo al
mero ‘parcheggio’.
Per far fronte alla costrizione economica, sono state adottate da varie amministrazioni locali anche scelte virtuose,
facendosi carico di problemi decisamente nuovi, come quello dell’integrazione (un esempio è sicuramente rappresentato dall’inserimento dei bambini stranieri e delle loro famiglie).
La parola chiave è stata la partecipazione al progetto educativo: è cambiato il contesto, sono cambiati anche i
genitori, le famiglie. La ‘partita’ è stata
ridefinita tenendo insieme il significato
politico di esercizio della cittadinanza
attiva e quello dialogico di costruzione
di obiettivi culturali condivisi.
Orientamenti europei
In questo panorama di grandi difficoltà per i servizi, ci sono stati comunque
segnali di forte attenzione da parte
della Commissione europea. La novità maggiore si è avuta con la Comunicazione n. 66 del 17 febbraio 2011,
con un titolo molto espressivo: “Educazione e cura della prima infanzia:
consentire a tutti i bambini di affacciarsi al mondo di domani nelle condizio-
ni migliori”. Alla luce di questo documento programmatico nessun amministratore pubblico, dirigente, educatore dovrebbe sottovalutare l’educazione per la prima infanzia. La Comunicazione rappresenta uno spartiacque in vista della strategia e degli
obiettivi da raggiungere entro il 2020
(come previsto dal Consiglio europeo
a Barcellona nel 2002) e il riferimento
per normative nazionali e regionali.
Al centro del documento c’è l’affermazione che solo i servizi di qualità sono
utili per lo sviluppo integrale, cognitivo, relazionale e comportamentale di
ognuno per il preventivo contrasto alle disuguaglianze, per il successo scolastico e il lavoro futuro. Anche la prima ricerca italiana della Fondazione
Agnelli del 2010 sugli esiti scolastici
insiste sul fatto che i servizi educativi
di qualità sono utili e la responsabilità
grava sulle spalle di chi li organizza e
gestisce.
Qualità con risorse decrescenti
Che fare allora in una condizione sociale di grave crisi come quella attuale?
Alcune amministrazioni hanno tentato
di impostare nuovi modelli gestionali
che permettano di coniugare il mantenimento del sistema e la funzione pubblica dell’offerta con una gestione più
snella e controllata dei rischi e dei vincoli economico-finanziari. In effetti si
sono misurati con la consistenza del sistema dell’offerta, la diversificazione
delle tipologie dei servizi e dei soggetti titolari e gestori.
Come si può rispondere ai nuovi bisogni con scarse risorse, salvaguardando la qualità? Occorre fissare dei
paletti, che ancor oggi mancano in diverse situazioni, per assenza di indirizzi precisi a livello nazionale e ridotta legislazione regionale in materia,
tali da chiarire per il settore pubblico
e il gestore privato le condizioni irrinunciabili per gestire servizi di qualità nel rispetto di standard di riferimento.
Osservatorio
giuridico
In tempo
di crisi finanziaria
occorre
salvaguardare
standard
essenziali
di qualità
nel settore pubblico
e in quello privato
75
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Osservatorio
giuridico
Ma quali sono gli aspetti di fondo della
qualità di un servizio educativo, quelli
senza i quali qualsivoglia innovazione
non può essere sostenibile in termini di
benessere evolutivo del bambino? È sicuramente difficile sostenerle, ma devono esservi condizioni irrinunciabili.
Gli indicatori di qualità
Alcuni standard
sono
irrinunciabili:
quantità
e qualità
dei servizi,
professionalità
degli operatori,
coordinamento
pedagogico
76
Le condizioni irrinunciabili di qualità si
basano su un’innovazione sostenibile,
come atto di responsabilità nell’utilizzo
delle risorse e per sostenere il benessere dell’umanità che verrà. Occorre
garantire una risposta ai bisogni emergenti delle famiglie, tenendo conto delle risorse economiche disponibili, non-
Il Maestro Flavio Nicolini
ché l’assunzione di responsabilità rispetto alla salvaguardia delle bambine
e dei bambini, del loro diritto di opportunità educative ricche.
La riaffermazione delle finalità educative dei servizi deve essere sostenuta e
condivisa dal punto di vista politico
(perché tale scelta ha una natura politica), dirottando a livello pubblico le risorse disponibili per mantenere i livelli
di qualità, aumentando il numero dei
servizi, diffondendo i servizi educativi
integrativi (compresi quelli domiciliari),
garantendo la professionalità degli
educatori, la supervisione pedagogica
e la formazione in servizio, sostenendo
la presenza e il consolidamento dei coordinamenti pedagogici territoriali.
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Il panorama dei servizi 0-3 anni
Tipologie di servizi:
a) Nidi d’infanzia – Sono servizi educativi di interesse generale, rivolti a tutti i bambini in età compresa tra i tre mesi e i tre anni. Aperti in orario diurno almeno cinque
giorni la settimana, dal lunedì al venerdì, per almeno sei ore al giorno, per un’apertura annuale di almeno dieci mesi, i nidi d’infanzia erogano il servizio di mensa e
prevedono il momento del riposo se funzionanti anche al pomeriggio. Rientrano fra
i nidi d’infanzia anche i micro-nidi e le sezioni 24-36 mesi (sezioni primavera) aggregate a scuole dell’infanzia. In alcune realtà sono diffusi anche i nidi aziendali.
b) Servizi integrativi – In questa macro-area rientrano quelli previsti dall’art. 5 della l.
285/1997 e i servizi educativi realizzati in contesto domiciliare.
• Spazi per bambini (in età di massima da 18 a 36 mesi): i bambini sono accolti
per un tempo massimo di cinque ore, in modo da consentire una frequenza diversificata in rapporto alle esigenze dell’utenza, mentre non viene erogato il servizio di mensa e non è previsto il riposo pomeridiano.
• Centri per bambini e famiglie, che accolgono i bambini di età compresa fra 0 a
3 anni, insieme ai loro genitori o ad altri adulti accompagnatori. Le attività hanno la caratteristica della continuità nel tempo.
• Servizi e interventi educativi in contesto domiciliare (cosiddetti sperimentali) per
piccoli gruppi di età inferiore a 3 anni, realizzati con personale educativo qualificato presso una civile abitazione (piccoli gruppi educativi, tages mutter).
• Servizi ricreativi e iniziative di conciliazione: asili/scuole sottoposte a dichiarazione di avvio e soggette a controllo. Ci sono baby parking che accettano piccoli
dai 12 ai 36 mesi, altri che si rivolgono a bimbi più grandi (3-9 anni), altri per quasi tutte le età (15 mesi-10 anni). Il servizio è a pagamento.
Altri aspetti irrinunciabili riguardano
senza dubbio la buona preparazione
professionale degli educatori, le buone
pratiche educative per garantire che il
bambino sia partecipe e competente.
Rilevanza notevole ha la formazione
permanente del gruppo di lavoro,
dell’organizzazione e confronto interno
ed esterno che si esplica nella quotidianità. In tal senso è essenziale la presenza di un buon gruppo in cui i membri condividono esplicitamente il riferimento a un’idea di bambino partner
partecipe, attivo e competente e una figura di coordinatore pedagogico, super partes, che segue il progetto educativo nelle sue linee attuative e supporta il gruppo in tutte le fasi progettuali e attuative.
Un’ulteriore condizione fondamentale attiene al metodo: il processo di gestione
del cambiamento va svolto in modo partecipato col personale, i genitori, i rappresentanti delle organizzazioni sindacali e va continuamente monitorato. Sul go-
verno del sistema devono entrare le famiglie, che devono conoscerne il programma e poterne verificare l’attuazione
non in termini di spettatori, ma di co-progettazione del servizio. Genitori sempre
più attenti, partecipi e competenti, chiamati alla corresponsabilizzazione (non
solo economica), forse nel tempo saranno anche in grado di conoscere (e tollerare) le differenze fra un servizio e l’altro.
Il sistema dell’offerta vede da tempo integrarsi servizi che propongono tutte le
diverse possibili formule di titolarità e
gestione:
- la titolarità pubblica con gestione diretta;
- la titolarità pubblica con gestione in
appalto;
- la titolarità privata in regime di convenzionamento col pubblico (servizi
privati accreditati e convenzionati);
- la titolarità privata in diretto rapporto con il mercato (servizi privati
semplicemente autorizzati al funzionamento).
Osservatorio
giuridico
Il segmento
0-3 anni
propone
un’ampia gamma
di servizi
educativi,
flessibili
e a diversa gestione
77
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Osservatorio
giuridico
Un controllo
di gestione
analitico
consente
di monitorare
costi,
risultati,
gestione
del personale,
funzionamento
dei servizi
Una lucertola disegnata dagli alunni della
scuola del Bornaccino (fm)
A questo quadro composito fanno riferimento diverse ‘forme di interpretazione’ dei tre diversi temi oggetto della
presente riflessione:
• costi: i servizi con titolarità pubblica
costano di più, soprattutto se gestiti direttamente, di quelli a titolarità
privata, in ragione del maggior quadro di garanzie e di riconoscimento
economico offerto al lavoro degli
educatori e operatori impiegati;
• rette a carico delle famiglie: sono i
servizi privati, questa volta, a meno
di essere accreditati e convenzionati col pubblico, a costare mediamente di più di quelli pubblici;
• criteri di accesso: considerando insieme alle tariffe l’equità delle condizioni e delle opportunità, sono i
servizi pubblici gli unici a garantire
un accesso prioritario ai bambini disabili o provenienti da famiglie in
condizioni di disagio sociale.
ti su tutti i piani, sotto il profilo educativo-pedagogico, organizzativo, economico-finanziario e della qualità percepita. Gli strumenti utilizzati nel controllo di gestione consentono al personale amministrativo di monitorare periodicamente la situazione e di operare le
scelte gestionali alla luce di una piena
consapevolezza della situazione economica.
Altra importante funzione del controllo
di gestione analitico è quella di sostenere la politica nelle decisioni. La scelta della gestione diretta dei servizi, infatti, impone un forte impegno da parte di chi si occupa di amministrazione,
per mantenere il contenimento dei costi necessari per garantire il funzionamento dei nidi e/o scuole d’infanzia e
altri servizi educativi integrativi.
Nella situazione attuale il controllo di
gestione non è soltanto sinonimo di
analisi dei costi, perché in esso rientrano anche tutta una serie di dati (numero degli operatori, distribuzione sui servizi, quote di tempi pieni rispetto ai part
time, distribuzione oraria sulla giornata) che rendono questo strumento essenziale per pianificare ma soprattutto
per valutare le scelte da fare nell’immediato e in futuro nell’ambito dei servizi.
Il presente articolo sarà seguito da
ulteriori interventi della stessa autrice
sugli aspetti specifici della gestione dei
servizi (pubblico-privato,
esternalizzazioni, convenzioni).
Bibliografia completa e riferimenti
normativi saranno pubblicati nei
prossimi numeri.
Il sistema dei controlli
78
Ma in tutti i sistemi di gestione l’aspetto più rilevante è quello di monitorare
continuamente, secondo tempi e indicatori di sistema ben chiari e condivisi,
il processo in atto per valutarne gli esi-
Loredana Bondi
Già docente e dirigente scolastica, docente di
Metodologia didattica presso l’Università di Ferrara, direttore dell’Istituzione dei servizi educativi, scolastici
e per le famiglie
[email protected]
L’autovalutazione
in quattro mosse
Prima mossa: preparare il terreno
di Mario Castoldi
L’autovalutazione nel d.P.R.
80/2013
Il regolamento sul sistema nazionale di
valutazione in materia di istruzione e
formazione (d.P.R. 28 marzo 2013, n.
80) delinea un quadro di riferimento organico entro il quale collocare il processo di valutazione delle scuole. In
particolare l’art. 6 definisce le fasi su
cui si articola il procedimento di valutazione delle istituzioni scolastiche:
•l’autovalutazione delle istituzioni
scolastiche, attraverso “analisi e verifica del proprio servizio sulla base
dei dati resi disponibili dal sistema
informativo del Ministero, delle rilevazioni sugli apprendimenti e delle
elaborazioni sul valore aggiunto restituite dall’Invalsi, oltre a ulteriori
elementi significativi integrati dalla
stessa scuola; elaborazione di un
rapporto di autovalutazione in formato elettronico, secondo un quadro di riferimento predisposto
dall’Invalsi, e formulazione di un piano di miglioramento”;
•la valutazione esterna attraverso:
“individuazione da parte dell’Invalsi
delle situazioni da sottoporre a verifica, sulla base di indicatori di efficienza ed efficacia previamente definiti dall’Invalsi medesimo; visite dei
nuclei di cui al comma 2, secondo il
programma e i protocolli di valutazione adottati dalla conferenza ai
sensi dell’articolo 2, comma 5; ridefinizione da parte delle istituzioni
scolastiche dei piani di miglioramento in base agli esiti dell’analisi effettuata dai nuclei”;
• le azioni di miglioramento attraverso la “definizione e attuazione da
parte delle istituzioni scolastiche degli interventi migliorativi anche con
il supporto dell’Indire o attraverso la
collaborazione con università, enti
di ricerca, associazioni professiona-
li e culturali. Tale collaborazione avviene nei limiti delle risorse umane
e finanziarie disponibili e senza determinare nuovi o maggiori oneri per
la finanza pubblica”;
•la rendicontazione sociale delle istituzioni scolastiche attraverso “la
pubblicazione, diffusione dei risultati raggiunti, attraverso indicatori e
dati comparabili, sia in una dimensione di trasparenza sia in una dimensione di condivisione e promozione al miglioramento del servizio
con la comunità di appartenenza”.
Una prospettiva sistemica
Si tratta di un approccio organico alla valutazione delle istituzioni scolastiche, anticipato attraverso la sperimentazione
del progetto Vales, caratterizzato da una
prospettiva di integrazione tra dimensioni diverse della valutazione (tavola 1):
- tra valutazione interna ed esterna,
attraverso lo sviluppo delle diverse
fasi del procedimento valutativo;
- tra valutazione e miglioramento, che
viene indicato come l’esito principale del procedimento valutativo;
- tra valutazione dei risultati formativi, in particolare attraverso le prove
Invalsi, e dei processi organizzativi
ed educativi.
Dopo le soluzioni unilaterali e le semplificazioni degli scorsi anni si afferma
una visione integrata della valutazione,
vista in prospettiva multilaterale e sistemica (TreeLLLe, 2002).
L’attuazione evidenzia alcuni nodi problematici che potranno chiarirsi solo
nei prossimi anni:
- il coordinamento tra i tre soggetti a
cui è affidato il Sistema nazionale di
valutazione (Invalsi, Indire, contingente ispettivo), tutto da costruire a
partire dalla stessa identità organizzativa e funzionale dei tre soggetti,
in particolare del terzo;
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Strumenti e
cultura della
valutazione
L’avvio
del Sistema
nazionale
di valutazione
propone
una scansione
sistemica
di autovalutazione,
valutazione esterna,
miglioramento
e rendicontazione
pubblica
79
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Strumenti e
cultura della
valutazione
Figura 1 – Procedimento valutativo delle scuole previsto nel d.P.R. 80/2013
Il processo
di autovalutazione
deve essere
caratterizzato
da alcuni
parametri
di qualità
- la valutazione dei dirigenti scolastici, connessa alla valutazione delle
istituzioni scolastiche, che richiede
di affrontare il delicato problema
della relazione tra qualità della
scuola e azione della dirigenza,
nell’attuale contesto normativo della scuola;
- le risorse umane, strumentali e finanziarie a disposizione delle scuole per gestire responsabilmente e
con la necessaria competenza i
compiti valutativi e progettuali a esse affidati dal testo normativo (Castoldi, 2012).
In questo primo contributo ci concentreremo su alcune azioni a livello di istituto, finalizzate a preparare il terreno
per avviare il ciclo previsto dallo schema valutativo (1):
valutazione interna – valutazione esterna – miglioramento – valutazione
1) Tra i volumi più recenti: Mosca, 2011,
80
e Allulli, Farinelli, Petrolino, 2013.
Parametri di qualità dei processi
autovalutativi
Non basta che un istituto scolastico autocertifichi di fare autovalutazione o utilizzi qualche strumento di customer satisfaction, per poter affermare che dispone di un sistema di autoregolazione interno sistematico e funzionale.
Evitando di appoggiarsi su specifici approcci e modelli autovalutativi, può essere utile richiamare alcuni criteri generali di qualità di un processo valutativo,
riferimento fondamentale anche per
esperienze di valutazione interna. Il
Joint Committee on Standard for Educational Evaluation (2011), rappresentativo di dodici organizzazioni professionali statunitensi operanti nel campo
della valutazione educativa, ha elaborato un elenco di trenta standard di
qualità dei processi di valutazione in
ambito formativo, organizzati intorno a
quattro parametri: accuratezza, fattibilità, correttezza e utilità. Accanto a essi, con specifico riferimento ai processi autovalutativi, può essere utile aggiungere come quinto parametro la
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Tavola 2 – Ruoli e funzioni nella valutazione degli istituti scolastici
Funzioni
Soggetti chiave
Chi decide?
Invalsi/collegio docenti
Chi gestisce?
Gruppo di autovalutazione
Chi partecipa?
Componenti della comunità scolastica
Chi influenza?
Dirigente scolastico
Chi controlla?
Nuclei di valutazione esterna
Chi supporta?
Indire
Chi coordina?
Coordinatore processi valutativi
condivisione in rapporto al coinvolgimento degli attori nelle decisioni inerenti alla gestione del processo valutativo, nella formulazione dei giudizi e
nell’uso dei risultati valutativi.
Provando a contestualizzare con maggiore precisione il significato dei parametri indicati in relazione ai processi di
autovalutazione, possiamo riassumerlo in cinque interrogativi:
- Utilità: il processo autovalutativo è
stato davvero utile per le esigenze
di miglioramento dei soggetti e dei
gruppi coinvolti?
- Fattibilità: il processo autovalutativo è risultato realizzabile dal punto
di vista delle risorse a disposizione
e delle caratteristiche particolari
dell’ambiente e delle persone a cui
si rivolge?
- Correttezza: il processo autovalutativo realizzato è stato corretto in rapporto ai diritti delle persone coinvolte (privacy, diritto all’informazione,
benessere dei soggetti, ecc.) e alla
imparzialità dei giudizi espressi?
- Accuratezza: il processo autovalutativo è stato realizzato in modo accurato in rapporto alle procedure di
raccolta, analisi e interpretazione
dei dati e al disegno valutativo nel
suo insieme?
- Condivisione: il processo autovalutativo è risultato condiviso dal punto di vista del consenso, dell’interesse e del coinvolgimento delle diverse componenti della scuola?
In rapporto all’utilità è importante evidenziare che un processo di autovalutazione si qualifica sia per i risultati
connessi al processo, relativi alla promozione delle abilità di soluzione dei
problemi organizzativi ed educativi, sia
per i risultati connessi al prodotto, relativi ai cambiamenti introdotti sullo
specifico tema oggetto di valutazione.
Gli esiti di un processo autovalutativo
sono, quindi, da riconoscere sia in
chiave formativa, in relazione ai guadagni culturali degli attori e al potenziale
riutilizzo futuro dell’esperienza svolta,
sia in chiave operativa, in relazione ai
miglioramenti intervenuti e ai loro riflessi sui risultati formativi (Hopkins, 1989).
Sistema dei ruoli
Strumenti e
cultura della
valutazione
Ci dobbiamo
fare domande
‘sensate’
circa l’utilità,
la fattibilità,
la correttezza,
l’accuratezza,
la condivisione
del processo
di valutazione
La gestione dei processi valutativi a livello di Istituto scolastico richiama un
insieme di funzioni differenti, più o meno formalizzate ed esplicite; può essere utile esplicitare tali funzioni in rapporto all’attuale assetto istituzionale e
organizzativo della scuola italiana, traguardato nella prospettiva dello schema di regolamento sul sistema di valutazione. La tavola 2 sintetizza i soggetti chiave che possono essere riconosciuti in relazione alle diverse funzioni,
limitandosi a identificare i ruoli principali; proveremo ad analizzare con maggiore precisione ciascuna delle funzioni richiamate (Castoldi, 2008).
Chi decide? Invalsi/collegio docenti
L’integrazione tra valutazione interna
ed esterna si riflette inevitabilmente sui
ruoli decisionali: il Regolamento definisce l’impianto del procedimento valutativo. In particolare viene affidato
81
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Strumenti e
cultura della
valutazione
Occorre definire
con precisione
i ruoli,
dal dirigente
scolastico
al collegio
dei docenti,
al nucleo
di valutazione
82
organi collegiali, sarebbe auspicabile
che tale gruppo non fosse composto
da soli docenti e potesse avvalersi di
competenze esterne, sebbene l’esiguità delle risorse a disposizione renda
problematica tale soluzione. Risulta comunque indispensabile assegnare un
mandato chiaro e preciso a tale gruppo, in riferimento sia al prodotto atteso
sia alle risorse e ai vincoli entro i quali
operare.
(am)
all’Invalsi un ruolo di coordinamento
funzionale del Servizio nazionale di valutazione, che include un insieme di
compiti (che cosa e come valutare,
quale uso fare dei risultati…), al cui interno vanno a collocarsi le decisioni
specifiche a livello di scuola. Queste ultime rinviano alla dinamica decisionale
interna tra dirigente scolastico, consiglio di istituto e collegio docenti,
nell’ambito della quale quest’ultimo rimane l’organo chiave per le decisioni
di ordine tecnico-professionale, tra cui
rientrano quelle connesse alla valutazione dell’istituto scolastico e alle azioni di cambiamento da intraprendere.
Chi gestisce? Il gruppo di autovalutazione
Al di là delle decisioni di fondo, la gestione operativa del processo valutativo relativamente alla raccolta dei dati,
alla loro analisi, all’utilizzo in funzione
del piano di miglioramento richiama l’esigenza di un gruppo di lavoro. In relazione alla prospettiva di riordino degli
Chi partecipa? I componenti della comunità scolastica
La valutazione dell’istituto scolastico
presuppone il coinvolgimento dei diversi soggetti che, a vario titolo, sono
coinvolti nel suo funzionamento: dirigente, docenti, personale non docente, studenti, genitori, interlocutori esterni. La natura sociale della scuola richiama un’accezione estesa della nozione
di comunità scolastica, allargata a tutti coloro che ne fanno parte, sia in qualità di erogatori del servizio, sia di fruitori diretti, sia di beneficiari indiretti. La
stessa corresponsabilità dei diversi attori nella gestione della relazione formativa accentua l’esigenza di una prospettiva multilaterale con cui osservare la realtà scolastica e, di conseguenza, la necessità di interpellare le diverse componenti in merito alle loro percezioni e ai loro giudizi sul funzionamento della scuola.
Chi influenza? Il dirigente scolastico
Oltre che dai ruoli formalmente definiti i processi valutativi sono influenzati
dalla dinamica sociale entro cui avvengono e dal condizionamento che essa
può esercitare sulle decisioni da assumere o sui giudizi da esprimere. Si
tratta, evidentemente, di meccanismi
difficilmente decifrabili e fortemente
agganciati alle strutture e ai climi relazionali degli specifici contesti organizzativi.
In termini generali è utile segnalare la
posizione particolare del dirigente scolastico, a cui è affidata una funzione
non solo organizzativa-gestionale ma
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
anche culturale, accentuata dalle specifiche caratteristiche di un’organizzazione che eroga servizi formativi. Da qui
il potenziale influenzamento che può
esercitare nella strutturazione di processi valutativi, al di là dei compiti organizzativi a lui affidati e del contributo che può esercitare sulle altre funzioni indicate, che amplifica la dimensione immateriale e di orientamento del
proprio ruolo, generalmente ricondotta
al termine leadership.
Chi controlla? I nuclei di valutazione
esterna
Le funzioni di controllo del processo
valutativo si incrociano inestricabilmente con quelle di supporto, mettendo in gioco una pluralità di attori interni ed esterni. Esse assumono particolare rilievo in riferimento al momento
autovalutativo, proprio in virtù delle
sue peculiarità, e chiamano in causa il
ruolo affidato ai Nuclei di valutazione
esterna previsti dal Regolamento, coordinati dal contingente ispettivo. Il
procedimento proposto, infatti, prevedendo l’eventuale valutazione esterna
come momento successivo alla valutazione interna, assegna a essa anche
una funzione di validazione degli esiti
dell’autovalutazione oltre a quella di riorientamento delle sue risultanze nella prospettiva del piano di miglioramento.
Chi supporta? L’Indire
Il supporto di un processo valutativo
si gioca su diversi piani: a livello tecnico, in rapporto a una gestione rigorosa delle diverse fasi della valutazione; a livello organizzativo, in rapporto
alla predisposizione delle condizioni
favorevoli all’evento valutativo; a livello motivazionale, in rapporto alla creazione di un clima di coinvolgimento e
fiducia. Ciò richiama l’azione di una
pluralità di soggetti, tra cui il Regolamento evidenzia il ruolo affidato all’Indire, in particolare in relazione alla definizione e attuazione dei piani di miglioramento.
Chi coordina? Il coordinatore dei processi valutativi
La pluralità dei soggetti coinvolti e l’articolazione dei diversi passaggi richiede una funzione di coordinamento, in
relazione alla collocazione del processo valutativo nella complessità del funzionamento dell’istituto scolastico. Accanto al ruolo del dirigente scolastico,
istituzionalmente preposto a esercitare una funzione di integrazione del sistema, è utile richiamare la necessità di
una funzione organizzativa intermedia
dedicata specificamente a tale compito, il coordinatore dei processi valutativi. Ancora una volta l’arretratezza e
l’indeterminatezza delle norme in materia di organi di funzionamento della
scuola e di svolgimento di funzioni organizzative non consentono un ancoraggio preciso a tale ruolo, se non
all’interno delle funzioni strumentali al
Piano dell’offerta formativa e del riconoscimento di attività aggiuntive ai
compiti di insegnamento.
Strumenti e
cultura della
valutazione
All’interno
di ogni scuola
dovrebbe essere
individuato
un coordinatore
dei processi
valutativi
Condizioni di esercizio
La qualità di un processo autoriflessivo
in un contesto professionale si fonda
sulla rappresentazione che di esso si
costruiscono gli attori organizzativi: il
suo potenziale di sviluppo è direttamente correlato al grado in cui viene riconosciuto come strumento professionale a
disposizione del singolo e del gruppo
per indagare e revisionare le proprie
azioni organizzative ed educative.
La valenza pragmatica entro cui si colloca, in quanto opportunità di sviluppo
professionale e organizzativo basata
sul richiamo ricorsivo tra pensiero e
azione, enfatizza la priorità da assegnare al senso di appartenenza al processo da parte degli attori rispetto al rigore e alla sistematicità delle scelte tecniche e procedurali (Lichtner, 1999).
La cura delle condizioni di fattibilità del
processo richiede un’attenzione costante sia nella fase preliminare, sia nel
corso dell’azione, e diviene un requisito decisivo per la sua efficacia.
83
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Strumenti e
cultura della
valutazione
Il processo
di autovalutazione
è un’occasione
di crescita
per le scuole,
ma richiede
alcune condizioni
di base
84
Il Maestro Alberto Manzi
Legittimare il processo autovalutativo
significa creare le condizioni affinché
esso venga assunto dagli attori organizzativi, i docenti in primo luogo, come occasione di crescita; in altre parole il percorso di indagine autoriflessiva
deve conquistarsi il diritto di cittadinanza all’interno della comunità scolastica, evitando di essere vissuto come
corpo estraneo – e potenzialmente invasivo e minaccioso – e diventando un
utensile professionale consapevolmente assunto nelle sue potenzialità e nei
suoi vantaggi (Weick, 1976).
Evidentemente tale prospettiva mette
in gioco la modalità più generale con
cui i diversi attori, e i docenti in particolare, si sentono parte di un’impresa
collettiva. Ciò evidenzia una sorta di
paradosso insito nei processi autovalutativi i quali, se da un lato contribuiscono a rafforzare l’identità professionale e il senso di appartenenza nei contesti organizzativi in cui avvengono,
dall’altro presuppongono alcune condizioni contestuali di fondo per poter
esprimere il loro potenziale formativo.
Un paradosso la cui gestione sottoli-
nea il ruolo strategico assunto dal dirigente scolastico nell’assicurare piena
legittimità ai processi di autovalutazione e nel valorizzare le loro potenzialità
in relazione alla totalità dell’istituto.
Le motivazioni culturali
Sul piano culturale la legittimazione
del processo richiede le seguenti condizioni:
• chiarire il senso del processo autovalutativo, in quanto opportunità
formativa di sviluppo professionale
e organizzativo a disposizione degli
attori della comunità scolastica;
• rendere riconoscibili i problemi professionali che si intendono affrontare, evidenziandone la natura (ad
esempio, in termini di scarto tra intenzioni progettuali e comportamenti attivati) e i vantaggi che potrebbero derivare da nuove soluzioni;
• condividere le scelte chiave che
qualificano un processo autovalutativo e riflettono una dinamica di potere tra le parti: individuare l’oggetto da investigare, decidere quali
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
soggetti coinvolgere, scegliere gli
strumenti e le modalità di indagine,
interpretare e attribuire valore ai dati raccolti, decidere quale uso fare
dei dati e a chi rendere pubblici i risultati;
• sottolineare la logica pragmatica
entro cui si inquadra il processo
autovalutativo come strumento
sull’azione e per l’azione che risulta valido in quanto pertinente al
contesto in cui viene impiegato, direttamente connesso all’esperienza professionale dei docenti nel loro lavoro d’aula.
esperienze condotte da altre scuole, in modo da consentire uno
sguardo più distanziato e retrospettivo sulle scelte compiute e sul percorso metodologico avviato.
Il prossimo numero di Rivista
dell’istruzione sarà dedicato al tema
dell’autovalutazione di istituto.
Vi saranno pubblicate
le tre ‘mosse’ successive,
dello stesso autore.
Le scelte organizzative
Sul piano più strettamente organizzativo si tratta di:
• focalizzare l’attenzione su priorità
strategiche ben delimitate e circoscritte, in grado di favorire la realizzazione di un processo rapido ed
efficiente e di sperimentare percorsi autoriflessivi trasferibili e replicabili;
• affidare ai soggetti responsabili del
percorso autovalutativo un mandato chiaro e strutturato, in grado di
definire oggetto, soggetti, modalità
e tempi di attuazione e di precisare
i vincoli e le risorse necessarie;
• prevedere e chiarire, fin dalla fase di
progettazione iniziale, i risultati attesi e le loro modalità d’uso, in modo da orientare l’impegno richiesto
ai diversi soggetti e da contenere
preoccupazioni per usi indebiti e
inappropriati;
• definire le connessioni tra il gruppo responsabile del processo autovalutativo e i diversi soggetti –
individuali e collettivi – che compongono la struttura decisionale e
organizzativa della comunità scolastica, in modo da favorire le interazioni e le reciproche ricadute,
sia in itinere, sia a conclusione del
percorso;
• assicurare la presenza di ‘amici critici’ e/o confronti periodici con
Cosa leggere sull’autovalutazione
G. Allulli, F. Farinelli, A. Petrolino,
L’autovalutazione di istituto, Guerini e
Associati, Milano, 2013.
Associazione TreeLLLe, L’Europa valuta
la scuola. E l’Italia?, Quaderno n. 2, novembre 2002.
M. C astoldi , Si possono valutare le
scuole?, SEI, Torino, 2008.
M. Castoldi, Valutare a scuola, Carocci,
Roma, 2012.
D. Hopkins, Evaluation for School Development, Open University Press, Philadelphia PA, 1989.
JCSEE (Joint Committee on Standards
for Educational Evaluation), Standards
for Evaluation of Educational Programs,
Projects and Materials, McGraw-Hill,
New York NY, 2011.
M. Lichtner, La qualità delle azioni formative, Franco Angeli, Milano, 1999.
S. Mosca, R. Bolletta, J. Scheerens, Valutare per gestire la scuola, B. Mondadori, Milano, 2011.
K.E. Weick, Senso e significato nell’organizzazione, Cortina, Milano, 1997 (ed.
orig.1976).
Strumenti e
cultura della
valutazione
Occorre
affidare
al gruppo
che coordina
il processo
di autovalutazione
un compito
chiaro,
indicando
i prodotti attesi
Mario Castoldi
Docente presso la Facoltà di Scienze della formazione
dell’Università degli Studi di Torino, esperto di
problematiche valutative in ambito scolastico
[email protected]
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Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Ex cathedra
L’evaporazione
dell’autorità paterna:
e i docenti?
di Francesco Piazzi
Il padre che non c’è
Telemaco
cerca
un padre
‘buono’,
capace
di parlare
con la testimonianza
della propria
passione
In un articolo intitolato Il Padre che non
c’è, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” nel dicembre 1998, Eugenio
Scalfari denunciava l’eclissi della figura paterna e lamentava, tra le conseguenze di questa assenza, il venir meno di quella gerarchia familiare che un
tempo serviva a trasmettere l’identità,
la memoria storica. In effetti oggi si assiste a un appiattimento sincronico
(babbi-amici). Oggi pare non esserci
una tesaurizzazione dell’esperienza
precedente (genitoriale e storica in senso lato). Ciò che hanno fatto i padri non
pare più un esempio da seguire per le
generazioni successive. E questo spiega anche sul piano della scuola – come dirò meglio in seguito – il crescente disinteresse per le materie che favoriscono la formazione del senso storico (storia, filosofia, lingue classiche).
Questo stesso articolo è stato da Scalfari ripubblicato, inalterato, su “la Repubblica” del 24 marzo 2013, con la
postilla che quanto era stato scritto
quindici anni prima oggi vale a maggior
ragione.
Habemus papam e Palombella
rossa
Riprendendo l’articolo di Scalfari, Massimo Recalcati ci offre, in un recente libro intitolato Il complesso di Telemaco,
una lettura inedita della relazione tra
genitori e figli (1). L’autorità simbolica
del padre, argomenta lo studioso, è tramontata. I padri latitano. Tuttavia giungono segnali di una nuova domanda di
padre. La figura di Telemaco appare
simbolicamente significativa del bisogno di paternità dei figli orfani di oggi.
Telemaco aspetta che il padre ritorni
Questo padre che non detiene più
l’ultima parola sul senso del bene e
del male ma neppure sa trasmettere
ai propri figli la fede nell’avvenire è,
secondo Recalcati, esemplificato nel
film di Nanni Moretti Habemus Papam. Il papa eletto rifiuta la nomina e
fugge via terrorizzato dai palazzi pontifici, incapace di sostenere il peso
simbolico di questo incarico. Il balcone di San Pietro resta vuoto. La moltitudine che attende la parola-guida
del padre-Papa – del simbolo universale del padre – rimane delusa e
sconcertata: si inverte la catena delle generazioni.
Chi doveva rassicurarla, non solo non
è in grado di prendere la parola, ma si
rivela egli stesso smarrito. (…) Il padre
che deve rassicurare deve essere rassicurato, il padre si trasforma in un figlio (3).
Il gesto del protagonista di Habemus
papam evoca a Recalcati la scena di
un altro film, Palombella rossa, che Moretti gira nel 1989. Di fronte alle domande di un giornalista che lo interroga sulle sorti del partito, il segretario del PCI
protagonista del film appare disorien-
1)M. Recalcati, Il complesso di Telemaco,
2)M. Recalcati, op. cit.
Il complesso di Telemaco
86
per riportare la legge nella sua isola dominata dai Proci, diversamente da Edipo, che vive il padre come un rivale da
uccidere e al quale sostituirsi.
Ma di quale padre si avverte oggi la nostalgia?
Non più il padre che ha l’ultima parola
sul senso del bene e del male, ma solo
un padre capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita,
che la vita può avere un senso (2).
Feltrinelli, Milano 2013.
3)M. Recalcati, op. cit.
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Ex cathedra
Finita l’epoca
delle grandi
narrazioni
è entrata
in crisi
anche la figura
rassicurante
del padre
autorevole
Casa a due piani (gz)
tato, afasico, smemorato. Invece di rispondere alle domande del giornalista
le pone a se stesso: Chi sono? Chi siamo? Cosa è accaduto? Non sa dettare la linea al suo popolo, regredisce sino all’infanzia: la pallanuoto, la Nutella, Il dottor Zivago.
I due grandi simboli degli Ideali che
hanno orientato la vita delle masse in
Occidente – il Papa della Santa Romana Chiesa e il segretario del glorioso
Partito Comunista – non sanno più sostenere il peso simbolico della loro funzione pubblica, appaiono smarriti, evaporati (4).
Quali gli effetti dello
svaporamento (5) del padre visti
dall’osservatorio della scuola
Massimo Recalcati in un articolo intitolato Cari professori non fate gli psicologi invitava gli insegnanti a disinteressarsi delle problematiche psicologiche
e affettive degli studenti rubando tempo prezioso allo studio delle discipline (6). Gli rispondeva l’insegnante scrittore Marco Lodoli:
5) Per la metafora dello ‘svaporamento’, cfr. J.
Lacan, Nota sul padre e l’universalismo, in “La
psicoanalisi” n. 33, Astrolabio, Roma, 2003.
6)M. Recalcati, Cari professori non fate gli
psicologi, in “la Repubblica”, 20 ottobre
4)M. Recalcati, op. cit.
2013.
87
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Ex cathedra
Se l’insegnante
deve sostituire
il padre
e la madre,
ormai assenti,
potrà ancora
insegnare?
Da un lato si vorrebbe una scuola efficiente, che non si perda in ciance sentimentali (…) ma le scuole sono piene di
studenti carichi di problemi esistenziali,
la fragilità psicologica cresce a dismisura. (…) La scuola vorrebbe trasformarsi
in un’azienda capace di consegnare ai
suoi clienti un sapere utile, e invece si ritrova ad affrontare macerie psichiche (7).
Come sono questi genitori
privi di autorità?
Al livello socialmente più basso, i genitori sono spesso come ce li descrive
Eraldo Affinati:
Oggi i genitori degli studenti sono ragazze fragili col trucco troppo vistoso e
i vestiti non appropriati, giovanotti ricoperti di tatuaggi, commesse dall’aria
scarmigliata, operai in tuta, meccanici
con le mani sporche di grasso, badanti che in genere non trovano nemmeno
il tempo di venire a parlare con i professori. Hanno le facce stanche, l’aria
indaffarata, lo sguardo spento. Molto
spesso litigano davanti al figlio. (…) Mirko e Christian, entrambi bocciati in seconda media, ancora non sanno che
questi genitori dovranno prenderseli
sulle spalle e metterli al riparo (8).
“Prenderseli sulle spalle”, appunto: è
l’inversione generazionale denunciata
da Recalcati.
Saliamo di livello sociale e culturale.
Come sono oggi i padri intellettuali,
possibilmente di sinistra? Sono relativisti etici, secondo l’autodefinizione di
Michele Serra, che si rivolge al figlio in
questi termini, confessando tutti i limiti della propria figura genitoriale:
Dicono che avresti avuto bisogno di
un Padre. Un vero Padre. Che avresti
avuto bisogno del suo ordine ben
strutturato, ben codificato, così da poterlo fare tuo oppure confutarlo e
7)M. Lodoli, La scuola raccontata diventa
un boom editoriale, in “la Repubblica”,
combatterlo, e combattendolo diventare un uomo.
Non c’è argomento che mi metta più in
difficoltà. (…) Riconosco che delle tradizionali attitudini del padre — stabilire
regole, rimproverare, punire, disciplinare – non sono un convincente interprete. Le volte che tento di riportare ordine, sottolineare regole, sento di… non
avere il tono autorevole di chi è sicuro
del proprio ruolo (…) sono il tipico relativista etico. La definizione (…) sta a
indicare quella larga fetta di adulti occidentali che… non riescono a trovare
indiscutibile alcun assetto etico, specie
nella vita privata. Di qui una diffusa incapacità di pronunciare certi No e certi Sì belli tonanti. (…) Sono il tutore ondivago di un ordine empirico, composto e poi scompaginato giorno per giorno, scritto in nessun Libro, impresso su
nessuna Tavola (9).
Se i genitori sono così,
gli insegnanti come possono
essere?
Il trattamento indecente – economico,
in termini d’immagine sociale, ecc. –
degli insegnanti nel nostro Paese è certo uno dei corollari dello svaporamento dell’autorità paterna. Se è svaporata questa, è logico che svapori anche
l’autorità di quei surrogati di padri, di
quei padri putativi che ormai sono –
forzatamente – divenuti gli insegnanti,
sempre più spesso chiamati a svolgere una funzione di surroga genitoriale,
in assenza dei genitori biologici. Ma se
l’insegnante deve sostituire il padre e
la madre, può anche insegnare?
L’evaporazione della cultura
umanistica
Una prima quasi immediata conseguenza dell’evaporazione dell’autorità
paterna, e quindi dell’assenza di un interesse per la tesaurizzazione dell’e-
20 ottobre 2013.
8)E. Affinati, Elogio del ripetente,
88
A. Mondadori, Milano, 2013.
9)M. Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli, Milano,
2013.
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
sperienza dei padri in senso lato (padri
biologici, ma anche padri ‘culturali’) è
la crisi delle discipline umanistiche ormai considerate inutili, polverose, malinconiche. Scrive con la consueta lucidità Marco Lodoli:
“Io non esisto più, sono diventata invisibile”, mi dice una professoressa con
la voce spezzata e gli occhi umidi. “Entro in classe, comincio a spiegare e subito mi accorgo che nessuno mi ascolta. Nessuno, capisci?”. (...) professori
di lettere, storia, filosofia, arte che si sono ben preparati per la loro lezione, finiscono a parlare nel vuoto... Perché
accade questo? Al riguardo mi sono
fatto un’idea. (…) La cultura umanista
sembra aver concluso il suo ciclo. (…)
Per la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi tutto il patrimonio culturale del nostro Paese non significa più
niente. (…) Oggi i ragazzi non si voltano più indietro, gli prende subito la tristezza perché alle spalle avvertono solo un cimitero degli elefanti. La vita è
adesso, qui e ora, e poi di nuovo qui e
ora, e quello che è stato è stato, e tutte le chiacchiere dei vecchi sono fumo
nel vento (10).
Naturalmente se tutto questo accade
avrà – hegelianamente – una sua razionalità storica e tutto il diritto di accadere. E poi non è detto che questo disinteresse per la tradizione sia una pura
sciagura. Il mondo cambia di continuo,
è sempre cambiato, con mutamenti ora
impercettibili, ora bruschi e netti. Il punto è che oggi gli insegnanti, nell’attesa
che il padre nuovo ritorni dal mare – e
nel dubbio inquietante che un padre,
quale che sia, non torni mai più – devono confrontarsi con ‘le macerie psichiche’ dei figli-orfani.
Ascoltare con empatia
Avvalersi di psicologi, pedagogisti,
ispettori, conseillor, ecc. serve poco,
10)M. Lodoli, Addio cultura umanista. Per i
perché chi non entra ogni giorno in
quella fossa dei leoni che è una classe ‘vera’ non può avere voce in capitolo. Così come chi non è mai entrato
in una sala operatoria non avrebbe titoli per insegnare al chirurgo che opera quotidianamente. Di fronte ai consigli di questi ‘esperti’ è comprensibile la reazione infastidita di chi sta in
trincea, come Eraldo Affinati, un professore peraltro innamorato del proprio mestiere:
Avanti, venite qui, vorrei dire a tutti i cosiddetti osservatori disinteressati, coloro che pontificano sui giornali, gli esperti della psicopedagogia, i tecnici della
docimologia, teorici ed eruditi, commissari e sapienti, funzionari e valutatori,
congressisti e studiosi. […] Entrate nelle aule italiane per capire cosa accade
dentro la testa delle nuove generazioni. Siamo di fronte a uno sconquasso
di natura epocale. Non fidatevi di chi
sproloquia, truccando le carte con un
semplice gioco di polso, senza conoscere la fatica quotidiana, le mortificazioni di quanti si mettono alla prova
ogni giorno sapendo che educare significa ferirsi. […] Per riuscire a creare
la concentrazione in un quindicenne
demotivato, la cui autostima è pari allo
zero, bisogna realizzare una piccola impresa. Innumerevoli sono le sconfitte.
Però ci sono anche le vittorie: quelle
che nessuno vede, da cui nascono i cittadini del futuro (11).
Ex cathedra
… per riuscire
a creare
concentrazione
in un quindicenne
demotivato,
la cui autostima
è pari a zero,
bisogna realizzare
una piccola
impresa…
La dimensione etica dell’ascolto
“Educare significa ferirsi”, scrive Affinati, mettendo in primo piano la dimensione etica e affettiva di questo
difficile e per certi aspetti entusiasmante mestiere. Oggi vale assai più
di un tempo il requisito ‘etico’ dell’ascoltare con sincera sollecitudine, diciamo pure con amore: “Ascoltare anche con il cuore apre la porta alla comprensione, all’attenzione, all’empatia”
scrive Liss, uno psicologo recente-
ragazzi non ha senso, in “la Repubblica”,
31 ottobre 2012.
11)E. Affinati, op. cit.
89
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Ex cathedra
Senza
che si trasformino
in psicologi,
la relazione
educativa
implica
per i docenti
interesse
a interagire
con l’altro
e curiosità
empatica
mente scomparso, che all’ascolto empatico ha dedicato molti libri. È la conclusione a cui arriva subito lo studente cerebroleso di Affinati, al termine
della tronfia performance dell’esperto
di tossicodipendenza:
“Avete domande da fare?” Un grande
silenzio piombò su tutti noi. Forse gli
studenti erano stanchi. Fatto sta che
nessuno diceva niente. Ma poi dai
banchi in prima fila si alzò esitante la
mano di Cuccureddu, cerebroleso. (…)
L’operatore, sorridendo compiaciuto,
gli diede la parola, e lui chiese: “Mi
vuoi bene?”. Era una domanda caduta dal cielo. Tutti ridemmo, ma in cuor
nostro sapevamo che Cuccureddu
aveva fatto goal (12).
Piaccia o non piaccia, il sapere ascoltare, e in certo senso divenire un po’ psicologo, parrebbe oggi un requisito importante dell’insegnante. Con buona
pace di chi, come il sottoscritto, vorrebbe ancora poter insegnare il latino e il
greco come una volta, e con buona pace dello psicologo professionista Recalcati, che diffida gli insegnanti dall’occuparsi di questioni psicologiche:
“Attualmente un’illusione ha fatto capolino. È l’illusione dell’insegnante-psicologo che lascia da parte i contenuti
dei programmi per dedicarsi a cogliere
i segni di disagio esistenziale dei suoi
allievi (…) mette da parte lo studio di
Aristotele, di Spinoza o di Hegel per dare voce alla sofferenza dei ragazzi? (...)
Quale nuova pericolosa illusione si annida in questo atteggiamento? L’amore per il sapere – che dovrebbe animare ogni insegnante – lascia il posto a
una supplenza diretta del mestiere del
genitore” (13).
Come se poi gli insegnanti potessero
esimersi dallo svolgere questa supplenza e come se bastasse lo psicologo professionista che, in qualche scuola, fa formale atto di presenza per un’ora alla settimana.
12)E. Affinati, op. cit.
13)M. Recalcati, Cari professori non fate gli
90
psicologi, cit.
L’umana curiositas
Ascoltare con il cuore, dunque. Ma –
anche per non correre il rischio di indulgere al buonismo pedagogico che
negli ultimi decenni ha creato solo danni nella scuola – aggiungerei, con curiosità umana. La stessa curiositas che
spinge un personaggio di una commedia di Terenzio ad ascoltare le pene di
un vicino di casa, che non gli è parente né amico, per un interesse semplicemente umano: Homo sum, humani
nihil a me alienum puto. Una formula,
giustamente celeberrima, che condensa il significato profondo dell’umanesimo e di quella che anche oggi si chiama psicologia umanistica.
Il personaggio dell’Heautontimorumenos che pratica l’ascolto empatico è
mosso, più ancora che da un impulso
solidaristico (la philanthropia dei Greci), da una curiositas intellettuale per
la diversità dell’altro, da un interesse
a interagire col prossimo, ad arricchire la propria visione del mondo in
un’interazione paritetica nella quale
entrambi gli attori hanno qualcosa da
guadagnare.
Naturalmente il requisito etico della curiositas e della disponibilità all’ascolto
empatico non può bastare. Di quali altri strumenti offerti oggi dalla psicologia deve dotarsi l’insegnante forzatamente psicologo di oggi? A questa domanda complessa cercherò di dare una
risposta in un prossimo articolo su questa stessa rivista.
Francesco Piazzi
Autore di libri per la scuola, già docente di lettere nella
scuola superiore, formatore e ricercatore nell’IRRE
Emilia-Romagna
[email protected]
Meriti individuali
e lavoro di squadra
A che gioco giochiamo?
di Giovanna d’Arco
Collegialità vo’ cercando...
Mi sono sempre chiesta quale sia l’idea
organizzativa di ‘azione collettiva’ che è
alla base dell’insegnamento nelle nostre
scuole, ma in questi ultimi mesi sono
entrata in crisi dopo aver attentamente
analizzato il testo governativo La Buona Scuola. Sono consapevole del fatto
che la collegialità, introdotta dai decreti delegati del 1974 per rendere unitario
l’insegnamento e democratica la gestione della scuola, nel giro di quarant’anni
si è burocratizzata diventando una sorta di rito collettivo che, sostanzialente,
è strumentale soltanto all’elaborazione
del Pof, progetti compresi.
Raramente, specie in questi ultimi anni di autonomia scolastica, durante una
seduta collegiale, è nata qualche straordinaria sperimentazione o qualche innovazione didattica in grado di coinvolgere tutti i docenti, inpegnandoli a realizzarla, monitorarla, valutarla. Dopo
che il collegio dei docenti ha assolto al
dovere istituzionale della delibera del
Pof, il dirigente si sente a posto e ciascun docente, entrando in classe, riacquista la sua sacrosanta e personale libertà di insegnamento, accantonando
tutte le dichiarazioni di natura educativa e didattica contenute nel Pof.
Ognuno fa scuola a modo suo, convinto che sia l’unico modo buono per fare scuola.
E che dire dei consigli di classe che,
convocati contemporaneamente, costringono spesso alcuni docenti a parteciparvi solo parzialmente e, comunque, limitatamente al monte orario contrattuale? È un impegno burocratico
anche questo, il cui faticoso coordinamento è focalizzato più sugli alunni e i
loro risultati di apprendimento che
sull’insegnamento e l’approccio educativo e didattico da adottare. Insomma, la collegialità docente non ha mai
attecchito nelle nostre scuole diventando lavoro di squadra, che è l’unico che
potrebbe garantire l’unitarietà dell’offerta formativa.
La microcollegialità dei team e dei consigli di classe – che è quella posta a
presidio dell’operatività – raramente si
configura come luogo del ‘gioco’
dell’insegnare: un campo dove si prendono accordi, si assumono decisioni,
ci si coordina, si valuta l’efficacia
dell’insegnamento e non solo le prestazioni degli alunni.
Un’organizzazione a legami
(troppo) deboli
La classe non è una multiproprietà abitata a turno dai docenti, né un poliambulatorio dove i singoli professionisti si
succedono per ricevere i propri clienti.
Se proprio vogliamo continuare con le
metafore, la classe è un vero e proprio
presidio di pronto soccorso, servizio
che diventa efficace se c’è una visione
unitaria su ciò che è necessario fare,
coordinamento continuo, sinergia negli
interventi.
Ci sembra appropriato, a questo punto, riportare il raccapricciante racconto di Weick, che descrive le scuole con
una efficace metafora che, ormai, appartiene a pieno titolo ai sistemi scolastici:
Immaginate di essere arbitro, allenatore, giocatore o spettatore di una singolare partita di calcio: il campo ha forma
circolare: le porte sono più di due e sono sparse disordinatamente lungo i
bordi del campo; i partecipanti possono entrare e uscire dal campo a piacere; possono dire: “ho fatto goal” per
quanto vogliono, in ogni momento e
per quante volte vogliono; tutta la partita si svolge su un terreno inclinato e
viene giocata come se avesse senso.
Ora, se sostituiamo nell’esempio l’arbi-
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Matita rossa
e blu
La dimensione
collegiale
si è burocratizzata;
occorre
riscoprire
una visione
unitaria
e collaborativa
del ‘fare scuola’
91
Rivista
dell’istruzione
6 - 2014
Matita rossa
e blu
Per far decollare
una comunità
professionale
occorre uscire
dalla solitudine
del docente
e puntare
su un’efficiente
organizzazione
scolastica
92
Il Maestro Federico Moroni
tro con il preside, gli allenatori con gli
insegnanti, i giocatori con gli studenti,
gli spettatori con i genitori e il calcio
con l’attività scolastica, si ottiene una
descrizione altrettanto singolare delle
organizzazioni scolastiche. Il fascino di
questa descrizione sta nel fatto che essa coglie all’interno delle organizzazioni didattiche un nucleo di realtà diverse da quelle che possono essere evidenziate nelle stesse organizzazioni dalle posizioni classiche della teoria burocratica. (Weick, 1988).
Chiedendosi come una organizzazione
riesca ad andare avanti a fare ciò che fa,
K. Weick elabora il costrutto dei ‘legami
deboli’ o ‘connessioni lasche’ che, paradossalmente, ne garantiscono il funzionamento. I giudizi di tipo critico, spesso
comunemente espressi riguardo alle
scuole, riferiti al caos o all’inefficienza
delle attività nelle organizzazioni scolastiche, sono legati a una inutile lettura razionale delle singole scuole che, invece,
si prestano a essere analizzate come un’
organizzazione in cui chiunque può dire
di lavorare bene, ma della quale è impossibile ricostruire i processi che rendono
valutabile sia tutto il sistema organizzativo che i singoli operatori.
Qualità del docente…
Qualità della scuola?
Nel testo La Buona Scuola c’è un interessante capitolo dedicato ai docenti,
alla carriera per merito, alla premialità
e alla necessità che i docenti si aggiornino e si formino, intraprendano ricerche, investano sul proprio sviluppo professionale, formino i colleghi giovani. I
continui richiami a questi aspetti fondativi di una professione che ha una
impellente necessità di essere ridefinita, portano a un’idea di docente ‘commesso viaggiatore’ che si aggira di
scuola in scuola per raccogliere i crediti necessari che gli consentano di ottenere il sospirato scatto stipendiale
per merito.
Per far uscire gli insegnanti dal ‘grigiore dei trattamenti indifferenziati’ e dal
limbo della comfort zone li condanniamo a un inferno fatto di continua competizione con se stessi e con i colleghi
e di mobilità forzata. Quale tipo di gioco, dunque, viene proposto ai docenti? Un gioco solitario che non fa che
rafforzare la spontanea balcanizzazione da sempre in agguato nelle nostre
scuole.
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La schisi tra ‘attività individuali e collegiali’ è sancita molto chiaramente nel
testo La Buona Scuola: la funzione docente viene rifondata con il riconoscimento economico del merito e con una
fragile carriera che nulla ha a che vedere con quell’articolazione della funzione docente indispensabile per irrobustire il modello organizzativo dell’autonomia scolastica e, soprattutto, non
c’è nessun riferimento al lavoro collegiale dei docenti a livello di classe, ma
soltanto a quelle “che consistono nella
definizione, elaborazione e verifica degli aspetti pedagogico-didattici del
Pof”. Insomma, gli insegnanti giocano
da soli nello stesso campo e la partita
che si gioca a scuola resta quella mirabilmente descritta da Weick alla fine
degli anni Settanta!
E il dirigente scolastico? È responsabile di tutto ciò che avviene prima, durante e dopo la partita, sapendo che al
massimo può avere il 66% di bravi insegnanti e il restante 33% mediamente bravi!
Insomma, il preside non è l’allenatore
di nessuna squadra, ma soltanto un arbitro chiamato a regolare un gioco individuale le cui regole vengono affidate esclusivamente ai giocatori!
di tutte le capacità presenti nel gruppo e, in più, del misterioso beneficio
per cui il gruppo supera, nel suo rendimento, la somma delle prestazioni
dei singoli.
Il docente tratteggiato ne La Buona
Scuola farà scatenare al più l’emulazione che rende tutti sospettosi e
ostili verso i colleghi. Una buona
scuola è una scuola in grado di garantire il successo formativo di ciascun alunno e questa speciale garanzia riguarda la scuola come sistema
organizzato e non come un condominio bene abitato ma che rischia di diventare litigioso!
Matita rossa
e blu
In un buon gruppo
le prestazioni
dei singoli
superano
la semplice somma
delle parti
Lezioni dal campo di gioco
Il campo di gioco offre numerose lezioni applicabili proprio alla scuola,
che di lezioni vive giorno dopo giorno!
Tutti gli sport, il cui risultato coincide
con quello della squadra, si basano
proprio sull’interdipendenza tra i giocatori e sulla loro collaborazione nel
conseguimento dell’obiettivo comune.
In assenza d’un buon spirito di squadra, le formazioni anche più agguerrite per la qualità dei singoli membri
spesso escono sconfitte da compagini più deboli sul piano individuale, ma
meglio affiatate. Il giocare insieme in
vista di un risultato comune ma che,
contemporaneamente, va a beneficio
di ciascuno, stimola alla cooperazione: il gioco di squadra si avvantaggia
“Doppia fucilazione” (fn)
Giovanna d’Arco
Già dirigente di un imprecisato istituto scolastico italiano
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Luogo comune
Rivista
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Sillabario
Di fronte
all’ampiezza
e alla plasticità
del linguaggio
dei bambini
dobbiamo
imparare
a misurare
e arricchire
le nostre parole
di Lorella Zauli
Approssimazioni…
Tanti bambini
Dal punto di vista squisitamente retorico, il luogo comune (locus communis) è un pensiero non finito che, se
formulato in una frase finita, “si presenta con la pretesa di valere come
norma riconosciuta della conoscenza
del mondo e rilevante per la condotta di vita o come norma di vita stessa” (1).
È facile per noi insegnanti cadere
nell’insidia del luogo comune e lo è ancor di più quando agli alunni vengono
attribuiti nuovi acronimi (Dsa, Bes…),
poiché si rischia concretamente di
guardarli con gli occhi delle sigle (quel
bambino è un Dsa) e non con lo sguardo proprio della cura educativa (quel
bambino si chiama Marco e ha un
Dsa).
Un uso appropriato e non convenzionale del linguaggio non sarà di certo risolutivo, ma potrà venire incontro al nostro essere docente.
Prendo in prestito le parole di Italo Calvino nella lezione americana dedicata
alla esattezza:
“Mi sembra che il linguaggio venga
sempre usato in modo approssimativo,
casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me
stesso” (2).
L’esempio che segue è tratto dalla mia
esperienza di insegnante di scuola
dell’infanzia. È il rischio concreto e
quotidiano che colpisce me e tanti
adulti intenti a guardare, osservare,
commentare e talvolta giudicare e valutare (!) gesti e comportamenti dei
bambini.
I bambini possono di volta in volta essere, o apparire (in rigoroso ma inevitabilmente incompleto ordine alfabetico) Abitudinari, Accomodanti, Affettuosi, Agitati, Allegri, Alternativi, Amabili,
Anticonvenzionali, Arguti, Autentici,
Bizzarri, Brillanti, Caparbi, Capricciosi, Carismatici, Chiassosi, Collaborativi, Concreti, Creativi, Curiosi, Determinati, Dimessi, Dinamici, Disarmanti, Disinvolti , E ffervescenti , E mulatori ,
Energici, Enfatici, Esilaranti, Empatici,
Entusiasti, Esagerati, Estrosi, Estroversi, Esuberanti, Euforici, Fantasiosi,
Frizzanti, Genuini, Gioiosi, Imbarazzanti, Imbarazzati, Impertinenti, Impetuosi,
Imprevedibili, Imprudenti, Incomprensibili, Indipendenti, Insicuri, Intraprendenti, Intuitivi, Introversi, Insistenti, Iperbolici, Ironici, Irrazionali, Irresponsabili , I rriverenti , I strionici , L oquaci ,
Martellanti, Meticolosi, Orgogliosi,
Perseveranti, Perspicaci, Plateali, Propositivi, Responsabili, Reticenti, Riluttanti, Sagaci, Sconcertanti, Sfuggevoli , S maniosi , S olidali , S orprendenti ,
Spavaldi, Spensierati, Spiazzanti, Spiritosi, Spontanei, Stranianti, Struggenti, Stupiti, Taciturni, Tenaci, Vitali, Vivaci, Volubili, Vulcanici, Vulnerabili…
Noi li osserviamo e non troviamo altro
che dire: “Che carini!”.
Tutto qui. Che carini. Lo sguardo si ferma alla superficie, la molteplicità e la
complessità si riducono a categorie predefinite, l’orizzonte di senso, anziché dilatarsi, si restringe sensibilmente.
Alla luce di questo auguro a tutti, e a
me per prima, di dare le giuste sfumature e di cogliere le poliedriche gradazioni di significato di cui la nostra meravigliosa lingua è fertile e feconda.
Aiuterà a guardare il mondo con occhi
diversi e sarà arricchimento per tutti.
1)H. Lausberg, Elementi di retorica, Il Mulino,
Bologna, 1969.
2) I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte
per il prossimo millennio, Mondadori,
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Milano, 1993.
Lorella Zauli
Insegnante di scuola dell’infanzia a Forlì
[email protected]
‘Maestri d’arte e l’arte
di essere maestri”
di Alessandra Falconi
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dell’istruzione
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Immagini
Maestri d’arte
e l’arte
di essere maestri
Questo quaderno nasce dalla collaborazione tra il Centro Alberto Manzi e la Comunità Educante Territoriale dei Comuni di Bellaria Igea Marina, Santarcangelo,
Verucchio e Poggio Torriana.
Nasce dallo stimolo di “Cristallino. Indagine sul contemporaneo”, rassegna d’arte promossa dalla Fondazione Culture Santarcangelo, che ha cercato di interpretare, attraverso l’arte contemporanea, la dimensione quotidiana delle comunità locali coinvolte.
Alberto Manzi
Gianfranco Zavalloni
Federico Moroni
Flavio Nicolini
Il quaderno “Maestri d’arte e l’arte di
essere maestri” nasce dal desiderio e
dal bisogno di far conoscere gli scritti
e le biografie di quattro maestri ‘speciali’ (Gianfranco Zavalloni, Alberto
Manzi, Federico Moroni, Flavio Nicolini), affinché possano ancora oggi formare gli insegnanti.
Sapremo stupire i bambini come faceva Gianfranco Zavalloni?
Sapremo incuriosirli come sapeva fare
Alberto Manzi?
Sapremo incantarli davanti alla bellezza della natura come Federico Moroni?
Daremo il benvenuto agli errori con la
convinzione di Flavio Nicolini?
Il tema scelto è quello della creatività,
ma anche dell’arte e dell’espressività
intese come linguaggi e luoghi a misura di bambino e al servizio delle sue potenzialità. È un quaderno di appunti, un
collage di disegni e testi che confidiamo possano dare idee e spunti di lavoro agli insegnanti per costruire a scuola quel benessere necessario a far appassionare i bambini ai saperi disciplinari per capire e cambiare il mondo.
Manzi, Moroni, Nicolini e Zavalloni conoscevano bene l’arte di fare il maestro, con cura e passione. Ma erano anche sapienti maestri d’arte.
Alberto Manzi
Chi non ha visto o sentito parlare della
trasmissione televisiva “Non è mai
troppo tardi” che, dal 1959 al 1968, ha
insegnato a scrivere e a leggere ad almeno un milione di italiani? Alberto
Manzi è stato maestro in televisione e
in radio, ma anche in carcere e per quasi 40 anni nella scuola, maestro tra indios e campesinos del Sud America e
maestro di italiano per gli extracomunitari.
Il suo “Appunti per rapidi disegni alla
lavagna” è uno dei testi più richiesti ancora oggi dagli insegnanti, perché Manzi amava creare una “tensione cognitiva” anche a partire da pochi tratti disegnati. Pensiero creativo e pensiero
scientifico trovavano nell’arte un valido
strumento per esprimersi: sperimentare tecniche e strumenti, classificare,
immaginare cosa succederà, cosa c’è
dentro e come funziona... l’arte come
compagna di gioco del bambino che
scopre il mondo, come lente di ingrandimento della meraviglia.
Gianfranco Zavalloni
Figlio di contadini, Gianfranco nasce a
Cesena nel 1957 e trascorre un’infanzia
a contatto con la natura. Dal 1983 inizia
l’avventura didattica alla scuola dell’infanzia di Sorrivoli. Questa piccola sezione consente a Zavalloni di mettere in
pratica le proprie teorie educative, che
favoriscono esperienze creative e utilizzano il gioco come strumento di apprendimento. Si rende subito conto che i
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Immagini
bambini hanno bisogno di capire il valore del tempo, dei ritmi della vita e l’importanza del contatto con la terra.
Gianfranco crede in una “scuola del fare”. L’invito alla lentezza e al rapporto
con la natura è contenuto in “La pedagogia della lumaca”: per una scuola
lenta e non violenta, sintesi del pensiero generale di Zavalloni sulla didattica.
C’è anche un Gianfranco disegnatore,
con l’acronimo GF2: il suo disegno caratterizzato dal tratto fluido, come se
già nel foglio ci fosse la traccia da seguire, si è certamente sviluppato grazie all’osservazione dei modi dei bambini e alla condivisione di tanti materiali e strumenti diversi. La sua non era solo una ricerca stilistica e mentale ma
anche materiale: cercava i migliori pastelli, con mina e legno naturale, cere
vegetali per far sperimentare sovrapposizioni e graffiti ai bambini, polveri
colorate da mischiare con l’acqua per
ricreare le sfumature dell’acquarello.
Federico Moroni
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Nasce a Santarcangelo di Romagna nel
1914. La famiglia di origine contadina
gli permette di diplomarsi presso le
scuole magistrali di Forlì.
Alle prime esperienze di insegnamento
sull’Appennino romagnolo, Moroni affianca lo studio del disegno e della pittura alla quale si dedica con continuità
fin dalla metà degli anni Trenta.
A Montetiffi e Bornaccino si dispiega la
sua esperienza pedagogica e artistica:
nelle sere fredde dell’Appennino, gli anziani sono soliti raccontare favole e storie di fantasmi e il maestro riporta queste suggestioni nei dipinti, dove cominciano a comparire strani folletti e personaggi misteriosi. Moroni lavorerà con
i bambini in modo simile: l’esperienza
grafico-pittorica è fortemente legata alla vita quotidiana, all’emozione e allo
stupore che viene raccontato con la
forza del colore e della china, ancora
prima e meglio di diventar parola.
“Così la tua arte sia arte per gioco, inventata come un giocattolo, un’arte che
trovi ammirazione e consenso nel tuo
cortile, magari fra i barattoli vuoti, i gusci d’ovo e la cenere del bucato; accolta e festeggiata da un rocchetto di legno e una penna di pollo”. “Per disegnare o dipingere bisogna che tu senta il desiderio irresistibile del gioco, così forte da non poterlo rimandare ad altro tempo”.
Flavio Nicolini
Flavio Nicolini nasce a Santarcangelo,
dove tuttora vive, nel 1924. Nel primo
dopoguerra fa parte di un gruppo di
giovani, tra cui Tonino Guerra, che anima la vita culturale del paese. Come
maestro elementare, Nicolini, con l’amico Federico Moroni, mette a punto una
strategia didattica d’avanguardia, basata sulla libera creazione dell’alunno: l’abolizione delle gomme, l’utilizzazione
della penna a china e dei pennelli direttamente sul supporto sono teorizzate e
praticate al fine di ottenere l’espressione diretta dell’interiorità dell’allievo.
A partire dagli anni Sessanta, Nicolini
comincia a lavorare per il cinema. Dopo una prima esperienza con Elio Petri, inizia una fondamentale collaborazione con Michelangelo Antonioni.
Nicolini si avvicina al disegno utilizzando tecniche diverse: acquerelli, tempera su muro, chine e i prediletti gessetti
“più vicini alla scrittura”, coi quali inventa figure bizzarre e oniriche, reali e
immaginate, che evocano il mondo
dell’inconscio.
“In quell’epoca nella scuola operavano maestri che pensavano a sfondamenti rivoluzionari, a una cultura nuova. Forse impossibile. Forse eccessiva.
Certo stimolante. In ogni caso l’arte e il
pensiero democratico erano il fondamento del mio pensiero. Della mia pratica didattica a scuola.
Soprattutto l’arte”.
Testi di Alessandra Falconi;
riduzione di Maria Teresa Bertani
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