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Rivista dell`istruzione 6 - 2014
Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Direttore responsabile Manlio Maggioli Direzione Giancarlo Cerini [email protected] Coordinamento redazionale e segreteria di direzione Maria Teresa Bertani [email protected] Comitato scientifico Maria Grazia Accorsi Emanuele Barbieri Michele Bertola Mario Castoldi Giancarlo Cerini Fiorella Farinelli Massimo Gatti Carlo Marzuoli Angelo Paletta Tiziana Pedrizzi Carlo Petracca Gruppo redazionale Graziella Ansaldi Fresia (Piemonte) Roberto Baldascino (Marche) Paolo Cortigiani (Liguria) Pasquale D’Avolio (Friuli-Venezia Giulia) Antonio d’Itollo (Puglia) Cinzia Mion (Veneto) Maurizio Muraglia (Sicilia) Maria Pietropaolo (Molise) Damiano Previtali (Lombardia) Gian Carlo Sacchi (Emilia-Romagna) Alberto Tomasi (Trentino-Alto Adige) Rivista fondata da: Gianfranco Branchi, Sergio Sadotti, Renato Zaccaria e Tommaso Marradi Redazione Via del Carpino, 8 47822 Santarcangelo di Romagna (RN) Amministrazione e Diffusione Maggioli Editore presso c.p.o. Rimini Via Coriano, 58 - 47924 Rimini tel. 0541 628111- fax 0541 622100 Maggioli Editore è un marchio Maggioli Spa Servizio Clienti tel. 0541/628242 fax 0541/622595 [email protected] www.periodicimaggioli.it Registrazione presso il Tribunale di Rimini il 19 novembre 1984 al n. 266 Maggioli Spa Azienda con sistema qualità certificato ISO 9001: 2008, iscritta al registro operatori della comunicazione Progetto grafico Emanuela Di Lorenzo Stampa Maggioli Spa Santarcangelo di Romagna (RN) Pubblicità Publimaggioli Concessionaria di pubblicità per Maggioli Spa Via del Carpino, 8 47822 Santarcangelo di Romagna (RN) tel. 0541 628736-8531 - fax 0541 624887 e-mail: [email protected] www.publimaggioli.it Filiali Milano Via F. Albani, 21 - 20149 Milano tel. 02 48545811 - fax 02 48517108 Bologna Via Volto Santo, 6 - 40123 Bologna tel. 051 229439 - 228676 - fax 051 262036 Roma Via Volturno, 2/c - 00185 Roma tel. 06 5896600 - 58301292 - fax 06 5882342 Napoli Via A. 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Sommario Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Il punto Governo e ‘buona scuola’ di Fiorella Farinelli DO IER SS 4 Dossier: “A proposito di ‘Buona Scuola’” “La Buona Scuola”: tra ascolto e decisione di Mario Ricciardi Un patto per “La Buona Scuola” di Gian Carlo Sacchi 9 14 Focus: “Professione docente” La questione insegnante di Maurizio Muraglia 17 I docenti italiani: chi sono, quanti sono, cosa fanno di Reginaldo Palermo 22 La femminilizzazione del ruolo docente di Cinzia Mion 27 “La Buona Formazione”: passo dopo passo… di Giancarlo Cerini 32 Un’altra didattica è possibile di Enzo Zecchi 35 Il docente pratico-riflessivo di Giuseppina Di Guida 41 Osservatorio internazionale I docenti italiani nel Rapporto Talis di Gemma De Sanctis 45 Professionalità Middle management: dalle figure di sistema ai quadri intermedi Network “Chiamalascuola” A 53 Saperi di cittadinanza La rendicontazione nella Riforma della Pubblica Amministrazione di Anna Maria Poggi 59 Pratiche dell’autonomia Il ‘sistema duale’. Un progetto pilota nella Motor Valley di Maria Grazia Accorsi 64 Governance Povera scuola. Facciamo i conti al sistema di istruzione di Emanuele Barbieri 68 Osservatorio giuridico Pubblico e privato: verso un’integrazione di Loredana Bondi 2 74 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Strumenti e cultura della valutazione L’autovalutazione in quattro mosse di Mario Castoldi 79 Maria Grazia Accorsi Ex cathedra L’evaporazione dell’autorità paterna: e i docenti? di Francesco Piazzi Hanno collaborato 86 Emanuele Barbieri Loredana Bondi Matita rossa e blu Meriti individuali e lavoro di squadra di Giovanna d’Arco 91 Giancarlo Cerini Giovanna d’Arco Sillabario Luogo comune di Lorella Zauli 94 Gemma De Sanctis Giuseppina Di Guida Immagini “Maestri d’arte e l’arte di essere maestri” a cura di Alessandra Falconi Mario Castoldi Alessandra Falconi 95 Fiorella Farinelli Cinzia Mion Le immagini di questo numero sono tratte dal quaderno “I maestri d’arte e l’arte di essere maestri” a cura di Alessandra Falconi, realizzato in collaborazione con Fo.Cu.S. Fondazione Culture Santarcangelo. Alle pagine 95 e 96 ulteriori specificazioni. Maurizio Muraglia Network “Chiamalascuola” Reginaldo Palermo Francesco Piazzi Prossimamente... Anna Maria Poggi Numero speciale sull’autovalutazione delle scuole Mario Ricciardi • Nasce il Sistema nazionale di valutazione Gian Carlo Sacchi • Autovalutazione al via Lorella Zauli • Come gestire indicatori e dati Enzo Zecchi • Valutare gli apprendimenti e competenze • Le strategie per il miglioramento • Dal Rav al bilancio sociale Nuovo Concorso Dirigenti. Com’è sua tradizione, Rivista dell’Istruzione sta dedicando molti articoli alla figura del dirigente scolastico, nella consapevolezza del suo ruolo decisivo per la qualità della scuola. Questi contributi saranno potenziati, anche in relazione all’imminente NUOVO CONCORSO per dirigenti scolastici. Bando di concorso in fase di elaborazione. 3 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Governo e ‘buona scuola’ di Fiorella Farinelli Il punto Gli elementi di novità Nel documento del governo del 3 settembre 2014 ci sono molti spunti innovativi, ma anche retaggi del passato e qualche silenzio di troppo C’è aria nuova nel documento sulla ‘buona scuola’. In alcune proposte, e nella cura dei dati che le corredano. Ciò incoraggia commenti diretti e costruttivi. Non è un pregio da poco, e c’è da augurarsi che le modalità attrezzate per la consultazione non ne mortifichino gli obiettivi. Apprezzabili, in primo luogo, sono l’intenzione di investire risorse più generose, dopo anni di straordinarie avarizie, e la volontà di metter fine alle troppe contrarietà che hanno impedito di intervenire in campi fondamentali: la valutazione delle scuole come autodiagnosi su processi e risultati; un nuovo stato giuridico degli insegnanti; un reclutamento come apprendistato professionale guidato e valutato; carriere che riconoscano meriti e impegno; una formazione continua degna di questo nome. Apprezzabile è anche la decisione di stabilizzare il personale che copra le postazioni vacanti tutto l’anno, e l’intenzione di aprire le porte a insegnanti giovani, motivati, preparati. Non nuovo, in verità, ma finalmente sdoganato dalle contrarietà dei tempi in cui erano altri a sostenerlo, è il riconoscimento del contributo alla modernizzazione dei curricoli delle cosiddette ‘tre I’, l’informatica, l’inglese, l’impresa (o meglio il rapporto, nell’apprendimento, tra scuola e esperienza del lavoro), nonché di discipline e linguaggi culturali oggi trascurati. I ‘mantra’ del passato 4 A guardar bene, però, bisogna riconoscere che c’è anche un’eccessiva continuità con approcci che non hanno portato vantaggi al nostro sistema educativo. L’approccio ‘quantitativo’, per esempio, per cui la qualità della scuola e ogni sua nuova esigenza passerebbero in primo luogo dalla moltiplicazio- ne degli addetti, non importa se appositamente qualificati e selezionati. L’uniformità nelle politiche per il personale, indipendentemente dalle diversità tra primo e secondo ciclo e tra primaria e secondaria/e, immancabile portato della pretesa di governarlo dal ‘centro’ e delle contrarietà a rivedere una ‘unicità’ della funzione docente che ha invece fatto il suo tempo. In continuità con il passato è anche la non considerazione delle articolazioni di un sistema che non si esaurisce nei percorsi scolastici del primo e del secondo ciclo ma comprende settori strategici da sviluppare o riorganizzare: sia le scuole per gli adulti e l’apprendimento permanente che la nuova filiera dell’istruzione e formazione professionale, oggi a rischio oltre che per il mancato sviluppo nelle aree che ne avrebbero più bisogno per l’irrisolta duplicità tra istituti professionali e formazione professionale. I silenzi di oggi Le sparse suggestioni cosiddette ‘liberal’ (le risorse dei privati, la competitività tra le scuole...) non danno vita a uno sguardo davvero laico sui ruoli attuali della scuola. La sua modernizzazione culturale, per esempio, e la richiamata necessità di una maggiore ‘apertura al mondo’, contrastano con il silenzio sulle domande che derivano dalla pluralità di lingue, culture, religioni degli 800mila studenti con background straniero. Domande che riguardano non solo come migliorare un successo scolastico ancora troppo scarso anche dei nati in Italia ma il perché e il come trasformare tutto ciò in vantaggio culturale per tutti, italiani e non. È poi a dir poco strano che la più promettente ma ‘incompiuta’ innovazione ordinamentale, cioè l’autonomia scolastica, non costituisca affatto il perno di un nuovo modello organizzativo, ma sia Rivista dell’istruzione 6 - 2014 piuttosto lo strumento su cui scaricare – senza peraltro curarsi di un’adeguata implementazione tecnico-amministrativa – la gestione della stabilizzazione in un colpo solo dei 148.000 precari iscritti alle Gae (graduatorie a esaurimento). Ma come assicurarla, se da un lato sembrano non esserci priorità rigorose nell’utilizzo del nuovo organico, e dall’altro non si attribuisce all’autonomia la responsabilità di una gestione più flessibile (orari, calendari, cattedre, funzioni, figure) di tutto il personale, ‘aggiuntivo’ e non? La fattibilità tecnica e politica Ci sono dunque più motivi per ritenere insoddisfacente l’impianto della proposta e i suoi ‘vuoti’: tra cui ci sono importanti temi di tipo ordinamentale, come la riduzione a 12 anni del ciclo di istruzione e l’introduzione nella secondaria superiore di aree opzionali che consentano agli studenti di verificare le proprie motivazioni, ma anche un’incapacità culturale di collocare le proposte relative a una nuova carriera docente in una valorizzazione del profilo cooperativo del ‘mestiere docente’. E tuttavia, se è da questa ‘buona scuola’ che si deve passare, c’è da lavorare, anche di fino, per assicurare una fattibilità politica e tecnica che al momento non c’è, sapendo, anche per l’esperienza delle ‘dotazioni organiche aggiuntive’ di qualche decennio fa, che gli organici aggiuntivi non sono mai di per sé ‘funzionali’, e che possono dar luogo a utilizzazioni approssimative se non a sottoutilizzazioni. Analizziamo più da vicino, dunque, alcuni temi, senza la pretesa di esaurire l’intero campo delle questioni. ‘Senso’ e consenso per i nuovi investimenti L’investimento più significativo è per la stabilizzazione degli iscritti alle Gae (di cui sono tutte da verificare, come si ammette, sia la condizione di effettivo ‘pre- cariato’, sia la disponibilità alla mobilità). La destinazione di un incremento dell’organico docente pari al 25% circa dell’attuale richiede l’individuazione di obiettivi di significato e valore indiscutibile. Una regola che dovrebbe valere sempre ma tanto più in questo caso in cui non è affatto da escludere l’insorgere, in una categoria docente malpagata e da troppo tempo in attesa di rinnovi contrattuali, di reazioni negative ai due divari – di investimento finanziario e di tempi di attuazione – tra stabilizzazione degli iscritti alle Gae e incrementi retributivi connessi alla nuova carriera. Anche indipendentemente dal gradimento – ancora tutto da verificare – di un’idea di carriera che azzera del tutto il criterio dell’anzianità (che pure è una componente non unica ma importante della professionalità docente), è evidente che il rinvio al 2018 dell’avvio di ‘scatti per merito’ dal valore economico modesto – e solo per il 66% degli insegnanti – non può assicurare il consenso a un investimento così importante concentrato sull’eliminazione delle Gae. È del resto noto che le discontinuità didattiche non sono prodotte solo dalla ‘supplentite’ ma da un’anomala mobilità ‘a domanda’. Nella secondaria, poi, soprattutto di secondo grado, non si può ignorare che neppure organici aggiuntivi di scuola o di rete potranno mai coprire tutte le supplenze brevi in un’organizzazione connotata, oltre che da una grande pluralità di discipline specifiche, dalle rigidità organizzative degli orari ‘a scacchiera’ e dall’assenza di un monte ore annuale comprensivo di qualche impegno aggiuntivo all’orario frontale a classe intera. Ciò premesso, bisognerebbe definire destinazioni e numeri capaci di produrre senso e consenso a un incremento graduale dell’organico. Il punto La priorità sembra rivolta alla stabilizzazione del personale precario piuttosto che alla valorizzazione dei docenti in servizio, magari con proposte più incisive sul piano professionale Le opportunità per la scuola primaria E qui c’è da fare una distinzione tra scuola per l’infanzia e scuola primaria da un lato, e secondaria/e dall’altro, sebbene si 5 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Il punto Appunti per rapidi disegni alla lavagna (am) La maggiore disponibilità di personale docente dovrebbe essere destinata a tempo pieno, educazione degli adulti e integrazione multiculturale debba notare che – Gelmini a parte – anche questa volta le politiche degli organici premiano gli 8 anni di scuola dell’infanzia e primaria rispetto agli 8 delle due secondarie; è indubbio che nel primo caso una collocazione funzionale è più agevole che nel secondo. A parte musica, sport e lingue straniere (finalmente liberate, sembrerebbe, dall’antica prassi di attingere solo alla cosiddetta ‘classe magistrale’), c’è un’evidente esigenza di sviluppare in tutto il Paese il tempo pieno, o comunque si decida di rimodularlo, in entrambi i settori scolastici. Lo chiedono bisogni educativi e didattici insoddisfatti (tra cui le classi ‘multiculturali’), e una domanda in crescita delle famiglie: in primo luogo delle mamme che, nella crisi, tentano anche nel Mezzogiorno di entrare più che in passato nel mercato del lavoro. Facciamo due conti, e definiamo quanti insegnanti servono. Qui tutto è più facile – anche per la copertura delle supplenze brevi – grazie alla non segmentazione disciplinare del core curriculum. Chi potrebbe avere da ridire, se non i soliti avversari pregiudiziali di un modello organizzativo che trova riscontro in tutta Europa, sul suo valore sociale e sui benefici sul piano educativo e didattico? C’è da chiedersi, anzi, per quali motivi non sia stata già messa al centro con la determinazione politica che merita. Le nuove domande per la secondaria 6 Per le due secondarie, la proposta deve avere altre caratteristiche per la seg- mentazione delle discipline, la rigidità degli orari a scacchiera, l’obbligo (da rivedere?) delle cattedre a 18 ore, l’insostenibilità (da considerare anche rispetto all’introduzione di altre discipline) di una dilatazione del tempo scuola attuale: con alcune variabili, ovviamente, su quello della scuola media. Ci sono comunque diverse ipotesi. Le più banali (ma non per chi ignora l’importanza strategica di certe questioni) riguardano lo sviluppo di un settore decisivo per l’Italia così come rappresentata dall’ultima indagine Piacc sulle competenze della popolazione adulta e per l’emergenza di un gran numero di neet senza qualifiche o diplomi, come quello dell’apprendimento permanente e dei percorsi di seconda opportunità. Il divario tra offerta e domanda nelle nostre scuole per adulti dovrebbe quanto meno consigliare di allentare i vincoli di organico che si frappongono allo sviluppo dell’offerta. Altrettanto importante è attrezzare in tutte le scuole ad alta densità ‘multiculturale’ – numerose nel Centro-Nord e destinate a moltiplicarsi – laboratori permanenti di sviluppo della padronanza linguistica e dell’italiano ‘per lo studio’. Con insegnanti, però, non presi a caso nel mucchio, ma appositamente qualificati per farlo. Di esigenze di questo tipo nella scuola italiana ce ne sono anche altre, questi sono solo esempi di un possibile ribaltamento della logica del documento, che parte da quel che c’è nelle graduatorie, invece che da quello che occorre nella scuola. Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Autonomia: un’organizzazione più efficiente e più flessibile Ipotesi meno ‘banale’, valida per tutta la realtà scolastica, è utilizzare l’organico aggiuntivo per costituire, con gli insegnanti più motivati ed esperti, dentro le graduatorie – se ci sono – e fuori, quei ‘quadri dell’autonomia’, senza i quali è impossibile mettere in atto un’organizzazione della scuola più stabile e più funzionale di quella praticata con ‘funzioni obiettivo’ o incarichi effimeri, sottoposti alla variabile volontà dei collegi e della dirigenza e attribuiti non in base a portfolio di competenze leggibili con riferimento a precisi standard. Le elaborazioni in questo campo ci sono, e basterebbe riprenderle per attrezzare proposte convincenti e coerenti con le nuove carriere. Ma qui il terreno sembra essere in salita, considerato il silenzio sui temi di una nuova governance scolastica così come su questioni di cui si discute da decenni come l’onnicomprensività, l’articolazione, la flessibilità dei tempi di lavoro del personale docente. Eppure non può esserci vera e profonda innovazione, sia didattica che di arricchimento dell’offerta formativa, senza innovazione organizzativa. Né può esserci autonomia scolastica senza una gestione più flessibile del personale decisa negli specifici contesti, ma in base a standard e criteri di tipo nazionale. Ragionando sui ‘crediti’ Una via d’uscita, limitata da questa impostazione e tuttavia indispensabile per assicurare senso e consenso alle nuove carriere, è lavorare sulle tre tipologie di ‘crediti’. Sebbene dal documento non emerga che i crediti comportano necessariamente una misurabilità delle attività/competenze cui si riferiscono, è evidente che una carriera basata su meriti e impegni implica una definizione precisa sia di che cosa intendere per ciascuna delle tre tipologie pro- poste sia degli standard che possono consentirne la certificazione/misurazione. Tenendo presente, fra l’altro, che per tutti gli insegnanti, anche quelli non disponibili ad attività diverse da quelle strettamente connesse alla didattica, la via dell’avanzamento di carriera deve essere offerta, anche se con velocità diversificate di raggiungimento di determinati standard. Il punto Crediti didattici Da questo punto di vista, e finalizzato a un superamento dell’inerzia professionale che, soprattutto nella secondaria, rende ancora troppo diffusi la didattica ‘frontale’ a classi intere e impegni docenti sostanzialmente individualistici, è indispensabile lavorare sui crediti didattici. Un diverso sviluppo professionale può basarsi su un sistema di crediti, con priorità per il credito didattico capace di riconoscere la qualità del lavoro in classe I crediti didattici • Misurabilità dell’impegno in termini di didattica individualizzata; • utilizzo delle nuove tecnologie e dei laboratori; • condivisione dei criteri di valutazione dell’apprendimento; • analisi e riflessione collettiva sui risultati e sui processi di miglioramento anche in relazione all’autovalutazione di istituto; • documentazione del lavoro, di recupero dei debiti, di partecipazione a sperimentazioni innovative, di rapporto con le famiglie. Per ciascuna delle attività riferibili ai crediti didattici devono essere definiti degli standard (in un range che contempli diversi livelli/quantità di impegno) e criteri di misurabilità e certificazione. Crediti professionali Un’analoga logica va seguita per le altre due tipologie di crediti. Quelli professionali, in cui vanno inserite le funzioni di coordinamento, le responsabilità su temi e aree specifiche di interesse dell’istituto, gli incarichi di collabo- 7 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Il punto Il successo dell’operazione è legato a più consistenti riconoscimenti economici e alle opportunità offerte a tutti i docenti (gz) razione gestionale, le attività di mentoring, la partecipazione ai nuclei di valutazione/autovalutazione. Crediti formativi Nei crediti formativi va collocata la partecipazione ad attività formative individuali e collettive, con relativo impegno in termini di tempo dedicato annualmente e/o su un periodo più lungo e di certificazione dei risultati (lo standard quantitativo, in presenza di formazione continua ‘obbligatoria’, dovrebbe essere di almeno 40 ore annuali). Carriere ‘aperte’ e riconoscimenti generosi 8 Carriere basate su meriti e impegno non hanno però significato se non servono a mobilitare le energie nel miglioramento della didattica e nella cooperazione professionale. Possono essere controproducenti se le possibilità di avanzamento individuale, sia pure con tempi diversificati, non dovessero essere aperte a tutti. Sono poco convincenti – e non è un problema da poco – se gli ‘scatti di competenza’ dovessero essere premiati con investimenti troppo avari. Anche da questo punto di vista, sarebbe consigliabile un diverso equilibrio tra gli investimenti sulla ‘stabilizzazione’ e quelli per l’uscita dal ‘grigiore dell’indifferenziato’. E poi, per favore, si cancelli quell’idea perversa secondo cui gli insegnanti potrebbero, per ottenere un avanzamento, trasferirsi in scuole dove raggiungerlo più facilmente. Chi l’ha avuta non è un liberal, è solo mille miglia lontano dalla ‘buona scuola’. Fiorella Farinelli Esperta di sistemi di istruzione e formazione [email protected] DO di Mario Ricciardi R “La Buona Scuola”: tra ascolto e decisione SSI E Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Dossier Tempo di buona scuola Lo si può giudicare un sogno di mezza estate, oppure un elenco di cose piuttosto risapute e ri-scritte con un certo pathos; comunque la si pensi, il corposo documento “La Buona Scuola” pubblicato dal governo il 3 settembre 2014 rappresenta un progetto con cui occorre confrontarsi, se non altro perché è preannunciato che da lì prenderà le mosse un’ulteriore puntata della lunga telenovela intitolata “La riforma della scuola (e dello stato giuridico del personale docente)” in Italia. Abbiamo scritto non a caso ‘del personale docente’ perché nelle oltre 130 pagine del documento non si fa quasi nessun riferimento al personale tecnico amministrativo, se non per un breve accenno ai Dsga, e la dimenticanza, se di dimenticanza si tratta, non è di poco conto. Va detto innanzitutto che gli obiettivi enunciati, come quasi sempre accade quando si enunciano orientamenti di tipo generale, sono in larga parte condivisibili, né potrebbe essere diversamente, visto che il protagonista neanche tanto implicito del documento è un personaggio che riesce istintivamente simpatico, cioè l’innovatore: il documento è ‘offerto’ a ‘tutti gli innovatori d’Italia’ che secondo il documento in Italia sono ‘tanti’ e tra essi vi sono gli ‘innovatori silenziosi’ e gli ‘innovatori naturali’. che sono state dette e sviscerate (quasi) tutte, ma starebbe nella capacità di sceglierne qualcun’e di metterla in pratica, di precisare i dettagli (il Maligno, si sa, vi si annida volentieri) e, soprattutto, di ‘armarla’ con un bel po’ di risorse, in modo da portare l’investimento in istruzione un po’ più vicino all’Europa di quanto oggi non sia. Quanto alle risorse, il documento sembra esserne davvero prodigo, almeno in teoria, e non solo per le utili, ma un po’ scontate affermazioni secondo cui la ‘buona scuola’ non può vivere senza, ma a partire dall’annunciata stabilizzazione e immissione in ruolo di 148.100 ‘precari’, cioè tutti quelli oggi parcheggiati nelle varie graduatorie, per un impegno finanziario che si stima in circa tre miliardi. Si può dire che se questa promessa si realizzerà entro il prossimo anno sarà davvero, anche solo per questo, un momento storico per la scuola italiana, non più alle prese con le umilianti giostre di docenti sbattuti qua e là, licenziati e riassunti, assoggettati a ‘chiame’ che ricordano quelle dei braccianti degli anni Cinquanta. Se poi se ne gioverà la qualità dell’insegnamento, se cioè la stabilizzazione darà motivazioni e nuovo vigore a un esercito di persone qualche volta fiaccate da anni e anni di attese e speranze frustrate, è un dato che andrà verificato nel tempo. La stabilizzazione del personale precario è una scelta storica, ma i suoi effetti sulla qualità dell’insegnamento sono tutti da verificare Formare i docenti e valorizzarli La ‘manovra’ sulle ‘risorse umane’ Tuttavia l’innovazione, come si sa, può avere segni molto diversi, ed è sempre opportuno andare a vedere dove si dirige. E allora si può dire che buona parte del documento d’innovazione ne contiene pochina, nel senso che, dopo anni e anni di fervido e in buona parte inconcludente dibattito sulla scuola, c’è davvero poco da inventare: la vera innovazione non sta dunque nelle idee, Appare evidente che le opportunità di rinnovamento e ringiovanimento del corpo docente saranno affidate soprattutto alle nuove leve da reclutare una volta esaurita la sanatoria. Qui il progetto prevede un iter piuttosto lineare, composto da una fase di formazione universitaria da completare con un biennio di laurea magistrale a numero chiuso orientata sul lavoro di formazione, e da un successivo periodo di tirocinio presso una scuola. È un progetto 9 DO R SSI E Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Dossier La proposta sul merito si ispira a due precedenti poco incoraggianti: il ‘concorsone’ di Berlinguer e la premialità di Brunetta razionale, che richiederà però tempi adeguati per le necessarie modifiche ordinamentali a livello universitario. Il docente così abilitato e dopo aver superato il concorso avrà poi davanti a sé prospettive di crescita professionale che il documento traccia con lineamenti che in buona parte restano nel vago, e dunque sono evidentemente ancora da costruire. Sembra essere stata scartata l’ipotesi di costruire una carriera, cioè una differenziazione dei docenti basata su vere e proprie diversificazioni giuridiche e retributive del ruolo, come immaginava, ad esempio, la proposta di legge Aprea. Il termine ‘carriera’ scritto nel documento Renzi-Giannini è evidentemente usato (impropriamente) come sinonimo di progressione economica. La cosiddetta ‘carriera’ si riduce in realtà alla sottrazione del meccanismo dei gradoni alla generalizzata corresponsione al personale correlata al semplice trascorrere del tempo. Il nuovo meccanismo dovrebbe prevedere il ripristino della cadenza triennale, ma la corresponsione degli aumenti (60 euro netti) dovrebbe indirizzarsi soltanto ai due terzi dei docenti di ogni scuola, quelli che avranno maturato più crediti nel triennio precedente. La filosofia premiale 10 Non è dato sapere se chi ha escogitato questo meccanismo abbia avuto memoria di alcuni episodi accaduti in passato, su questo scivolosissimo terreno: forse sì, visto che sembra essersi almeno in parte premunito di evitare alcuni degli scogli contro cui naufragarono i due precedenti tentativi di selezionare rigidamente gli aumenti da corrispondere al personale (docente, e della Pubblica Amministrazione in generale) nel 1999 e nel 2009. Ci riferiamo, ovviamente, al ‘concorsone’ del ministro Berlinguer, e alle ‘tre fasce’ del ministro Brunetta. Il ‘concorsone’ previsto dal CCNL prevedeva, com’è noto, l’erogazione di un aumento ai docenti che avessero superato una prova, in parte riguardante le competenze disciplinari, e in parte l’abilità didattica. Lo scoglio contro cui naufragò quel progetto fu costituito dalle modalità tutte centralistiche e abbastanza cervellotiche con cui l’apparato ministeriale pretese di concretizzare le prove, trasformando il tutto in una sorta di ‘quizzone’ che determinò la rivolta della categoria e la caduta del progetto e del ministro. Quanto al decreto legislativo 150/2009, esso prevede, come è noto, la distinzione del personale in tre fasce, soltanto a due delle quali, corrispondenti ai due terzi del personale, può essere erogata la retribuzione di produttività, mentre il restante terzo resta a bocca asciutta. La norma che prevede questa selezione, affidata al dirigente con la collaborazione dell’organismo indipendente di valutazione, è stata però contestata fin dall’inizio, tanto da essere stata di fatto lasciata cadere dai governi successivi, e la stessa ministra della funzione pubblica dell’attuale governo ne ha criticato l’eccessiva rigidità. Docenti a credito “La Buona Scuola” delinea un meccanismo assai simile a quello previsto dalla riforma Brunetta, evitando però di affidare la selezione a un organo monocratico, ma assegnando il premio a quei due terzi di docenti che vinceranno una sorta di gara dei crediti didattici, formativi e professionali. E qui bisognerebbe fermarsi, perché, al di là della prosa entusiastica, è davvero difficile capire che cosa saranno, come e da chi saranno assegnati questi crediti, È condivisibile l’idea che la formazione in servizio debba essere basata soprattutto sulle scuole, ma le modalità attraverso cui si intende disboscare la foresta pluviale della formazione sono tutt’altro che chiare, e non contribuisce a sciogliere l’enigma il riferimento alle associazioni professionali dei docenti o addirittura a queste singolari figure di DO R SSI E Rivista dell’istruzione 6 - 2014 ‘innovatori naturali’ che, se non saranno il frutto di uno screening genetico, è piuttosto difficile dire come verranno identificate. L’idea che in ogni scuola debba esservi comunque una quota di due terzi di premiati per legge, in base a criteri che, per quanto buoni, saranno sempre imperfetti e discutibili, sembra essere destinata più a creare conflitti che a produrre coesione. Davvero difficile da valutare è, infatti, l’acrobatica previsione secondo cui i docenti ‘così così’ finirebbero per abbandonare le scuole dove il livello di qualità del corpo docente è troppo alto per le loro mediocri capacità, volgendosi a cercare i sessanta euro ogni tre anni spostandosi in scuole anch’esse un po’ (troppo) ‘così così’, dove il basso livello della docenza rende più facile prendere il bonus, con il risultato di innalzarne la qualità: potenza della concorrenza e del mercato! La retribuzione del singolo docente sarà poi completata da una parte accessoria collegata agli incarichi specificamente attribuiti, uno dei quali, quello del cosiddetto ‘mentor’ viene analiticamente descritto nel documento. Un’ipotesi alternativa Il progetto, pur scartando l’idea della ‘carriera’ come fatto giuridico omogeneo per tutto il sistema, e a parte le menzionate bizzarrie, mantiene un’impostazione piuttosto centralistica, nonostante le concessioni verbali all’autonomia delle scuole. Ben diverso sarebbe invece un approccio veramente autonomistico, che si articolasse sostanzialmente attraverso tre passaggi: - la determinazione degli obiettivi di miglioramento dell’offerta formativa elaborati e formulati dalla comunità d’istituto, e modulati sulle caratteristiche dell’ambiente sociale, dell’utenza, del contesto produttivo; - il controllo e l’autovalutazione dei risultati ottenuti, eventualmente certificati da un organismo indipendente, e l’assegnazione di risorse cor- relate al raggiungimento dei risultati medesimi; - l’utilizzo e la distribuzione delle risorse secondo modalità prestabilite dalla stessa comunità d’istituto. Dossier Autonomia e poteri dirigenziali L’autonomia scolastica è, in effetti, l’altra grande questione in gioco, ancor più dello stato giuridico, e certamente più della cosiddetta ‘carriera’, e anche su questo il documento esprime alcune condivisibili intenzioni, ma è vago sugli strumenti da adottare concretamente. Autonomia non può non significare innanzitutto autorganizzazione. E qui il documento sembra puntare decisamente verso uno spostamento dei poteri dal collegio dei docenti, dalle Rsu e da organismi collegiali (tutti da ricostrui re) verso il dirigente scolastico, al quale viene attribuito il potere di “scegliere tra i docenti coloro che coordinano le attività di innovazione didattica” (saranno questi gli ‘innovatori naturali’?), la valutazione o l’orientamento (ma non il mentor, scelto invece dal nucleo interno di valutazione) e di “premiarne, anche economicamente, l’impegno”, ma anche di scegliere i docenti che dovranno dare sostanza al progetto educativo della scuola (e qui non si capisce come si concilia questo meccanismo con la mobilità volontaria). Sugli organi collegiali si dice che dovranno essere aperti, agili ed efficaci, e non è chiaro se la sbrigatività derivi da sottovalutazione o da mancanza di idee. In realtà, invece, proprio il problema della governance delle istituzioni scolastiche rappresenta uno dei temi cruciali per la costruzione di una ‘buona’ scuola, e uno dei temi più complessi e delicati su cui si è esercitato il dibattito di questi anni. Se il merito va legato al miglioramento, allora è opportuno correlare il premio al raggiungimento di risultati prefissati a opera dell’intera comunità scolastica La crisi dell’autonomia Il fatto è che il problema della governance è stato mandato alla deriva da una serie ripetuta di scelte/non scelte 11 DO R SSI E Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Dossier Le prospettive dell’autonomia si sono indebolite: governance incerta, ruoli confusi, risorse limitate, rischi di leaderismo 12 che tutti i governi, al di là delle intenzioni manifestate, hanno compiuto (almeno) negli ultimi trent’anni. Ricostruirne la traiettoria sarebbe troppo lungo, ma se ne possono ricordare i passaggi principali. 1.Gli organi collegiali, costruiti con lo sguardo rivolto alla realtà politicosociale degli anni Settanta, sono stati abbandonati a se stessi, nonostante il calo di partecipazione e l’inadeguatezza a rappresentare una realtà sociale in profondo mutamento. Tra istituzioni scolastiche e ambiente sociale in cui sono inserite si è creato spesso un clima di incomunicabilità. Gli utenti (studenti e famiglie) sono stati spesso degradati da interlocutori a fornitori supplenti di risorse che la scuola dovrebbe, ma non può avere a disposizione. 2.La dirigenza delle scuole è stata costruita come semplice prolungamento della vecchia figura dei capi d’istituto, caricandole addosso una quantità di competenze di vario tipo, sempre rinviando il tema della sua valutazione, e senza mai risolvere l’ambivalenza tra dirigenza burocratica e leadership educativa. 3.Le figure di sostegno all’autonomia, create con il contratto del 1999 come ‘telaio’ portante degli istituti, sono state ben presto svuotate con la complicità di una radicata propensione egualitaria dei sindacati e dell’incapacità dell’amministrazione di dar loro un’identità più solida. 4.Le risorse economiche necessarie per dare respiro all’autonomia scolastica sono state date con il contagocce e poi tagliate. Non sarà inutile ricordare che il 7 agosto 2014, meno di un mese prima della presentazione de “La Buona Scuola”, è stato firmato all’Aran un accordo in base al quale viene ulteriormente amputato lo stanziamento destinato al fondo d’istituto (che è ormai circa la metà di quello che era pochi anni or sono) per trasbordare la somma al finanziamento dei gradoni: che è esat- tamente il contrario di quella valorizzazione della professionalità e delle prestazioni di cui parla con enfasi il documento del governo. Tra leader empatici e consigli d’amministrazione La costruzione della governance è insomma una sfida importante e difficile, perché sotto molti aspetti c’è da partire quasi da zero. Vi sono probabilmente due rischi che è opportuno evitare, nell’opera di ricostruzione alla quale il governo sembra volersi meritoriamente dedicare. Il primo è quello gerarchico, di affidarsi alla mitologia dell’uomo solo al comando, che è una tentazione di gran moda, affiorante anche nel documento, ma che è provato da tutte le esperienze, nazionali e internazionali, essere gravemente inadatta per l’ambiente scolastico. Il secondo rischio è quello della governance basata sulla rappresentanza spartitoria, cioè su strutture di rappresentanza simil-consiglio d’amministrazione, che forse possono sembrare appetibili per raggranellare qualche risorsa, ma finirebbero per irrigidire il rapporto tra la scuola e l’ambiente circostante in una fase in cui tutti i sistemi di rappresentanza sono messi in discussione, e il problema è semmai quello di creare una sensibilità diffusa della comunità scolastica verso i segnali molteplici e contraddittori che la ‘società liquida’ invia ai sistemi della conoscenza. Il piglio dell’innovazione o la saggezza dell’esperienza? Infine, resta il problema degli strumenti attraverso i quali costruire la ‘buona’ scuola, che è poi quello degli interlocutori da scegliere. L’idea che un’impresa di questo genere, anche soltanto pensando alle questioni dello stato giuridico e della governance, per non parlare degli ordinamenti, possa essere affrontata con una consultazione online DO R SSI E Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Dossier Una riforma non si risolve con una consultazione online, ma richiede equilibrio tra decisione e ascolto, tra innovazione ed esperienza (fn) sembra davvero bizzarra. Se i tempi del pansindacalismo sono passati, ed è bene che sia così, l’idea di affidare il futuro dell’istruzione a un’indistinta consultazione popolare online sarà pure di moda, ma assomiglia straordinariamente a una variante autoctona e moderna del peggiore populismo. Occorre ricordare, ad esempio, che la democrazia occidentale moderna è stata costruita anche sul ruolo dei corpi intermedi, e il fatto che essi siano attualmente in crisi non è un buon motivo per archiviarne brutalmente l’apporto, tanto più se non c’è nulla con cui sostituirli. I sindacati, e nello specifico i sindacati del lavoro pubblico, hanno certamente le loro colpe, e anche per questo sono meno forti, ma ciò non significa che tutto quanto è stato costruito anche grazie al loro contributo sia da rifiutare. Se si passa dall’immagine alla sostanza, è facile verificare che molte delle cose che oggi sono presentate come novità dell’ultima ora sono già state scritte in accordi e contratti di lavoro. Il problema è, insomma, quello di trovare il giusto equilibrio tra la responsabilità della decisione e il dovere dell’ascolto, il piglio dell’innovazione e le risorse dell’esperienza: è questo forse il compito più difficile, per chi voglia far transitare la riforma della scuola italiana dalle parole scritte sulla carta ai fatti concreti. Mario Ricciardi Coordinatore del Corso di laurea magistrale in Politica, amministrazione e organizzazione, Università di Bologna [email protected] 13 DO Rivista dell’istruzione 6 - 2014 R SSI E Un patto per “La Buona Scuola” di Gian Carlo Sacchi Dossier La proposta di riforma contiene molti punti da chiarire, ma va accentuato il valore dell’autonomia e del decentramento 14 Che cosa c’è di nuovo? Piccoli passi, scenari incerti Governo che arriva, nuove proposte per la scuola. Questa volta sono state elaborate da un ‘cantiere’, in cui sono all’opera esperti, vecchi e nuovi, che oltre a evocare un più deciso intervento nel campo dell’edilizia scolastica, con l’utilizzo di fondi sparsi qua e là nelle pieghe dei bilanci, ha iniziato a porre le basi per cambiamenti nel sistema, che da anni richiedono di essere apportati e che ogni governo dice di voler affrontare in via definitiva. È sempre la stampa a gettare il sasso in piccionaia e inizia a far discutere un po’ superficialmente chi è in prima linea, che aspetta miglioramenti e che scopre con il tempo che anche quello che è stato recepito in provvedimenti legislativi poi non è stato applicato, perché alla fine i vincoli di bilancio la fanno da padroni. Un’altra consultazione nazionale; in passato furono promosse conferenze nazionali e stati generali sulla scuola che produssero numerosi libri ma pochi cambiamenti. Oggi la consultazione avviene on line, un modo efficace per raggiungere direttamente la popolazione: speriamo che almeno per la storia sia dato conto di quello che sarà espresso dagli operatori, ma più in generale dai cittadini e dai giovani. Non si tratta di una nuova scuola, ma di una ‘buona scuola’. Bonificare la situazione attuale è un problema soprattutto di volontà politica e di investimenti, che superano i conflitti ideologici mai del tutto sopiti anche se si adotta la teoria dei piccoli provvedimenti, che comunque hanno bisogno di rispecchiarsi in alcune scelte di fondo, che non vengono del tutto chiarite. Si pensi ad esempio alle nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo e al modello didattico per la scuola primaria con il ritorno al maestro unico. Basta cavarsela con un po’ di organico in più per l’educazione musicale? Il documento nazionale dedica ampio spazio al buon insegnante, privilegiando la visione amministrativa; dovremo aspettare un’elaborazione successiva per conoscere il profilo sul quale costruire la qualità professionale. Del precariato hanno parlato in tanti prima, aspettiamo solo che avvengano le assunzioni. Anche sulla preparazione di base è necessario intervenire, in quanto la professione docente ha bisogno di ‘tirocini’ che vengano da lontano, forse già dai licei delle scienze umane. Del dirigente scolastico sappiamo solo che sarà reclutato dalla Scuola superiore della Pubblica Amministrazione e questo non può essere certo considerato un passo credibile verso il leader educativo. Ciò che è stato messo sul piatto può costruire un circolo virtuoso a condizione che i diversi provvedimenti si tengano e abbiano alle spalle una riforma fondamentale, che non costa tanto e in parte è già presente nella nostra legislazione, per consentire ai diversi pezzi di camminare speditamente e proficuamente, cioè la governance dell’intero sistema. Non può esistere autonomia senza reali poteri da parte delle scuole sul piano organizzativo, didattico e finanziario, senza nuovi organi di gestione e senza un reale ‘sistema delle autonomie’ da costruire attraverso il nuovo titolo quinto della Costituzione che guardi al decentramento. La sburocratizzazione non riguarda soltanto l’introduzione delle nuove tecnologie, ma la capacità delle scuole di autodeterminazione sulla base di ‘norme generali, livelli essenziali delle prestazioni’ dello Stato. In un recente passato si era arrivati a pensare agli ‘statuti’ delle scuole autonome, oggi si arriva fino alle reti, più in là tutto viene governato dall’amministrazione scolastica. Il ruolo delle Regioni e degli enti locali DO R SSI E Rivista dell’istruzione 6 - 2014 sembra essere molto ridimensionato rispetto a quanto indicato dalle leggi Bassanini. Rimarrà deluso chi voleva un ‘consiglio nazionale dell’autonomia scolastica’. Autonomia e organico funzionale Se il curricolo di istituto deve essere l’espressione dell’identità della scuola, non può limitarsi a una percentuale di quello nazionale, ma andrà centrato sull’autonomia della comunità professionale, nuovo punto di riferimento per le politiche di utilizzo del personale e del contratto, sulla base della quale si devono organizzare gli orari di servizio con le varie aperture, perché la scuola diventi un ‘presidio pedagogico del territorio’. Siamo già in ritardo; nel momento in cui anche i nidi dovranno diventare parte del sistema educativo nazionale, si parla di funzionamento 24 ore su 24. Or- Dipinto di Federico Moroni ganici di istituto, di reti di scuole, concertati tra Stato e Regioni dovrebbero consentire alle scuole stesse di aumentare la flessibilità e migliorare la qualità dell’offerta, sulla base dei rapporti con il territorio. Solo con una reale autonomia ha senso potenziare la valutazione. È chiaro che qui andrà previsto tutto un sistema di incentivi, più che scatti di anzianità, sul piano economico, di carriera e nuove figure professionali, senza dimenticare la qualità del lavoro didattico in senso stretto. Non sembra facile però prevedere scuole autonome che contengono docenti con carriere diverse decise dall’amministrazione scolastica: un’impostazione individualistica di fronte a una professionalità a forte impronta collegiale. Ci dovrà essere un reclutamento nazionale per caratteristiche culturali, ma decentrato per organizzazione didattica. Non è tanto chi li sceglie i docenti, ma come si scelgono e per quali compiti. Dossier Il merito deve valorizzare e incentivare una professionalità a forte impronta collegiale 15 DO R SSI E Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Dossier tinuo tra Stato e Regioni, con in mezzo due legislazioni costituzionali e forse un nuovo Senato e ancora non si è deciso. Re-immaginare il futuro Le vere innovazioni dovrebbero affrontare anche nodi ordinamentali (durata degli studi, formazione professionale, alternanza) 16 (am) Urge la revisione delle classi di concorso nella scuola secondaria, con particolare riferimento al primo grado dove sarebbe necessario superare le materie per lasciare spazio alle aree disciplinari, e nel biennio delle superiori dove sono già possibili gli assi culturali. Un registro nazionale che favorirà la chiamata diretta dei docenti e la loro mobilità, ma solo per la quota di organico funzionale? Otium et negotium Una buona scuola dovrà avere un raccordo costante con il mondo del lavoro: ‘una via italiana al sistema duale’? In Germania tale sistema è stato fondato da oltre due secoli sulla pedagogia del lavoro, da noi sull’antagonismo tra otium e negotium. Alternanza (solo però negli istituti tecnici e professionali) e apprendistato, per combattere la dispersione/disoccupazione. Laboratori dentro e fuori la scuola; scuole-imprese in conto terzi e scuole-bottega per recuperare antiche professioni artigianali. Potenziare l’orientamento anche attraverso la mappatura della domanda di competenze nel Paese: come se non ci fossero abbastanza indicazioni di questo genere in campo europeo. Poli tecnico-professionali, ITS. “Rafforzare il sistema di formazione professionale, mettendolo definitivamente a sistema con il sistema dell’istruzione”. Dalla riforma Bassanini in poi si è verificato un tira e molla con- Uscire oggi a 18 anni è un’esigenza dei giovani che sanno già guardarsi intorno e cogliere opportunità anche a livello europeo; il problema però non è il liceo di quattro anni, per risparmiare a parità di risultato. Se anticipare il termine delle superiori potrebbe essere vantaggioso per entrare prima nella formazione superiore o nel mercato del lavoro, il nostro sistema fa acqua proprio la dove c’è da trovare la propria strada. Va bene il liceo economico, ma non si tratta di aumentare gli indirizzi crescendoli separati, quanto di creare, come aveva ben previsto una sperimentazione, parola che il documento recepisce con un certo fastidio, dove l’economia era definita una disciplina imprescindibile per il potenziamento della ‘licealità diffusa’. Soldi ce ne sono pochi: un asilo al giorno per mille giorni forse è una battuta, e vengono legati al miglioramento e alla qualità delle prestazioni; il mof è in crisi nera. Ormai le famiglie devono intervenire un po’ su tutti i fronti. In attesa del crowdfunding forse si arriverà a regolamentare le lezioni private intra moenia. Viene ripresa la costituzione delle ‘fondazioni’ per intercettare finanziamenti privati, anche attraverso bond per premiare imprese che investono nel sistema formativo, ma un progetto di scuola pubblica è un ‘sistema integrato’ fondato sulle autonomie: giuridiche, pedagogiche, territoriali. Gian Carlo Sacchi Esperto di politiche scolastiche e formative [email protected] La questione insegnante di Maurizio Muraglia Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus La maschera e il volto L’insegnante del nostro tempo è diventato uno sconosciuto. Nessuno sa più quale sia il suo vero compito. Se ne dà per scontata l’esistenza e se ne parla tra i decisori politici, i pedagogisti, le associazioni, i sindacati, le famiglie, gli studenti, ma appena si tenta di delinea re il perimetro della sua azione diventa difficilissimo andare oltre qualche frase scontata. Alcuni si sono esercitati nell’elencarne le competenze, e mentre scriviamo un nucleo di ‘esperti’ sarà chiamato a ridefinire uno status giuridico, ma questi elenchi hanno soltanto il sapore delle petizioni di principio: chi potrebbe negare che occorrano ai docenti competenze disciplinari, metodologiche, relazionali, organizzative e quant’altro si vuol mettere in campo? Ma cosa implica ciascuna di queste competenze? A quale idea di società, di cultura, di lavoro fa riferimento? È un’identità ormai sfuggente, quella di chi ha il compito di insegnare, anche nei casi migliori. Anche nel caso di chi instaura un buon rapporto con gli studenti e con le famiglie, anche tra i cosiddetti ‘bravi insegnanti’ è lucida la consapevolezza di un compito complesso, carico di contraddizioni, di ambiguità, riferibile a un quadro normativo cangiante, che forse vorrebbe supporre una certa idea di insegnante, ma di fatto naviga a vista, tra prescrittività di traguardi e autonomia di scelte progettuali. Il trittico studenti, saperi, insegnanti L’antica costituzionale ‘libertà di insegnamento’, che servì per tutelare gli insegnanti dalle ingerenze della politica, molto spesso – con evidente fraintendimento – rimane la patetica trincea di chi vuole difendersi dall’assalto dei dirigenti, delle famiglie o anche degli stessi colleghi. E questa autodifesa fi- nisce per essere un modo di ritagliarsi un’identità, di proteggere un territorio. Ma cosa abita quel territorio? Qual è l’essenziale del territorio presidiato dall’insegnante? Apparentemente la risposta è semplice: gli studenti, gli stessi insegnanti, i saperi. In fondo cosa serve di più? Eppure, anche questo tentativo di rievocazione dell’essenziale non soddisfa, anzi rischia di favorire pericolosi ritorni a un minimalismo trasmissivo, all’antica sequenza lezione-compiti per casainterrogazione-voto che tanto ha rassicurato nella più recente stagione di turbolenza ordinamentale. Ma non funziona. Non funziona perché anche il trittico studenti-insegnanti-saperi ha in sé elementi di complessità che sfuggono a ogni tentazione riduzionistica. Gli studenti al tempo dell’evaporazione del padre Gli studenti, in primo luogo. Un pianeta variegato, per nulla omogeneo al suo interno come si vuol far credere, perché le differenze sociali e culturali ci sono e la scuola le riproduce soprattutto nelle sue canalizzazioni d’accesso al secondo ciclo. Un pianeta attraversato da un’infinità di stimoli e di tensioni, minacciato da un futuro incerto, che rende l’impresa educativa priva di un orizzonte che contribuisca a giustificare la fatica di studiare. Un pianeta avvolto da una gigantesca rete di comunicazione che rende ogni studente perennemente ‘connesso’ e che ha fatto saltare la mitologia dell’aula quale luogo impermeabile a qualsiasi interferenza. La lotta contro i telefonini in classe rischia di assumere contorni ridicoli se non si assume la prospettiva di trasformare le tecnologie comunicative in risorse per la didattica. Essere bambini, ragazzini, adolescenti, oggi, è un’altra cosa rispetto al passato. Gli stili dell’autorità non sono più quelli di una volta perché rispetto a so- L’insegnante presidia faticosamente un territorio, la classe, dove l’incontro degli studenti con i saperi assume forme assai diverse dal passato 17 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Di fronte alla mutazione antropologica degli allievi e alla riconfigurazione dei saperi il ruolo del docente si fa assai delicato li trent’anni fa è del tutto mutato lo scenario del rapporto tra le generazioni, e chi incontra quotidianamente bambini e ragazzi non può ignorare non solo le questioni che attraversano il mondo dei giovani, ma anche e soprattutto il nuovo configurarsi della relazione educativa nel tempo dell’evaporazione del padre (1), per seguire la suggestione di Jacques Lacan risalente ormai a quasi 50 anni fa. Insegnanti, testimonial ‘esperti’ L’insegnante prima di essere tale rimane un adulto e la sua azione di insegnamento è segnata dal modo in cui egli vive la sua dimensione di adulto. Non è più tempo di modelli onniscienti e infallibili, che risulterebbero oggi poco credibili e incapaci di instaurare relazioni significative con i ragazzi. È tempo semmai di figure adulte autentiche, autorevoli, compagne di strada, conviviali se possibile, capaci di attraversare i linguaggi delle nuove generazioni e di situarsi rispetto a esse né come censori né come sodali acritici, bensì quali testimoni esperti del tempo in cui vivono i ragazzi. Si parla di ‘mutazione antropologica’ a proposito delle generazioni che popolano le nostre aule scolastiche, ma i riflessi di questa mutazione, qui soltanto sommariamente evocata, sui processi di apprendimento sfuggono in larga misura alla didattica ordinaria, che a causa di una formazione in servizio occasionale, frammentaria, disorganica si attarda ancora su protocolli trasmissivi, incapaci di armonizzare lo spazio culturale e mediatico degli allievi con lo zoccolo duro del sapere scolastico. I saperi: ovvero la conoscenza organica dei contenuti? Appunto, i saperi, l’altro elemento del trittico. Neppure i saperi sono più quel1) Si veda in questo numero l’articolo 18 di F. Piazzi. (fm) li di una volta, e la scuola è chiamata a prenderne atto. Qual è il sapere della scuola, oggi? E quali sono le forme attraverso cui gli insegnanti favoriscono il rapporto tra gli allievi e la conoscenza? Il campo di riflessione è sterminato, chiama a raccolta questioni epistemologiche, psicologiche, pedagogiche, didattiche. Chiama in causa l’eterno dilemma tra trasmissione e ricostruzione della conoscenza, e con esso il tema della capacità di favorire lo sviluppo di competenze culturali di cittadinanza negli studenti, come raccomanda l’Europa. Ma come si può affrontare il tema delle competenze culturali dimenticando che negli ultimi vent’anni è completamente cambiato il rapporto di tutti con le tradizionali ‘nozioni’, ormai accessibili con una facilità tale da far pensare che alla scuola e agli insegnanti tocchi un compito più raffinato, di selezione, di configurazione, di riposizionamento critico dei saperi? Gli studi sui confini disciplinari e sulla continua riconfigurazione dei saperi – si pensi soltanto a Morin – hanno messo in evidenza la precarietà dell’idea stessa di ‘contenuto’ quale materia inerte da trasferire nelle menti di chi impara. È rimessa in discussione da tempo l’idea stessa di ‘enciclopedia’ quale recinto concluso del sapere. Eppure le griglie di valutazione predisposte dalle scuole con- Rivista dell’istruzione 6 - 2014 tengono ancora espressioni quali ‘conoscenza organica dei contenuti’, come se organicità e completezza fossero ancora requisiti di cui andare in cerca. Il tema delle competenze, a dire il vero, non è riuscito a scardinare del tutto l’impostazione sostanzialmente contenutistica e aproblematica delle didattiche, che purtroppo continua a generare in moltissimi studenti demotivazione e insuccesso. L’aula non è più una riserva indiana Il trittico studenti-insegnanti-saperi rappresenta il sale della professione docente. Ogni meccanismo valutativo, esterno o interno che sia, non può ignorare che la qualità degli apprendimenti discende dalla capacità del sistema di sostenere questa circolarità. La progettazione del curricolo formativo è la competenza principe dell’insegnante, frutto della sua capacità di gestire saperi, metodi e relazioni in un contesto segnato dalla turbolenza tipica dell’età infantile e giovanile. Si tratta di una competenza complessa, perché si situa al confine tra campi disciplinari diversi, e in mancanza di una formazione continua e obbligatoria per tutti, capace di rafforzare e fare evolvere questo know-how della professione docente, è vano immaginare un miglioramento della qualità dell’offerta formativa delle scuole. Proprio la nuova antropologia giovanile e la complessità delle questioni poste dai saperi contemporanei sfidano il sistema a non lasciare soli gli insegnanti. Soli a presidiare quella riserva indiana dove talvolta credono di starsene al sicuro, navigando a vista tra le pagine dei libri di testo e le ritualità del fare scuola quotidiano, per mancanza di riferimenti formativi solidi e costanti. Il difficile lavoro in team Si annida qui il difetto di collegialità che si riscontra nel lavoro dei docenti, que- sta chiusura autoreferenziale che rende le occasioni di progettualità comune scarsamente gratificanti. Si ritiene comunemente che la capacità di lavoro collegiale avrebbe riverberi positivi sulla qualità del lavoro individuale, ma è una verità solo a condizione di comprendere, come mostra l’esperienza, che solo gli insegnanti dotati di una professionalità matura sono capaci di uscire dalla riserva indiana e di mettere in comune il proprio stile di insegnamento con gli altri, con i colleghi del consiglio di classe, del dipartimento, con le funzioni strumentali, col dirigente scolastico. La collegialità appare empiricamente piuttosto il frutto di individualità ben formate che il suo presupposto, ma non vi è alcun dubbio che in seconda battuta una buona capacità di lavoro in team diventa essa stessa esperienza di apprendimento continuo per i singoli. Insegnanti demotivati e scarsamente formati non possono contribuire alla costruzione di percorsi collegiali qualificati. I nuovi barbari premono… Da qui nasce la sindrome della riserva indiana in cui rifugiarsi. Ma è un bunker illusorio. Manca il filo spinato a quella riserva, non si vedono confini capaci di proteggere chi insegna dai ‘nuovi barbari’ che premono e neppure finestre, perché la vita quotidiana ha ormai fatto comunque irruzione nelle aule e l’insegnante è costretto a prenderne atto se non vuole portare indietro le lancette dell’orologio. È questo oggi il tema forte: il rapporto tra scuola e vita, la necessità che la scuola esca dal fortino dell’autoreferenzialità e sia capace, mantenendo se stessa e la propria specificità, di incrociare l’esperienza e l’esistenza degli studenti attraverso la cultura. In fondo l’accento sulle competenze, che caratterizza la riflessione europea sull’educazione, rappresenta proprio per questo la massima sfida al sapere professionale degli insegnanti. La com- Focus Il sapere delle competenze non può essere trasmesso, ma rinegoziato e ricostruito insieme in classe, in una dimensione cooperativa e metacognitiva 19 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Non basta ragionare di scatti e orari, occorre ricostruire il profilo culturale e pedagogico della professione docente Particolare del murales dipinto dagli alunni di Flavio Nicolini in un’aula della scuola “Maria Pascucci” di Santarcangelo di Romagna petenza è il sapere agito, il sapere che entra in gioco di fronte a un dibattito, a un problema, a un compito di realtà. La competenza è la possibilità di un sapere durevole, che consenta a un individuo non di ‘tenere a mente’ tante cose, attitudine da cui resta ancora sedotto l’immaginario contemporaneo, ma di sapere imparare ancora e sempre nuove cose. Ma il sapere per la competenza non è il sapere veicolato per essere riprodotto, ma per essere rinegoziato e ricostruito insieme, in classe, in una dimensione cooperativa e metacognitiva che presuppone forte interesse e motivazione negli studenti. Insegnare: una raffinata professione culturale 20 È in altri termini un compito di mediazione culturale quel che oggi è riserva- to a una professionalità docente evoluta: un compito alto, culturalmente raffinato, che richiede attenzione all’umano in tutte le sue sfaccettature. Per questo la professione docente non può essere un ripiego e nessuna cura della professione è immaginabile senza investire risorse importanti nella formazione iniziale e nella formazione in servizio. La posta in gioco è sotto gli occhi di tutti: la cessazione della desiderabilità della professione da parte dei migliori intelletti, e per desiderabilità qui si intende la possibilità di immaginare una vita dedita alla costruzione del futuro di un Paese attraverso l’azione educativa. Educativa senza retorica. L’educativo a scuola passa attraverso la cultura e l’istruzione, e quanto più l’istruzione acquista i contorni della significatività e della profondità, tanto più essa diventa educativa. Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Educatore in quanto mediatore culturale, l’insegnante non può che essere un ricercatore e un intellettuale. Tutt’altro che un impiegato. Il problema dell’insegnante non è la timbratura del cartellino, la quantità di ore trascorse a scuola, la disponibilità a tappare i buchi nelle classi. A questo possono appassionarsi soltanto le strategie di contenimento della spesa. Il problema della professione docente è la costruzione del suo profilo culturale e pedagogico. Di questo si è andato fin qui discutendo e questo sembra accamparsi all’ordine del giorno della politica scolastica, a giudicare da quanto si legge nel rapporto governativo “La Buona Scuola” pubblicato il 3 settembre scorso e sottoposto alla discussione pubblica. Merito: maneggiare con cura Quale insegnante dunque può situarsi al crocevia di tensioni contrapposte, tra scuola e società, tra scuola e politica, tra scuola e lavoro, tra scuola e media, tra scuola e vita familiare? Alzi la mano chi conosce un insegnante capace di gestire consapevolmente il traffico che afferisce a questo crocevia. Siamo certi che questo sia l’insegnante che tutti inseguono per attribuirgli il cosiddetto ‘merito’? Per premiarlo in virtù della sua comprovata capacità di contribuire all’innovazione? In effetti non vi è chi non sia convinto che l’insegnante ‘meritevole’ esista e che basterà soltanto individuare un criterio oggettivo (meglio ‘condiviso’) per distinguerlo magari da chi invece dedica meno ‘tempo’ alla professione. Eppure, nel momento in cui si prova a fare la conta, qualcosa sfugge, e si scopre quel che si è prima detto: che non è questione di quantità di lavoro, ma di finezza pedagogica, che va coltivata e sostenuta. Occorrerà molta finezza valutativa per non rischiare di occultare professionalità che investono tempo ed energie su dimensioni del fare scuola, culturali, re- lazionali, affettive, che è difficile ritenere inessenziali – perché rappresentano la nervatura del trittico studenti-insegnanti-saperi di cui si è fin qui parlato –, ma che possono sfuggire a una valutazione di superficie. Si tratterebbe pertanto di riuscire a osservare, comprendere e valutare come si delinea la virtus pedagogica di un insegnante nel senso della sua capacità di rendere formativo il sapere che insegna, ove per formativo deve intendersi il connubio inscindibile tra istruzione ed educazione, o se si vuole tra conoscenza e competenza. Lasciare il segno È stato scritto dal Rapporto governativo che sarà la qualità del lavoro d’aula il primo indicatore di bravura. È un buon punto di partenza, per non rischiare di erigere a modello un insegnante che entra in aula di striscio perché è tutto preso da incombenze organizzative oppure, aggiungiamo qui, che vi entra con l’ansia dei risultati e la conseguente deplorevole (e deplorata dallo stesso Miur come recitano le Indicazioni per il primo ciclo) prassi del teaching to test. Un insegnante cioè che viene meno alla manutenzione paziente del curricolo formativo e si concentra esclusivamente su voti, punteggi e prestazioni. Se prevalesse quest’ottica, uno come il prof. Keating de L’attimo fuggente potrebbe sfuggire a ogni forma di investitura perché, semplicemente, onora l’etimo della sua professione lasciando un segno nella vita degli studenti. Il segno del saper pensare con la propria testa. Focus L’apprezzamento della qualità dell’impegno del docente non può essere ristretto a ruvide misure quantitative Maurizio Muraglia Docente di lettere nel Liceo delle scienze umane “G.A. De Cosmi” di Palermo [email protected] 21 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus I docenti italiani: chi sono, quanti sono, cosa fanno di Reginaldo Palermo Diamo i numeri... Esiste un divario tra i posti fissati negli organici (di diritto) e l’effettivo numero degli insegnanti in servizio Per quanto possa sembrare strano, è difficile sapere con precisione quanti sono i docenti italiani. Probabilmente la risposta esatta non la conosce neppure il Ministero dell’istruzione. Basta consultare un po’ di documenti ufficiali, ma di diversa provenienza (Miur, Mef, Istat, Censis…), per rendersi conto che non vi è mai concordanza di dati. Il motivo si spiega abbastanza facilmente: intanto, come sanno tutti coloro che lavorano nel mondo della scuola, il calcolo cambia a seconda che si parli di organico di diritto e di organico di fatto; in secondo luogo non sempre i dati fanno riferimento alla stessa tipologia di docenti (per esempio i docenti di religione cattolica vengono considerati in alcuni casi e non in altri). Un altro elemento che rende difficile e complesso il calcolo consiste nel fatto che non sempre esiste corrispondenza precisa fra posti in organico e numero dei docenti; se un insegnante è assegnato alla sede X ma si trova in posizione di part time, su un unico posto risultano presenti i nominativi di due docenti. Per non parlare poi dei distacchi sindacali e dei comandi che complicano ulteriormente i conteggi. In taluni casi (per esempio per i comandi) queste situazioni incidono poco sui numeri complessivi, ma in altri casi le differenze possono diventare significative: i posti di sostegno in deroga, ad esempio, sono ormai quasi 20mila e quindi modificano in modo importante le grandezze in gioco. Diverse fonti dei dati 22 Va rilevato che tutto questo fa sì che anche i conti economici dello Stato re- lativi alle spese del personale docente risultino spesso piuttosto complicati, con differenze non trascurabili fra le previsioni iniziali e il conto di cassa di fine anno. Bisogna quindi accontentarsi di cifre mai precise all’unità. Ma, soprattutto, bisogna mettere in conto che in documenti anche ufficiali, si possono trovare dati diversi per la stessa tipologia presa in considerazione. C’è infine un elemento che va considerato: fino a qualche anno fa il Miur pubblicava più o meno regolarmente voluminosi rapporti con una grande quantità di dati sia aggregati a livello nazionale sia disaggregati a livello territoriale. Da qualche anno non esistono più pubblicazioni periodiche che possano essere confrontate fra di loro e quindi anche il confronto di carattere storico fra i dati diventa molto arduo. Unico dato indiscusso e sempre identico è quindi per il momento il numero complessivo dei posti in organico di diritto, in quanto si tratta di un valore ‘bloccato’ da un preciso articolo di legge L’organico di fatto Fatta questa premessa metodologica incominciamo esaminare alcune ‘dimensioni’ del complesso e variegato mondo dei docenti italiani. Un dato complessivo ufficiale è contenuto in una recente pubblicazione del Miur che riporta una sintesi delle diverse variabili del sistema scolastico nazionale. Nella tabella 1 sono riportati i dati relativi all’organico di fatto dell’anno scolastico 2014-15. Sono questi i dati che stanno alla base delle previsioni sullo sviluppo del sistema scolastico nazionale contenute nel documento La Buona Scuola di cui si parla dal settembre 2014. Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Tabella 1 – Docenti della scuola statale. Organico di fatto, a.s. 2014-15 Scuola infanzia Piemonte 6.657 Lombardia 10.642 Veneto 4.392 Friuli-Venezia Giulia 1.679 Liguria 1.937 Emilia-Romagna 4.824 Toscana 5.955 Umbria 1.672 Marche 3.044 Lazio 7.933 Abruzzo 2.739 Molise 638 Campania 13.029 Puglia 7.880 Basilicata 1.232 Calabria 4.356 Sicilia 9.544 Sardegna 2.962 Totale 91.115 Scuola Scuola Scuola primaria sec. I grado sec. II grado 17.651 11.543 14.877 41.594 25.859 29.310 19.924 13.284 17.237 4.734 3.034 4.301 5.487 3.698 5.135 17.055 10.149 14.649 14.237 8.931 13.347 3.612 2.396 3.498 5.864 3.820 5.947 24.433 16.151 22.191 5.049 3.718 4.900 1.271 902 1.319 25.010 21.265 25.342 16.039 12.404 17.319 2.560 1.956 2.947 9.233 6.993 9.022 21.477 17.710 21.210 6.528 5.050 7.303 241.758 168.863 219.854 Totale 50.728 107.405 54.837 13.748 16.257 46.677 42.470 11.178 18.675 70.708 16.406 4.130 84.646 53.642 8.695 29.604 69.941 21.843 721.590 Fonte: Miur, D.G. per gli studi, la statistica e per i sistemi informativi, Anticipazione sui principali dati della scuola statale. A.s. 2014-15. La stabilizzazione dei precari Come è ormai ampiamente noto, il Piano prevede l’assunzione di 148mila docenti su posti di differenti tipologie (tabella 2). Dal confronto dei dati di tabella 2 con quelli della percentuale di docenti preca- ri nei diversi segmenti del sistema scolastico (tabella 4), si può dedurre che 148mila assunzioni potrebbero essere davvero sufficienti per risolvere in modo definitivo il problema della copertura dei posti di diritto e di fatto, in questo modo soddisfatti senza il conferimento di incarichi a tempo determinato di durata annuale. Il quadro complessivo dei docenti in servizio segnala la presenza di una quota consistente di personale precario (non di ruolo) Tabella 2 – Piano assunzioni “La Buona Scuola” Tipologia assunzioni Previsione Assunzioni sui posti lasciati liberi dalle ordinarie cessazioni dal servizio 15.000 Assunzioni su posti di sostegno per a.s. 2015-2016 già autorizzati da precedenti disposizioni di legge 8.900 Posti che mancano per completare organico di diritto, attualmente coperti da supplenze annuali di 12 mesi 14.200 Spezzoni aggregabili su posti interi che mancano per completare organico di fatto, attualmente coperti da supplenze annuali di 10 mesi 14.000 Spezzoni non aggregabili su posti interi, che mancano per completare organico di fatto, attualmente coperti con supplenti annuali di 10 mesi assunti a orario ridotto Ulteriori assunzioni 12.000 Totale 148.100 Fonte: Miur, La Buona Scuola, 2014. 84.000 23 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Tabella 3 – Personale stabile e precario nel comparto scuola. Serie storica Anno 2007 2008 2009 2010 2011 2012 Personale stabile 903.753 908.053 879.625 862.376 882.033 873.191 Personale precario 233.866 221.810 195.147 180.908 133.556 140.136 Totale 1.137.619 1.129.863 1.074.772 1.043.284 1.015.589 1.013.327 Fonte: Mef, Elaborazione su dati di Ragioneria Generale dello Stato, Analisi di alcuni dati del conto annuale del periodo 2007-2012. La presenza di personale precario e l’eccessiva mobilità costituiscono fattori critici che indeboliscono i livelli di apprendimento Dinamiche e ragioni del precariato La previsione di assorbimento dei precari viene confermata anche da dati ricavati dal Conto annuale dello Stato che riportano però il dato complessivo del comparto scuola, compreso il personale Ata (si tenga comunque conto che i docenti rappresentano all’incirca l’80% dell’intero comparto) (tabella 3). Può essere interessante in proposito riportare pressoché integralmente quanto scrivono i tecnici del Ministero dell’economia nella relazione sul conto annuale dello Stato: “Quasi la metà dei lavoratori non a tempo indeterminato del pubblico impiego (circa il 46%) è costituito da personale legato al mondo dell’istruzione in cui una quota di personale non stabile è necessaria a coprire le fisiologiche oscillazioni nel numero di cattedre che si formano ogni anno o per coprire le cattedre che restano scoperte, come nel caso delle sostituzioni per maternità, evento tutt’altro che raro vista la composizione di genere del comparto. Per questo settore – concludono i tecnici del MEF – il problema è rappresentato dal riassorbimento dell’eccesso di precariato creatosi negli anni per ricondurre la dimensione del fenomeno entro i limiti fisiologici”. Turnover e qualità dell’insegnamento 24 Va anche detto che molti ritengono che la soluzione del problema del pre- cariato, oltre ad innegabili risvolti sociali e occupazionali, potrebbe indirettamente contribuire anche a migliorare la qualità complessiva del sistema di istruzione. In questi anni, infatti, diverse indagini hanno evidenziato che l’eccessivo turnover del personale docente è una delle cause degli esiti non sempre brillanti dei processi di insegnamento/apprendimento. Il rapporto Labour market for teachers: demographic characteristics and allocative mechanisms (2008) riporta i risultati di una ricerca condotta dal Ministero dell’istruzione in collaborazione con il Dipartimento di analisi economica strutturale della Banca d’Italia. In quello studio si segnalava che il grado di turnover a livello nazionale corrisponde annualmente al 50% degli insegnanti e tende ad aumentare mano a mano che si sale nel livello scolastico; nella secondaria è minimo nei licei classici e massimo nei professionali; i livelli più bassi si riscontrano a Nord mentre i più alti si hanno al Sud. I ricercatori hanno correlato i dati sul turnover con quelli relativi alla efficacia delle azioni di insegnamento e hanno mostrato che il turnover è tanto più elevato quanto più bassi sono i risultati di apprendimento degli studenti. Un corpo docente al femminile Ci sono altre due caratteristiche che servono a descrivere meglio il complesso mondo dei docenti italiani che, Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Tabella 4 – Composizione del corpo docente italiano. Anno finanziario 2012 Insegnanti di cui Infanzia di cui Primaria di cui Secondaria I grado di cui Secondaria II grado di cui Personale educativo Insegnanti di sostegno di cui Infanzia di cui Primaria di cui Secondaria I grado di cui Secondaria II grado Docenti di religione di cui Infanzia + Primaria di cui Secondaria I grado di cui Secondaria II grado Totale insegnanti Dirigenti scolastici Totale Uomini (*) 674.886 124.188 84.656 536 211.830 7.937 149.396 31.834 226.494 82.353 2.510 1.528 98.261 15.522 9.122 133 36.793 1.875 28.833 7.431 23.513 6.083 26.038 6.007 14.440 1.184 3.096 831 8.502 3.992 799.185 145.717 7.991 3.707 Donne 550.698 84.120 203.893 117.562 144.141 982 82.739 8.989 34.918 21.402 17.430 20.031 13.256 2.265 4.510 653.468 4.284 % donne precari % precari sul totale (**) sul totale 81,6 69.786 10,3 99,4 3.384 4,0 96,3 11.596 5,5 78,7 24.500 16,4 63,6 29.942 13,2 39,1 364 14,5 84,2 35.581 36,2 98,5 3.777 41,4 94,9 12.891 35,0 74,2 9.139 31,7 74,1 10.074 42,8 76,9 12.746 49,0 91,8 7.737 53,6 73,2 641 20,7 53,0 4.368 51,4 81,8 118.413 14,8 53,6 == == (*) Il dato comprende sia i docenti di ruolo sia quelli con contratto annuale. (**) Il dato percentuale relativo ai docenti di sostegno non è più attuale in quanto l’organico di diritto del sostegno è stato aumentato in modo significativo negli ultimi anni. Fonte: Conto annuale dello Stato, 2012. proprio per questi due elementi, è diverso da quello di altri Paesi europei. La prima riguarda la ‘femminilizzazione’ del corpo docente. La maggioranza degli insegnanti italiani (più dell’80%) è donna; le insegnanti sono invece pari al 70% in Germania e nel Regno Unito e intorno al 67% in Francia e Spagna. In tutti i Paesi europei gli insegnanti del livello primario sono in maggioranza di sesso femminile: si va dal 52% in Turchia, al 68% in Danimarca fino al 95% in Italia. La percentuale diminuisce rapidamente se si passa alla secondaria di primo grado e poi a quella di secondo grado come risulta dalla tabella 4, che riprende i dati contenuti nel Conto annuale dello Stato del 2012, l’ultimo disponibile. L’età (avanzata) dei docenti italiani La seconda, riguarda l’età media dei docenti italiani, che è significativamen- te più alta di quella di tutti gli altri Paesi europei. Una recente indagine dell’Unione europea, Monitor 2014, fotografa molto chiaramente il fenomeno. In Italia il numero dei docenti con meno di 30 anni di età è statisticamente irrilevante, mentre rappresenta il 20% del totale nel Regno Unito, il 15% in Belgio e in Romania, il 10% in Olanda. Nel nostro Paese, peraltro, i docenti ultracinquantenni sono il 60% del totale (in Germania il 50%, in Olanda poco meno, in Francia e in Spagna il 30%). Focus La presenza femminile tra i docenti supera l’80%: è del 99,4% alla scuola dell’infanzia e del 96% nella scuola primaria, mentre solo il 53,6% dei dirigenti è donna Il livello di preparazione Nell’indagine dell’Unione europea che abbiamo appena citato, il 38% degli insegnanti italiani viene definito ‘non abbastanza qualificato’, dato peraltro in linea con la media europea (per carenza di preparazione pedagogica si intende, secondo la ricerca in questione, che “gli insegnanti non sono preparati ad affrontare le sfide che possono in- 25 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Figura 1 – L’età dei docenti in Europa Fonte: European Commission Education and Training, Monitor 2014, in http://ec.europa.eu/education/tools/et-monitor_en.htm. contrare, ad esempio soddisfare gruppi di apprendimento sempre più eterogenei, gestire il comportamento degli studenti e utilizzare con efficacia le tecnologie della informazione e della comunicazione”). Non solo, ma, sempre secondo l’Unione europea, i nostri docenti sono poco propensi ad aggiornarsi soprattutto per quanto attiene all’impiego delle tecnologie. Per la verità bisogna anche dire che altre indagini (per esempio Talis 2009) avevano evidenziato un dato diverso. Da quella ricerca, per esempio, emergeva che i docenti considerano insufficiente l’offerta di formazione esistente e chiedono invece una formazione continua seria e diversificata. La stessa indagine evidenziava i temi sui quali più di altri i docenti vorrebbero formarsi e aggiornarsi: nuove tecnologie, problemi di disciplina, insegnamento agli studenti disabili o con difficoltà di apprendimento. Una formazione (quasi) inesistente Resta il fatto che, al di là di quello che i docenti desiderano, negli ultimi 10 anni l’investimento statale in formazione e aggiornamento è letteralmente crollato come si può vedere dalla tabella 5. 26 Non resta che augurarsi che i fondi che la legge di stabilità mette a disposizione per la realizzazione del piano La Buona Scuola possano servire non solo per affrontare il problema del precariato, ma anche per mettere le scuole nelle condizioni di promuovere azioni di sostegno allo sviluppo della professionalità docente. Education and Training Monitor Reginaldo Palermo Già dirigente scolastico, autore di articoli e saggi su temi di politica scolastica [email protected] La femminilizzazione del ruolo docente di Cinzia Mion Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus I dati parlano al femminile Le statistiche hanno riconosciuto che ormai le donne-insegnanti sono più dei tre quarti di tutto l’organico a livello nazionale: quasi il 100% alla scuola dell’infanzia, il 96% alla primaria, il 78% alla secondaria di primo grado e il 60% in quella di secondo grado. Non a caso alcuni anni fa qualcuno chiedeva a livello provocatorio, ma non troppo, di istituire le ‘quote azzurre’ sia nel campo della ‘cura’ sia in quello della scuola. Nell’Unione europea la quota delle donne docenti si ferma invece al 60% circa. Sarebbe interessante, prima di provare a investigare le conseguenze di questa femminilizzazione del ruolo docente, provare velocemente a dare un colpo di sonda – per quanto possibile in questa sede e per quanto attendibile – dentro all’analisi sociologica per cercare non di scandagliare, ma almeno accennare, ad alcune possibili cause che hanno indotto tale fenomeno. Possibili cause, vecchi stereotipi, qualche intuizione La prima riflessione, che forse risulta però alquanto scontata, è che nel nostro Paese la professione docente dagli anni Settanta in poi è progressivamente scaduta dal punto di vista del riconoscimento sociale ed economico, per cui appare poco appetibile per gli uomini. L’altra riflessione altrettanto scontata è che lo stereotipato orientamento familiare, per cui fare la docente è preferibile a qualsiasi altra professione perché “puoi fare meglio la moglie e la madre”, non è ancora superato. La considerazione infatti che quella del docente è una vera e propria professione, non un mero mestiere esecutivo, per cui non bastano le ore di prestazione dell’insegnamento vero e proprio, non ha ancora raggiunto l’uo- mo della strada ma non ha ancora permeato nemmeno alcuni addetti ai lavori. Dai decreti delegati in poi parecchie ore del pomeriggio vengono comunque sottratte per impegni collegiali al vagheggiato lavoro part time che qualcuno ancora si ostina ad aspettarsi. Questi ultimi sono quei docenti, in genere della scuola secondaria, che continuano a esercitare nel pomeriggio la libera professione e quelle docenti che fanno fatica a conciliare la vita familiare con la vita lavorativa, ma che hanno talmente interiorizzato ‘l’etica sacrificale’ femminile che non provano nemmeno a distribuire il lavoro domestico tra figli (una volta cresciuti) e partner. L’opinione pubblica, artatamente manipolata, si incaponisce ancora a pensare che il lavoro del docente sia un impiego privilegiato, riconducibile all’orario semplice delle ore curricolari quando da tempo invece tutti noi sappiamo che non è così. Un’altra causa è quella della competenza relazionale che viene riconosciuta all’identità femminile in modo generalizzato, non solo per considerazione del senso comune ma anche per riflessioni filosofiche desunte dal ‘pensiero della differenza’. La prevalenza femminile nel corpo docente rispecchia scelte culturali, lavorative, esistenziali molto radicate anche nel senso comune Pensiero della differenza La corrente filosofica ‘pensiero della differenza’, che ha in parte superato il veterofemminismo, che puntava sul principio dell’uguaglianza, scommette invece sulla differenza: differenza di genere all’interno però ancora del paradigma culturale della linearità, per cui vige la logica binaria dell’aut… aut. O uguaglianza o differenza. Oggi, all’interno del paradigma della complessità, noi cerchiamo invece di coniugare sia l’uguaglianza che la differenza, secondo la politica culturale delle pari opportunità. 27 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Tabella 1 – Graduatoria tra i Paesi dell’indagine Talis per presenza femminile tra gli insegnanti Paese Se si associa la competenza relazionale all’identità femminile, per esaltarla, si rischia di porle entrambe ai margini % docenti femmine 1. Giappone 39 2. Messico 54 3. Olanda 55 4. Spagna 59 5. Emirati arabi 59 6. Australia 59 7. Danimarca 60 8. Alberta (Canada) 60 9. Norvegia 61 10. Cile 63 11. Regno Unito 63 12. Singapore 65 13. Serbia 66 14. Francia 66 15. Svezia 66 16. Media Paesi Talis 68 17. Fiandre (Belgio) 68 18. Corea 68 19. Romania 69 20. Malesia 71 21. Brasile 71 22. Irlanda 72 23. Finlandia 72 24. Portogallo 73 25. Croazia 74 26. Polonia 75 27. Israele 76 28. Repubblica Ceca 76 29. Italia 79 30. Bulgaria 81 31. Repubblica Slovacca 82 32. Estonia 84 33. Lettonia 89 Fonte: Elaborazione su dati OECD, Talis 2013 Database (mtb). 28 Le differenzialiste però hanno rinforzato, senza averne l’intenzione, un pensiero implicito di basso profilo che già circolava e che può essere espresso dall’idea che essere donne è per metà essere già docenti, secondo il cosiddetto mito della congenialità. Naturalmente la corrente filosofica del pensiero della differenza ha invece usato, e usa ancora, livelli molto suggestivi e profondi di elaborazione affermando che la radice della differenza sessuale, che contraddistingue la femminilità, sta nella relazione, in quel pensiero materno dell’ordine del simbolico che si concretizza nell’etica della cura. Una delle argomentazioni più utilizzate dal pensiero della differenza, di cui A. Cavarero è una illustre rappresentante, è che la ‘differenza’, lungi dall’essere una mancanza, deve diventare un motivo di orgoglio, un privilegio, una spinta ad affermare il proprio protagonismo a fronte di un mondo a lungo dominato dal maschile, assunto come neutro. Questo ‘ordine dell’uno’ è stato costrui to su ‘un’amnesia’, amnesia che ha fatto dimenticare o cancellare la differenza di genere, nella fattispecie quella femminile. Molte donne hanno fatto però un percorso di consapevolezza: per prime, aiutate anche dal lavoro fuori casa, hanno intaccato i vecchi stereotipi che le riducevano a essere assoggettate e incapaci di un proprio protagonismo, indotte da una storia e una realtà connotate da un forte svantaggio. Il loro percorso di crescita si è accompagnato a un progressivo processo di autorealizzazione che non può non riflettersi sulle loro figlie che stanno maturando accanto a loro. Gli uomini sono vissuti di rendita e ora provano spesso una situazione di disagio che non può non riverberarsi sui giovani maschi fin dalla loro preadolescenza, come possiamo facilmente registrare sia nelle classi della scuola secondaria di primo grado sia nel biennio di quella di secondo grado. Il mito della congenialità e i tre codici affettivi La competenza relazionale, che dovrebbe accompagnare la professionalità docente, però non è un dato biologico dovuto semplicemente all’appartenenza al genere femminile, checché Rivista dell’istruzione 6 - 2014 ne dicano le differenzialiste. È questo il rischio connesso al mito della congenialità. A scuola vanno intrecciati insieme i tre codici affettivi di cui parla Franco Fornari. Non è facile procedere a questo intreccio ed è qui che si implementa la competenza professionale. Il codice materno, espressione simbolica che non coincide con femminile, consiste nella competenza di saper accogliere, ascoltare empaticamente, sostenere nell’apprendimento, porre attenzione al disagio di non apprendere, incoraggiare. È necessario in tutti gli ordini di scuola, non solo alla scuola dell’infanzia o primaria. Lo stesso dicasi per il codice paterno, che riguarda il contenimento attraverso le regole, la guida, l’orientamento, la valutazione, l’induzione dell’autonomia personale e di pensiero, o per quello fraterno, che attiva l’interazione tra i pari, l’aiuto reciproco e la cooperazione all’interno della classe che va intesa come una ‘comunità interattiva’. Non è vero che basta essere docenti donne per manifestare tale competenza. Serve una buona formazione che riguarda tutti i docenti sia donne che uomini. Si tratta di possedere innanzitutto, ma non solo, quella capacità di orientarsi nella complessità che si esplica nel saper rapportarsi alla multilogica e alla multidimensionalità, come dice E. Morin. La competenza relazionale Può essere senz’altro vero che l’utilizzo del codice materno sia più facilmente riscontrabile in una donna, ma potrebbe anche essere facile scivolare nel maternage (presente a volte nella scuola dell’infanzia), che si esprime senza quella distanza peculiare e indispensabile, utile a evitare identificazioni fusionali che trattengono i soggetti minori nella dipendenza, così deleteria ai fini del raggiungimento dell’autonomia. Alla scuola secondaria può invece apparire un eccesso di codice paterno, che non significa maschile, per la paura contraria. Può presentarsi infatti il timore di una identificazione con l’età dell’adolescenza (propria) mal elaborata, che può portare allora alla spersonalizzazione della relazione per difesa. Tale dinamica, legittimata dalla struttura della scuola, è volta a proteggere l’adulto da possibili e facili regressioni, ma, come dice Renzo Carli, “tende a impedire il manifestarsi nei giovani stessi di quei desideri, sentimenti o fantasmi che caratterizzano ogni rapporto personale e profondo che l’insegnante dovrebbe elaborare, comprendere e sopportare”. Azzarderei che è più facile che compaia nel docente maschio tale fenomeno della spersonalizzazione, ma non ne sono troppo sicura. Penso che l’insicurezza, accompagnata a irrigidimento per tema di perdere il ruolo, giochi brutti scherzi sia a docenti donne che a docenti uomini. Focus In classe occorre saper dosare codici materno, paterno e fraterno, utili a regolare relazioni educative appropriate Contratto, tempo di lavoro, carriera Un’altra facile conseguenza della femminilizzazione del ruolo, identificata da chi analizza i rapporti con i sindacati e la partecipazione alle iniziative come lo sciopero, è una tiepida reazione di fronte alle iniziative di rivendicazione sindacale. Secondo alcuni autori ciò sottende la semplicistica riflessione implicita: “quello che mi dai mi basta, ma non chiedermi di più in termini di prestazione” perché il mio tempo è prezioso per la famiglia. In altri termini si ascrive anche al fenomeno della femminilizzazione il radicarsi, non l’implementarsi, del patto scellerato per cui alla docenza si richiede una formazione iniziale, che fino a oggi non è stata più verificata nel corso successivo della vita professionale, e in cambio si tengono i salari bassi. Su questo patto scellerato si agitano al massimo mugugni e lamentele di corridoio, ma alla scadenza di una riven- 29 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Le identità sociale e psicologica (e di genere) si costruiscono attraverso rapporti di inclusione (somiglianza) e di esclusione (differenza) 30 Il Maestro Gianfranco Zavalloni dicazione seria le donne-docenti spariscono sullo sfondo. In altri termini, tranne qualche bellissimo esempio storico di protesta ai tagli – in cui c’è stata anche la rivolta delle ‘mamme’ – gli scioperi nella scuola contano adesioni limitate. I maligni aggiungono un’altra causa: lo status di mogli di professionisti di moltissime insegnanti per cui la rivendicazione di un miglioramento salariale è poco interessante a fronte del rischio di trovarsi di fronte a un appesantimento del tempo da passare a scuola o a una innovazione profonda che potrebbe richiedere applicazioni impegnative. Sfuggono a questo destino le docenti più impegnate, e a dire il vero ne conosco moltissime, e chissà quante ce ne sono ancora che desiderano migliorare continuamente la loro professionalità e magari, perché no?, percorrere l’unica possibilità di progressione di carriera diventando dirigenti. Il tema dell’identificazione di genere E. Erikson afferma che l’acquisizione di una identità sia sociale che psicologica è un processo complesso che comporta un rapporto positivo di inclusione e un rapporto negativo di esclusione. Ci si definisce per somiglianze con certuni e differenze con altri. Anche l’identità di genere obbedisce a questo processo. Avviene un processo di identificazione con le persone dello stesso sesso e di differenziazione con quelle del sesso opposto. Questo è comunque un problema che rimane aperto (su cui la ministra Carrozza aveva anche suggerito una formazione dei docenti che si è persa nei meandri del Miur) e che merita delle riflessioni serie e puntuali da parte della scuola e non solo. Ora però, riprendendo il riferimento alla coppia genitoriale, notiamo che Rivista dell’istruzione 6 - 2014 spesso questa ‘scoppia’, quindi è ineludibile il richiamo alle frequenti famiglie monoparentali, quasi sempre rappresentate dalla madre; oppure alle ancora rare famiglie arcobaleno, caratterizzate da genitori dello stesso sesso, all’interno delle quali non sono presenti entrambi i generi. In tutti i casi va fatto presente che l’identificazione primaria avviene nei confronti dei genitori ma quella secondaria, altrettanto importante, avviene nei confronti delle figure significative secondarie che i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze incontrano crescendo. È ovvio che innanzitutto queste figure dovrebbero essere rappresentate dai docenti. È sempre stato così. Tutti noi ricordiamo qualcuna di queste figure importanti che hanno orientato la nostra vita con la loro importanza e valore. A questa consapevolezza possiamo aggiungere che c’è un rischio, però, che potrebbe diffondersi all’interno della scuola. Si tratta dello stereotipo femminile della arrendevolezza e acquiescenza di cui, se le donne docenti non si rendono accorte, potrebbero essere inconsapevole veicolo. Ciò potrebbe comportare ulteriori danni per lo sviluppo del senso di cittadinanza che recentemente ha allarmato Nadia Urbinati tanto da farle usare l’espressione per l’Italia di società democratica docile, per cui il modo di porsi nei confronti del potere è più quello del suddito che quello del cittadino. Sarebbe interessante aprire un dibattito su questo argomento… Dall’evaporazione del padre alla riscoperta della testimonianza appassionata Oggi poi noi sappiamo che siamo in presenza della cosiddetta ‘evaporazione’ del padre, insieme al principio di autorità (Recalcati), ed è inevitabile che il pensiero vada alla carenza appena descritta di figure maschili nella scuo- la. Sempre Recalcati, nel suo bellissimo testo Il complesso di Telemaco, afferma però che dal padre attualmente i figli dovrebbero auspicare di ereditare non un regno, non una discendenza illustre, non geni, né beni, ma la testimonianza silenziosa del Desiderio ed è questo che si aspettano i vari ‘Telemaco’ che scrutano il mare in attesa del padre. E quale auspicio maggiore può esserci che anche la scuola, a prescindere dall’essere quasi completamente femminilizzata, possa essere o diventare il luogo della passione. Passione per la conoscenza, per la comprensione profonda delle idee che hanno fatto crescere il mondo, per la cura della mente che sa collegarsi con il cuore, per la scoperta di nessi e relazioni tra i mondi culturali, per l’intrecciarsi di relazioni interpersonali autentiche e significative, per l’incontro con docenti (donne o uomini) che ci hanno fatto provare brividi intellettuali da continuare a desiderare di riprovare per tutta la vita. Che sono ancora in grado di far vivere ai loro allievi/e una scuola ricca di senso. Focus Modelli femminili e maschili dovrebbero andare oltre gli stereotipi evitando i rischi dell’arrendevolezza o dell’evaporazione Riferimenti bibliografici A. Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale, in Diotima. Il pensiero della differenza, La Tartaruga, Milano, 1987. F. Fornari, Simbolo e codice, Feltrinelli, Milano, 1976. R. Carli, Aggiornamento degli insegnanti: una proposta di intervento psicosociale, La Nuova Italia, Firenze, 1980. E. E rikson , Infanzia e società, Armando, Roma, 1950. E. Morin, Le vie della complessità, in La sfida della complessità, a cura di M. Ceruti e G. Bocchi, Feltrinelli, Milano, 1985. M. Recalcati, Cosa resta del padre, Feltrinelli, Milano, 2011. Cinzia Mion Già dirigente scolastico, psicologa, formatrice [email protected] 31 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 “La Buona Formazione”: passo dopo passo… di Giancarlo Cerini Focus Il contributo delle scuole sperimentali Esistono scuole sperimentali che hanno messo alla prova modalità innovative di selezione, formazione, valutazione dei docenti 32 Molti dei nodi controversi contenuti nel documento del Governo oggetto di consultazione pubblica (“La Buona Scuola”) potrebbero essere affrontati ascoltando le esperienze più innovative messe già in atto in molte scuole del nostro paese. In fondo, la ‘buona scuola’ c’è già, ma non fa sistema: sono realtà frammentate, isole disperse, che devono essere aiutare a fare arcipelago e poi a diventare terraferma, cioè base solida per l’intero sistema scuola. È questo il caso delle tre scuola italiane appartenenti alla rete Wikischool (scuola-città “Pestalozzi” di Firenze, scuola “Don Milani” di Genova, scuola media “Rinascita” di Milano), che da anni sono impegnate in attività di ricerca e sperimentazione sull’organizzazione didattica e professionale, avvalendosi della ‘copertura’ dell’art. 11 del d.P.R. 275/1999 che ancora consente di autorizzare sperimentazioni strutturali con un lieve incremento del numero dei docenti (organico funzionale). Al di là di aspetti curricolari, didattici ed educativi (la continuità verticale, le tecnologie didattiche, la gestione della classe, i laboratori...) le tre scuole offrono interessanti suggestioni e soluzioni operative nel campo dello sviluppo professionale degli insegnanti e consentono di chiarire alcune delle questioni più ‘calde’ che sono contenute nella proposta del Governo. Ad esempio: come favorire un migliore raccordo tra bisogni della scuola e personale che chiede di insegnarvi, superando meccanismi automatici di assegnazione? Come far sì che la scuola diventi un luogo di ‘crescita’ professionale dei docenti e con quali impegni, condivisioni, ‘patti’? Come favorire una dimensione collaborativa e collegiale del lavoro docente, valorizzando apporti e impegni dei singoli docenti, attuando un’idea non-competitiva di merito? Cicli di vita professionale Vediamo più nel dettaglio qual è il contributo che alcune innovazioni adottate nelle tre scuole sperimentali possono offrire all’intero sistema educativo italiano. Abbiamo immaginato (1) un ideale ciclo di vita professionale, dalla formazione iniziale alla maturità, mettendolo in relazione con le nuove proposte del Governo e le prospettive di una possibile generalizzazione delle innovazioni. Si tratta dei passaggi più significativi di un percorso orientato al miglioramento continuo e al dinamismo culturale e progettuale. L’innesto nella comunità scolastica di appartenenza assicura un ‘imprinting’ e una visione collaborativa del lavoro docente nella convinzione che non solo i singoli ‘buoni docenti’ – adeguatamente formati, selezionati e individuati – faranno una buona scuola, ma che una scuola con il suo stile, la sua storia, la sua identità è in grado di far crescere buone professionalità. Un’emergenza: la formazione in ingresso Un contributo significativo le tre Wikischool lo possono offrire per la realizzazione di un sistema di formazione in 1) Le presenti riflessioni scaturiscono dalla partecipazione al seminario delle scuole sperimentali della rete “Wikischool”, tenutosi a Milano il 21 ottobre 2014 (Gruppo di lavoro: Reclutamento, formazione e valutazione). Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Figura 1 – Fasi dello sviluppo professionale Valutazione/ valorizzazione Formazione in servizio Formazione in ingresso Assegnazionie docenti alle scuole Formazione iniziale Fasi Cosa dice “La Buona Scuola”? Quali le esperienze delle Wikischool? Cosa si dovrebbe generalizzare in ogni scuola? Qual è il ruolo di una rete di scuole-polo? Dopo un percorso universitario scandito in 3+2 anni, sono previsti 6 mesi di praticantato a scuola, con la guida di un insegnante mentor. Le scuole sperimentali sono contesti operativi idonei a ospitare tirocini formativi in accordo con le università. Ogni scuola si accredita per accogliere tirocinanti, inserendo la loro formazione pratica tra i compiti istituzionali. Predisporre strumenti di osservazione e supervisione della pratica ‘guidata’. Formare figure di mentor, in collaborazione con università. Favorire la individuazione di docenti per le esigenze ad hoc di ogni istituto (anche sulla base di un albo di docenti e di un portfolio pubblico). I docenti interessati partecipano a un bando e si sottopongono a un colloquio attitudinale, dopo l’esame del loro curricolo (a opera di una commissione). Sulla base di una dotazione organica di rete, ogni scuola favorisce l’incontro tra domanda-offerta di posizioni di insegnamento. Affinare le modalità di matching tra progetto della scuola e risorse professionali disponibili e motivate. --- Il docente in ingresso viene affiancato da uno o più tutor che lo supervisionano in momenti ‘forti’ del lavoro (didattica, laboratorio, consigli...) per almeno due anni. Ogni scuola si prende ‘carico’ dei nuovi assunti con modalità di accompagnamento (tutoraggio, osservazione in classe, peer review, supervisione professionale). Mettere a punto figure ad hoc per il tutoraggio dei neo-assunti (mentor) e sperimentazione di metodi e modelli di accoglienza orientati alla dimensione collaborativa. Sviluppare azioni formative (obbligatorie) legate ai contesti e alle pratiche didattiche, meglio se in rete. L’attività formativa non consiste solo in frequenza di corsi, ma in ‘laboratorio adulto’ di ricerca, formazione e produzione di ipotesi didattiche, attraverso modalità collaborative. Introdurre progressioni economiche differenziate, per premiare meriti e impegni, resi visibili da un sistema di crediti formativi, professionali, didattici. La valutazione si riferisce alla verifica dell’impegno, dello stile e dei livelli di partecipazione del docente al progetto della scuola. Le scuole in rete danno vita a laboratori di formazione-ricerca fortemente orientati alla pratica didattica e alla soluzione dei problemi di gestione della classe. Alcune scuole si qualificano per la loro ‘specialità’. In base a criteri nazionali riferiti a standard professionali (standard di prestazione o crediti nelle aree della formazione in servizio, degli impegni gestionali, della didattica) la scuola accerta il raggiungimento delle soglie di qualità prescritte e ‘valida’ lo sviluppo di carriera. Essere punti di riferimento per la formazione (art. 7, d.P.R. 275). Le scuole sperimentali storiche (assieme ad altre di solide tradizioni) costituiscono un ‘parco pedagogico’ delle scuole innovative. Diventare cantieri di ricerca per ‘profilare’ e descrivere le diverse tipologie di crediti con particolare riferimento alla qualità delle pratiche didattiche: -autovalutazione -documentazione -rendicontazione. ingresso dei docenti neo-assunti (28.000 quest’anno scolastico, presumibilmente 148.000 nel prossimo) che vada oltre la routine degli incontri di aggiornamento e delle esercitazioni sulle piattaforme digitali. Infatti, fin dal suo ingresso nella scuola il neo-docente potrebbe essere affiancato da figure di tutor (tutoraggio diffuso) che lo guidavano in situazioni tipiche del lavoro: in aula, nei laboratori, nella progettazione, nei consigli di classe. Le scuole sperimentali hanno già messo a punto appositi protocolli di osservazione dei comportamenti professionali, schede di sintesi con un giudizio espresso con un punteggio sulla base di apposite rubriche descrittive (ove si apprezza in particolare la capacità di lavorare con i colleghi) (2). L’intenzione non è quella di enfatizzare il momento valutativo, ma di aiutare un L’inserimento ‘guidato’ dei neo-assunti è fondamentale 2)S. Bertone, M. Pedrelli, Il ruolo della comunità in un modello di valutazione professionale dei docenti, in “Rivista dell’istruzione”, n. 6, novembre-dicembre 2014, Maggioli, Rimini. 33 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus - accogliere in classe un collega per osservazioni formative (peer review) sulle strategie didattiche adottate; - condividere prove comuni di verifica e valutazione; -ecc. Rilanciare la ‘buona’ ricerca (fm) Il percorso di prima formazione comprende autovalutazione, tutoring, peer review e un patto per lo sviluppo professionale insegnante in un processo di riconoscimento della propria professionalità (dei punti di forza e di criticità), di favorire l’autovalutazione convalidata da un occhio terzo, a scopo formativo e di miglioramento. Il percorso di accompagnamento prevede anche l’impegno a progettare una o più unità didattiche e a realizzare colloqui di supervisione con i propri tutor durante l’anno scolastico. Un patto per lo sviluppo professionale potrebbe formalizzare l’impegno del docente ad arricchire la sua preparazione, in sintonia con la progettualità della scuola in cui opera (3). Questi elementi rappresentano la base per il rilascio di crediti didattici agli insegnanti: si potrebbe anche non entrare nel merito della qualità della didattica (anche per la difficoltà ad adottare criteri interpretativi univoci), ma limitarsi a un incisivo protocollo metodologico. Cioè ottiene crediti didattici il docente che è disponibile a: - documentare una o più sequenze didattiche del proprio insegnamento (attraverso modalità cartacee, multimediali, prodotti autentici, ecc.); - discutere con un esperto delle caratteristiche della propria azione didattica; La descrizione di varie tipologie di crediti richiede che scuole particolarmente propense all’innovazione possano sperimentare strumenti, modelli, procedure fattibili. Qualcosa non convince nel meccanismo premiale dei 2/3 e 1/3 ipotizzato in “La Buona Scuola”. Piuttosto che suddividere gli insegnanti in scaglioni prefissati rispetto a una classifica (ranking) è opportuno definire delle soglie di accettabilità (rating) che TUTTI i docenti possano aspirare a raggiungere, marcando in questo modo un effettivo miglioramento delle caratteristiche dell’insegnamento. La valutazione del merito si assocerebbe così alla salvaguardia, anzi al potenziamento della dimensione collaborativa in cui si esplica la funzione docente. Le scuole sperimentali Wiki possono dunque candidarsi nei prossimi mesi e anni a promuovere le loro scuole come laboratori per lo sviluppo professionale, mettendo a fuoco soluzioni operative nello stile comunitario che le contraddistingue. www.wikischool.it/ 3) Un esempio di “patto per lo sviluppo professionale” adottato dalla scuola “Don Milani” di Genova è ripreso in G. Cerini, Crediti e portfolio, in Voci della scuola “La Buona Scuola 1”, Notizie della Scuola 3-4, 34 ottobre 2014, Tecnodid, Napoli. Giancarlo Cerini Direttore di “Rivista dell’istruzione” [email protected] Un’altra didattica è possibile di Enzo Zecchi Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Verso un nuovo paradigma educativo “Si avvertono segnali che evidenziano l’inizio del tanto atteso passaggio a un nuovo paradigma educazionale”. Questo l’incipit dell’editoriale del recente numero di settembre-ottobre di Educational Technology a firma di Clinton B. Chadwick (2014). I segnali di cambiamento riguardano l’apertura della scuola al pensiero costruttivista-costruzionista; l’orientamento verso una didattica per problemi, progetti e competenze, oltre l’approccio trasmissivo tradizionale; e soprattutto il passaggio a una scuola centrata sull’alunno. La necessità del cambio di passo è dichiarata da più parti. La Commissione europea e il Miur chiedono di favorire lo sviluppo e la certificazione delle competenze e in letteratura la discussione su questo è aperta ormai da qualche decennio. Vi sono organismi che studiano quali dovranno essere le competenze del 21° secolo. Gli stessi responsabili politici, fino ai capi di Stato, auspicano che i giovani sviluppino le competenze per una cittadinanza piena e per un inserimento di successo nel mondo del lavoro. Il presidente americano Obama, ad esempio, non cessa di stimolare il sistema educativo a favorire nei giovani il problem-solving, il pensiero critico, l’imprenditorialità e la creatività. Marc Prensky, il creatore del fortunato concetto dei ‘nativi digitali’, pensa che sia addirittura giunto il momento di andare oltre le competenze del 21° secolo e di rifondare un nuovo curricolo: “The world needs a new curriculum” (Prensky, 2014). Tutti questi segnali, e molti altri, spingono verso la necessità di ripensare il modo di fare scuola, di evolvere verso un nuovo paradigma educativo. Forse, in Italia questi segnali sono meno evidenti: ci sono qua e là entusiasmi, insegnanti motivati e sperimentazioni av- viate, ma l’attività largamente prevalente e visibile della scuola e il corpo docente sono ancora saldamente ancorati al modello di didattica trasmissiva. Il cambiamento può disorientare I docenti, messi di fronte a buone argomentazioni, condividono in grande numero l’idea di introdurre nuove forme di didattica in grado di rispondere alle sfide che oggi la scuola è chiamata ad affrontare. Per molti questa condivisione non è di facciata, ma sincera e alcuni mostrano un entusiasmo inusuale per la classe docente. La voglia di cambiamento però scema presto, anzi generalmente si azzera, quando i docenti si ritrovano in classe e quando, almeno quelli più volonterosi, il cambiamento cercano di realizzarlo davvero. Il problema del cambiamento in effetti è complesso, di difficile soluzione e va affrontato con l’attenzione dovuta. L’esperienza mostra che quando forme di didattica attiva sono introdotte correttamente in classe, i ragazzi non faticano ad adeguarsi a esse, anzi generalmente si lasciano coinvolgere e partecipano alle attività con entusiasmo. Durante la risoluzione di problemi e lo sviluppo di progetti, imparano a lavorare in gruppo e ad apprendere per scoperta: per loro, presto, questo diventa un approccio naturale. Al contrario, per i docenti l’introduzione di nuove forme di didattica è spesso un problema rilevante, non necessariamente dovuto a pigrizia o inerzia, ma a cause profonde che vanno analizzate singolarmente per arrivare a qualche soluzione. L’ostacolo primo e principale che trattiamo qui di seguito è di natura culturale: in poche parole, il docente è stato formato in una scuola che da sempre ha privilegiato i contenuti rispetto alle competenze. I saperi matematici, linguistici, scientifici e sociali (M. Pren- Esiste un consenso generalizzato verso le innovazioni didattiche, ma il cambiamento trova inaspettati ostacoli tra i docenti: perché? 35 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Andare oltre la didattica trasmissiva significa sperimentare un nuovo modo di essere docenti 36 sky, 2014) sono alla base dell’educazione di ogni docente, come di ogni adulto. Tutti abbiamo investito molto e a lungo nell’acquisizione di questi saperi e questo lavoro intenso ci rende fieri e gelosi dei risultati ottenuti, al punto da ritenerli la base, il nucleo imprescindibile dell’educazione in generale. La prospettiva di una scuola che vada oltre questi saperi e privilegi piuttosto le competenze e che metta al centro l’alunno, ci disorienta nel profondo, mette in discussione l’idea di buona educazione che ci siamo costruiti. La rassicurante didattica trasmissiva Il passaggio a una didattica attiva, di taglio costruttivista/costruzionista risulta spesso per il docente un salto nel vuoto, un passaggio disorientante, perché vengono a mancare i riti, i gesti, la ‘liturgia’ della didattica trasmissiva, vere pietre miliari della professione docente. Il docente ha avuto una formazione efficace alla professione negli anni della sua frequentazione scolastica, una sorta di apprendistato durato il tempo dei suoi studi e un’importante iniziazione alla didattica trasmissiva. Proprio perché parliamo di apprendistato, parliamo di formazione profonda e quanto appreso è diventato parte per così dire del Dna del docente, radicandosi al punto da rendere molto complessa qualsiasi mutazione. È grazie a questo apprendistato che – almeno in Italia – un laureato in qualunque disciplina si trasforma miracolosamente in insegnante. I laureati in discipline distanti dalla cultura pedagogica, quando iniziano a insegnare ritrovano da subito nel loro bagaglio cognitivo gli strumenti fondamentali per governare una classe in un ambiente di didattica trasmissiva. Ed è proprio questa padronanza, inconsapevole e profonda, dei gesti della didattica trasmissiva che rende improbabile e difficile un loro abbandono, anche solo parziale, soprattutto se il do- cente non è certo di ritrovare l’ordito di un nuovo tessuto di gesti e riti che gli consentano di affrontare il nuovo ambiente con la consapevolezza di avere gli strumenti per governarlo. Anche i docenti più motivati che decidono di intraprendere un percorso di didattica attiva rischiano, dopo poco tempo, di abbandonare l’impresa per trauma da cambio di ruolo. Abituati all’ambiente di classe tradizionale, in cui lo scenario prevalente è quello dell’insegnante che spiega e degli alunni che ascoltano e in cui per gli alunni è bandita qualunque forma di colloquio/collaborazione, i docenti si trovano catapultati in un ambiente completamente diverso. Le ‘nuove’ didattiche sono disorientanti? Con le didattiche attive gli studenti generalmente lavorano in gruppo, e nei casi migliori s’instaura un clima di collaborazione, di reciproco aiuto, in cui ognuno contribuisce con la propria forma mentis, con le proprie abilità. S’instaura insomma un clima positivo, di costruzione, in cui al silenzio e all’ordine auspicati nella didattica trasmissiva subentra un’entropia costruttiva, ma per molti docenti disorientante. In questo diverso ambiente il docente, da dominus assoluto del sapere si trasforma in coach: ruolo insolito e difficile, fonte di situazioni impreviste che lo mettono a disagio. Emblematico il dover ammettere la propria ignoranza di fronte a domande non immediatamente correlate alla propria materia e per rispondere alle quali deve prendersi tempo di ricerca e riflessione. Questa situazione è fisiologica nella nuova didattica, ma viene vissuta dai più come patologica e molti docenti che non riescono a tollerarla arrivano ad abbandonare qualunque velleità di cambiamento. Per non parlare della gestione delle conflittualità emergenti nei gruppi e delle difficoltà nell’utilizzo delle tecnologie. Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Le problematiche individuali, soggettive vissute dal docente si amplificano per il contesto organizzativo e relazionale nel quale si inseriscono. Le nuove didattiche faticano a sincronizzarsi con i ritmi della scuola tradizionale e il docente si trova sfasato rispetto ai colleghi impegnati in una didattica trasmissiva. L’introduzione di approcci didattici diversi, ad esempio di didattica per problemi e progetti, induce indubbiamente delle dissonanze rispetto alla didattica tradizionale. Un esempio per tutti: quello della valutazione. Dopo aver avviato un processo di didattica per progetti e aver impegnato attivamente i ragazzi anche per tempi prolungati, spesso il docente si trova senza gli elementi di valutazione individuale che gli sono richiesti. L’insegnante ha un’impressione complessiva di come stanno lavorando i gruppi, vede i prodotti intermedi e finali dei progetti, ma non ha in mano gli strumenti per valutare in modo documentato i singoli studenti. Rispetto ai colleghi che hanno proceduto con una didattica trasmissiva e che hanno in mano i pacchi di compiti in classe corretti e gli esiti delle interrogazioni attuate, il docente che si è prodigato in un lungo e impegnativo lavoro di Pbl (Project-based Learning) si trova spesso disarmato in sede di consigli di classe o scrutini. Per favorire il cambiamento servono esempi operativi L’opinione maturata dall’esperienza di chi scrive è che il disagio di molti docenti nell’avvicinarsi alle nuove metodologie didattiche nasca soprattutto dalla mancanza di proposte pedagogiche concrete che possano essere tradotte rapidamente nella vita quotidiana di classe. Il primo passo da compiere è quello di individuare le migliori strategie pedagogiche per ogni contesto e tradurle in pratiche operative per i docenti. Questa attività analitica e propositiva non può essere richiesta ai docenti (Norris et al., 2013). Pensare che gli insegnanti, già oberati da vari compiti, possano divenire progettisti di strategie e metodi didattici è illusorio e destinato a produrre esperienze fallimentari. Già si può ritenere un buon risultato se gli insegnanti riescono, grazie al carisma personale, all’impegno e alla buona volontà, a governare un processo di didattica attiva in modo ‘artigianale’ nella loro classe, senza la pretesa che riescano anche a definire e implementare metodi e modelli replicabili e scalabili. La creazione, ricerca e contestualizzazione di modelli didattici è compito da affidare a qualcuno competente e dedicato, che lavori in stretto rapporto con gli insegnanti in classe (Barab & Squire, 2004). Altrimenti, continueremo a dichiarare buone intenzioni e a raccontare secondo la tradizione accademica il grande pensiero pedagogico, ma non forniremo mai ai docenti la chiave per poterlo davvero tradurre in classe. Il docente ha bisogno di nuovi riti e di nuovi deliverables che concretizzino nella vita quotidiana di classe la strategia adottata. Chi scrive ha messo a punto un metodo, “Lepida Scuola”, per guidare il docente nella traduzione in classe della strategia di Project-based Learning, metodo in cui si fa un efficace utilizzo degli strumenti della valutazione autentica. Nel sito www.lepidascuola.org è possibile trovare una ricca documentazione e applicazioni concrete condotte da un gruppo di docenti che, dal nascere, hanno sperimentato e contribuito a migliorare il metodo che oggi è applicato in molte scuole di ogni ordine e grado. Focus Per cambiare la didattica servono modelli, esempi, nuove procedure, praticabili in classe … e le tecnologie della comunicazione e dell’informazione? Le tecnologie della comunicazione e dell’informazione (Tic) si stanno diffondendo in modo massivo in tutti i settori: dal mondo delle professioni a quel- 37 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Figura 1 – Constructivistic Learning Environment – Cle (Jonassen, 1999) Strumenti per la valutazione Fattori socio ambientali Le tecnologie possono aiutare a realizzare ambienti di apprendimento costruttivi 38 Casi Correlati Problemi Progetti Risorse per la Informazione Strumenti Collaborativi Strumenti Cognitivi lo della pubblica amministrazione, dalla sanità all’editoria. Più difficile è il loro ingresso nella scuola, intendendo in particolare l’inserimento in classe, nella didattica, ossia nel cuore del mestiere del docente. Diversamente da quanto succede altrove, qui le tecnologie non sono finalizzate a organizzare, velocizzare e automatizzare procedure. Nella scuola esse vanno a toccare un ambito veramente complesso e delicato: quello degli apprendimenti dei ragazzi e più in generale della loro educazione. È testimone di questa estrema difficoltà la sequenza dei numerosi insuccessi che hanno caratterizzato decenni di tentativi d’integrazione delle tecnologie digitali in aula (Cuban, 2003). Non avere le tecnologie in classe, di per sé non è un problema. Se l’insegnante non ne sente il bisogno, se l’inserimento del computer avviene solo per moda, la cosa migliore è lasciarlo fuori della classe. La questione vera è, e deve essere, pe- dagogica. In un ambiente di didattica trasmissiva qualunque tentativo d’inserimento fino a ora è stato vissuto più come impiccio che non come reale occasione di miglioramento. L’esperienza mostra che nella trasmissione dei contenuti anche un docente mediocre è più efficace del migliore computer. Dobbiamo perseguire piuttosto l’indicazione preziosa e ben nota di Jonassen: le tecnologie in classe “not to learn from, but to learn with” (Jonassen et al., 1999a). Ed è sul “to learn with” che avanziamo di seguito alcune indicazioni e proposte basate su una oramai solida evidenza sperimentale. Ambienti per l’apprendimento costruttivo Il docente per attuare efficacemente il cambiamento auspicato, ad esempio per adottare con successo una didattica per problemi e progetti, ha bisogno di un nuovo ambiente di apprendimento. Un modello efficace nella sua sem- Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Figura 2 – Modello del Doppio ambiente di apprendimento (E. Zecchi, 2007) Focus La formazione per cambiare gli ambienti di apprendimento dovrebbe essere essa stessa un ambiente di apprendimento plicità è quello a matrice costruttivista denominato Constructivistic Learning Environment (Cle) di Jonassen (Jonassen, 1999b). In figura 1 è possibile vedere quali e quanti siano gli elementi necessari per implementare il modello ed è facile intuire come nella scuola tradizionale sia pressoché impossibile realizzare questo tipo di ambiente per le troppe risorse richieste. Tuttavia, da quando Jonassen ha proposto questo modello circa 15 anni orsono, le tecnologie si sono evolute, anche verso i bisogni della didattica, in modo impressionante: si consideri che la società Google era appena nata e i social network non erano ancora apparsi. Le risorse richieste dal modello di Jonassen sono oggi facilmente implementabili con strumenti digitali in gran parte disponibili sul mercato, rendendo concretamente possibile quella che nel 1999 appariva come un’utopia. L’inserimento auspicato delle Tic, per quanto sempre complesso, è oggi non solo possibile, ma necessario. Un meta-ambiente di apprendimento Rimane la sfida di come formare i docenti; il problema è complesso e presenta importanti criticità da superare. Ipotizzare una didattica trasmissiva per formare il docente a pratiche costruttiviste sarebbe contradditorio: il docente deve invece fare, impegnarsi attivamente, esperire sul campo, così come raccomanda la didattica costruttivista. Per questo chi scrive ha proposto un modello di formazione chiamato “Doppio ambiente di apprendimento” (figura 2) in cui i docenti, impegnati in classe in una didattica per problemi e progetti (i piedini dell’astronave), s’incontrano tra loro, seguiti da un docente esperto in un ambiente di apprendimento (testa dell’astronave) analogo a quello ipotizzato per la classe con gli studenti. Qui i docenti apprendono sviluppando problemi e progetti, sia analoghi a quelli in cui sono impegnate le classi, sia di progettazione didattica, 39 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus (gz) La peer education è un metodo efficace di formazione degli adulti ossia finalizzati alla costruzione degli strumenti pedagogici che utilizzeranno nelle nuove pratiche didattiche. La necessaria presenza del docente esperto è la seconda criticità. La formazione più efficace per gli insegnanti è quella che possono ricevere da altri insegnanti: una sorta di peer education. Ciò richiede di trovare e preparare dei docenti che si rendano disponibili alla formazione dei colleghi, ma la selezione per eventuali distacchi è un problema complesso e il rischio di distaccare docenti non adeguati è molto elevato. Piattaforma digitale per i docenti 40 Da ultimo, ma non ultimo, vi è il problema della scalabilità delle soluzioni individuate, che amplifica ulteriormente le criticità evidenziate. Una possibile soluzione su cui siamo impegnati e che appare come una via molto promettente è quella di avvalersi anche in questo ambito delle tecnologie. Ad esempio, le Digital Teaching Platform sono tecnologie recenti e poco note che non servono per insegnare a distanza, ma nascono per essere utilizzate in ambienti dove l’insegnante è fisicamente presente e possono diventare dei fenomenali facilitatori per l’introduzione dei nuovi approcci didattici. Le tecnologie potrebbero quindi diventare l’ossatura dell’ambiente di apprendimento rinnovato e questa ossatura potrebbe aiutare l’insegnante non solo a insegnare, ma anche a educarsi all’approccio. È il caso di dire, con R. Schank, “Educational technology is the trojan horse of education”. Riferimenti bibliografici Barab S., Squire K. (2004), Design-Based Research: Putting a Stake in the Ground, in “The journal of the learning sciences”, 13 (1). Chadwick C. (2014), Has the Education Paradigm Begun Shift?, in “Educational Technology”, 54(5). Cuban L. (2003), Oversold and underused: Computers in the Classroom, Harvard University Press, Cambridge MA. Jonassen D., Peck K., Wilson B. (1999a), Learning with Technology, Merril by Prentice Hall. Jonassen D. (1999b), Designing Constructivistic Learning Environments, in Reigeluth C.M. (a cura di), Instructional design theories and models: A new paradigm of instructional theory, Vol. 2, Erlbaum, Mahwah NJ. Norris C., Soloway E., Chun Ming Tan, Chee-Kit Looi (2013), Inquiry pedagogy and smartphones: enabling a change in school culture, in “Educational Technology”, 53(4). Prensky M. (2014), The World Needs a New Curriculum, in “Educational Technology”, 54(4). Ringraziamenti Un particolare ringraziamento, per i preziosi suggerimenti, a Stefano Kluzer e Marco Incerti Zambelli che mi hanno seguito in modo costruttivamente dialettico durante la stesura del contributo. Enzo Zecchi Fisico teorico, ideatore del metodo Lepida Scuola, Reggio Emilia [email protected] http://www.lepidascuola.org Il docente pratico-riflessivo di Giuseppina Di Guida Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Una nuova antropologia professionale Pensiero riflessivo e sviluppo professionale dei docenti I mutamenti in atto nei profili professionali del mondo della scuola ci inducono a ripensare anche alla figurachiave dei processi di insegnamento/ apprendimento. Vogliamo provare a definire il profilo del docente da una prospettiva un po’ fuori dagli schemi, utilizzando non concettualizzazioni legate al ruolo istituzionale o alle aspettative sociali, ma nuove categorie che possiamo facilmente riconoscere come essenziali per lo sviluppo umano e per la fondazione di un’etica pubblica. Alla figura del docente ‘solista’, autocentrato e dai contorni ben definiti, si può così gradualmente venire a sostituire un’antropologia professionale che individua come tratti specifici dell’essere docente alcune delle capability indicate da Martha Nussbaum, quali l’interazione tra senso-immaginazione-ragione, l’intelligenza emotiva, la ragion pratica, l’affiliazione, il gioco, la progettazione del proprio spazio fisico e culturale. Appare fin troppo evidente che la riflessività dei docenti non può che essere necessariamente legata a contesti concreti e non può essere disgiunta dall’operatività. Il docente che riflette è infatti principalmente un operatore culturale che agisce per leggere e trasformare i contesti, esercitando la sua ragion pratica e le sue capacità poietiche. La competenza tecnico-scientifica non è più sufficiente a governare la complessità. La complessità sappiamo che ci mette a contatto con le incertezze, con il dubbio, con il rischio, con i conflitti di valore che possono essere affrontati soltanto se conflitti e dilemmi, conseguenti a questa complessificazione, vengono lasciati emergere per farne oggetto appunto di riflessione. La pratica riflessiva ha le sue fondamenta nel pensiero pedagogico di almeno un secolo. Basta rileggere Dewey, secondo cui il miglior modo di pensare è il pensiero riflessivo, quel tipo di pensiero che consiste nel ripiegarsi mentalmente su un soggetto e nel rivolgere ad esso una seria e continua considerazione. Nel saggio Il professionista riflessivo Schön usa il contesto di Dewey per sviluppare idee sul pensare come riflessione che sono state poi ampiamente discusse e diffuse nel corso degli ultimi decenni. Il lavoro di Schön sulla pratica riflessiva ha costituito un contributo fondamentale nei programmi di istruzione e formazione per insegnanti ed educatori che ne adottano le nozioni di base nell’organizzazione di esperienze e nei contenuti dell’insegnamento. Schön distingue la riflessione nel corso dell’azione e la riflessione sull’azione, arrivando alla fusione fra la conoscenza accademica e l’abilità fondata sulla pratica. Secondo questi sviluppi, il rapporto tra teoria e pratica d’insegnamento non può essere compreso solo in termini di regole, principi, tecniche derivanti dalla ricerca empirico-analitica e l’insegnamento non deve più essere visto solo in termini tecnico-razionali, con risposte strumentali e pratiche alle questioni teoriche. L’insegnamento riflessivo pone particolare attenzione agli scopi, ai valori, alle conseguenze sociali dell’educazione. Sebbene la pratica riflessiva venga già utilizzata sia nella formazione iniziale dei docenti che a livelli intermedi ed avanzati di carriera, ci sono ancora molte richieste di riforma verso una pedagogia riflessiva nello sviluppo professionale dei docenti. Per garantire un efficace ed efficiente sviluppo professionale nel sistema di istruzione, i programmi di formazione ed aggiornamen- Non bastano più gli approcci empirici o tecnico-razionali all’insegnamento, oggi entrano in gioco scopi, valori, dinamiche sociali 41 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Un docente riflessivo è in grado di orientarsi nelle situazioni complesse, attraverso l’osservazione e l’analisi ‘critica’ dei dati 42 to in servizio dovrebbero essere guidati e informati alla pratica riflessiva, alla teoria dell’apprendimento situato ed alla pedagogia critica, principi che hanno il potenziale di trasformare le pratiche di insegnamento tradizionali e sviluppare docenti che riflettono sul loro lavoro. La riflessione sul proprio lavoro permette al docente di: – verificare e valutare le proprie capacità e migliorarle; – valutare l’appropriatezza delle strategie didattiche e dei materiali scelti; – mettere in discussione i valori impliciti in quelle pratiche e riconsiderare gli obiettivi e gli scopi. Come riconoscere un docente riflessivo? Diviene fondamentale creare contesti professionali volti a implementare i virtuosismi riflessivi: la scuola è intesa come luogo di condivisione dei saperi, formazione reciproca, capitalizzazione delle competenze e della didattica. Per allestire un contesto adatto alla riflessività diventa essenziale e preliminare individuare i comportamenti attesi da un docente riflessivo. Cercheremo di definire i comportamenti attesi da un docente riflessivo, che abiti consapevolmente il territorio della complessità dei processi educativi, attraverso alcuni indicatori, correlati da specifiche domande. - Tolleranza dell’incertezza della situazione educativa In che modo il docente risponde all’incertezza della situazione educativa? Quali attività pone in essere? Qual è il suo grado di tolleranza dell’incertezza? Riesce a fronteggiare l’incertezza non solo con attività di problem solving, ma anche di problem setting? È capace di rispondere all’incertezza della situazione con la riflessione e con tentativi di ristrutturare la sua percezione del problema? O al contrario l’incertezza genera ansia e induce a definizioni e soluzioni superficiali e sbrigative, o addirittura alla paralisi dell’azione e del pensiero? - Osservazione dei dati e costruzione di inferenze Quanto un docente è capace di osservare i diversi aspetti della situazione, raccogliere e selezionare dati e costruire inferenze a partire dalla base di dati? In che modo utilizza i dati disponibili? - Costruzione di mappe cognitive per affrontare situazioni problematiche In che misura il docente coinvolto in un processo deliberativo riesce a costruire le proprie mappe della situazione problematica e a confrontarle con le mappe altrui? Riesce a integrarle in una mappa pubblica della situazione, che rifletta le relazioni tra valori e presupposti e anche la molteplicità delle diverse percezioni che stanno alla base del problema? - Attivazione di una struttura dialogica con la comunità professionale Il docente è in grado di intrattenere conversazioni con tutti i soggetti coinvolti nei processi di insegnamento/apprendimento? È propenso a condividere i materiali del suo lavoro? Quanta cura mette il docente nel mantenimento della struttura dialogica? La struttura dialogica è aperta a tutti o è molto selettiva? Quanto sistematicamente utilizza i processi di domanda e risposta per scambiarsi informazioni e punti di vista ed eventualmente per costruire un punto di vista comune? - Discutibilità pubblica degli assunti e dei valori Gli assunti vengono trattati come ipotesi tra molte altre possibili oppure vengono dati tacitamente per scontati, come basi non discutibili della discussione? In che misura tali valori vengono dichiarati pubblicamente e sono sottoposti a Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Particolare del murales (fn) critica con la ricerca di dati che possano eventualmente confutarli? - Condivisione di una memoria collettiva Che valore dà il docente alla memoria dell’esperienza collettiva passata? Come tale memoria viene costruita e comunicata all’interno della comunità professionale? - Modalità di risposta all’errore In caso di errore è capace il docente di ristrutturare la percezione del problema e di rivedere il modello di comportamento messo in atto? - Trattamento dei dilemmi Di fronte a conflitti di valore quali comportamenti tende ad assumere il docente? È consapevole del conflitto o lo ignora? Se è consapevole preferisce il compromesso e la mediazione oppure si mette in gioco per la creazione di nuovi valori? - Coerenza tra valori dichiarati e comportamenti concreti In che modo il docente verifica la coerenza delle teorie dichiarate sulla situazione problematica con i suoi comportamenti concreti? È incline o propenso a farlo pubblicamente? In che misura, per esempio, verifica che i valori e le regole per decidere consensualmente vengono poi onorati nella pratica? Valori in gioco: consapevolezza e conflitti, coerenza dei comportamenti, orientamento all’innovazione - Abbandono di routine difensive a favore della sperimentazione In che misura il docente attiva routine difensive della propria prassi? In che misura è aperto all’innovazione e alla sperimentazione? Come si dispone rispetto alle sfide educative? - Orientamento alla sperimentazione e al gioco esplorativo Il docente è capace di progettare e di condurre esperimenti pratici locali per esplorare la complessità di una situazione o di un sistema? È capace ad esempio di assumere un atteggiamento sperimentale e quasi di ‘gioco esplorativo’ per meglio comprendere dove va la situazione e per saggiare possibilità di azione che siano più in armonia con la complessità strutturale ed evolutiva della situazione? 43 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Focus Riesce a rinunciare al controllo unilaterale della situazione come obiettivo strategico esclusivo (implicito o esplicito che sia)? Oltre la retorica dell’ineffabilità e il riduzionismo della trascrizione burocratica Per uscire dall’autoreferenzialità burocratica, occorre sperimentare nuove forme di documentazione e di rappresentazione professionale La comunicazione sull’attività didattica del docente è ridotta oggi per lo più alle forme stereotipate della scrittura formale, al mero trasferimento dell’informazione attraverso le sue varie forme istituzionali (programmazioni, relazioni, valutazioni, ecc.), con brevi momenti di tipo dialogico con l’utenza e con la comunità professionale di cui spesso non resta alcuna traccia. Una buona pratica teorica ha invece bisogno di nuove parole per definirsi e nuovi strumenti per riconoscersi in una nuova identità sia individuale che collettiva. La riflessività del docente necessita di una narrazione specifica, più vicina alle forme della rappresentazione che non a quelle della documentazione, e di una validazione i cui parametri sono tutti da costruire. Un approccio narrativo 44 Un contributo significativo può giungere sicuramente dalla psicosociologia, che suggerisce ad esempio di praticare l’intervista con un critical friend, il diario, la narrazione autobiografica, la drammatizzazione o role playing, il portfolio delle competenze, la narrazione di storie o story telling, la scrittura drammaturgica o story board, la documentazione anche con i nuovi strumenti della multimedialità e delle tecnologie dell’informazione. Queste proposte vanno tutte nella direzione auspicata di accompagnare il docente nella crescita e nello sviluppo della sua professionalità, tema questo di grande rilevanza anche sociale. È necessario dunque, a nostro avviso, che queste rappresentazioni diventino modalità comunicative sempre più praticate nelle istituzioni scolastiche se si vuole che il docente esca dall’autoreferenzialità e sia sempre più consapevole che il lavoro in classe, nella sua officina, è un’operazione culturale nel senso più pieno e pregnante del termine. Il gruppo di lavoro che opera all’interno d e l l ’ a s s o c i a z i o n e p ro f e s s i o n a l e PVMScuola per la qualificazione della professionalità docente è coordinato dall’autrice dell’articolo e costituito da: Valeria Brunetti (docente di scuola secondaria – Puglia), Vanna D’Onghia (docente di scuola secondaria – Puglia), Mariella Proietta (docente di scuola secondaria – Lazio) e Benedetta Zaccarelli (docente di scuola primaria – EmiliaRomagna). Riferimenti bibliografici e normativi L. Mortari, Il pensare riflessivo nella formazione, Carocci, Roma, 2011. D.A. Schön, Il professionista riflessivo, Edizioni Dedalo, Bari, 1993. M. Nussbam, Creare capacità, Il Mulino, Bologna, 2012. G.F. Lanzara, La deliberazione come indagine pubblica, in L. Pellizzoni (a cura di), La deliberazione pubblica, Meltemi, Roma, 2005. F. Olivetti-Manoukian, Produrre servizi. Lavorare con oggetti immateriali, Il Mulino, Bologna, 1998. http://www.pvmscuola.it/ Giuseppina Di Guida Presidente regionale per la Campania (Area dirigenti scolastici) e componente del CdA dell’associazione professionale PVMScuola, esperta in processi educativi [email protected] I docenti italiani nel Rapporto Talis di Gemma De Sanctis Che cosa è Talis Talis (Indagine internazionale sull’insegnamento e apprendimento) è l’indagine dell’Ocse che ha l’obiettivo di guardare ai problemi della qualità ed efficacia dell’istruzione avendo come punto di osservazione gli insegnanti, le condizioni in cui lavorano, le loro opinioni ed esperienze. Le premesse alla base dell’indagine sono chiaramente esposte nella prefazione al rapporto a cura dell’Ocse, che presenta i risultati dell’edizione 2013 dell’indagine (1). “Nella nostra epoca, le competenze necessarie ai giovani per inserirsi nel mondo del lavoro e contribuire efficacemente alla crescita sono in costante cambiamento. Tuttavia dal quadro generale emerge che i sistemi educativi faticano ad adeguarsi al ritmo veloce del mondo che li circonda. Le scuole non sembrano essere troppo cambiate nell’ultimo quarto di secolo”. Ed è innegabile che “sono gli insegnanti a esercitare l’influenza più rilevante sull’apprendimento degli studenti” (2). I temi oggetto di analisi, su cui gli insegnanti e i dirigenti di scuola secondaria inferiore (3) sono stati invitati a riferire, riguardano, tra l’altro, la formazione iniziale e lo sviluppo professionale dei docenti, gli stili di dirigenza, le pratiche didattiche, la valutazione formale e informale del lavoro dei docenti, la 1) OECD (2014), Talis 2013, Results: an international Perspective on Teaching and learning, OECD publishing, http://dx.doi. org/10.1787/9789264196261-en. soddisfazione lavorativa e la fiducia nelle proprie capacità professionali. Talis 2013 è la seconda indagine con queste caratteristiche, dopo la prima svoltasi nel 2008. Rispetto a Talis 2008 s’è accresciuto il numero dei partecipanti (34 Paesi rispetto ai 23 di Talis 2008) (4). Nel valutare i risultati, occorre ricordare che le risposte fornite rappresentano pareri, opinioni e percezioni degli intervistati. Come è il caso delle indagini basate su questionari, i risultati sono soggettivi e possono differire da quelli di altre procedure di ricerca di tipo oggettivo. Il profilo dei docenti italiani: anzianità e genere Chi sono gli insegnanti? Qual è il loro profilo professionale? Come esercitano il loro mestiere?A queste domande Talis fornisce le ‘sue’ risposte in chiave comparata iniziando a esaminare il profilo dei docenti dai punti di vista demografico e professionale, nonché del contesto in cui lavorano. In Italia, più che altrove, il corpo insegnante è caratterizzato da due evidenti squilibri: un’elevata presenza femminile (79% vs 68% media dei Paesi Talis) abbinata a una struttura per età sbilanciata verso la mezza età (mediamente 49 anni vs 43 dei Paesi Talis) (figura 1). È un quadro di per sé problematico che meriterebbe un’analisi approfondita tanto sui motivi che hanno portato uomini e donne a sviluppare scel- Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Osservatorio internazionale La ricerca Talis dell’Ocse descrive caratteristiche del corpo docente, ma anche opinioni, percezioni e aspettative degli insegnanti italiani, con uno sguardo internazionale 4) Paesi Ocse che hanno partecipato a Talis 2013: Alberta (Canada), Australia, Cile, 2) OECD (2014). Corea, Danimarca, Estonia, Finlandia, 3)Il focus principale di analisi di Talis 2013 è, Fiandre (Belgio), Francia, Giappone, come per Talis 2008, la scuola secondaria Inghilterra (GB), Islanda, Israele, Italia, inferiore. Alcuni Paesi, tra cui l’Italia, hanno Messico, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, ampliato l’indagine anche agli altri livelli di Portogallo, Repubblica Ceca, Repubblica istruzione. I risultati delle indagini Slovacca, Spagna, Svezia, Stati Uniti. Paesi ‘facoltative’ saranno presentati e economie partner: Abu Dhabi (UAE), estesamente in un rapporto che l’Ocse Brasile, Bulgaria, Croazia, Cipro, Lettonia, pubblicherà successivamente. Malesia, Romania, Serbia, Singapore. 45 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Osservatorio internazionale Figura 1 – L’insegnante ‘tipo’ in ITALIA secondo i dati Talis (scuola secondaria inferiore) Il profilo dell’insegnante ‘tipo’ nei PAESI TALIS Il 68% è donna Insegnanti più anziani, con più esperienza ma con minore formazione. Le situazioni critiche riguardano l’attenzione ai bisogni educativi speciali Ha in media 43 anni Il profilo dell’insegnante ‘tipo’ in ITALIA Il 79% è donna Ha in media 49 anni Il 98% ha completato studi di livello universitario o equivalente Il 96% ha completato studi di livello universitario o equivalente Il 90% ha completato un programma di formazione iniziale all’insegnamento Il 79% ha completato un programma di formazione iniziale all’insegnamento Ha in media 16 anni di esperienza come insegnante Ha in media 20 anni di esperienza come insegnante L’82% è impiegato a tempo pieno e 83% ha un contratto a tempo indeterminato L’89% è impiegato a tempo pieno e 82% ha un contratto a tempo indeterminato Insegna in una classe con in media 24 studenti Insegna in una classe con in media 22 studenti Fonte: Miur, L’Italia nei dati Talis. Risultati chiave dell’indagine Talis su insegnamento e apprendimento, 2014. te divergenti rispetto alla professione d’insegnante nella scuola secondaria quanto sulle sue conseguenze. A bilanciare la maggiore anzianità anagrafica interviene, peraltro, il maggior patrimonio di esperienza professionale dei nostri docenti, che hanno in media 20 anni di anzianità di servizio contro 16 nei Paesi Talis. Un ambiente scolastico in chiaroscuro Nel complesso, gli indicatori sul clima d’istituto segnalano che in Italia i docenti lavorano in contesti abbastanza soddisfacenti rispetto ai colleghi dei Paesi Talis. La qualità della vita scola- stica sembra contraddistinta da un clima professionale positivo così come da buoni rapporti tra studenti e docenti. Cionondimeno, altre informazioni fornite dai dirigenti scolastici evidenziano ambienti di lavoro segnati da numerose carenze e criticità (tavola 1). Oltre 3/4 dei docenti italiani (78%) lavorano in scuole dove la mancanza di personale di supporto alla didattica ostacola “in qualche misura se non molto” la capacità della scuola di offrire un’istruzione di qualità (47% dei Paesi Talis). Più della metà (58%) lavora in scuole dove c’è carenza di docenti di sostegno per gli studenti con bisogni speciali d’apprendimento (48% Paesi Talis). Tavola 1 – Le risorse nelle scuole – Percentuale di docenti di scuola secondaria inferiore che lavora in scuole i cui dirigenti hanno indicato che la carenza di questi fattori ostacola “in qualche misura o molto” l’efficacia dell’insegnamento nella scuola Mancanza di personale Mancanza o inadeguatezza di materiale didattico di docenti di Scarsità o di supporto sostegno per di docenti di di di Insufficiente inadeguatezza di alla gli studenti abilitati o materiali computer per software accesso ad materiali didattica Bes competenti didattici l’insegnamento didattico Internet per la biblioteca Italia 77,5 58,0 38,3 56,4 56,0 53,8 53,8 43,6 Nord 80,0 60,1 51,9 50,3 59,8 52,9 48,3 31,4 Centro 81,8 72,3 33,0 68,4 72,9 62,8 58,5 52,3 Sud-Isole 72,8 49,4 26,3 57,3 44,5 50,8 41,6 52,6 Media TALIS 46,9 48,0 38,4 26,3 38,1 37,5 37,5 29,3 Fonte: Ocse (2014), tavola 2.19. Per i dati delle aree geografiche elaborazioni su database nazionale TALIS. 46 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Dal lato delle risorse materiali, il 56% dei docenti opera in scuole penalizzate dalla scarsità o dall’inadeguatezza sia di materiali didattici sia di computer e software utili per l’insegnamento, rispetto a valori mediamente più contenuti nei Paesi Talis (rispettivamente 26% e 38%). Infine, poco meno della metà dei docenti italiani lavora in scuole i cui dirigenti scolastici hanno segnalato un insufficiente accesso a Internet (47%) e l’insufficienza di materiali per la biblioteca (44%) a fronte di una media dei Paesi Talis rispettivamente pari al 30% e al 29%. Figura 2 – Percentuale di insegnanti che hanno svolto attività di sviluppo professionale nei 12 mesi (o 18 mesi) precedenti l’indagine TALIS Poco formati? La criticità del quadro si conferma allorché si passa a considerare il profilo professionale del corpo docente. In Italia, il 79% dei docenti riferisce d’aver completato una formazione iniziale professionalizzante contro il 90% della media Talis. Il nostro Paese è agli ultimi posti nella classifica internazionale, in posizione migliore in ambito europeo solo alla Repubblica Ceca. Rispetto, poi, agli altri Paesi, la formazione iniziale dei nostri docenti risulta carente soprattutto nella pratica d’insegnamento. Nel complesso dei Paesi Talis il 67,3% dei docenti ha dichiarato che la formazione ricevuta comprendeva esperienze di tirocinio in classe per tutte le materie d’insegnamento, in Italia solo il 36%. Tra i docenti tuttora in servizio, quindi, una quota consistente ha avuto accesso all’insegnamento senza aver compiuto specifici percorsi professionalizzanti. L’analisi a livello nazionale segnala, comunque, che per alcune categorie, ad esempio i docenti più giovani, i dati si allineano a quelli internazionali. La crisi dell’aggiornamento Non si può peraltro dire che le cose vadano meglio quando si considera la formazione professionale in servizio o sviluppo professionale. Nota: A Talis 2008 parteciparono 24 Paesi, alcuni dei quali non hanno partecipato all’edizione 2013. Il campione 2008, non comprendeva insegnanti di sostegno a studenti con Bes. Per confrontare correttamente il 2008 e il 2013 l’Ocse ha eseguito opportuni aggiustamenti dei dati. Fonte: Ocse (2014), elaborazione grafica su dati di tavola 4.6c Il tasso di partecipazione dei docenti italiani ad attività di sviluppo professionale è uno dei più bassi tra i Paesi Talis, uguale al 75% contro una media dell’88%. Si è lontani di oltre 20 punti percentuali dai valori massimi del Canada-Alberta (98%) e dell’Australia (97%), più vicini invece ai valori registrati in Francia (76%) e in Finlandia (79%). Le differenze tra i Paesi possono essere ricondotte alle diverse disposizioni normative/contrattuali che regolano la formazione in servizio nei diversi contesti nazionali. In Italia, come è noto, la formazione in servizio si configura, tuttora, come un diritto-dovere che può essere esercitato in modo facoltativo. Questo può spiegare parzialmente il divario rispetto agli altri Paesi. Resta il fatto che i dati rilevano un vistoso e preoccupante calo di quasi 10 punti Osservatorio internazionale Oltre a una formazione iniziale poco orientata all’operatività, in Italia è drammatica la situazione dell’aggiornamento in servizio, che sta subendo un drastico ridimensionamento 47 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Osservatorio internazionale La formazione in servizio viene considerata costosa, inefficace e senza incentivi, pur essendo riconosciuta indispensabile Tavola 2 – I bisogni di sviluppo professionale espressi dagli insegnanti. Docenti che hanno indicato un elevato bisogno di sviluppo professionale (in %) Italia Competenze nell’uso didattico delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic) Insegnamento agli studenti con Bes Nuove tecnologie nel contesto lavorativo Comportamento degli studenti e gestione della classe Didattica in contesti multilingui e multiculturali Competenze pedagogiche e didattiche per la/e disciplina/e insegnata/e Valutazione degli studenti Didattica delle competenze trasversali (es. problem solving, imparare ad apprendere) Approcci all’apprendimento individualizzato Orientamento degli studenti Approcci allo sviluppo di competenze trasversali intersettoriali per esigenze di un futuro impiego o studio Sapere e competenze nella/e disciplina/e insegnata/e Conoscenza del curricolo Gestione e amministrazione della scuola 35,9 18,9 32,3 32,2 28,6 27,4 22,3 17,8 13,1 12,7 23,5 9,7 22,9 11,6 22,3 11,0 22,1 18, 12, 12,4 16,4 10,4 16,6 11,3 9,9 8,7 7,9 8,7 Fonte: Ocse (2014), tavola 4.12 percentuali rispetto ai valori registrati nella precedente edizione di Talis 2008 (figura 2). Le tipologie di formazione svolte dai docenti e, ancor più, i bisogni formativi manifestati vanno nella direzione di indicare che, al di là della disponibilità personale, in Italia lo sviluppo professionale è carente soprattutto dal lato dell’offerta. I contenuti della formazione in servizio 48 Media Paesi TALIS In Italia, i docenti, oltre ad aver svolto esperienze di formazione su contenuti più tradizionali (aggiornamento sui saperi e competenze delle discipline insegnate), hanno anche partecipato in misura uguale, se non maggiore alla media Talis, a iniziative di formazione incentrate sull’uso delle nuove tecnologie nella didattica (53% vs 54%) e nell’ambiente lavorativo (45% vs. 40% Paesi Talis), nonché sulle specifiche competenze necessarie per l’insegnamento agli studenti con bisogni speciali d’apprendimento (44% vs 32%) .Queste ultime sono an- che le aree in cui i docenti italiani più sentono bisogno di crescita professionale. In particolare, registra un salto notevole rispetto a Talis 2008 l’esigenza di arricchire le competenze nell’uso delle nuove tecnologie, diventata nel 2013 la prima nella graduatoria dei bisogni formativi (36%). È un segnale di accresciuta consapevolezza dell’efficacia dei nuovi strumenti didattici rispetto ai quali i nostri docenti percepiscono un loro ritardo. Infine, le risposte dei docenti ai quesiti in tema di supporti per la formazione in servizio confermano da un’altra angolatura che in Italia la mancanza di sostegno agisce nel senso di demotivare la partecipazione allo sviluppo professionale. In particolare, il 53% dei docenti riferisce di essere scoraggiato dal costo elevato della formazione (43,8% media Talis), il 67% ritiene inadeguata l’offerta formativa proposta (media Talis 39%). Più di tutto incide negativamente l’assenza d’incentivi che più dell’80% dei docenti percepisce come un freno allo sviluppo professionale (48% media dei Paesi Talis). Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Pratiche professionali di routine Talis esamina le pratiche professionali dei docenti distinguendo tra forme di collaborazione lavorativa più ordinarie, quali lo scambio di materiale, le riunioni collegiali, la collaborazione per definire standard comuni di valutazione, la discussione tra colleghi sui progressi d’apprendimento di singoli discenti, e forme di collaborazione che presuppongono rapporti professionali più avanzati: insegnamento in compresenza, osservazione del lavoro in classe del collega, attività e progetti in comune, attività di sviluppo professionale collaborativo. Il questionario Talis chiedeva ai docenti di segnalare con quale frequenza fossero praticati i rapporti professionali sopra indicati. Si osserva che in Italia il profilo delle pratiche professionali dei docenti appare sbilanciato verso schemi di attività più ordinari, che nella letteratura in campo educativo sono considerati di cooperazione per lo scambio e il coordinamento più che di collaborazione professionale. Un confronto all’acqua di rose… Quasi tutti i docenti instaurano con i loro colleghi relazioni che si riconducono sostanzialmente a quelle che si hanno durante la partecipazione a riunioni collegiali e allo scambio di idee sui progressi di apprendimento di singoli alunni. Seguono le altre pratiche collaborative volte a garantire standard comuni di valutazione degli studenti e lo scambio del materiale didattico. Poco frequenti sono in Italia forme di collaborazione più strette quali l’osservazione del lavoro in classe dei colleghi. Circa il 69% dei docenti italiani dichiara di non osservare mai quanto fanno in classe gli altri colleghi contro il 45% della media Talis. In questo la posizione dell’Italia è prossima a quella della Finlandia (70%) e della Francia (78%), distante invece da quella della Polonia e dell’Inghilterra dove l’osservazione dei colleghi in classe è più diffusa e solo il 17-18% dei docenti dichiara di non farlo mai. L’impegno a partecipare ad attività d’apprendimento collaborativo-professionale e a progetti comuni su diverse classi e gruppi di studenti sono relativamente più diffusi in Italia, ma in ogni caso in misura minore rispetto alla media dei Paesi Talis. Osservatorio internazionale Pratiche didattiche poco attive L’attenzione di Talis è rivolta soprattutto all’impiego in classe delle pratiche di insegnamento definite ‘attive’, tendenti a motivare e coinvolgere lo studente nell’apprendimento; sono considerate attive tre tipologie di pratiche: - far lavorare gli studenti in piccoli gruppi, - impegnarli su progetti di almeno una settimana, - far loro impiegare le Tic per i progetti o nel lavoro in classe. Controllare frequentemente i quaderni degli esercizi e i compiti svolti a casa dagli studenti in Italia è praticato dall’85% dei docenti, nei paesi Talis dal 72%. Sempre in Italia l’81% dei docenti riferisce di trasmettere nuove conoscenze facendo riferimento alla soluzione di problemi della vita quotidiana o del lavoro, altrove il dato è del 68%; infine, far ripetere gli esercizi fino a quando gli studenti non abbiano ben appreso i contenuti è praticato con frequenza in Italia dal 78% dei docenti, contro il 67% nei Paesi Talis. Viceversa, le pratiche attive d’insegnamento appaiono sottoutilizzate. Solo il 32% dei docenti fa lavorare frequentemente gli studenti in piccoli gruppi per soluzioni comuni dei problemi (47% Paesi Talis), il 31% fa impiegare agli studenti le Tic (38% Paesi Talis). In linea con la tendenza internazionale il 27% dei docenti che dichiara di impegnare gli studenti in progetti più complessi di almeno una settimana. Da rilevare comunque che una quota significativa di docenti indica di ricorrere con frequenza a pratiche differenziate in relazione al livello dei discenti (58% Italia; 44% Talis) (tavola 2). In Italia le metodologie attive (piccoli gruppi, uso delle Tic, progetti) sono sottoutilizzate e la collaborazione tra docenti consiste solo in uno scambio di vedute 49 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Osservatorio internazionale Quanto ai metodi di valutazione degli apprendimenti, spicca il dato sull’interrogazione orale individuale, utilizzato nei Paesi Talis dal 49% degli insegnanti, in Italia dall’80%. Tra il dire e il fare Almeno a parole gli insegnanti auspicano un lavoro più autonomo per gli studenti, nei fatti però… Ciò che avviene in classe è in stretto rapporto con le opinioni più generali dei docenti in merito al processo d’insegnamento-apprendimento e al loro ruolo in questo processo. Al riguardo i docenti italiani di secondaria di I grado manifestano un atteggiamento non del tutto chiaro, dietro il quale è possibile scorgere la mancanza di una precisa visione di riferimento. Il 91,5% dei docenti italiani, valore non distante dalla media Talis, condivide l’affermazione che compito del docente è facilitare le ricerche autonome degli studenti (Talis 94,5%). Inoltre, in grande maggioranza (87%) condividono l’idea che il ragionamento e la riflessione sono più importanti degli specifici contenuti curricolari. Tuttavia, quando si chiede loro se sono d’accordo che gli studenti apprendono meglio trovando per conto proprio le soluzioni ai problemi, i docenti italiani si rivelano poco propensi a consentire che gli studenti costruiscano e organizzino in modo autonomo le proprie le conoscenze. Percezioni di autoefficacia degli insegnanti e soddisfazione professionale Talis 2013 ha indagato sul senso di autoefficacia e di soddisfazione sul lavoro dei docenti. In tutti i Paesi, la grande maggioranza degli insegnanti ritiene di svolgere un’azione formativa efficace nei confronti degli studenti. Al contempo si dichiara soddisfatta del proprio lavoro, da cui riceve gratificazioni. In Italia, la quasi totalità dei docenti (98%) ritiene di saper portare gli studenti a credere nelle loro capacità (86% Talis), sente di saperli aiutare ad apprezzare il valore dell’apprendimento (95% vs. 81%) e di saper “motivare quelli che dimostrano uno scarso interesse per l’attività scolastica” (87% vs. 70%). In ciò sembrano favoriti da un positivo clima di classe, in cui è contenuto entro limiti tollerabili il tempo distolto dall’insegnamento. Di pari passo, il 93% dei nostri docenti riferisce di “essere soddisfatto dei risultati che ottiene nella scuola in cui presta servizio”, l’86% “sceglierebbe ancora di diventare insegnante” (78% Talis). In sintesi, il 94% afferma che “tutto considerato sono soddisfatto del mio lavoro” (91% Talis). Faccio riferimento a un problema della vita quotidiana o del lavoro per mostrare l’utilità di nuove conoscenze Lascio esercitare gli studenti con lavori simili fino a quando non ritengo che ogni studente abbia compreso i contenuti Presento un riassunto di contenuti che gli studenti hanno appreso recentemente Affido lavori differenti agli studenti che mostrano difficoltà di apprendimento e/o a quelli che vanno avanti più velocemente Gli studenti lavorano in piccoli gruppi per trovare soluzioni comuni ai problemi e ai compiti assegnati Gli studenti impiegano le TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione) per i progetti o il lavoro in classe Gli studenti lavorano a progetti che richiedono almeno una settimana di impegno Italia Media TALIS Controllo i quaderni degli esercizi dei miei studenti, o i compiti per casa Tavola 2 – Pratiche didattiche utilizzate dagli insegnanti in classe. Percentuale di docenti che in riferimento a una “classe campione” hanno dichiarato di utilizzare frequentemente (spesso o in tutte le lezioni o quasi) le seguenti pratiche didattiche 84,6 72,1 81,0 68,4 78,4 67,3 63,8 73,5 58,2 44,4 31,9 47,4 27,5 27,5 30,9 37,5 Fonte: Ocse (2014), tavola 6.1 50 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Figura 3 – Percezioni sul prestigio sociale dell’insegnamento. Percentuale di insegnanti di scuola secondaria inferiore e superiore che sono “d’accordo o molto d’accordo” con la seguente affermazione: Fonte: Elaborazione grafica su data base nazionale Talis. … e il prestigio? In questo quadro che induce lecitamente all’ottimismo, si distacca il dato sullo scarso prestigio che secondo gli insegnanti la società attribuirebbe alla loro professione. Nei Paesi Talis meno di un terzo degli insegnanti ritiene che la professione insegnante sia adeguatamente apprezzata dalla collettività (31%), valore che scende al 18% nei Paesi europei. In Italia solo il 12% degli insegnanti ritiene che l’insegnamento sia apprezzato a livello sociale, dato che colloca l’Italia tra i Paesi con i valori più bassi. Vale la pena di evidenziare alcune differenze che si costatano all’interno del Paese. I docenti più pessimisti sono quelli del Centro-Nord dove oltre il 90% non ritiene l’insegnamento valorizzato a livello sociale. Relativamente meno critici appaiono i docenti delle regioni meridionali, dove gli insoddisfatti si ‘circoscrivono’ all’81% (figura 3). Soddisfazione e crescita professionale Attraverso la compilazione di un complesso questionario, i docenti italiani hanno rilevato uno spaccato significa- tivo della loro professione. Benché già noti nel contesto nazionale, questi dati acquistano diverso rilievo e spessore quando considerati in un quadro di confronto internazionale. In base ai dati Talis i docenti italiani manifestano tanto un elevato grado di soddisfazione professionale (anche superiore a quello dei colleghi di altri Paesi) quanto una elevata fiducia sul buon esito del proprio lavoro, sulla capacità di motivare gli studenti ad apprezzare il valore di apprendere. Questo nonostante difficili condizioni di contesto: insufficienza di strumenti per la didattica, presenza irrisoria di altre professionalità di supporto, scarso sostegno nella formazione in servizio. Offrire ai docenti adeguate opportunità di crescita professionale si configura per l’Italia uno snodo fondamentale, tanto più necessario se si considera che il nostro corpo docente ha una formazione anteriore ai nuovi sviluppi della tecnologie educative e alle loro evoluzioni ed è entrato nella professione in periodi in cui la popolazione scolastica poneva meno problemi di gestione della classe, essendo più omogenea sia dal punto di vista sociale che etnico. D’altra parte, l’efficacia con cui i docen- Osservatorio internazionale In Italia la percezione da parte degli insegnanti della stima sociale verso di loro è ridotta al lumicino 51 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Osservatorio internazionale Per migliorare la propria immagine sociale i docenti devono essere coinvolti nei processi decisionali sulle innovazioni Figura 4 – Percezioni sul prestigio sociale dell’insegnamento. Percentuale di insegnanti di scuola secondaria inferiore e superiore che sono “d’accordo o molto d’accordo” con la seguente affermazione: la professione insegnante è valorizzata nella società Fonte: Ocse (2014). ti dichiarano di saper intervenire sull’apprendimento degli studenti non sembra tener conto che è il risultato di pratiche e approcci educativi oggi ritenuti superati, portatori di risultati modesti, non corrispondenti ai saperi e alle abilità richieste dalla società. Tra gli obiettivi per lo sviluppo professionale decisivo appare quello di fornire agli insegnanti un adeguato supporto volto a promuovere la formazione di atteggiamenti e convinzioni in cui prevalgano stili di insegnamento aperti all’uso delle pratiche didattiche attive. Si tratta di dare migliore sostegno all’uso di competenze tecniche che da sole non appaiono sufficienti a generare apprendimento. Insegnanti poco coinvolti 52 Nonostante la soddisfazione dichiarata i docenti italiani percepiscono scarso apprezzamento attorno alla loro professione. L’ampia diffusione di questa impressione nella maggioranza dei Paesi è indicativa di una condizione problematica della figura insegnante, della sua efficacia e del suo prestigio, che investe la categoria ben oltre i confini nazionali. Nello specifico del nostro Paese vari elementi possono aver contribuito negli ultimi tempi a rafforzare questa sensazione. La scuola è stata parte consistente del generale contenimento della spesa e tanto gli studenti quanto gli insegnanti hanno risentito del processo di razionalizzazione che ha investito il sistema educativo, in termini di servizi, di ambienti e di blocco retributivo. Su tale problema il rapporto dell’Ocse offre alla politica un interessante spunto di riflessione sulle iniziative che si possono prendere per attenuare il disagio. Le analisi indicano in tutti i Paesi una forte associazione positiva tra la partecipazione degli insegnanti ai processi decisionali e la probabilità di percezione positiva dell’apprezzamento sociale dell’insegnamento. Pur non spingendosi in ulteriori approfondimenti, i dati suggeriscono secondo l’OCSE che un modo per migliorare il rapporto tra gli insegnanti e la società è quello di coinvolgerli sistematicamente nei processi decisionali della scuola. Gemma De Sanctis Funzionario statistico Miur – Dipartimento Programmazione e gestione risorse umane, National Project Manager di Talis 2013 [email protected] Middle management: dalle figure di sistema ai quadri intermedi Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Professionalità AA.VV. in modalità di scrittura cooperativa Valorizzazione professionale e governance La valorizzazione delle competenze del docente è un tema di riflessione sempre attuale. Un primo tentativo di valorizzare le competenze professionali, attraverso l’assegnazione di responsabilità, va rintracciato nel CCNL scuola 2003 con l’individuazione delle cosiddette funzioni strumentali, evoluzioni contrattuali delle precedenti funzioni obiettivo (1999). Tali figure avrebbero dovuto assumere la funzione di middle leadership con l’obiettivo di dare concretezza alla libertà progettuale delle istituzioni scolastiche autonome. I contributi provenienti dalle teorie delle organizzazioni e dai modelli teorici della complessità possono aiutare le scuole a governare i processi e a utilizzare le risorse in modo efficace e condiviso, ma nessuna vera rivoluzione può compiersi se la coevoluzione non incide anche su una complessiva riconfigurazione dell’organizzazione scolastica. Complessità e modelli di riferimento Le principali scuole di pensiero definiscono l’organizzazione in modi diversi. H. Fayol introduce una metodologia basata sulla divisione del lavoro e su livelli esecutivi ‘corti’. Weber parla di modelli di gestione fondati sulla routinizzazione dei processi all’interno delle pubbliche amministrazioni ed elabora un modello ‘burocratico’ di riferimento, espressione di una catena di potere basata su una rigida struttura gerarchica. Nel primo Novecento, comunque, tutti i maggiori studiosi delineano un sistema statico, basato sul controllo rigido e diretto dei processi produttivi. Più re- Il leader risonante Goleman parla del leader risonante, come di colui che è capace di far emergere il meglio da ciascuno, incrementando l’efficacia dell’organizzazione. E non si è leader sempre allo stesso modo: chi esercita tale funzione, infatti, deve sapersi ‘adattare’ alle spinte degli assetti socio-umani, senza mai perdere di vista mission e obiettivi dell’organizzazione. Per essere riconosciuti leader bisogna essere in grado di gestire con equilibrio le situazioni e mobilitare in maniera efficace le risorse a disposizione. Leader e follower Il leader, pur non avendo un ruolo funzionale, è in grado di ampliare gli interessi dei follower, attraverso la capacità di ispirare consapevolezza e consenso, generando lealtà, stimolando le competenze, valorizzando e gestendo le differenze. Quello del dirigente scolastico è un ruolo di confine, fra interno-esterno, amministrativo-tecnico, conservativo-innovativo. centi invece sono le scuole di pensiero che descrivono le organizzazioni come organismi in continua evoluzione (Mayo, 1933), in grado di produrre innovazione e sviluppo (learning organization), al cui interno le relazioni umane assumono un ruolo significativo. Con l’autonomia si sono aperti spazi di gestione integrata, che riguardano le specifiche funzioni dell’organizzazione scolastica e che, per risultare adeguate, necessitano anche di opportuni modelli organizzativi, propri del management dirigenziale. La politica organizzativa del middle management presuppone, però, una struttura reticolare e un coraggioso cambio della mentalità organizzativa e degli stili comportamentali. Una middle leadership richiede una struttura organizzativa reticolare e nuovi stili comportamentali 53 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Professionalità La collocazione attuale delle figure intermedie è assai fragile e indebolita dalla mancanza di solidi criteri nazionali La funzione di middle leadership può rappresentare un’opportunità per introdurre nelle istituzioni autonome nuove forme di governance? A nostro parere sì: ogni processo di cambiamento produce risultati se la specializzazione delle parti entra a far parte delle regole del gioco e l’innovazione – intesa come processo volto a raggiungere un obiettivo con modalità e strategie compatibili – sia orientata e sostenuta da figure trainanti, capaci di motivare gli altri a vivere la collaborazione nella dimensione del gruppo. Criticità della situazione attuale Il dirigente scolastico (Ds) ha il compito di valorizzare le risorse umane promuovendo lo sviluppo delle professionalità esistenti e la diffusione di funzioni di leadership collaborativa. La nascita di figure di sistema intermedie che diano forma e vigore alla cosiddetta gestione di mezzo (1) fa da sfondo a un nuovo modello organizzativo che si interconnette direttamente alla complessità del sistema scuola. Ai docenti che svolgono funzioni di interfaccia, partecipando direttamente ai processi di middle management, spetta il delicato compito di specializzarsi e curare i vari settori dell’organizzazione scolastica, secondo un modello reticolare o a matrice, con figure di sistema e gruppi di lavoro a responsabilità distribuita (P. Romei, 1982). Ma nella realtà scolastica italiana emergono non poche criticità. Le figure di sistema non sono sufficientemente normate: mancano una definizione del profilo, delle funzioni e dei requisiti di ac- cesso, un’adeguata retribuzione (2) indipendente dal Fis e dalla contrattazione di istituto; è assente una formazione specifica, valida per l’accesso e necessaria per il mantenimento della funzione; non vi è alcuna prospettiva di sviluppo professionale, perché non esiste un loro autonomo ruolo; infine, lo svolgimento di queste funzioni non comporta un avanzamento nella carriera docente, ancorata al momento alla sola anzianità di servizio, pur se il dibattito scaturito dalla consultazione su La Buona Scuola individua e suggerisce elementi di premialità con avanzamento di carriera (3). Le figure di sistema: competenze professionali e specificità per il middle management All’interno della scuola italiana è possibile delineare compiti e funzioni di una serie di figure di sistema che concorrono con il proprio operato e con le proprie competenze alla gestione delle istituzioni, affiancando il Ds e ricevendo dallo stesso incarichi e direttive di massima per espletare il proprio mandato. Di seguito, pur constatando una notevole disomogeneità a livello nazionale per ciò che attiene a procedure, funzio2) La retribuzione per questi incarichi è oggetto di contrattazione tra Ds e RSU in base a criteri non predefiniti a livello nazionale e l’interessato non ha titolo a far valere rivendicazioni in materia di proporzionalità tra la prestazione professionale resa e la retribuzione percepita. Questo aspetto genera grandi 1) Dalle azioni dello staff sono coordinati i processi che portano al raggiungimento degli obiettivi attesi. Il middle management 54 differenze nella retribuzione da una scuola all’altra per la stessa funzione. 3) Un aspetto non trascurabile della mancanza favorisce la comunicazione tra dirigenza e di chiarezza sulle figure intermedie è stakeholder, per il buon funzionamento rappresentato dall’elemento emotivo- delle relazioni tra le parti e per un lavoro esistenziale di tali figure, spesso ‘impigliate’ organico finalizzato al successo formativo: tra richieste del dirigente, aspettative degli co-costruire, monitorare, documentare, altri docenti e non riconoscimento rendicontare. dell’impegno. Rivista dell’istruzione 6 - 2014 ni e compiti attribuiti alle diverse figure di sistema, proponiamo una sintesi delle maggiori mansioni e responsabilità da esse ricoperte nella scuola. - I collaboratori del dirigente scolastico L’art. 25 del d.lgs. 165/2001 al comma 5 prevede che il dirigente possa avvalersi di collaboratori (4), a cui vengono delegati specifici compiti, trasferendo loro l’esercizio della competenza, ma non la titolarità: il Ds rimane responsabile in toto della gestione dell’istituzione. Essi sono individuati tra i docenti della scuola e sono nominati dal Ds su base fiduciaria. Il collaboratore è gerarchicamente sovraordinato agli altri docenti solo se esercita le competenze nei periodi di assenza o impedimento del dirigente. La sua figura è determinata dal dirigente stesso e non rientra nella normativa che regola la vice-dirigenza del pubblico impiego. Gli aspetti retributivi possono variare da un’istituzione scolastica all’altra, così come i compiti, che sono finalizzati alla realizzazione e al miglioramento dell’offerta formativa. - Le funzioni strumentali I docenti che svolgono il compito di funzioni strumentali hanno l’incarico di coordinare specifiche aree di intervento per realizzare gli obiettivi dichiarati nel Piano dell’offerta formativa e sono retribuite con il Mof. A differenza dei collaboratori, scelti sulla base di un rapporto fiduciario con il Ds, sono figure che devono rendere conto del loro operato direttamente al collegio dei docenti, chiamato a valutare i risultati raggiunti nell’espletamento dell’incarico specifico. In altri sistemi scolastici europei queste funzioni sono assolte da insegnanti con particolari requisiti pro4) L’art. 31 del CCNL 2002-2005 individua in due unità i docenti ai quali il Ds può assegnare delega per specifici compiti, designando uno di loro anche come collaboratore principale o primo collaboratore poiché non è più prevista la figura del collaboratore vicario. fessionali e culturali e, a volte, l’accesso alle stesse avviene tramite esami. Le funzioni strumentali rispondono all’esigenza reale di dedicare specifiche risorse umane al funzionamento didattico e organizzativo della scuola e, accanto alle classiche aree di intervento (gestione del piano dell’offerta formativa, sostegno al lavoro dei docenti, interventi e i servizi per gli studenti, realizzazione di progetti formativi d’intesa con enti e istituzioni esterni alla scuola) si vedono ora attribuire nuove aree di azione e di responsabilità nella gestione diretta dei processi. La normativa non pone limiti prefissati al loro numero e la loro individuazione non prevede una concertazione con il Ds che, come unico responsabile dell’efficacia e dell’efficienza formativa della scuola, può operare affinché la scelta dei docenti incaricati di svolgere tali funzioni sia rispettosa delle loro competenze e coerente con le scelte di fondo dell’offerta formativa di istituto e con le esigenze di gestione della scuola. Figure emergenti coinvolte nei processi di middle management Accanto ai profili già tratteggiati, nell’organizzazione scolastica stanno emergendo altri profili di specializzazione professionale, che possono essere a vario titolo coinvolti nei processi di middle management, pur non essendo ancora dotati di uno specifico riconoscimento normativo e di compiti sempre ben delineati. - Il coordinatore di dipartimento La possibile articolazione del collegio dei docenti in dipartimenti disciplinari determina la necessità di riferirsi a docenti professionalmente qualificati per raccordare, in maniera unitaria, i compiti di ogni singolo dipartimento. Per far fronte a tale esigenza, si profila la figura di un docente che, assumendosi la responsabilità della gestione di tali ‘microorganismi’, riesce a mettere in campo specifiche azioni di supporto e con- Professionalità Collaboratori del dirigente e funzioni strumentali sono ‘posizioni’ previste dal contratto di lavoro, ma si stanno delineando nuove figure nell’ambito dell’autonomia 55 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Professionalità Nuove funzioni riguardano la didattica, l’inclusione, la gestione di unità operative (i singoli plessi) 56 fronto dell’agire educativo e didattico, orientandolo all’innovazione e allo sviluppo delle competenze. Nello scenario attuale, il coordinatore assume compiti di alta responsabilità e, a partire dai contenuti delle Indicazioni, coordina il lavoro dei colleghi, fornendo orientamenti in ambito educativo-didattico pur lasciando grande autonomia al docente e rispettando la libertà di insegnamento di ciascuno. Il coordinatore di dipartimento Il coordinatore di dipartimento può svolgere compiti che vanno dall’individuazione delle finalità, dei nuclei concettuali, degli obiettivi cognitivi, delle conoscenze essenziali delle singole discipline, in riferimento all’intero corso di studi e a ciascun anno scolastico o alla definizione degli indicatori e dei descrittori, dei criteri di valutazione, atti a verificare il livello di conoscenze e di competenze degli studenti. Può inoltre curare la preparazione di varie tipologie di verifica, finalizzate a scopi didattici diversi (inizio anno, recupero, simulazione di prove d’esame, compiti complessi...) concordando con i colleghi la predisposizione di materiale didattico adeguato alle scelte curricolari o individuando percorsi didattici disciplinari e interdisciplinari diversi. - Il responsabile di plesso Figura entrata ormai nella prassi organizzativa della scuola, svolge ruoli organizzativi finalizzati sia al buon andamento delle attività che al rispetto delle norme sulla sicurezza. È esperto nell’organizzazione delle sostituzioni dei docenti temporaneamente assenti e nell’accoglienza dei supplenti; segnala problematiche strutturali con particolare riferimento alla sicurezza; gestisce e diffonde le circolari, le archivia e monitora firme e scadenze oltre che cura forme di comunicazione con altri plessi o con altri soggetti istituzionali; inoltre partecipa alle riunioni di staff per rendicontare l’andamento organizzativo. Operando in stretta sinergia con i collaboratori scolastici, con gli altri colleghi, con lo staff e con il Ds, il responsabile di plesso in genere è individuato tra i docenti esperti – intesi come conoscitori di quella specifica realtà scolastica – con competenze professionali anche dell’area comunicativa. - Il referente per i Bes Le novità normative introdotte negli ultimi anni nell’ambito delle politiche inclusive hanno delineato un diverso modello di ‘cura’ educativa, meno ‘clinico’ e più ‘pedagogico’, rendendo necessaria nella scuola la presenza di una figura professionale specifica che svolga un ruolo di indirizzo, coordinamento e controllo, che rappresenti un punto di riferimento non solo per i docenti, ma per gli stakeholder, e che possieda competenze psicopedagogiche, metodologico-didattiche e organizzativo-relazionali, finalizzate all’inclusione di tutti gli alunni e, in particolare, di quelli con Bes. Tale figura segue in particolar modo la stesura e la realizzazione del Piano annuale per l’inclusione, promuove iniziative per la formazione sulla didattica inclusiva, coordina e costituisce punto di riferimento per l’elaborazione del Piano didattico personalizzato, partecipa alle riunioni del Gli (Gruppo di lavoro per l’inclusione). Figure emergenti non direttamente coinvolte nel Middle Management La scuola autonoma, entro i limiti imposti dalla normativa, è libera di operare delle scelte ma ha la responsabilità di rendicontare i risultati ottenuti a tutti i portatori di interesse. Da ciò deriva la necessità di diffondere la cultura della valutazione e del miglioramento continuo. Ecco perché, fra i profili professionali fin qui delineati, si è avvertita la necessità di inserire alcune figure la cui presenza nelle scuole appare di fondamentale importanza per sviluppare un modello di valutazione con- Rivista dell’istruzione 6 - 2014 diviso e partecipato, che presuppone però un profilo professionale altamente specializzato. Le possibili evoluzioni che possono arricchire ulteriormente il profilo professionale dei docenti sono di seguito sinteticamente elencate. - L’osservatore dei processi di insegnamento-apprendimento Nell’ambito del progetto “Valutazione e miglioramento”, promosso dall’Invalsi, si è fatta recentemente esperienza di osservazione in classe dei processi di insegnamento-apprendimento. L’osservatore, opportunamente formato e con esperienze di ricerca qualitativa, di tecniche di rilevazione e di raccolta dati, di intervista, di gestione di focus group, rileva le dinamiche e i processi di insegnamento/apprendimento con l’ausilio di una griglia sperimentale. Il progetto ha dunque posto in essere un interessante strumento, la griglia di rilevamento per l’efficacia dell’insegnamento. Quattro aree di attenzione sezionano e valutano ciò che viene posto in essere: le strategie didattiche, la gestione della classe, il sostegno e il supporto fornito dal docente agli alunni e il clima di apprendimento. In prospettiva si può immaginare un’evoluzione dell’osservazione in classe con la creazione di competenze, all’interno delle scuole, in grado di fornire utili orizzonti di riferimento per migliorare il lavoro dei docenti. Si può altresì immaginare, con una iperbole un po’ ardita, il ruolo di tutoraggio che potrebbe assumere la figura dell’osservatore, anche tracciando il profilo dell’osservatore ‘partecipante’: il collega ‘esperto’ che supporta e sostiene il lavoro dei docenti neoarrivati o dei colleghi in difficoltà. - L’esperto in valutazione I valutatori esterni, dopo aver preso visione della documentazione della scuola e averne osservato le prassi organizzative e le dinamiche di apprendimento-insegnamento, redigono, sulla base di precisi indicatori, un rapporto di valutazione a partire dal quale la scuola progetta un piano di miglioramento. La scuola, dopo un lavoro di autovalutazione e individuazione degli obiettivi di miglioramento, secondo le priorità evidenziate, attua il piano di miglioramento, avvalendosi della consulenza dell’Indire e si sottopone a una ulteriore valutazione da parte di un nuovo Nucleo di valutazione esterno per verificare i risultati conseguiti. La figura del valutatore esterno mette in gioco una professionalità matura ed esperta, capace di interpretare fatti, dati e situazioni in maniera coerente e complessa, dando spazio a una capacità critica e valutativa che fa da sfondo all’attitudine a entrare in contatto con Professionalità Stanno emergendo nuovi profili: l’osservatore in classe, il valutatore esterno, il consulente per il miglioramento Micro-indagine condotta nel gruppo Facebook “Chiamalascuola” sulle aree di competenza delle funzioni strumentali 57 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Professionalità La complessità della scuola richiede un modello organizzativo ‘distribuito’ contesti reali. L’alta professionalità connessa all’espletamento di tale compito, ovviamente, non solo va riconosciuta ma anche valorizzata da un preciso impianto normativo e retributivo, a cui va affiancata la realizzazione di figure di coordinamento e di riferimento all’interno delle singole istituzioni scolastiche. - Il consulente per il miglioramento Il consulente per il miglioramento accompagna le scuole nella progettazione e nella realizzazione del Piano di miglioramento (Pdm), mediante attività online e in presenza. Si delinea come figura complessa che presenta sia le caratteristiche del mentor, attento nel rispondere alle diverse problematiche che la scuola deve affrontare, sia del coach, che accompagna il team di miglioramento nel riconoscimento delle potenzialità, nella definizione delle priorità, dei nodi critici e degli obiettivi da raggiungere. La relazione che si instaura tra il consulente per il miglioramento e il Ds è fondamentale per una collaborazione efficace e produttiva in quanto tale figura è chiamata a svolgere un’attività di orientamento, supporto e guida che, sul piano metodologico, si caratterizza in tutta una serie di azioni (autodiagnosi, preparazione del PdM e promozione di azioni riflessive) propedeutiche all’attivazione del ciclo virtuoso del miglioramento continuo. Autonomia e scelte organizzative 58 Il d.P.R. n. 275/1999 all’art. 3, comma 4 afferma che il Ds deve attivare i necessari rapporti con gli enti locali e con le realtà istituzionali, culturali, sociali e professionali che operano sul territorio per la realizzazione dell’offerta formativa che riflette le esigenze della realtà locale. Il Pof contiene le scelte educative, didattiche e organizzative della scuola nel rispetto dei criteri e degli indirizzi generali definiti dal consiglio di istituto. In definitiva, la responsabilità gestionale e del raggiungimento dei risultati è attribuita al diri- gente. Tuttavia, non si tratta di dimostrare diligenza nell’esecuzione di direttive, ma di assicurare il successo dell’azione formativa; ciò comporta una diversa organizzazione del lavoro. Il quadro di riferimento normativo, istituzionale, sociale mostra in modo chiaro quanto le istituzioni scolastiche si trovino a operare in un contesto di notevole complessità. Le unità operative, connesse ai diversi servizi e alle diverse specializzazioni, agiscono secondo un sistema di interazione talvolta poco definito, prevalentemente affidato alla costruzione autonoma di un ‘modello’ interno, adeguato al servizio e alla specificità del contesto, in cui la relazione riveste fondamentale importanza. In estrema sintesi, possiamo affermare che middle management e high management rappresentano trama e ordito dello stesso arduo compito. https://www.facebook.com/Chiamalascuola Network Chiamalascuola L’articolo è stato redatto in modalità di scrittura cooperativa online dai seguenti autori: Marco Renzi (Arezzo), Alessandra Silvestri (Roma), Aldo Domenico Ficara (Messina), Vincenzo Molle (Roccasecca - Fr), Laura Scanu (Magliano Sabina (Ri), Domenica Dibiase (Bassano del Grappa - Vi), Emanuela Fanelli (Tarquinia - Vt), Raffaele Fontanella (Castellammare di Stabia Na), Stefania Giovanetti (Modena), Giancarlo Onger (Brescia), Paola Panicucci (Pisa), Anna Dionisio (Napoli), Alessandra Berto (Paderno Dugnano - Mi), Rosanna Alotta (Roma), Paola Carrettin (Roncade - Tv), Flavia Di Maio (Biella), Paola Liparoto (Borgetto - Pa), Claudia S.Amico (Caltanissetta), Anna Martin (Roma), Rossella De Luca (M.S. Severino - Sa), Antonietta Damiano (Giugliano in Campania - Na), Alessandra Ansaldi (Missaglia - Lc), Marina Ciurcina (Lentini - Sr) Gruppo facebook Chiamalascuola La rendicontazione nella Riforma della Pubblica Amministrazione Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Saperi di cittadinanza di Anna Maria Poggi L’origine della rendicontazione sociale: l’impresa privata Il presente contributo ha come scopo quello di contestualizzare il tema del bilancio sociale nel panorama istituzionale italiano. Contrariamente a quanto comunemente si ritiene, infatti, esso non nasce all’interno delle riforme della Pubblica Amministrazione e ciò non solo a livello italiano, ma anche a livello internazionale. Il tema del bilancio sociale si evidenzia nel settore privato quando iniziano a emergere le forti criticità connesse a uno sviluppo incondizionato del capitalismo rispetto alla società nel suo complesso: disastri ecologici, crescente divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri, diritti umani dei lavoratori negati, scandali e fallimenti del privato. Di fronte a questi rischi globali, sorgono i primi interrogativi rispetto a una responsabilità ‘sociale’, cioè pubblica, delle imprese. Economisti, filosofi, sociologi, antropologi iniziano a chiedersi e a chiedere: l’azienda risponde solo al profitto, secondo la teoria liberale, oppure deve anche contribuire allo sviluppo del bene comune? Un imprenditore deve solo massimizzare i profitti oppure preoccuparsi anche delle persone che lavorano con lui e degli effetti negativi del suo operare come azienda? Sono soprattutto le imprese e in primo luogo le imprese ‘globali’ a farsi carico della responsabilità pubblica del loro operare, seppure in un’ottica aziendalistica. Infatti, un’azienda, soprattutto se globale, ha anche dei vantaggi nel percorrere la strada della responsabilità sociale. I casi Nike e Benetton sono stati assolutamente emblematici. Infatti, dopo che si diffuse la notizia che esse producevano i propri manufatti in Paesi in cui venivano fatti lavorare minori in condizioni che noi non potremmo immaginare o sopportare, sia nel nostro Paese che nei Paesi fortemente industrializzati, entrambe le aziende ebbero un crollo di vendite. L’idea che un’azienda, anche importante, potesse rendersi corresponsabile dello sfruttamento minorile mutò immediatamente la sua immagine, e ovviamente il posizionamento dei suoi prodotti, sul mercato. Quindi, il bilancio sociale è per le aziende una sorta di controprova della loro utilità sociale. Infatti le aziende dimostrano che oltre al profitto, che rimane ovviamente il core della loro esistenza, contribuiscono allo sviluppo anche sociale della collettività in cui producono. In alcuni Paesi, come il nostro, la richiesta di utilità ‘sociale’ all’impresa ha un fondamento costituzionale. Il famoso articolo 41 della Costituzione, di cui spesso si parla a proposito (ma a volte a sproposito), afferma al primo comma che l’iniziativa economica privata è libera ma immediatamente dopo, al secondo comma (che si legge e viene letto molto di meno) puntualizza che essa non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. La Costituzione, dunque, tutela l’impresa privata e ne costituzionalizza in qualche modo la finalità liberistica del profitto, ma nello stesso tempo pone un limite a tale obiettivo e questo limite è appunto l’utilità sociale. Anche le dinamiche dell’economia globale rimandano alla responsabilità sociale di impresa, già affermata dalla nostra Costituzione 59 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Saperi di cittadinanza La Pubblica Amministrazione è al servizio della Nazione, entità che esprime l’unità di persone e istituzioni, radice del bene comune Pubblica Amministrazione e interesse pubblico Tutt’altro livello, tutt’altro tono, tutt’altro rilievo assume, invece, il tema della responsabilità sociale nella Pubblica Amministrazione. Per le imprese la responsabilità sociale è una sorta di bilanciamento tra lo scopo principale, che è quello del profitto, e la dimostrazione della riduzione dei costi sociali. Per la Pubblica Amministrazione, invece, la responsabilità sociale non è un bilanciamento, ma è lo scopo principale del suo modo di essere, anzi del suo stesso esistere. Per le Pubbliche Amministrazioni la responsabilità sociale è l’unico obiettivo da perseguire poiché coincide con il perseguimento dell’interesse pubblico. Noi giuristi lo chiamiamo interesse pubblico; ma che cos’è? In che cosa consiste e come si traduce all’interno della Pubblica Amministrazione? E qui, di nuovo, occorre tornare alla Costituzione e cioè al fondamento normativo non solo formalistico, ma sostanziale, del nostro agire, del nostro comportarci. È scritto in quattro norme che citerò non secondo l’ordine numerico degli articoli, bensì in una sorta di ordine gerarchico che la Costituzione stessa pone rispetto al tema. La chiave interpretativa: la Costituzione 60 La prima e fondamentale norma è l’articolo 98 della Costituzione: il pubblico impiegato, anzi i pubblici impiegati, sono al servizio della Nazione: non sono al servizio né dello Stato, né della Repubblica. Si tratta di un passaggio molto rilevante che va sottolineato poiché quando la Costituzione vuole indicare la collettività di riferimento utilizza tre termini dal significato assai differente: Stato, Repubblica, Nazione. Quando utilizza il termine Stato si riferisce allo Stato inteso come Amministrazione Pubblica, quindi agli articoli 95 e 97: il governo è inteso come in- sieme dei ministeri e tutti gli apparati pubblici (centrali e decentrati) da essi dipendenti. Quando, invece, utilizza il termine Repubblica si riferisce all’insieme degli enti territoriali secondo quanto prevede l’articolo 114: “La Repubblica italiana è costituita da Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato”. Quando, infine, utilizza il termine Nazione, come nel caso dell’articolo 98, si riferisce alle collettività, alle persone che per un motivo fondante (lingua, territorio, cultura) sono legate allo Stato italiano. Si tratta di quella collettività che fonda lo Stato e la Repubblica e che li precede, perché l’uomo ‘precede’ sempre qualunque istituzione politica, se non altro perché tali istituzioni non esisterebbero se non ci fossero persone a costituirle. La Nazione è la collettività ‘fondante’ di tutte le istituzioni: la Repubblica come insieme di persone stanziate su un territorio; lo Stato come insieme dei cittadini; e ancora tutte le altre istituzioni pubbliche che dipendono dallo Stato e dalla Repubblica. Proprio perciò Nazione è qualcosa di più: di essa fanno parte anche i cittadini non residenti in Italia ovvero coloro che, pur non essendo nati italiani, vogliono acquisire la cittadinanza italiana. Al servizio della Nazione... La Nazione, in quanto fondante il legame che rende unite persone e istituzioni, esprime la radice del bene comune e cioè la collettività, le persone. Sono quelle persone di cui l’articolo 2 dice che la Repubblica deve tutelare lo sviluppo, sono quelle stesse persone di cui l’articolo 3 della Costituzione ci ricorda che sono tutte uguali senza distinzione di sesso, di lingua, di razza, di condizioni personali, eccetera. Quindi, il pubblico dipendente, e soprattutto il pubblico dipendente che ha un ruolo apicale (come i dirigenti scolastici), prima ancora di essere dipendente dai suoi capi gerarchici è al ser- Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Saperi di cittadinanza I dipendenti pubblici seguono la bussola dell’interesse pubblico, da perseguire con disciplina e onore (gz) vizio della Nazione. Dipende da un’amministrazione pubblica, ma la sua vera dipendenza è rispetto alla realizzazione dell’interesse pubblico che quell’amministrazione dovrebbe perseguire. Per far comprendere questo concetto, nel corso di diritto costituzionale cito spesso l’esempio dell’appartenente alle forze armate che può rifiutarsi di eseguire un ordine che ritiene illegittimo (per es.: sparare sulla folla inerme). Il pubblico dipendente, dunque, ha dei capi gerarchici e deve eseguire degli ordini ma la sua stella polare è sempre l’interesse pubblico: il fondamento del nostro agire è quel- lo della realizzazione dell’interesse che deve perseguire l’amministrazione di cui facciamo parte. Con disciplina e onore… L’articolo 54 della Costituzione (questa è la seconda norma da ricordare) afferma che i dipendenti pubblici sono chiamati a esercitare il proprio lavoro con disciplina e onore. Non c’è nessun altro lavoratore a cui sono chiesti disciplina e onore. È tale immedesimazione del pubblico dipendente con gli scopi della sua amministrazione di appartenenza, che lo obbliga a 61 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Saperi di cittadinanza L’imparzialità, il perseguimento dell’efficienza (buon andamento), la responsabilità: sono i principi qualificanti dell’azione pubblica 62 Dipinto realizzato dagli alunni di Federico Moroni tenere anche al di fuori del lavoro un tipo di condotta che non si richiede ai dipendenti privati. A questi, del resto, non è chiesto di essere al servizio della Nazione; non è loro chiesta nemmeno questa immedesimazione organica, che, invece, è richiesta ai pubblici dipendenti, proprio perché devono seguire la bussola della realizzazione dell’interesse pubblico. Con imparzialità… Ecco il motivo per cui l’articolo 97, terza norma da citare, stabilisce che le Amministrazioni Pubbliche devono essere imparziali e devono ispirarsi a principi di buon andamento degli uffici. Certamente nessuno obbliga i pubblici dipendenti a essere l’uomo senza volto e senza qualità di Musil. Di solito le persone hanno un volto, delle idee e decidono quasi sempre secondo la loro visione del mondo. Come si concilia allora la possibilità di essere se stessi con l’imparzialità? Attraverso le regole democratiche della trasparenza e della motivazione. Il pubblico dipendente non è obbligato a censurare la propria visione del mondo, tuttavia deve rendere palese che le decisioni che assume non dipendono direttamente da quella visione, ma hanno un altro scopo: la realizzazione dell’interesse pubblico. Facciamo un esempio: a nessun pubblico dipendente, neanche a chi ha delle responsabilità di livello dirigenziale, si può chiedere di non appartenere a un’associazione, a un partito politico (tolti i divieti che la Costituzione pone per l’iscrizione a partiti politici di particolari categorie: magistrati, appartenenti alle forze di polizia). Che cosa è chiesto però? Di dichiararlo, di renderlo manifesto, di non nasconderlo perché questo è il discrimine. Non si chiede di essere senza volto, ma chi vede agire il pubblico dipendente deve poter valutare se la sua azione risponde a una particolare visione del mondo o all’interesse pubblico. Il buon andamento... L’articolo 97 ci dice ancora che la Pubblica Amministrazione deve perseguire il buon andamento, che è l’efficienza, perché il buon andamento contribuisce alla realizzazione dell’interesse pubblico. La Pubblica Amministrazione deve essere efficiente, non perché si deve privatizzare o copiare le modalità del privato. Il privato ha altre logiche (il profitto) che non potranno mai essere proprie dell’Amministrazione Pubblica, mentre la modalità di azione efficiente sì, poiché garantisce la miglior realizzazione dell’interesse pubblico. L’Amministrazione deve essere efficiente perché è al servizio della Nazione e per questo deve difendere il pubblico e la scuola pubblica, non per difendere una sacca di privilegi ma per dire che è un modo per essere al servizio della Na- Rivista dell’istruzione 6 - 2014 zione. Attenzione: all’esterno si percepisce bene quando si difende il pubblico per difendere una sorta di riserva indiana per interessi particolari o perché si vuole la realizzazione dell’interesse pubblico in quanto al servizio della Nazione. Senza calpestare l’etica pubblica L’ultima norma da citare è l’articolo 28, secondo cui tutti i dipendenti pubblici sono responsabili a livello civile, penale, amministrativo: è una norma punitiva, per sanzionare le condotte illecite. Il problema è non arrivare a ciò, non varcare la soglia che separa il lecito dall’illecito. Il problema, in altri termini, è l’etica pubblica, cioè l’idea che il lavoro pubblico è al servizio della Nazione. La responsabilità sociale nella scuola Per le scuole la responsabilità sociale è stata accentuata. Questo è anche il motivo delle tante difficoltà che il mondo della scuola ha vissuto e sta vivendo in questi ultimi tempi per due passaggi istituzionali che abbiamo avuto nel nostro ordinamento. Il primo passaggio è stato quello dell’autonomia. Indubbiamente l’attribuzione dell’autonomia alle scuole ha accentuato la richiesta di responsabilità sociale, perché con il passaggio dell’autonomia le scuole da organi decentrati dello Stato (come le definiva la manualistica degli anni Sessanta del secolo scorso) sono diventate istituzioni scolastiche autonome. Quindi all’esterno sicuramente questo passaggio ha enfatizzato la richiesta di responsabilità sociale: la scuola, infatti, non è più percepita come appendice terminale di un’amministrazione complessa, ma è essa stessa amministrazione. È evidente, allora, che ciò ha caricato sulle spalle delle scuole una responsabilità che in precedenza gravava sul ministero, in maniera indistinta. Il secondo passaggio è stato quello del decentramento territoriale che, anche se non è stato attuato completamente, in parte lo è stato, perché il decreto legislativo 112 del 1998 ha attribuito agli enti locali responsabilità enormi sul sistema scolastico. Questa è una dinamica diversa rispetto a quella precedente dell’autonomia perché qui abbiamo un fenomeno diverso, e cioè l’autonomia delle scuole che si confronta con altre autonomie. Il livello della responsabilità è diverso ma ugualmente rilevante. Enti locali, scuola e bilancio sociale Gli enti locali non sono semplici stakeholder (1), né le scuole percepiscono gli enti locali come stakeholder. Questo significa che il problema per la scuola non è dimostrare agli enti locali qualcosa, ma casomai giocarsi con gli enti locali il livello di autonomia che compete loro. Il rapporto tra enti locali e scuole è una dinamica tra autonomie, semmai è un problema di responsabilità reciproca (non unidirezionale) perché procede a doppio senso. Autonomia e decentramento hanno caricato di una connotazione diversa la questione della responsabilità sociale, dando luogo a nuovi studi, a nuove prassi e all’elaborazione di nuovi strumenti, come il bilancio sociale. Dunque, il bilancio sociale nella scuola deve consentire di rendere evidente ciò che la scuola è costitutivamente e costituzionalmente, in quanto Amministrazione Pubblica che ha uno scopo pubblico e un interesse pubblico da perseguire. Saperi di cittadinanza I passaggi dell’autonomia e del decentramento territoriale hanno caricato le scuole di inaspettate responsabilità, anche sul piano sociale 1) Intervento del Direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna, Stefano Versari, nell’ambito del seminario “Bilancio sociale delle scuole”, svoltosi a Bologna il 13 maggio 2014. Anna Maria Poggi Professore Ordinario di Diritto costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Torino [email protected] 63 A Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Pratiche dell’autonomia Il ‘sistema duale’. Un progetto pilota nella Motor Valley di Maria Grazia Accorsi Sistema duale: idee a confronto Il sistema ‘duale’ fa riferimento a percorsi formativi che si possono realizzare nelle aziende e nella scuola, in forma complementare 64 Vale la pena chiedersi che cosa si intenda nel nostro Paese per ‘sistema duale’. Come spesso accade, anche a causa del susseguirsi nel tempo di ‘riforme della scuola’, medesimi significanti non di rado permangono pur assumendo nell’evoluzione normativa significati anche molto distanti. Questa sorte è occorsa anche alla locuzione ‘sistema duale’. Nell’architettura ‘a due gambe’ della Riforma Moratti, con ‘sistema duale’ si intese prefigurare la pari dignità del sistema dei licei (nel quale entravano a fare parte anche gli istituti tecnici e professionali) e di quello dell’istruzione e formazione professionale. A distanza di tempo, pur essendo la ‘seconda gamba’ alimentata dal sistema IeFP per le qualifiche, dalla diffusione degli IFTS e degli ITS post-diploma, l’istruzione resta di gran lunga il principale canale, ponendo in ombra la prospettiva ‘duale’. Altra e diversa accezione del ‘sistema duale’ è quella evocata nel documento La Buona Scuola (3 settembre 2014), che fa riferimento al modello di integrazione fra scuola e lavoro, vero pilastro del sistema formativo, lavorativo, sociale ed economico della Germania. Si tratta di percorsi misti in azienda o in training center (in genere 3-4 giorni la settimana) e in scuola (1-2 giorni per settimana), per giovani che sono lavoratori apprendisti e come tali stipulano con l’azienda un contratto scritto che include la definizione della qualifica, delle competenze e conoscenze perseguite, della durata (2 o 3 anni a seconda della qualifica), del tipo di certificato che sarà conseguito, nonché di tutte le condizioni di remunerazione, ferie, malattia, diritti e doveri, ecc. Continuiamo a porre attenzione a progetti innovativi in grado di rappresentare modelli o riferimenti per lo sviluppo della cosiddetta ‘via italiana al sistema duale’. Nel numero 5-2014 di Rivista dell’istruzione abbiamo esaminato una sperimentazione dell’‘apprendistato per l’alta formazione’ (*) applicato in sette diverse regioni in favore di studenti degli ultimi due anni della secondaria superiore. *) Tre sono le forme di apprendistato: per la qualifica e per il diploma professionale; professionalizzante o contratti di mestiere; di alta formazione e di ricerca. Cfr. http://www.cliclavoro.gov.it. La via italiana al ‘sistema duale’ Non vorremmo davvero che la ‘via italiana al sistema duale’ venisse interpretata come la male intesa creatività attribuita al genio dell’italianità, spesso sinonimo di approssimazione, spontaneismo, debolezza normativa, a confronto con l’istituto tedesco, molto strutturato e basato su una stringente regolamentazione. Pensiamo invece che si intenda che i percorsi si possono realizzare (in questo caso, sì, creatività come capacità di aderire alle esigenze e alle diverse opportunità e condizioni di sostenibilità) in una pluralità di forme di collaborazione fra i due attori (scuola e impresa) e di modalità di integrazione fra esperienze formative nei due contesti, nel rispetto di principi di qualità ed efficacia. Siamo autorizzati a pensarlo anche perché nel documento La Buona Scuola vengono individuate 4 modalità da adottare a seconda delle esigenze dei ragazzi e del tipo di aziende e istituzioni: l’alternanza obbligatoria; l’impresa didattica; la bottega scuola; l’apprendistato negli ultimi due anni della secondaria. È nostro intendimento pas- A Rivista dell’istruzione 6 - 2014 sare in rassegna le diverse forme rappresentandole anche attraverso pratiche che possono offrirsi come esemplari. Due esperienze innovative Intendiamo proporre all’attenzione due esperienze di alternanza scuola-lavoro per la durata di due anni, in accordo tra due istituti scolastici di Bologna con Ducati Motor e Lamborghini. Le due esperienze, pur avendo in comune il doppio sbocco, sia verso l’esame di Stato, con il conseguimento del titolo scolastico e la prosecuzione post-diploma in ambito accademico o terziario non accademico, sia verso l’attestazione di competenze professionali e il riconoscimento aziendale, sono differenti per lo stato giuridico dello studente. Nel primo caso, l’allievo ha un doppio status, stipulando egli un contratto di lavoro con l’impresa, grazie al quale gli vengono applicate tutte le condizioni previste nel CCNL della categoria di riferimento (inquadramento, ferie, recesso, malattia, remunerazione, ecc. Nel secondo caso invece il beneficiario ha uno status di studente che fa anche esperienza formativa in azienda e percepisce non una remunerazione, ma eventualmente una borsa di studio; la responsabilità è in capo alla scuola, l’esperienza on the job è parte integrante del percorso formativo. Si tratta della piena attuazione del dispositivo dell’alternanza scuola-lavoro nella forma compiuta già prevista nel decreto 77/2005, ma che, in virtù di uno scivolamento linguistico (anche in questo caso), ha di solito designato altro (tirocini, stage, ex Terza Area…) (1). 1) Per approfondimenti sul tema, cfr. i contributi dell’autrice: Alternanza Il progetto Dual Education System Italy (Desi) Il progetto DesiI (2) è esplicitamente ispirato al modello duale tedesco e prende il via tramite un’intesa fra Regione Emilia-Romagna, Ufficio scolastico regionale, Ducati motor, Automobili Lamborghini, Fondazione Volkswagen e due istituti di istruzione secondaria superiore di Bologna (Belluzzi-Fioravanti e Aldini Valeriani). È la prima di una serie di ‘misure e progetti’ di cooperazione italo-tedesca, previsti nel Memorandum di intesa già sottoscritto fra i ministeri italiani (MIUR e MLPS) e gli omologhi tedeschi (ministero del lavoro e Ministero dell’educazione e della ricerca) a Napoli il 12 novembre 2012 (3) e ratificato a Berlino il 10 dicembre dello stesso anno, riguardanti in particolare procedure collaudate per la transizione fra scuola e lavoro, partecipazione delle imprese nella formazione, realizzazione di curricula misti tra formazione in aula e in azienda, promozione del dialogo sociale, ecc. I destinatari sono 48 giovani di entrambi i sessi in possesso di qualifica professionale che non hanno proseguito il percorso di studi e non frequentano alcun percorso di istruzione, selezionati con una procedura articolata (test, colloquio motivazionale e prova pratica), con preferenza per soggetti provenienti da famiglie disagiate (25% dei posti riservati). Riceveranno una borsa di studio di 600 euro mensili. Il percorso, per la durata di due anni, si articola in una successione di mesi di lezioni teoriche e pratiche presso gli istituti scolastici e mesi di training on the job, studio ed esperienze tecniche presso i training center delle due aziende partner, con riferimento ai profili finali di Tecnici esperti di meccatronica Pratiche dell’autonomia L’alternanza scuola-lavoro può far perno sull’azienda (con un contratto di lavoro) o sulla scuola (con una borsa di studio) e apprendistato, in Check up alla scuola che riparte, in “Voci della scuola”, Tecnodid, n. 4/2013; Il tutor dell’alternanza, in “Voci della scuola”, Tecnodid, n. 5/2014. 2) Per i documenti del progetto (bando, ecc.) cfr: http://www.regione.emilia-romagna.it/ notizie/2014/; http://www.iav.it/desi. 3) http://www.lavoro.gov.it/Notizie/2012/. 65 A Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Pratiche dell’autonomia Il modello sperimentato a Bologna (con Ducati e Lamborghini) prevede un partenariato della scuola con le aziende, ma con una forte regia pubblica 66 per i settori auto e moto e Operatori controllo numerico. È previsto il tempo pieno per 5 giorni la settimana per i due anni. La formazione in azienda non si svolge nelle linee produttive, ma in laboratori di progettazione e prototipazione. Il governo e la responsabilità del percorso è in capo alla scuola, che valuta gli apprendimenti anche recependo come elemento fondante la valutazione espressa dal trainer aziendale e decide l’ammissione al secondo anno e agli esami finali. Un partenariato forte Il ruolo dell’ente pubblico (Regione e Ufficio scolastico regionale) è essenziale proprio perché può garantire certezza e continuità degli atti tramite un ‘Comitato di governance’ paritetico e assicurare il monitoraggio dell’andamento e dei risultati. Ma è centrale, in analogia con il modello duale tedesco nel quale le parti sociali sono protagoniste, la collaborazione dei lavoratori, che hanno partecipato tramite le rappresentanze sindacali alla definizione dell’accordo e tramite la Fondazione dipendenti Volkswagen al finanziamento dell’iniziativa con oltre 2 milioni di euro (oltre al finanziamento delle aziende). A scendere in campo sono due aziende del gruppo AUDi Volkswagen, che applicano qui lo stesso modello della casa tedesca, già introdotto in diverse sedi internazionali del Gruppo (Ungheria, Belgio, Cina, Messico). Nella regolamentazione tedesca i training center sono gli ambienti attrezzati per la formazione degli apprendisti all’interno dell’impresa, ubicati spesso nel cuore stesso dell’edificio aziendale, per esprimere il valore simbolico da attribuire alla formazione dei giovani collaboratori. Anche le imprese di minore dimensione e meno strutturate accedono al modello duale: in questo caso, i training center possono essere centri extra aziendali (UBS) utilizzati (am) dagli apprendisti provenienti da piccole aziende che si organizzano e collaborano. Sono finanziati dalle aziende stesse e da un contributo dei Länder e dei Comuni. Gli istituti scolastici e i percorsi di istruzione degli adulti Un’interessante particolarità del progetto Desi è che si attua nei due istituti scolastici nell’ambito dei percorsi di istruzione degli adulti (IdA), in particolare “nel 2° e 3° periodo didattico del secondo livello”, secondo il linguaggio del nuovo assetto, adottando le nuove regole definite dalla riforma dell’istruzione degli adulti (d.m. 263/2012), che prende avvio a regime proprio in questo anno scolastico. Il progetto formativo condiviso con l’azienda conduce al diploma e realizza il ‘profilo educativo culturale e professionale’ in coerenza con il titolo, ma i criteri di erogazione (valorizzazione dei saperi pregressi e definizione del piano formativo individuale, flessibilità, quadri orari, discipline, durata, ecc.) sono adeguati al target adulto. Buona scuola e ruoli istituzionali per l’alternanza La Buona Scuola propone di rendere obbligatoria l’alternanza scuola-lavoro (nel cui modello il caso esaminato rientra) per almeno 200 ore l’anno per gli ultimi tre anni degli istituti tecnici e professionali. È evidente che oggi mancano le imprese pronte per un’esperienza strutturata per grandi numeri. All’appello debbono rispondere non solo le imprese più grandi (anche se molte di esse hanno smantellato negli ultimi anni le corporate school interne), ma an- A Rivista dell’istruzione 6 - 2014 che le aziende di minori dimensioni debbono impegnarsi in programmi cooperativi per organizzare una formazione congiunta, con il sostegno delle associazioni imprenditoriali e degli enti di formazione. “Ci si aspetta che diverse aziende dello stesso distretto (Motor Valley), ma anche dell’area geografica più vasta, anche grazie alla promozione e al supporto offerto dalle istituzioni, si rendano disponibili e interessate” dice l’Assessore regionale dell’Emilia-Romagna, pensando anche ai settori del packaging, dell’industria alimentare, del biomedicale, ecc. “Questa vicenda ci ha fatto capire ancora di più che una parte delle nostre aziende ha una fortissima relazione con il sistema tedesco”. La Regione è scesa in campo dunque per fare di questa esperienza un apripista, un battistrada, che consenta di monitorare problemi, punti di forza, criticità, per ‘apprendere’ dall’esperienza e per farsi garante e promotrice dell’estensione del modello. Il nuovo modello formativo propone di: - misurare il proprio successo sia sul fronte formativo (anche verso la continuazione degli studi post-diploma accademici e non) sia verso ruoli lavorativi; - essere esempio di collaborazione fra istituzioni, mondo imprenditoriale e partecipazione da protagonisti delle rappresentanze dei lavoratori; - mettere in campo una nuova prospettiva per il nuovo mondo dell’istruzione degli adulti. Una questione culturale e sociale Una questione fondamentale resta aperta: il sistema duale tedesco è fortemente radicato nella cultura del Paese; è molto strutturato e molto affidabile; si basa su un sistema di infrastrutture solide; si avvale di una normativa stringente (risalente al 1969 e modificata nel 2005) che disciplina l’elenco delle figure professionali, le competen- ze da acquisire, i percorsi formativi, i modi in cui si combina la pratica in azienda e la formazione a scuola, i requisiti dell’azienda che può ospitare apprendisti, le caratteristiche e il percorso formativo dei meister e dei trainer, gli esami esterni, la possibilità di condurre parte dell’esperienza all’estero, ecc.; forte è la partecipazione delle rappresentanze aziendali dei lavoratori e dei lavoratori giovani; lo status di apprendista ha una posizione riconosciuta nella scala sociale; è l’azienda che investe. Certo proprio ‘la via italiana al sistema duale’, che prevede – secondo la nostra interpretazione – una gamma diversificata di soluzioni organizzative, non esige che l’istituto dell’’alternanza scuola-lavoro’, finalmente uscito dalla marginalità e occasionalità della maggior parte delle esperienze che finora sono state ascritte a questa forma, esaurisca il fabbisogno, ma occorre forzare il più possibile verso l’estensione delle applicazioni del modello. Per queste ragioni abbiamo bisogno non solo che le istituzioni, come in questo caso, si facciano parte in causa, ma anche di apprendere da questi tentativi di applicare un format – che ha le sue condizioni di successo in una tradizione radicata – in contesti che non contemplano quella tradizione, spesso pongono ostacoli anche culturali, stentano ad accettare una regolamentazione stringente. Il progetto Desi è un banco di prova che parte però con presupposti forti, sia in virtù delle imprese partner, sia per l’impegno istituzionale, sia per la nuova attenzione del Paese sulla scuola. Pratiche dell’autonomia Il modello ‘tedesco’, a cui si guarda con favore, si lega al contesto tipico di quel Paese, ma una via italiana è possibile Maria Grazia Accorsi Titolare Studio Accorsi, consulente in materia di innovazioni formative, basate su standard, certificazione e crediti. [email protected]; www.studioaccorsi.com 67 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Governance Povera scuola. Facciamo i conti al sistema di istruzione di Emanuele Barbieri Ce lo chiede l’Europa? La spesa per l’istruzione negli ultimi anni è diminuita del 7%, pur partendo da una base già insoddisfacente Troppe volte abbiamo sentito giustificare scelte impopolari, anche se doverose, con la frase: “ce lo chiede l’Europa”. Raramente viene ricordata un’altra raccomandazione europea: “l’investimento in istruzione rappresenta una condizione importante per sviluppare l’occupazione, combattere e prevenire la disoccupazione giovanile”. Questo strabismo è giustificato anche dal fatto che la crisi e i vincoli indiscriminati di bilancio inducono i governi a scelte restrittive proprio nel settore dell’istruzione. L’Italia, comunque, si distingue per la pesantezza dei tagli. Dai dati pubblicati da Eurydice nel 2013, nel biennio 2011-2012, otto dei venticinque Stati membri esaminati hanno ridotto la spesa per l’istruzione. La riduzione è stata superiore al 5% in Grecia, Ungheria, Italia, Lituania e Portogallo. Ma l’Italia partiva già da una situazione svantaggiata. Nel primo decennio di questo secolo, mediamente, nei Paesi dell’UE-27 la spesa, partendo da un valore leggermente superiore al 5% del PIL, cresce del 10%, mentre in Italia, nello stesso periodo, pur partendo da un valore del 4,1%, la spesa non ha avuto incrementi: la quota impegnata nel 2010 è leggermente inferiore a quella del 2000. Cosa ci dice il PIL? La figura 1 riporta i dati della spesa per istruzione, in relazione al PIL, dal 1995 al 2011 e si commenta da sola; la riduzione continua anche nel 2012 e, dai dati provvisori, sembra arrestarsi nel 2013. Per avere un’idea più precisa e in valori assoluti di quanto avvenuto negli ultimi anni, è sufficiente esaminare i dati della fonte di spesa largamente più rilevante, quella del Miur. Nel 2009, dai dati della Ragioneria generale dello Stato, la spesa per la missione istruzione risultava pari a 45.324 miliardi di euro (valori correnti); nel 2012 la stessa fonte indica una spesa di 42,143 miliardi di euro (valori correnti), con un taglio pari a 3,181 miliardi di euro, equivalente al 7% in termini monetari e al 14% in termini reali. Nello stesso intervallo di tempo gli alunni della scuola statale non sono diminuiti ma hanno registrato un leggero incremento (+ 28.070) passando dai 7.702.783 dell’a.s. 2008-09 ai 7.730.853 dell’a.s. 2011-12. Figura 1 – Spesa per l’istruzione in percentuale del PIL, dal 1995 al 2011. Italia 4,4 4,3 4,2 4,1 4,0 3,9 3,8 3,7 3,6 3,5 3,4 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 spesa in % pil 4,1 68 Fonte: Eurostat. 4,3 4,2 4,2 4,2 4,1 4,2 4,1 4,2 4,0 4,1 4,0 4,0 3,9 4,1 4,0 3,7 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Figura 2 – Numero complessivo di alunni in tutti gli ordini e gradi di scuola, pubblica e privata (in migliaia) Governance 11,752 8,968 19 66 / 19 67 68 / 19 69 70 / 19 71 72 / 19 73 74 / 19 75 76 / 19 77 78 / 19 79 80 / 19 81 82 / 19 83 84 / 19 85 86 / 19 87 88 / 19 89 90 / 19 91 92 / 19 93 94 / 19 95 96 / 19 97 98 / 20 99 00 / 20 01 02 / 20 03 04 / 20 05 06 / 20 07 08 /0 9 8,714 Fonte: Dati ISTAT. Figura 3 – Tassi di scolarità nella scuola secondaria di secondo grado. Valori percentuali 92,3 Maschi Femmine 2009/10 2008/09 2007/08 2006/07 2005/06 2004/05 2003/04 2002/03 2001/02 2000/01 1999/00 1998/99 1997/98 1996/97 1995/96 1994/95 1993/94 1992/93 1991/92 1990/91 1989/90 1988/89 1987/88 1985/86 55,7 1986/87 87,4 1984/85 100,0 95,0 90,0 85,0 80,0 75,0 70,0 65,0 60,0 55,0 50,0 Maschi e femmine Fonte: Dati ISTAT. Il numero degli alunni non è in calo In passato, la stampa più volte ha evidenziato la contraddizione di una gestione della scuola in cui calavano gli alunni e crescevano gli insegnanti e la spesa. E questa tendenza al calo degli alunni, verificatasi negli anni Ottanta e Novanta (figura 2), per una sorta di effetto trascinamento, si è continuato a ritenerla in atto anche successivamente. Questa sorta di strabismo, in un contesto politico in cui la lettura della rassegna stampa ha sostituito l’analisi dei dati, si è tradotta in interventi di politica scolastica e di gestione della spesa basati sui racconti del passato. I tagli lineari sono stati definiti senza tener conto delle variazioni della popolazio- ne scolastica e della sua distribuzione territoriale. Sono stati trascurati due fenomeni rilevanti: l’aumento degli alunni con cittadinanza non italiana, passati da 147.406 nell’a.s. 2000-01, pari all’1,7% di tutta la popolazione scolastica, a 786.630 nell’a.s. 2012-13, pari all’8,8%; l’aumento dei tassi di scolarizzazione nella scuola secondaria superiore, passati da 55,7% nell’a.s. 1984-85 a 87,4% nell’a.s. 2000-01, per salire ulteriormente al 92,3% nell’a.s. 2009-10 (figura 3). Negli anni successivi, i tassi di partecipazione alla scuola secondaria di secondo grado hanno continuato a crescere, fino a raggiungere nel 2011-12 la percentuale media nazionale del 94,7%, cui vanno aggiunti gli alunni dei Negli ultimi dieci anni si è assistito a un aumento della popolazione studentesca, in particolare degli allievi non italiani e, in generale, nella scuola secondaria superiore 69 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Governance Tabella 1 – Tassi di partecipazione ai percorsi del secondo ciclo: scuola secondaria superiore e percorsi triennali di istruzione e formazione professionale nelle istituzioni formative. Valori percentuali Scuola secondaria di II grado 88,7 88,7 99,5 98,4 95,2 94,7 Macro area Nord Ovest Nord Est Centro Sud Isole Totale secondo ciclo Percorsi triennali in istituzioni formative 8,1 8,1 2,6 0,8 2,9 4,5 Totale secondo ciclo 96,9 99,9 102,1 99,2 98,1 99,2 Fonte: Nostra elaborazione su dati ISTAT. Figura 4 – Variazione percentuale della popolazione di età tra 3 e 18 anni per Regione da 1.1.2002 a 1.1.2012 Emilia-‐Romagna Valle d'Aosta Lombardia Veneto Friuli-‐Venezia Giulia Piemonte -‐15,7 -‐15,4 -‐12,7 -‐12,0 -‐11,6 -‐6,3 14,5 14,7 12,7 13,0 10,7 12,1 Toscana 9,7 Liguria 6,8 Marche Lazio Italia Abruzzo Campania Puglia Sicilia Molise 4,5 9,5 TrenJno Alto Adige -‐19,1 -‐18,2 Sardegna Basilicata 1,2 9,4 Umbria 23,6 Calabria 30,0 25,0 20,0 15,0 10,0 5,0 0,0 -‐5,0 -‐10,0 -‐15,0 -‐20,0 -‐25,0 Fonte: Nostra elaborazione su dati ISTAT. La popolazione scolastica cresce al Nord e diminuisce al Sud 70 percorsi triennali, pari al 4,5% per un totale del 99,2% (tabella 1). Tutti vanno a scuola? In definitiva, si può osservare che oggi il numero di alunni è pari alla popolazione in età scolare. Potremmo dire che tutti vanno a scuola (o almeno ci provano). Anche se è vero che una percentuale superiore al 20% viene contata più di una volta, per le ripetenze, e nasconde il dato di quelli che non frequentano. Comunque, statisticamente, considerati i tassi di partecipazione prossimi a 100, i dati sulla popolazione tra i 3 e i 18 anni risultano comparabili a quelli della popolazione scolastica. Dai dati sulla popolazione emerge che, nel decennio 2002-2012, la sostanziale stabilità complessiva è la risultante di variazioni molto divergenti tra le diverse realtà regionali. In generale, si registra un forte incremento della popolazione interessata alla scuola nelle regioni del Nord, che si attenua nelle regioni del Centro, mentre si registra un forte decremento nelle regioni del Sud. Livelli di apprendimento e risorse La programmazione e la distribuzione delle risorse di personale non sembrano aver colto le esigenze e le opportunità offerte da questa redistribuzione della domanda. I tagli di personale sono stati avvertiti in modo molto più acuto al Nord e al Centro, proprio perché coincidenti con incrementi della popolazione ignorati o sottovalutati e, in generale, non è stata colta l’occasione Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Grafico 1 – Studenti per livello di competenza in scienze per regione. Anno 2012* (composizioni percentuali) Governance Livelli di competenza e tassi di abbandono sono assai diversi nelle varie regioni * Le Regioni sono classificate in ordine decrescente di percentuale di studenti 15enni nei livelli di competenze pari o superiori a quelle base (da 2 a 6). Fonte: ISTAT, Noi Italia 2014, Elaborazione su dati Oecd/Invalsi-Pisa. Figura 5 – Giovani che abbandonano prematuramente gli studi, anno 2012. Valori percentuali Sardegna Sicilia Campania Puglia Valle d'Aosta/Vallée Bolzano/Bozen Italia Calabria Toscana Liguria Piemonte Marche Emilia-‐Romagna Lombardia Veneto Umbria Basilicata Friuli-‐Venezia Giulia Lazio Trento Abruzzo Molise 30,0 24,8 25,5 21,5 21,8 25,0 19,5 19,7 17,2 17,3 17,6 17,6 20,0 15,3 15,4 15,7 16,3 14,2 13,8 13,7 13,0 13,3 15,0 10,0 12,0 12,4 10,0 5,0 0,0 Fonte: ISTAT, Noi Italia 2014. per migliorare la qualità dell’offerta formativa al Sud, incrementando il tempo pieno e sviluppando progetti in grado di innalzare le competenze degli studenti di quelle regioni che nelle indagini nazionali e internazionali risultano al di sotto della media nazionale, o per ridurre i fenomeni di abbandono precoce degli studi, come mostrano il grafico 1 e la tabella 5. Il quadro che emerge non può che destare preoccupazione. Da un lato, si registra una crescita dei tassi di partecipazione al sistema di istruzione. Fenomeno che si può definire spontaneo: una scelta dei giovani e delle famiglie dovuta alla consapevolezza che il conseguimento di un diploma o di una qualifica professionale costituisce un traguardo da cui non si può prescindere. 71 Figura 6 – Giovani Neet di 15-29 anni per sesso e per macro area territoriale, anno 2012, valori percentuali Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Giovani NEET 35,0 30,0 25,0 Governance 20,0 15,0 10,0 5,0 0,0 Aumento dei Neet e calo delle immatricolazioni universitarie sono due facce della medesima medaglia 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 Nord-‐ovest 12,3 12,2 11,5 11,5 12,7 14,7 16,0 15,6 2012 16,8 Nord-‐est 10,2 10,8 10,5 9,9 10,3 12,5 15,1 15,1 16,3 Centro 14,9 15,3 14,8 13,9 14,0 15,3 17,1 18,8 19,9 Centro-‐Nord 12,5 12,7 12,2 11,8 12,4 14,2 16,1 16,4 17,6 Mezzogiorno 29,3 30,2 29,0 28,9 29,0 29,7 30,9 31,9 33,3 Italia 19,5 20,0 19,2 18,9 19,3 20,5 22,1 22,7 23,9 Fonte: Nostra elaborazione su dati ISTAT. Figura 7 – Iscritti e immatricolati all’università. Valori assoluti/1000 11/12 Fonte: Nostra elaborazione su dati MIUR. Dall’altro lato, emerge l’incapacità del sistema di aggredire alcuni nodi strutturali del sistema scolastico: la velleitaria funzione di orientamento della scuola media; l’inesistente rapporto tra scuola media e scuola secondaria superiore; l’inadeguatezza di un biennio della secondaria superiore evidenziata dagli elevati e inutili tassi di ripetenza; alcuni ritardi storici come il divario Nord-Sud e in generale il divario tra i territori. Scuola: ancora ascensore sociale? 72 La scuola, in definitiva, sembra aver perso la sua funzione storica di ascensore sociale, importantissima per la valorizzazione e la promozione individuale, e la politica ha rinunciato ad asse- gnare a essa la funzione di ricostituzione del capitale sociale indispensabile per la rinascita civica, oltre che economica e sociale, di alcuni territori. Sono due dati preoccupanti con cui è necessario fare i conti, proprio in una fase di crisi come quella attuale. La crescita dei giovani Neet (1) (figura 6) e il calo delle immatricolazioni universitarie (figura 7) sono sintomi molto gravi: si rischia di tagliare fuori tutta la generazione che sta per affacciarsi al lavoro. 1) Not in Education, Employment or Training: giovani non più inseriti in un percorso scolastico/formativo ma neppure impegnati in un’attività lavorativa. Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Figura 8 – Spesa dei Comuni e delle Province per alunno nel 2012 Fonte: Nostra elaborazione su dati ISTAT. Obiettivi di convergenza territoriale Ritornando al tema iniziale, quello delle risorse, assunte come indicatore dell’impegno per l’istruzione, è opportuno ricordare che alla spesa per l’istruzione concorrono diversi soggetti: Stato, Regioni, Province, Comuni e privati (essenzialmente le famiglie degli studenti). A fronte di una spesa media complessiva di circa 6.500 euro per alunno, nel 2012, il Miur ha concorso con 5.200 euro e gli enti locali (Province e Comuni) hanno speso mediamente 873 euro/alunno (per la parte relativa a Regioni e famiglie non sono disponibili dati aggiornati). Ma mentre il campo di variazione della spesa statale è abbastanza contenuto, quello della spesa locale è molto ampio e, salvo alcune eccezioni, riflette la disponibilià di risorse dei diversi territori. Se si vuole migliorare il risultato complessivo (e quindi quello medio) del nostro sistema di istruzione è necessario definire obiettivi di convergenza e politiche conseguenti, tenedo conto di tutte le risorse disponibili: nazionali, locali, private ed europee. Il territorio dove uno nasce e la condizione socioculturale della famiglia determinano oltre il 50% della varianza nei risultati scolastici. I giovani che non studiano e non lavorano sono in costante crescita dal 2008. Più o meno dalla stessa data sono in calo le immatricolazioni all’università. Se si vuole parlare realmente di scuola, oltre ai sacrosanti problemi di organici, precari e reclutamento, è necessario ripartire da questi dati: qualsiasi proposta finalizzata a curare i mali della scuola deve essere preceduta da una seria diagnosi; le cure non possono essere il frutto di elaborazioni astratte ma devono essere il risultato di ipotesi sperimentate e verificate. Governance La spesa per l’istruzione degli Enti locali esprime ricchezza e sensibilità dei diversi territori L’autore è stato uno dei coordinatori della redazione del Quaderno bianco sulla scuola (Mpi e Mef, 2007). Coordina gli autori del “Rapporto sul sistema educativo italiano”, pubblicato nel 2013 e nel 2014 a cura delle associazioni Aimc, Cidi, Proteo, Legambiente Emanuele Barbieri Già capo dipartimento Miur e vicepresidente del Consiglio nazionale della PI, è autore di libri e articoli sul governo del sistema scolastico. [email protected] 73 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Osservatorio giuridico I servizi educativi 0-6 anni sono stati il banco di prova per costruire un sistema integrato pubblico-privato Pubblico e privato: verso un’integrazione di Loredana Bondi Agli albori dell’integrazione dei servizi Nel corso degli anni Novanta, grazie alle esperienze innovative di alcune regioni come Emilia-Romagna e Toscana, si è realizzata la prospettiva di un ‘sistema integrato’ dei nidi e delle scuole dell’infanzia, prima ancora della emanazione della legge sulla parità scolastica (n. 62/2000). Si parte dall’idea che il diritto allo studio e alla formazione di tutti i bambini debba comunque partire dai tre anni di età indipendentemente dal tipo di scuola frequentata (pubblica o privata). In Emilia-Romagna, per esempio, con la legge regionale n. 52/1995, si introduce uno schema di convenzione quadro che viene messo a disposizione dei Comuni. Anche in Europa, pur nella consapevolezza diffusa che i servizi per i più piccoli vanno estesi (obiettivi di Lisbona e Barcellona), solo in alcuni Paesi si parla esplicitamente del bisogno di educazione e cura dei più piccoli, nonché dell’esigenza di garantire i diritti dei bambini offrendo anche il supporto necessario ai genitori. Nasce il sistema pubblico integrato 74 Negli ultimi decenni in periodo di vacatio legis nazionale, le Regioni hanno legiferato e gestito attraverso gli enti locali tutto il sistema di cura, educazione e supporto organizzativo e, in linea col principio di sussidiarietà previsto dalla Costituzione, i servizi alla persona, sviluppando un modello di gestione dei servizi 0-6 anni che già si configura come sistema pubblico integrato. Tale sistema si fonda, sotto il profilo della gestione, sulla compartecipazione di una pluralità di soggetti pubblici e/o privati in possesso di regolare autorizzazione al funzionamento e /o accreditamento. Occorre ricordare che ci si deve affacciare al nuovo secolo per avere una leg- ge nazionale (la legge n. 328/2000) che tratti della riorganizzazione dei servizi sociali a livello territoriale, di nuovi modelli di governance, che proponga una serie di strategie per la gestione dei servizi come l’esternalizzazione, la privatizzazione, l’individualizzazione degli interventi, anche al fine di agevolare il lavoro delle donne, qualificando i servizi educativi per l’infanzia in termini di investimento sociale. È importante riaffermare che questo intero sistema sia considerato di ‘pubblica utilità’, in conseguenza del fatto che viene riconosciuta la funzione pubblica svolta dai diversi soggetti gestori (indipendentemente dalla loro natura giuridica), a precise e determinate condizioni: il protagonismo del cittadino a livello di partecipazione attiva nelle scelte, la programmazione dei Comuni ispirata a logiche negoziali, un privato sociale che partecipi anche alla progettazione e implementazione organizzativa dell’offerta. La governance del sistema integrato dei servizi rivolti all’infanzia consiste in un approccio sistemico delle politiche per cui un obiettivo non riguarda solo l’ente pubblico, ma chiama in causa tutti i soggetti che a diverso titolo partecipano a queste politiche e possono concorrere a determinarne l’applicazione efficace ed efficiente. Scegliere tra pubblico e privato In anni più recenti la legislazione nazionale ha anche affrontato il tema del federalismo (ancora ‘in alto mare’) con legge 5 maggio 2009, n. 42, ma molti Comuni hanno preferito o saputo solo distribuire la gestione dei servizi tra diversi tipi di ‘cooperative e privati’. Pur sapendo che tale scelta è motivata soprattutto dal contenimento dei costi, si rende un danno allo sviluppo dei servizi per l’infanzia, laddove oggi più che mai servirebbe una costruzione vera del sistema fra i vari soggetti gestori Rivista dell’istruzione 6 - 2014 con un controllo generale sul sistema da parte del pubblico. Anche il privato è in difficoltà a proporsi come gestore, perché i vincoli di spesa sono drastici e, per garantire la sostenibilità dei servizi, si trova davanti al grave rischio di chiudere o restringere l’offerta a discapito della qualità, sostanzialmente per il venir meno del sostegno economico del pubblico. Ma non è dovunque così. Pubblico e privato, soprattutto privato sociale, cercano in molte realtà nuove soluzioni, per esempio con nuove tipologie di offerta educativa, ma il rischio, soprattutto del privato, è quello di dover ‘toccare’ alcuni aspetti fondamentali del lavoro educativo (rapporto educatore/ bambino, turnover eccessivo, mancanza di formazione ecc.) andando a incidere proprio sulla qualità e in tal senso regredendo al mero ‘parcheggio’. Per far fronte alla costrizione economica, sono state adottate da varie amministrazioni locali anche scelte virtuose, facendosi carico di problemi decisamente nuovi, come quello dell’integrazione (un esempio è sicuramente rappresentato dall’inserimento dei bambini stranieri e delle loro famiglie). La parola chiave è stata la partecipazione al progetto educativo: è cambiato il contesto, sono cambiati anche i genitori, le famiglie. La ‘partita’ è stata ridefinita tenendo insieme il significato politico di esercizio della cittadinanza attiva e quello dialogico di costruzione di obiettivi culturali condivisi. Orientamenti europei In questo panorama di grandi difficoltà per i servizi, ci sono stati comunque segnali di forte attenzione da parte della Commissione europea. La novità maggiore si è avuta con la Comunicazione n. 66 del 17 febbraio 2011, con un titolo molto espressivo: “Educazione e cura della prima infanzia: consentire a tutti i bambini di affacciarsi al mondo di domani nelle condizio- ni migliori”. Alla luce di questo documento programmatico nessun amministratore pubblico, dirigente, educatore dovrebbe sottovalutare l’educazione per la prima infanzia. La Comunicazione rappresenta uno spartiacque in vista della strategia e degli obiettivi da raggiungere entro il 2020 (come previsto dal Consiglio europeo a Barcellona nel 2002) e il riferimento per normative nazionali e regionali. Al centro del documento c’è l’affermazione che solo i servizi di qualità sono utili per lo sviluppo integrale, cognitivo, relazionale e comportamentale di ognuno per il preventivo contrasto alle disuguaglianze, per il successo scolastico e il lavoro futuro. Anche la prima ricerca italiana della Fondazione Agnelli del 2010 sugli esiti scolastici insiste sul fatto che i servizi educativi di qualità sono utili e la responsabilità grava sulle spalle di chi li organizza e gestisce. Qualità con risorse decrescenti Che fare allora in una condizione sociale di grave crisi come quella attuale? Alcune amministrazioni hanno tentato di impostare nuovi modelli gestionali che permettano di coniugare il mantenimento del sistema e la funzione pubblica dell’offerta con una gestione più snella e controllata dei rischi e dei vincoli economico-finanziari. In effetti si sono misurati con la consistenza del sistema dell’offerta, la diversificazione delle tipologie dei servizi e dei soggetti titolari e gestori. Come si può rispondere ai nuovi bisogni con scarse risorse, salvaguardando la qualità? Occorre fissare dei paletti, che ancor oggi mancano in diverse situazioni, per assenza di indirizzi precisi a livello nazionale e ridotta legislazione regionale in materia, tali da chiarire per il settore pubblico e il gestore privato le condizioni irrinunciabili per gestire servizi di qualità nel rispetto di standard di riferimento. Osservatorio giuridico In tempo di crisi finanziaria occorre salvaguardare standard essenziali di qualità nel settore pubblico e in quello privato 75 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Osservatorio giuridico Ma quali sono gli aspetti di fondo della qualità di un servizio educativo, quelli senza i quali qualsivoglia innovazione non può essere sostenibile in termini di benessere evolutivo del bambino? È sicuramente difficile sostenerle, ma devono esservi condizioni irrinunciabili. Gli indicatori di qualità Alcuni standard sono irrinunciabili: quantità e qualità dei servizi, professionalità degli operatori, coordinamento pedagogico 76 Le condizioni irrinunciabili di qualità si basano su un’innovazione sostenibile, come atto di responsabilità nell’utilizzo delle risorse e per sostenere il benessere dell’umanità che verrà. Occorre garantire una risposta ai bisogni emergenti delle famiglie, tenendo conto delle risorse economiche disponibili, non- Il Maestro Flavio Nicolini ché l’assunzione di responsabilità rispetto alla salvaguardia delle bambine e dei bambini, del loro diritto di opportunità educative ricche. La riaffermazione delle finalità educative dei servizi deve essere sostenuta e condivisa dal punto di vista politico (perché tale scelta ha una natura politica), dirottando a livello pubblico le risorse disponibili per mantenere i livelli di qualità, aumentando il numero dei servizi, diffondendo i servizi educativi integrativi (compresi quelli domiciliari), garantendo la professionalità degli educatori, la supervisione pedagogica e la formazione in servizio, sostenendo la presenza e il consolidamento dei coordinamenti pedagogici territoriali. Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Il panorama dei servizi 0-3 anni Tipologie di servizi: a) Nidi d’infanzia – Sono servizi educativi di interesse generale, rivolti a tutti i bambini in età compresa tra i tre mesi e i tre anni. Aperti in orario diurno almeno cinque giorni la settimana, dal lunedì al venerdì, per almeno sei ore al giorno, per un’apertura annuale di almeno dieci mesi, i nidi d’infanzia erogano il servizio di mensa e prevedono il momento del riposo se funzionanti anche al pomeriggio. Rientrano fra i nidi d’infanzia anche i micro-nidi e le sezioni 24-36 mesi (sezioni primavera) aggregate a scuole dell’infanzia. In alcune realtà sono diffusi anche i nidi aziendali. b) Servizi integrativi – In questa macro-area rientrano quelli previsti dall’art. 5 della l. 285/1997 e i servizi educativi realizzati in contesto domiciliare. • Spazi per bambini (in età di massima da 18 a 36 mesi): i bambini sono accolti per un tempo massimo di cinque ore, in modo da consentire una frequenza diversificata in rapporto alle esigenze dell’utenza, mentre non viene erogato il servizio di mensa e non è previsto il riposo pomeridiano. • Centri per bambini e famiglie, che accolgono i bambini di età compresa fra 0 a 3 anni, insieme ai loro genitori o ad altri adulti accompagnatori. Le attività hanno la caratteristica della continuità nel tempo. • Servizi e interventi educativi in contesto domiciliare (cosiddetti sperimentali) per piccoli gruppi di età inferiore a 3 anni, realizzati con personale educativo qualificato presso una civile abitazione (piccoli gruppi educativi, tages mutter). • Servizi ricreativi e iniziative di conciliazione: asili/scuole sottoposte a dichiarazione di avvio e soggette a controllo. Ci sono baby parking che accettano piccoli dai 12 ai 36 mesi, altri che si rivolgono a bimbi più grandi (3-9 anni), altri per quasi tutte le età (15 mesi-10 anni). Il servizio è a pagamento. Altri aspetti irrinunciabili riguardano senza dubbio la buona preparazione professionale degli educatori, le buone pratiche educative per garantire che il bambino sia partecipe e competente. Rilevanza notevole ha la formazione permanente del gruppo di lavoro, dell’organizzazione e confronto interno ed esterno che si esplica nella quotidianità. In tal senso è essenziale la presenza di un buon gruppo in cui i membri condividono esplicitamente il riferimento a un’idea di bambino partner partecipe, attivo e competente e una figura di coordinatore pedagogico, super partes, che segue il progetto educativo nelle sue linee attuative e supporta il gruppo in tutte le fasi progettuali e attuative. Un’ulteriore condizione fondamentale attiene al metodo: il processo di gestione del cambiamento va svolto in modo partecipato col personale, i genitori, i rappresentanti delle organizzazioni sindacali e va continuamente monitorato. Sul go- verno del sistema devono entrare le famiglie, che devono conoscerne il programma e poterne verificare l’attuazione non in termini di spettatori, ma di co-progettazione del servizio. Genitori sempre più attenti, partecipi e competenti, chiamati alla corresponsabilizzazione (non solo economica), forse nel tempo saranno anche in grado di conoscere (e tollerare) le differenze fra un servizio e l’altro. Il sistema dell’offerta vede da tempo integrarsi servizi che propongono tutte le diverse possibili formule di titolarità e gestione: - la titolarità pubblica con gestione diretta; - la titolarità pubblica con gestione in appalto; - la titolarità privata in regime di convenzionamento col pubblico (servizi privati accreditati e convenzionati); - la titolarità privata in diretto rapporto con il mercato (servizi privati semplicemente autorizzati al funzionamento). Osservatorio giuridico Il segmento 0-3 anni propone un’ampia gamma di servizi educativi, flessibili e a diversa gestione 77 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Osservatorio giuridico Un controllo di gestione analitico consente di monitorare costi, risultati, gestione del personale, funzionamento dei servizi Una lucertola disegnata dagli alunni della scuola del Bornaccino (fm) A questo quadro composito fanno riferimento diverse ‘forme di interpretazione’ dei tre diversi temi oggetto della presente riflessione: • costi: i servizi con titolarità pubblica costano di più, soprattutto se gestiti direttamente, di quelli a titolarità privata, in ragione del maggior quadro di garanzie e di riconoscimento economico offerto al lavoro degli educatori e operatori impiegati; • rette a carico delle famiglie: sono i servizi privati, questa volta, a meno di essere accreditati e convenzionati col pubblico, a costare mediamente di più di quelli pubblici; • criteri di accesso: considerando insieme alle tariffe l’equità delle condizioni e delle opportunità, sono i servizi pubblici gli unici a garantire un accesso prioritario ai bambini disabili o provenienti da famiglie in condizioni di disagio sociale. ti su tutti i piani, sotto il profilo educativo-pedagogico, organizzativo, economico-finanziario e della qualità percepita. Gli strumenti utilizzati nel controllo di gestione consentono al personale amministrativo di monitorare periodicamente la situazione e di operare le scelte gestionali alla luce di una piena consapevolezza della situazione economica. Altra importante funzione del controllo di gestione analitico è quella di sostenere la politica nelle decisioni. La scelta della gestione diretta dei servizi, infatti, impone un forte impegno da parte di chi si occupa di amministrazione, per mantenere il contenimento dei costi necessari per garantire il funzionamento dei nidi e/o scuole d’infanzia e altri servizi educativi integrativi. Nella situazione attuale il controllo di gestione non è soltanto sinonimo di analisi dei costi, perché in esso rientrano anche tutta una serie di dati (numero degli operatori, distribuzione sui servizi, quote di tempi pieni rispetto ai part time, distribuzione oraria sulla giornata) che rendono questo strumento essenziale per pianificare ma soprattutto per valutare le scelte da fare nell’immediato e in futuro nell’ambito dei servizi. Il presente articolo sarà seguito da ulteriori interventi della stessa autrice sugli aspetti specifici della gestione dei servizi (pubblico-privato, esternalizzazioni, convenzioni). Bibliografia completa e riferimenti normativi saranno pubblicati nei prossimi numeri. Il sistema dei controlli 78 Ma in tutti i sistemi di gestione l’aspetto più rilevante è quello di monitorare continuamente, secondo tempi e indicatori di sistema ben chiari e condivisi, il processo in atto per valutarne gli esi- Loredana Bondi Già docente e dirigente scolastica, docente di Metodologia didattica presso l’Università di Ferrara, direttore dell’Istituzione dei servizi educativi, scolastici e per le famiglie [email protected] L’autovalutazione in quattro mosse Prima mossa: preparare il terreno di Mario Castoldi L’autovalutazione nel d.P.R. 80/2013 Il regolamento sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione (d.P.R. 28 marzo 2013, n. 80) delinea un quadro di riferimento organico entro il quale collocare il processo di valutazione delle scuole. In particolare l’art. 6 definisce le fasi su cui si articola il procedimento di valutazione delle istituzioni scolastiche: •l’autovalutazione delle istituzioni scolastiche, attraverso “analisi e verifica del proprio servizio sulla base dei dati resi disponibili dal sistema informativo del Ministero, delle rilevazioni sugli apprendimenti e delle elaborazioni sul valore aggiunto restituite dall’Invalsi, oltre a ulteriori elementi significativi integrati dalla stessa scuola; elaborazione di un rapporto di autovalutazione in formato elettronico, secondo un quadro di riferimento predisposto dall’Invalsi, e formulazione di un piano di miglioramento”; •la valutazione esterna attraverso: “individuazione da parte dell’Invalsi delle situazioni da sottoporre a verifica, sulla base di indicatori di efficienza ed efficacia previamente definiti dall’Invalsi medesimo; visite dei nuclei di cui al comma 2, secondo il programma e i protocolli di valutazione adottati dalla conferenza ai sensi dell’articolo 2, comma 5; ridefinizione da parte delle istituzioni scolastiche dei piani di miglioramento in base agli esiti dell’analisi effettuata dai nuclei”; • le azioni di miglioramento attraverso la “definizione e attuazione da parte delle istituzioni scolastiche degli interventi migliorativi anche con il supporto dell’Indire o attraverso la collaborazione con università, enti di ricerca, associazioni professiona- li e culturali. Tale collaborazione avviene nei limiti delle risorse umane e finanziarie disponibili e senza determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”; •la rendicontazione sociale delle istituzioni scolastiche attraverso “la pubblicazione, diffusione dei risultati raggiunti, attraverso indicatori e dati comparabili, sia in una dimensione di trasparenza sia in una dimensione di condivisione e promozione al miglioramento del servizio con la comunità di appartenenza”. Una prospettiva sistemica Si tratta di un approccio organico alla valutazione delle istituzioni scolastiche, anticipato attraverso la sperimentazione del progetto Vales, caratterizzato da una prospettiva di integrazione tra dimensioni diverse della valutazione (tavola 1): - tra valutazione interna ed esterna, attraverso lo sviluppo delle diverse fasi del procedimento valutativo; - tra valutazione e miglioramento, che viene indicato come l’esito principale del procedimento valutativo; - tra valutazione dei risultati formativi, in particolare attraverso le prove Invalsi, e dei processi organizzativi ed educativi. Dopo le soluzioni unilaterali e le semplificazioni degli scorsi anni si afferma una visione integrata della valutazione, vista in prospettiva multilaterale e sistemica (TreeLLLe, 2002). L’attuazione evidenzia alcuni nodi problematici che potranno chiarirsi solo nei prossimi anni: - il coordinamento tra i tre soggetti a cui è affidato il Sistema nazionale di valutazione (Invalsi, Indire, contingente ispettivo), tutto da costruire a partire dalla stessa identità organizzativa e funzionale dei tre soggetti, in particolare del terzo; Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Strumenti e cultura della valutazione L’avvio del Sistema nazionale di valutazione propone una scansione sistemica di autovalutazione, valutazione esterna, miglioramento e rendicontazione pubblica 79 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Strumenti e cultura della valutazione Figura 1 – Procedimento valutativo delle scuole previsto nel d.P.R. 80/2013 Il processo di autovalutazione deve essere caratterizzato da alcuni parametri di qualità - la valutazione dei dirigenti scolastici, connessa alla valutazione delle istituzioni scolastiche, che richiede di affrontare il delicato problema della relazione tra qualità della scuola e azione della dirigenza, nell’attuale contesto normativo della scuola; - le risorse umane, strumentali e finanziarie a disposizione delle scuole per gestire responsabilmente e con la necessaria competenza i compiti valutativi e progettuali a esse affidati dal testo normativo (Castoldi, 2012). In questo primo contributo ci concentreremo su alcune azioni a livello di istituto, finalizzate a preparare il terreno per avviare il ciclo previsto dallo schema valutativo (1): valutazione interna – valutazione esterna – miglioramento – valutazione 1) Tra i volumi più recenti: Mosca, 2011, 80 e Allulli, Farinelli, Petrolino, 2013. Parametri di qualità dei processi autovalutativi Non basta che un istituto scolastico autocertifichi di fare autovalutazione o utilizzi qualche strumento di customer satisfaction, per poter affermare che dispone di un sistema di autoregolazione interno sistematico e funzionale. Evitando di appoggiarsi su specifici approcci e modelli autovalutativi, può essere utile richiamare alcuni criteri generali di qualità di un processo valutativo, riferimento fondamentale anche per esperienze di valutazione interna. Il Joint Committee on Standard for Educational Evaluation (2011), rappresentativo di dodici organizzazioni professionali statunitensi operanti nel campo della valutazione educativa, ha elaborato un elenco di trenta standard di qualità dei processi di valutazione in ambito formativo, organizzati intorno a quattro parametri: accuratezza, fattibilità, correttezza e utilità. Accanto a essi, con specifico riferimento ai processi autovalutativi, può essere utile aggiungere come quinto parametro la Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Tavola 2 – Ruoli e funzioni nella valutazione degli istituti scolastici Funzioni Soggetti chiave Chi decide? Invalsi/collegio docenti Chi gestisce? Gruppo di autovalutazione Chi partecipa? Componenti della comunità scolastica Chi influenza? Dirigente scolastico Chi controlla? Nuclei di valutazione esterna Chi supporta? Indire Chi coordina? Coordinatore processi valutativi condivisione in rapporto al coinvolgimento degli attori nelle decisioni inerenti alla gestione del processo valutativo, nella formulazione dei giudizi e nell’uso dei risultati valutativi. Provando a contestualizzare con maggiore precisione il significato dei parametri indicati in relazione ai processi di autovalutazione, possiamo riassumerlo in cinque interrogativi: - Utilità: il processo autovalutativo è stato davvero utile per le esigenze di miglioramento dei soggetti e dei gruppi coinvolti? - Fattibilità: il processo autovalutativo è risultato realizzabile dal punto di vista delle risorse a disposizione e delle caratteristiche particolari dell’ambiente e delle persone a cui si rivolge? - Correttezza: il processo autovalutativo realizzato è stato corretto in rapporto ai diritti delle persone coinvolte (privacy, diritto all’informazione, benessere dei soggetti, ecc.) e alla imparzialità dei giudizi espressi? - Accuratezza: il processo autovalutativo è stato realizzato in modo accurato in rapporto alle procedure di raccolta, analisi e interpretazione dei dati e al disegno valutativo nel suo insieme? - Condivisione: il processo autovalutativo è risultato condiviso dal punto di vista del consenso, dell’interesse e del coinvolgimento delle diverse componenti della scuola? In rapporto all’utilità è importante evidenziare che un processo di autovalutazione si qualifica sia per i risultati connessi al processo, relativi alla promozione delle abilità di soluzione dei problemi organizzativi ed educativi, sia per i risultati connessi al prodotto, relativi ai cambiamenti introdotti sullo specifico tema oggetto di valutazione. Gli esiti di un processo autovalutativo sono, quindi, da riconoscere sia in chiave formativa, in relazione ai guadagni culturali degli attori e al potenziale riutilizzo futuro dell’esperienza svolta, sia in chiave operativa, in relazione ai miglioramenti intervenuti e ai loro riflessi sui risultati formativi (Hopkins, 1989). Sistema dei ruoli Strumenti e cultura della valutazione Ci dobbiamo fare domande ‘sensate’ circa l’utilità, la fattibilità, la correttezza, l’accuratezza, la condivisione del processo di valutazione La gestione dei processi valutativi a livello di Istituto scolastico richiama un insieme di funzioni differenti, più o meno formalizzate ed esplicite; può essere utile esplicitare tali funzioni in rapporto all’attuale assetto istituzionale e organizzativo della scuola italiana, traguardato nella prospettiva dello schema di regolamento sul sistema di valutazione. La tavola 2 sintetizza i soggetti chiave che possono essere riconosciuti in relazione alle diverse funzioni, limitandosi a identificare i ruoli principali; proveremo ad analizzare con maggiore precisione ciascuna delle funzioni richiamate (Castoldi, 2008). Chi decide? Invalsi/collegio docenti L’integrazione tra valutazione interna ed esterna si riflette inevitabilmente sui ruoli decisionali: il Regolamento definisce l’impianto del procedimento valutativo. In particolare viene affidato 81 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Strumenti e cultura della valutazione Occorre definire con precisione i ruoli, dal dirigente scolastico al collegio dei docenti, al nucleo di valutazione 82 organi collegiali, sarebbe auspicabile che tale gruppo non fosse composto da soli docenti e potesse avvalersi di competenze esterne, sebbene l’esiguità delle risorse a disposizione renda problematica tale soluzione. Risulta comunque indispensabile assegnare un mandato chiaro e preciso a tale gruppo, in riferimento sia al prodotto atteso sia alle risorse e ai vincoli entro i quali operare. (am) all’Invalsi un ruolo di coordinamento funzionale del Servizio nazionale di valutazione, che include un insieme di compiti (che cosa e come valutare, quale uso fare dei risultati…), al cui interno vanno a collocarsi le decisioni specifiche a livello di scuola. Queste ultime rinviano alla dinamica decisionale interna tra dirigente scolastico, consiglio di istituto e collegio docenti, nell’ambito della quale quest’ultimo rimane l’organo chiave per le decisioni di ordine tecnico-professionale, tra cui rientrano quelle connesse alla valutazione dell’istituto scolastico e alle azioni di cambiamento da intraprendere. Chi gestisce? Il gruppo di autovalutazione Al di là delle decisioni di fondo, la gestione operativa del processo valutativo relativamente alla raccolta dei dati, alla loro analisi, all’utilizzo in funzione del piano di miglioramento richiama l’esigenza di un gruppo di lavoro. In relazione alla prospettiva di riordino degli Chi partecipa? I componenti della comunità scolastica La valutazione dell’istituto scolastico presuppone il coinvolgimento dei diversi soggetti che, a vario titolo, sono coinvolti nel suo funzionamento: dirigente, docenti, personale non docente, studenti, genitori, interlocutori esterni. La natura sociale della scuola richiama un’accezione estesa della nozione di comunità scolastica, allargata a tutti coloro che ne fanno parte, sia in qualità di erogatori del servizio, sia di fruitori diretti, sia di beneficiari indiretti. La stessa corresponsabilità dei diversi attori nella gestione della relazione formativa accentua l’esigenza di una prospettiva multilaterale con cui osservare la realtà scolastica e, di conseguenza, la necessità di interpellare le diverse componenti in merito alle loro percezioni e ai loro giudizi sul funzionamento della scuola. Chi influenza? Il dirigente scolastico Oltre che dai ruoli formalmente definiti i processi valutativi sono influenzati dalla dinamica sociale entro cui avvengono e dal condizionamento che essa può esercitare sulle decisioni da assumere o sui giudizi da esprimere. Si tratta, evidentemente, di meccanismi difficilmente decifrabili e fortemente agganciati alle strutture e ai climi relazionali degli specifici contesti organizzativi. In termini generali è utile segnalare la posizione particolare del dirigente scolastico, a cui è affidata una funzione non solo organizzativa-gestionale ma Rivista dell’istruzione 6 - 2014 anche culturale, accentuata dalle specifiche caratteristiche di un’organizzazione che eroga servizi formativi. Da qui il potenziale influenzamento che può esercitare nella strutturazione di processi valutativi, al di là dei compiti organizzativi a lui affidati e del contributo che può esercitare sulle altre funzioni indicate, che amplifica la dimensione immateriale e di orientamento del proprio ruolo, generalmente ricondotta al termine leadership. Chi controlla? I nuclei di valutazione esterna Le funzioni di controllo del processo valutativo si incrociano inestricabilmente con quelle di supporto, mettendo in gioco una pluralità di attori interni ed esterni. Esse assumono particolare rilievo in riferimento al momento autovalutativo, proprio in virtù delle sue peculiarità, e chiamano in causa il ruolo affidato ai Nuclei di valutazione esterna previsti dal Regolamento, coordinati dal contingente ispettivo. Il procedimento proposto, infatti, prevedendo l’eventuale valutazione esterna come momento successivo alla valutazione interna, assegna a essa anche una funzione di validazione degli esiti dell’autovalutazione oltre a quella di riorientamento delle sue risultanze nella prospettiva del piano di miglioramento. Chi supporta? L’Indire Il supporto di un processo valutativo si gioca su diversi piani: a livello tecnico, in rapporto a una gestione rigorosa delle diverse fasi della valutazione; a livello organizzativo, in rapporto alla predisposizione delle condizioni favorevoli all’evento valutativo; a livello motivazionale, in rapporto alla creazione di un clima di coinvolgimento e fiducia. Ciò richiama l’azione di una pluralità di soggetti, tra cui il Regolamento evidenzia il ruolo affidato all’Indire, in particolare in relazione alla definizione e attuazione dei piani di miglioramento. Chi coordina? Il coordinatore dei processi valutativi La pluralità dei soggetti coinvolti e l’articolazione dei diversi passaggi richiede una funzione di coordinamento, in relazione alla collocazione del processo valutativo nella complessità del funzionamento dell’istituto scolastico. Accanto al ruolo del dirigente scolastico, istituzionalmente preposto a esercitare una funzione di integrazione del sistema, è utile richiamare la necessità di una funzione organizzativa intermedia dedicata specificamente a tale compito, il coordinatore dei processi valutativi. Ancora una volta l’arretratezza e l’indeterminatezza delle norme in materia di organi di funzionamento della scuola e di svolgimento di funzioni organizzative non consentono un ancoraggio preciso a tale ruolo, se non all’interno delle funzioni strumentali al Piano dell’offerta formativa e del riconoscimento di attività aggiuntive ai compiti di insegnamento. Strumenti e cultura della valutazione All’interno di ogni scuola dovrebbe essere individuato un coordinatore dei processi valutativi Condizioni di esercizio La qualità di un processo autoriflessivo in un contesto professionale si fonda sulla rappresentazione che di esso si costruiscono gli attori organizzativi: il suo potenziale di sviluppo è direttamente correlato al grado in cui viene riconosciuto come strumento professionale a disposizione del singolo e del gruppo per indagare e revisionare le proprie azioni organizzative ed educative. La valenza pragmatica entro cui si colloca, in quanto opportunità di sviluppo professionale e organizzativo basata sul richiamo ricorsivo tra pensiero e azione, enfatizza la priorità da assegnare al senso di appartenenza al processo da parte degli attori rispetto al rigore e alla sistematicità delle scelte tecniche e procedurali (Lichtner, 1999). La cura delle condizioni di fattibilità del processo richiede un’attenzione costante sia nella fase preliminare, sia nel corso dell’azione, e diviene un requisito decisivo per la sua efficacia. 83 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Strumenti e cultura della valutazione Il processo di autovalutazione è un’occasione di crescita per le scuole, ma richiede alcune condizioni di base 84 Il Maestro Alberto Manzi Legittimare il processo autovalutativo significa creare le condizioni affinché esso venga assunto dagli attori organizzativi, i docenti in primo luogo, come occasione di crescita; in altre parole il percorso di indagine autoriflessiva deve conquistarsi il diritto di cittadinanza all’interno della comunità scolastica, evitando di essere vissuto come corpo estraneo – e potenzialmente invasivo e minaccioso – e diventando un utensile professionale consapevolmente assunto nelle sue potenzialità e nei suoi vantaggi (Weick, 1976). Evidentemente tale prospettiva mette in gioco la modalità più generale con cui i diversi attori, e i docenti in particolare, si sentono parte di un’impresa collettiva. Ciò evidenzia una sorta di paradosso insito nei processi autovalutativi i quali, se da un lato contribuiscono a rafforzare l’identità professionale e il senso di appartenenza nei contesti organizzativi in cui avvengono, dall’altro presuppongono alcune condizioni contestuali di fondo per poter esprimere il loro potenziale formativo. Un paradosso la cui gestione sottoli- nea il ruolo strategico assunto dal dirigente scolastico nell’assicurare piena legittimità ai processi di autovalutazione e nel valorizzare le loro potenzialità in relazione alla totalità dell’istituto. Le motivazioni culturali Sul piano culturale la legittimazione del processo richiede le seguenti condizioni: • chiarire il senso del processo autovalutativo, in quanto opportunità formativa di sviluppo professionale e organizzativo a disposizione degli attori della comunità scolastica; • rendere riconoscibili i problemi professionali che si intendono affrontare, evidenziandone la natura (ad esempio, in termini di scarto tra intenzioni progettuali e comportamenti attivati) e i vantaggi che potrebbero derivare da nuove soluzioni; • condividere le scelte chiave che qualificano un processo autovalutativo e riflettono una dinamica di potere tra le parti: individuare l’oggetto da investigare, decidere quali Rivista dell’istruzione 6 - 2014 soggetti coinvolgere, scegliere gli strumenti e le modalità di indagine, interpretare e attribuire valore ai dati raccolti, decidere quale uso fare dei dati e a chi rendere pubblici i risultati; • sottolineare la logica pragmatica entro cui si inquadra il processo autovalutativo come strumento sull’azione e per l’azione che risulta valido in quanto pertinente al contesto in cui viene impiegato, direttamente connesso all’esperienza professionale dei docenti nel loro lavoro d’aula. esperienze condotte da altre scuole, in modo da consentire uno sguardo più distanziato e retrospettivo sulle scelte compiute e sul percorso metodologico avviato. Il prossimo numero di Rivista dell’istruzione sarà dedicato al tema dell’autovalutazione di istituto. Vi saranno pubblicate le tre ‘mosse’ successive, dello stesso autore. Le scelte organizzative Sul piano più strettamente organizzativo si tratta di: • focalizzare l’attenzione su priorità strategiche ben delimitate e circoscritte, in grado di favorire la realizzazione di un processo rapido ed efficiente e di sperimentare percorsi autoriflessivi trasferibili e replicabili; • affidare ai soggetti responsabili del percorso autovalutativo un mandato chiaro e strutturato, in grado di definire oggetto, soggetti, modalità e tempi di attuazione e di precisare i vincoli e le risorse necessarie; • prevedere e chiarire, fin dalla fase di progettazione iniziale, i risultati attesi e le loro modalità d’uso, in modo da orientare l’impegno richiesto ai diversi soggetti e da contenere preoccupazioni per usi indebiti e inappropriati; • definire le connessioni tra il gruppo responsabile del processo autovalutativo e i diversi soggetti – individuali e collettivi – che compongono la struttura decisionale e organizzativa della comunità scolastica, in modo da favorire le interazioni e le reciproche ricadute, sia in itinere, sia a conclusione del percorso; • assicurare la presenza di ‘amici critici’ e/o confronti periodici con Cosa leggere sull’autovalutazione G. Allulli, F. Farinelli, A. Petrolino, L’autovalutazione di istituto, Guerini e Associati, Milano, 2013. Associazione TreeLLLe, L’Europa valuta la scuola. E l’Italia?, Quaderno n. 2, novembre 2002. M. C astoldi , Si possono valutare le scuole?, SEI, Torino, 2008. M. Castoldi, Valutare a scuola, Carocci, Roma, 2012. D. Hopkins, Evaluation for School Development, Open University Press, Philadelphia PA, 1989. JCSEE (Joint Committee on Standards for Educational Evaluation), Standards for Evaluation of Educational Programs, Projects and Materials, McGraw-Hill, New York NY, 2011. M. Lichtner, La qualità delle azioni formative, Franco Angeli, Milano, 1999. S. Mosca, R. Bolletta, J. Scheerens, Valutare per gestire la scuola, B. Mondadori, Milano, 2011. K.E. Weick, Senso e significato nell’organizzazione, Cortina, Milano, 1997 (ed. orig.1976). Strumenti e cultura della valutazione Occorre affidare al gruppo che coordina il processo di autovalutazione un compito chiaro, indicando i prodotti attesi Mario Castoldi Docente presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Torino, esperto di problematiche valutative in ambito scolastico [email protected] 85 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Ex cathedra L’evaporazione dell’autorità paterna: e i docenti? di Francesco Piazzi Il padre che non c’è Telemaco cerca un padre ‘buono’, capace di parlare con la testimonianza della propria passione In un articolo intitolato Il Padre che non c’è, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” nel dicembre 1998, Eugenio Scalfari denunciava l’eclissi della figura paterna e lamentava, tra le conseguenze di questa assenza, il venir meno di quella gerarchia familiare che un tempo serviva a trasmettere l’identità, la memoria storica. In effetti oggi si assiste a un appiattimento sincronico (babbi-amici). Oggi pare non esserci una tesaurizzazione dell’esperienza precedente (genitoriale e storica in senso lato). Ciò che hanno fatto i padri non pare più un esempio da seguire per le generazioni successive. E questo spiega anche sul piano della scuola – come dirò meglio in seguito – il crescente disinteresse per le materie che favoriscono la formazione del senso storico (storia, filosofia, lingue classiche). Questo stesso articolo è stato da Scalfari ripubblicato, inalterato, su “la Repubblica” del 24 marzo 2013, con la postilla che quanto era stato scritto quindici anni prima oggi vale a maggior ragione. Habemus papam e Palombella rossa Riprendendo l’articolo di Scalfari, Massimo Recalcati ci offre, in un recente libro intitolato Il complesso di Telemaco, una lettura inedita della relazione tra genitori e figli (1). L’autorità simbolica del padre, argomenta lo studioso, è tramontata. I padri latitano. Tuttavia giungono segnali di una nuova domanda di padre. La figura di Telemaco appare simbolicamente significativa del bisogno di paternità dei figli orfani di oggi. Telemaco aspetta che il padre ritorni Questo padre che non detiene più l’ultima parola sul senso del bene e del male ma neppure sa trasmettere ai propri figli la fede nell’avvenire è, secondo Recalcati, esemplificato nel film di Nanni Moretti Habemus Papam. Il papa eletto rifiuta la nomina e fugge via terrorizzato dai palazzi pontifici, incapace di sostenere il peso simbolico di questo incarico. Il balcone di San Pietro resta vuoto. La moltitudine che attende la parola-guida del padre-Papa – del simbolo universale del padre – rimane delusa e sconcertata: si inverte la catena delle generazioni. Chi doveva rassicurarla, non solo non è in grado di prendere la parola, ma si rivela egli stesso smarrito. (…) Il padre che deve rassicurare deve essere rassicurato, il padre si trasforma in un figlio (3). Il gesto del protagonista di Habemus papam evoca a Recalcati la scena di un altro film, Palombella rossa, che Moretti gira nel 1989. Di fronte alle domande di un giornalista che lo interroga sulle sorti del partito, il segretario del PCI protagonista del film appare disorien- 1)M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, 2)M. Recalcati, op. cit. Il complesso di Telemaco 86 per riportare la legge nella sua isola dominata dai Proci, diversamente da Edipo, che vive il padre come un rivale da uccidere e al quale sostituirsi. Ma di quale padre si avverte oggi la nostalgia? Non più il padre che ha l’ultima parola sul senso del bene e del male, ma solo un padre capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso (2). Feltrinelli, Milano 2013. 3)M. Recalcati, op. cit. Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Ex cathedra Finita l’epoca delle grandi narrazioni è entrata in crisi anche la figura rassicurante del padre autorevole Casa a due piani (gz) tato, afasico, smemorato. Invece di rispondere alle domande del giornalista le pone a se stesso: Chi sono? Chi siamo? Cosa è accaduto? Non sa dettare la linea al suo popolo, regredisce sino all’infanzia: la pallanuoto, la Nutella, Il dottor Zivago. I due grandi simboli degli Ideali che hanno orientato la vita delle masse in Occidente – il Papa della Santa Romana Chiesa e il segretario del glorioso Partito Comunista – non sanno più sostenere il peso simbolico della loro funzione pubblica, appaiono smarriti, evaporati (4). Quali gli effetti dello svaporamento (5) del padre visti dall’osservatorio della scuola Massimo Recalcati in un articolo intitolato Cari professori non fate gli psicologi invitava gli insegnanti a disinteressarsi delle problematiche psicologiche e affettive degli studenti rubando tempo prezioso allo studio delle discipline (6). Gli rispondeva l’insegnante scrittore Marco Lodoli: 5) Per la metafora dello ‘svaporamento’, cfr. J. Lacan, Nota sul padre e l’universalismo, in “La psicoanalisi” n. 33, Astrolabio, Roma, 2003. 6)M. Recalcati, Cari professori non fate gli psicologi, in “la Repubblica”, 20 ottobre 4)M. Recalcati, op. cit. 2013. 87 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Ex cathedra Se l’insegnante deve sostituire il padre e la madre, ormai assenti, potrà ancora insegnare? Da un lato si vorrebbe una scuola efficiente, che non si perda in ciance sentimentali (…) ma le scuole sono piene di studenti carichi di problemi esistenziali, la fragilità psicologica cresce a dismisura. (…) La scuola vorrebbe trasformarsi in un’azienda capace di consegnare ai suoi clienti un sapere utile, e invece si ritrova ad affrontare macerie psichiche (7). Come sono questi genitori privi di autorità? Al livello socialmente più basso, i genitori sono spesso come ce li descrive Eraldo Affinati: Oggi i genitori degli studenti sono ragazze fragili col trucco troppo vistoso e i vestiti non appropriati, giovanotti ricoperti di tatuaggi, commesse dall’aria scarmigliata, operai in tuta, meccanici con le mani sporche di grasso, badanti che in genere non trovano nemmeno il tempo di venire a parlare con i professori. Hanno le facce stanche, l’aria indaffarata, lo sguardo spento. Molto spesso litigano davanti al figlio. (…) Mirko e Christian, entrambi bocciati in seconda media, ancora non sanno che questi genitori dovranno prenderseli sulle spalle e metterli al riparo (8). “Prenderseli sulle spalle”, appunto: è l’inversione generazionale denunciata da Recalcati. Saliamo di livello sociale e culturale. Come sono oggi i padri intellettuali, possibilmente di sinistra? Sono relativisti etici, secondo l’autodefinizione di Michele Serra, che si rivolge al figlio in questi termini, confessando tutti i limiti della propria figura genitoriale: Dicono che avresti avuto bisogno di un Padre. Un vero Padre. Che avresti avuto bisogno del suo ordine ben strutturato, ben codificato, così da poterlo fare tuo oppure confutarlo e 7)M. Lodoli, La scuola raccontata diventa un boom editoriale, in “la Repubblica”, combatterlo, e combattendolo diventare un uomo. Non c’è argomento che mi metta più in difficoltà. (…) Riconosco che delle tradizionali attitudini del padre — stabilire regole, rimproverare, punire, disciplinare – non sono un convincente interprete. Le volte che tento di riportare ordine, sottolineare regole, sento di… non avere il tono autorevole di chi è sicuro del proprio ruolo (…) sono il tipico relativista etico. La definizione (…) sta a indicare quella larga fetta di adulti occidentali che… non riescono a trovare indiscutibile alcun assetto etico, specie nella vita privata. Di qui una diffusa incapacità di pronunciare certi No e certi Sì belli tonanti. (…) Sono il tutore ondivago di un ordine empirico, composto e poi scompaginato giorno per giorno, scritto in nessun Libro, impresso su nessuna Tavola (9). Se i genitori sono così, gli insegnanti come possono essere? Il trattamento indecente – economico, in termini d’immagine sociale, ecc. – degli insegnanti nel nostro Paese è certo uno dei corollari dello svaporamento dell’autorità paterna. Se è svaporata questa, è logico che svapori anche l’autorità di quei surrogati di padri, di quei padri putativi che ormai sono – forzatamente – divenuti gli insegnanti, sempre più spesso chiamati a svolgere una funzione di surroga genitoriale, in assenza dei genitori biologici. Ma se l’insegnante deve sostituire il padre e la madre, può anche insegnare? L’evaporazione della cultura umanistica Una prima quasi immediata conseguenza dell’evaporazione dell’autorità paterna, e quindi dell’assenza di un interesse per la tesaurizzazione dell’e- 20 ottobre 2013. 8)E. Affinati, Elogio del ripetente, 88 A. Mondadori, Milano, 2013. 9)M. Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli, Milano, 2013. Rivista dell’istruzione 6 - 2014 sperienza dei padri in senso lato (padri biologici, ma anche padri ‘culturali’) è la crisi delle discipline umanistiche ormai considerate inutili, polverose, malinconiche. Scrive con la consueta lucidità Marco Lodoli: “Io non esisto più, sono diventata invisibile”, mi dice una professoressa con la voce spezzata e gli occhi umidi. “Entro in classe, comincio a spiegare e subito mi accorgo che nessuno mi ascolta. Nessuno, capisci?”. (...) professori di lettere, storia, filosofia, arte che si sono ben preparati per la loro lezione, finiscono a parlare nel vuoto... Perché accade questo? Al riguardo mi sono fatto un’idea. (…) La cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo. (…) Per la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi tutto il patrimonio culturale del nostro Paese non significa più niente. (…) Oggi i ragazzi non si voltano più indietro, gli prende subito la tristezza perché alle spalle avvertono solo un cimitero degli elefanti. La vita è adesso, qui e ora, e poi di nuovo qui e ora, e quello che è stato è stato, e tutte le chiacchiere dei vecchi sono fumo nel vento (10). Naturalmente se tutto questo accade avrà – hegelianamente – una sua razionalità storica e tutto il diritto di accadere. E poi non è detto che questo disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, è sempre cambiato, con mutamenti ora impercettibili, ora bruschi e netti. Il punto è che oggi gli insegnanti, nell’attesa che il padre nuovo ritorni dal mare – e nel dubbio inquietante che un padre, quale che sia, non torni mai più – devono confrontarsi con ‘le macerie psichiche’ dei figli-orfani. Ascoltare con empatia Avvalersi di psicologi, pedagogisti, ispettori, conseillor, ecc. serve poco, 10)M. Lodoli, Addio cultura umanista. Per i perché chi non entra ogni giorno in quella fossa dei leoni che è una classe ‘vera’ non può avere voce in capitolo. Così come chi non è mai entrato in una sala operatoria non avrebbe titoli per insegnare al chirurgo che opera quotidianamente. Di fronte ai consigli di questi ‘esperti’ è comprensibile la reazione infastidita di chi sta in trincea, come Eraldo Affinati, un professore peraltro innamorato del proprio mestiere: Avanti, venite qui, vorrei dire a tutti i cosiddetti osservatori disinteressati, coloro che pontificano sui giornali, gli esperti della psicopedagogia, i tecnici della docimologia, teorici ed eruditi, commissari e sapienti, funzionari e valutatori, congressisti e studiosi. […] Entrate nelle aule italiane per capire cosa accade dentro la testa delle nuove generazioni. Siamo di fronte a uno sconquasso di natura epocale. Non fidatevi di chi sproloquia, truccando le carte con un semplice gioco di polso, senza conoscere la fatica quotidiana, le mortificazioni di quanti si mettono alla prova ogni giorno sapendo che educare significa ferirsi. […] Per riuscire a creare la concentrazione in un quindicenne demotivato, la cui autostima è pari allo zero, bisogna realizzare una piccola impresa. Innumerevoli sono le sconfitte. Però ci sono anche le vittorie: quelle che nessuno vede, da cui nascono i cittadini del futuro (11). Ex cathedra … per riuscire a creare concentrazione in un quindicenne demotivato, la cui autostima è pari a zero, bisogna realizzare una piccola impresa… La dimensione etica dell’ascolto “Educare significa ferirsi”, scrive Affinati, mettendo in primo piano la dimensione etica e affettiva di questo difficile e per certi aspetti entusiasmante mestiere. Oggi vale assai più di un tempo il requisito ‘etico’ dell’ascoltare con sincera sollecitudine, diciamo pure con amore: “Ascoltare anche con il cuore apre la porta alla comprensione, all’attenzione, all’empatia” scrive Liss, uno psicologo recente- ragazzi non ha senso, in “la Repubblica”, 31 ottobre 2012. 11)E. Affinati, op. cit. 89 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Ex cathedra Senza che si trasformino in psicologi, la relazione educativa implica per i docenti interesse a interagire con l’altro e curiosità empatica mente scomparso, che all’ascolto empatico ha dedicato molti libri. È la conclusione a cui arriva subito lo studente cerebroleso di Affinati, al termine della tronfia performance dell’esperto di tossicodipendenza: “Avete domande da fare?” Un grande silenzio piombò su tutti noi. Forse gli studenti erano stanchi. Fatto sta che nessuno diceva niente. Ma poi dai banchi in prima fila si alzò esitante la mano di Cuccureddu, cerebroleso. (…) L’operatore, sorridendo compiaciuto, gli diede la parola, e lui chiese: “Mi vuoi bene?”. Era una domanda caduta dal cielo. Tutti ridemmo, ma in cuor nostro sapevamo che Cuccureddu aveva fatto goal (12). Piaccia o non piaccia, il sapere ascoltare, e in certo senso divenire un po’ psicologo, parrebbe oggi un requisito importante dell’insegnante. Con buona pace di chi, come il sottoscritto, vorrebbe ancora poter insegnare il latino e il greco come una volta, e con buona pace dello psicologo professionista Recalcati, che diffida gli insegnanti dall’occuparsi di questioni psicologiche: “Attualmente un’illusione ha fatto capolino. È l’illusione dell’insegnante-psicologo che lascia da parte i contenuti dei programmi per dedicarsi a cogliere i segni di disagio esistenziale dei suoi allievi (…) mette da parte lo studio di Aristotele, di Spinoza o di Hegel per dare voce alla sofferenza dei ragazzi? (...) Quale nuova pericolosa illusione si annida in questo atteggiamento? L’amore per il sapere – che dovrebbe animare ogni insegnante – lascia il posto a una supplenza diretta del mestiere del genitore” (13). Come se poi gli insegnanti potessero esimersi dallo svolgere questa supplenza e come se bastasse lo psicologo professionista che, in qualche scuola, fa formale atto di presenza per un’ora alla settimana. 12)E. Affinati, op. cit. 13)M. Recalcati, Cari professori non fate gli 90 psicologi, cit. L’umana curiositas Ascoltare con il cuore, dunque. Ma – anche per non correre il rischio di indulgere al buonismo pedagogico che negli ultimi decenni ha creato solo danni nella scuola – aggiungerei, con curiosità umana. La stessa curiositas che spinge un personaggio di una commedia di Terenzio ad ascoltare le pene di un vicino di casa, che non gli è parente né amico, per un interesse semplicemente umano: Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Una formula, giustamente celeberrima, che condensa il significato profondo dell’umanesimo e di quella che anche oggi si chiama psicologia umanistica. Il personaggio dell’Heautontimorumenos che pratica l’ascolto empatico è mosso, più ancora che da un impulso solidaristico (la philanthropia dei Greci), da una curiositas intellettuale per la diversità dell’altro, da un interesse a interagire col prossimo, ad arricchire la propria visione del mondo in un’interazione paritetica nella quale entrambi gli attori hanno qualcosa da guadagnare. Naturalmente il requisito etico della curiositas e della disponibilità all’ascolto empatico non può bastare. Di quali altri strumenti offerti oggi dalla psicologia deve dotarsi l’insegnante forzatamente psicologo di oggi? A questa domanda complessa cercherò di dare una risposta in un prossimo articolo su questa stessa rivista. Francesco Piazzi Autore di libri per la scuola, già docente di lettere nella scuola superiore, formatore e ricercatore nell’IRRE Emilia-Romagna [email protected] Meriti individuali e lavoro di squadra A che gioco giochiamo? di Giovanna d’Arco Collegialità vo’ cercando... Mi sono sempre chiesta quale sia l’idea organizzativa di ‘azione collettiva’ che è alla base dell’insegnamento nelle nostre scuole, ma in questi ultimi mesi sono entrata in crisi dopo aver attentamente analizzato il testo governativo La Buona Scuola. Sono consapevole del fatto che la collegialità, introdotta dai decreti delegati del 1974 per rendere unitario l’insegnamento e democratica la gestione della scuola, nel giro di quarant’anni si è burocratizzata diventando una sorta di rito collettivo che, sostanzialente, è strumentale soltanto all’elaborazione del Pof, progetti compresi. Raramente, specie in questi ultimi anni di autonomia scolastica, durante una seduta collegiale, è nata qualche straordinaria sperimentazione o qualche innovazione didattica in grado di coinvolgere tutti i docenti, inpegnandoli a realizzarla, monitorarla, valutarla. Dopo che il collegio dei docenti ha assolto al dovere istituzionale della delibera del Pof, il dirigente si sente a posto e ciascun docente, entrando in classe, riacquista la sua sacrosanta e personale libertà di insegnamento, accantonando tutte le dichiarazioni di natura educativa e didattica contenute nel Pof. Ognuno fa scuola a modo suo, convinto che sia l’unico modo buono per fare scuola. E che dire dei consigli di classe che, convocati contemporaneamente, costringono spesso alcuni docenti a parteciparvi solo parzialmente e, comunque, limitatamente al monte orario contrattuale? È un impegno burocratico anche questo, il cui faticoso coordinamento è focalizzato più sugli alunni e i loro risultati di apprendimento che sull’insegnamento e l’approccio educativo e didattico da adottare. Insomma, la collegialità docente non ha mai attecchito nelle nostre scuole diventando lavoro di squadra, che è l’unico che potrebbe garantire l’unitarietà dell’offerta formativa. La microcollegialità dei team e dei consigli di classe – che è quella posta a presidio dell’operatività – raramente si configura come luogo del ‘gioco’ dell’insegnare: un campo dove si prendono accordi, si assumono decisioni, ci si coordina, si valuta l’efficacia dell’insegnamento e non solo le prestazioni degli alunni. Un’organizzazione a legami (troppo) deboli La classe non è una multiproprietà abitata a turno dai docenti, né un poliambulatorio dove i singoli professionisti si succedono per ricevere i propri clienti. Se proprio vogliamo continuare con le metafore, la classe è un vero e proprio presidio di pronto soccorso, servizio che diventa efficace se c’è una visione unitaria su ciò che è necessario fare, coordinamento continuo, sinergia negli interventi. Ci sembra appropriato, a questo punto, riportare il raccapricciante racconto di Weick, che descrive le scuole con una efficace metafora che, ormai, appartiene a pieno titolo ai sistemi scolastici: Immaginate di essere arbitro, allenatore, giocatore o spettatore di una singolare partita di calcio: il campo ha forma circolare: le porte sono più di due e sono sparse disordinatamente lungo i bordi del campo; i partecipanti possono entrare e uscire dal campo a piacere; possono dire: “ho fatto goal” per quanto vogliono, in ogni momento e per quante volte vogliono; tutta la partita si svolge su un terreno inclinato e viene giocata come se avesse senso. Ora, se sostituiamo nell’esempio l’arbi- Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Matita rossa e blu La dimensione collegiale si è burocratizzata; occorre riscoprire una visione unitaria e collaborativa del ‘fare scuola’ 91 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Matita rossa e blu Per far decollare una comunità professionale occorre uscire dalla solitudine del docente e puntare su un’efficiente organizzazione scolastica 92 Il Maestro Federico Moroni tro con il preside, gli allenatori con gli insegnanti, i giocatori con gli studenti, gli spettatori con i genitori e il calcio con l’attività scolastica, si ottiene una descrizione altrettanto singolare delle organizzazioni scolastiche. Il fascino di questa descrizione sta nel fatto che essa coglie all’interno delle organizzazioni didattiche un nucleo di realtà diverse da quelle che possono essere evidenziate nelle stesse organizzazioni dalle posizioni classiche della teoria burocratica. (Weick, 1988). Chiedendosi come una organizzazione riesca ad andare avanti a fare ciò che fa, K. Weick elabora il costrutto dei ‘legami deboli’ o ‘connessioni lasche’ che, paradossalmente, ne garantiscono il funzionamento. I giudizi di tipo critico, spesso comunemente espressi riguardo alle scuole, riferiti al caos o all’inefficienza delle attività nelle organizzazioni scolastiche, sono legati a una inutile lettura razionale delle singole scuole che, invece, si prestano a essere analizzate come un’ organizzazione in cui chiunque può dire di lavorare bene, ma della quale è impossibile ricostruire i processi che rendono valutabile sia tutto il sistema organizzativo che i singoli operatori. Qualità del docente… Qualità della scuola? Nel testo La Buona Scuola c’è un interessante capitolo dedicato ai docenti, alla carriera per merito, alla premialità e alla necessità che i docenti si aggiornino e si formino, intraprendano ricerche, investano sul proprio sviluppo professionale, formino i colleghi giovani. I continui richiami a questi aspetti fondativi di una professione che ha una impellente necessità di essere ridefinita, portano a un’idea di docente ‘commesso viaggiatore’ che si aggira di scuola in scuola per raccogliere i crediti necessari che gli consentano di ottenere il sospirato scatto stipendiale per merito. Per far uscire gli insegnanti dal ‘grigiore dei trattamenti indifferenziati’ e dal limbo della comfort zone li condanniamo a un inferno fatto di continua competizione con se stessi e con i colleghi e di mobilità forzata. Quale tipo di gioco, dunque, viene proposto ai docenti? Un gioco solitario che non fa che rafforzare la spontanea balcanizzazione da sempre in agguato nelle nostre scuole. Rivista dell’istruzione 6 - 2014 La schisi tra ‘attività individuali e collegiali’ è sancita molto chiaramente nel testo La Buona Scuola: la funzione docente viene rifondata con il riconoscimento economico del merito e con una fragile carriera che nulla ha a che vedere con quell’articolazione della funzione docente indispensabile per irrobustire il modello organizzativo dell’autonomia scolastica e, soprattutto, non c’è nessun riferimento al lavoro collegiale dei docenti a livello di classe, ma soltanto a quelle “che consistono nella definizione, elaborazione e verifica degli aspetti pedagogico-didattici del Pof”. Insomma, gli insegnanti giocano da soli nello stesso campo e la partita che si gioca a scuola resta quella mirabilmente descritta da Weick alla fine degli anni Settanta! E il dirigente scolastico? È responsabile di tutto ciò che avviene prima, durante e dopo la partita, sapendo che al massimo può avere il 66% di bravi insegnanti e il restante 33% mediamente bravi! Insomma, il preside non è l’allenatore di nessuna squadra, ma soltanto un arbitro chiamato a regolare un gioco individuale le cui regole vengono affidate esclusivamente ai giocatori! di tutte le capacità presenti nel gruppo e, in più, del misterioso beneficio per cui il gruppo supera, nel suo rendimento, la somma delle prestazioni dei singoli. Il docente tratteggiato ne La Buona Scuola farà scatenare al più l’emulazione che rende tutti sospettosi e ostili verso i colleghi. Una buona scuola è una scuola in grado di garantire il successo formativo di ciascun alunno e questa speciale garanzia riguarda la scuola come sistema organizzato e non come un condominio bene abitato ma che rischia di diventare litigioso! Matita rossa e blu In un buon gruppo le prestazioni dei singoli superano la semplice somma delle parti Lezioni dal campo di gioco Il campo di gioco offre numerose lezioni applicabili proprio alla scuola, che di lezioni vive giorno dopo giorno! Tutti gli sport, il cui risultato coincide con quello della squadra, si basano proprio sull’interdipendenza tra i giocatori e sulla loro collaborazione nel conseguimento dell’obiettivo comune. In assenza d’un buon spirito di squadra, le formazioni anche più agguerrite per la qualità dei singoli membri spesso escono sconfitte da compagini più deboli sul piano individuale, ma meglio affiatate. Il giocare insieme in vista di un risultato comune ma che, contemporaneamente, va a beneficio di ciascuno, stimola alla cooperazione: il gioco di squadra si avvantaggia “Doppia fucilazione” (fn) Giovanna d’Arco Già dirigente di un imprecisato istituto scolastico italiano 93 Luogo comune Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Sillabario Di fronte all’ampiezza e alla plasticità del linguaggio dei bambini dobbiamo imparare a misurare e arricchire le nostre parole di Lorella Zauli Approssimazioni… Tanti bambini Dal punto di vista squisitamente retorico, il luogo comune (locus communis) è un pensiero non finito che, se formulato in una frase finita, “si presenta con la pretesa di valere come norma riconosciuta della conoscenza del mondo e rilevante per la condotta di vita o come norma di vita stessa” (1). È facile per noi insegnanti cadere nell’insidia del luogo comune e lo è ancor di più quando agli alunni vengono attribuiti nuovi acronimi (Dsa, Bes…), poiché si rischia concretamente di guardarli con gli occhi delle sigle (quel bambino è un Dsa) e non con lo sguardo proprio della cura educativa (quel bambino si chiama Marco e ha un Dsa). Un uso appropriato e non convenzionale del linguaggio non sarà di certo risolutivo, ma potrà venire incontro al nostro essere docente. Prendo in prestito le parole di Italo Calvino nella lezione americana dedicata alla esattezza: “Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso” (2). L’esempio che segue è tratto dalla mia esperienza di insegnante di scuola dell’infanzia. È il rischio concreto e quotidiano che colpisce me e tanti adulti intenti a guardare, osservare, commentare e talvolta giudicare e valutare (!) gesti e comportamenti dei bambini. I bambini possono di volta in volta essere, o apparire (in rigoroso ma inevitabilmente incompleto ordine alfabetico) Abitudinari, Accomodanti, Affettuosi, Agitati, Allegri, Alternativi, Amabili, Anticonvenzionali, Arguti, Autentici, Bizzarri, Brillanti, Caparbi, Capricciosi, Carismatici, Chiassosi, Collaborativi, Concreti, Creativi, Curiosi, Determinati, Dimessi, Dinamici, Disarmanti, Disinvolti , E ffervescenti , E mulatori , Energici, Enfatici, Esilaranti, Empatici, Entusiasti, Esagerati, Estrosi, Estroversi, Esuberanti, Euforici, Fantasiosi, Frizzanti, Genuini, Gioiosi, Imbarazzanti, Imbarazzati, Impertinenti, Impetuosi, Imprevedibili, Imprudenti, Incomprensibili, Indipendenti, Insicuri, Intraprendenti, Intuitivi, Introversi, Insistenti, Iperbolici, Ironici, Irrazionali, Irresponsabili , I rriverenti , I strionici , L oquaci , Martellanti, Meticolosi, Orgogliosi, Perseveranti, Perspicaci, Plateali, Propositivi, Responsabili, Reticenti, Riluttanti, Sagaci, Sconcertanti, Sfuggevoli , S maniosi , S olidali , S orprendenti , Spavaldi, Spensierati, Spiazzanti, Spiritosi, Spontanei, Stranianti, Struggenti, Stupiti, Taciturni, Tenaci, Vitali, Vivaci, Volubili, Vulcanici, Vulnerabili… Noi li osserviamo e non troviamo altro che dire: “Che carini!”. Tutto qui. Che carini. Lo sguardo si ferma alla superficie, la molteplicità e la complessità si riducono a categorie predefinite, l’orizzonte di senso, anziché dilatarsi, si restringe sensibilmente. Alla luce di questo auguro a tutti, e a me per prima, di dare le giuste sfumature e di cogliere le poliedriche gradazioni di significato di cui la nostra meravigliosa lingua è fertile e feconda. Aiuterà a guardare il mondo con occhi diversi e sarà arricchimento per tutti. 1)H. Lausberg, Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna, 1969. 2) I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, 94 Milano, 1993. Lorella Zauli Insegnante di scuola dell’infanzia a Forlì [email protected] ‘Maestri d’arte e l’arte di essere maestri” di Alessandra Falconi Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Immagini Maestri d’arte e l’arte di essere maestri Questo quaderno nasce dalla collaborazione tra il Centro Alberto Manzi e la Comunità Educante Territoriale dei Comuni di Bellaria Igea Marina, Santarcangelo, Verucchio e Poggio Torriana. Nasce dallo stimolo di “Cristallino. Indagine sul contemporaneo”, rassegna d’arte promossa dalla Fondazione Culture Santarcangelo, che ha cercato di interpretare, attraverso l’arte contemporanea, la dimensione quotidiana delle comunità locali coinvolte. Alberto Manzi Gianfranco Zavalloni Federico Moroni Flavio Nicolini Il quaderno “Maestri d’arte e l’arte di essere maestri” nasce dal desiderio e dal bisogno di far conoscere gli scritti e le biografie di quattro maestri ‘speciali’ (Gianfranco Zavalloni, Alberto Manzi, Federico Moroni, Flavio Nicolini), affinché possano ancora oggi formare gli insegnanti. Sapremo stupire i bambini come faceva Gianfranco Zavalloni? Sapremo incuriosirli come sapeva fare Alberto Manzi? Sapremo incantarli davanti alla bellezza della natura come Federico Moroni? Daremo il benvenuto agli errori con la convinzione di Flavio Nicolini? Il tema scelto è quello della creatività, ma anche dell’arte e dell’espressività intese come linguaggi e luoghi a misura di bambino e al servizio delle sue potenzialità. È un quaderno di appunti, un collage di disegni e testi che confidiamo possano dare idee e spunti di lavoro agli insegnanti per costruire a scuola quel benessere necessario a far appassionare i bambini ai saperi disciplinari per capire e cambiare il mondo. Manzi, Moroni, Nicolini e Zavalloni conoscevano bene l’arte di fare il maestro, con cura e passione. Ma erano anche sapienti maestri d’arte. Alberto Manzi Chi non ha visto o sentito parlare della trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi” che, dal 1959 al 1968, ha insegnato a scrivere e a leggere ad almeno un milione di italiani? Alberto Manzi è stato maestro in televisione e in radio, ma anche in carcere e per quasi 40 anni nella scuola, maestro tra indios e campesinos del Sud America e maestro di italiano per gli extracomunitari. Il suo “Appunti per rapidi disegni alla lavagna” è uno dei testi più richiesti ancora oggi dagli insegnanti, perché Manzi amava creare una “tensione cognitiva” anche a partire da pochi tratti disegnati. Pensiero creativo e pensiero scientifico trovavano nell’arte un valido strumento per esprimersi: sperimentare tecniche e strumenti, classificare, immaginare cosa succederà, cosa c’è dentro e come funziona... l’arte come compagna di gioco del bambino che scopre il mondo, come lente di ingrandimento della meraviglia. Gianfranco Zavalloni Figlio di contadini, Gianfranco nasce a Cesena nel 1957 e trascorre un’infanzia a contatto con la natura. Dal 1983 inizia l’avventura didattica alla scuola dell’infanzia di Sorrivoli. Questa piccola sezione consente a Zavalloni di mettere in pratica le proprie teorie educative, che favoriscono esperienze creative e utilizzano il gioco come strumento di apprendimento. Si rende subito conto che i 95 Rivista dell’istruzione 6 - 2014 Immagini bambini hanno bisogno di capire il valore del tempo, dei ritmi della vita e l’importanza del contatto con la terra. Gianfranco crede in una “scuola del fare”. L’invito alla lentezza e al rapporto con la natura è contenuto in “La pedagogia della lumaca”: per una scuola lenta e non violenta, sintesi del pensiero generale di Zavalloni sulla didattica. C’è anche un Gianfranco disegnatore, con l’acronimo GF2: il suo disegno caratterizzato dal tratto fluido, come se già nel foglio ci fosse la traccia da seguire, si è certamente sviluppato grazie all’osservazione dei modi dei bambini e alla condivisione di tanti materiali e strumenti diversi. La sua non era solo una ricerca stilistica e mentale ma anche materiale: cercava i migliori pastelli, con mina e legno naturale, cere vegetali per far sperimentare sovrapposizioni e graffiti ai bambini, polveri colorate da mischiare con l’acqua per ricreare le sfumature dell’acquarello. Federico Moroni 96 Nasce a Santarcangelo di Romagna nel 1914. La famiglia di origine contadina gli permette di diplomarsi presso le scuole magistrali di Forlì. Alle prime esperienze di insegnamento sull’Appennino romagnolo, Moroni affianca lo studio del disegno e della pittura alla quale si dedica con continuità fin dalla metà degli anni Trenta. A Montetiffi e Bornaccino si dispiega la sua esperienza pedagogica e artistica: nelle sere fredde dell’Appennino, gli anziani sono soliti raccontare favole e storie di fantasmi e il maestro riporta queste suggestioni nei dipinti, dove cominciano a comparire strani folletti e personaggi misteriosi. Moroni lavorerà con i bambini in modo simile: l’esperienza grafico-pittorica è fortemente legata alla vita quotidiana, all’emozione e allo stupore che viene raccontato con la forza del colore e della china, ancora prima e meglio di diventar parola. “Così la tua arte sia arte per gioco, inventata come un giocattolo, un’arte che trovi ammirazione e consenso nel tuo cortile, magari fra i barattoli vuoti, i gusci d’ovo e la cenere del bucato; accolta e festeggiata da un rocchetto di legno e una penna di pollo”. “Per disegnare o dipingere bisogna che tu senta il desiderio irresistibile del gioco, così forte da non poterlo rimandare ad altro tempo”. Flavio Nicolini Flavio Nicolini nasce a Santarcangelo, dove tuttora vive, nel 1924. Nel primo dopoguerra fa parte di un gruppo di giovani, tra cui Tonino Guerra, che anima la vita culturale del paese. Come maestro elementare, Nicolini, con l’amico Federico Moroni, mette a punto una strategia didattica d’avanguardia, basata sulla libera creazione dell’alunno: l’abolizione delle gomme, l’utilizzazione della penna a china e dei pennelli direttamente sul supporto sono teorizzate e praticate al fine di ottenere l’espressione diretta dell’interiorità dell’allievo. A partire dagli anni Sessanta, Nicolini comincia a lavorare per il cinema. Dopo una prima esperienza con Elio Petri, inizia una fondamentale collaborazione con Michelangelo Antonioni. Nicolini si avvicina al disegno utilizzando tecniche diverse: acquerelli, tempera su muro, chine e i prediletti gessetti “più vicini alla scrittura”, coi quali inventa figure bizzarre e oniriche, reali e immaginate, che evocano il mondo dell’inconscio. “In quell’epoca nella scuola operavano maestri che pensavano a sfondamenti rivoluzionari, a una cultura nuova. Forse impossibile. Forse eccessiva. Certo stimolante. In ogni caso l’arte e il pensiero democratico erano il fondamento del mio pensiero. Della mia pratica didattica a scuola. Soprattutto l’arte”. Testi di Alessandra Falconi; riduzione di Maria Teresa Bertani