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R elationship banking: una soluzione antica contro la crisi recente

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R elationship banking: una soluzione antica contro la crisi recente
R elationship banking: una soluzione antica contro la crisi recente?
Relationship banking: an old solution for the present crisis?
A parere di molti il futuro
dell’attività bancaria sarà un
ritorno alle origini:
preponderanza dell’attività di
credito, focus sulle Pmi e
importanza del Relationship
banking. Le banche, soprattutto
quelle di maggiori dimensioni e
ad operatività internazionale,
saranno in grado di operare
secondo le logiche del
Relationship banking? L’ampia
letteratura che si è sviluppata
negli ultimi trent’anni ne
sottolinea gli elementi cruciali:
profondità della relazione sia in
termini di intensità, che di
ampiezza, capacità di
consolidamento delle
informazioni soft e attenzione
agli assetti organizzativi.
Paola Bongini
Università degli Studi Milano
Maria Luisa Di Battista
Università di Piacenza
Laura Nieri
Università di Chieti-Pescara
The future of banking will be a
return to the origin: increased
lending activity, focus on SMEs
and the importance of
Relationship banking. A review of
the literature of the last thirty
years shows the success
elements to develop the Rb even
in the large banks operating
internationally: the depth of the
relation with the customers,
both in terms of intensity of
lending and scope, the ability to
transform soft information in
hard information; the attention
to organizational aspects.
2
CONTRIBUTI
BANCARIA n. 5/2009
1 Introduzione
La crisi finanziaria che ha investito il sistema finanziario internazionale a partire dall’agosto 2007 ha messo in discussione un modello di banca fondato su un utilizzo esasperato dell’innovazione finanziaria e dei meccanismi di mercato, meglio noto come modello Originate-to-distribute» (Otd). A tale modello si era conformata, seppure con diversa intensità, l’attività delle maggiori banche internazionali, sia statunitensi che europee, che oggi stanno affrontando problemi non banali di ricapitalizzazione, di razionalizzazione dei propri portafogli di business
e stanno rivedendo la propria mission aziendale. Tra le soluzioni anti-crisi adottate o in
fase di adozione (Beccalli et al,(2009) è frequente il richiamo a generici obiettivi di rifocalizzazione del business verso l’attività
creditizia tradizionale, in particolare nei
confronti delle piccole e medie imprese,
nonché alla necessità di ritornare a porre le
relazioni di clientela al centro dell’attività
bancaria.
A parere di molti il futuro dell’attività
bancaria sarà dunque un ritorno alle origini: preponderanza dell’attività di credito,
importanza del Relationship banking, focus
sulle Pmi. Tuttavia, la reale praticabilità di
JEL codes: G01, G21, L14
questa soluzione dipende, tra l’altro, dalla
capacità delle banche, soprattutto di maggiori dimensioni e ad operatività internazionale, data la loro attuale conformazione
dimensionale e organizzativa, di ritornare
alle origini e di operare secondo le logiche
del Relationship banking (Rb). Per dare
una risposta a questo interrogativo abbiamo
ritenuto opportuno svolgere una rassegna
dell’ampia letteratura sul Rb che si è sviluppata negli ultimi trent’anni. L’obiettivo
è quello di fornire una definizione di Rb che
rispecchi la realtà strutturale e operativa dei
sistemi bancari dell’Europa continentale e
individuare le condizioni necessarie allo
sviluppo di proficue relazioni di clientela.
Il lavoro è strutturato come segue. Nel secondo paragrafo, sulla base dell’ampia letteratura esistente, si cerca di ricostruire una
definizione di Rb e di individuare gli elementi che caratterizzano tale approccio operativo/gestionale, che vengono di seguito
approfonditi nei paragrafi 3 (durata della relazione), 4 (intensità della relazione) e 5
(modalità operative e organizzative). Il sesto paragrafo si propone di evidenziare quali tra i numerosi aspetti sollevati in letteratura hanno un effettivo riscontro nella
realtà operativa e quali rimangono un mito
o forse una semplificazione eccessiva.
2 Il Relationship banking
Nonostante l’ampia letteratura sull’argomento, di fatto non
esiste una definizione precisa di Rb. Stando all’ampia rassegna della letteratura svolta da Ongena e Smith (1998) i primi studiosi ad affrontare il concetto di relazione di clientela
in ambito bancario sono Hodgman (1961), Kane e Malkiel
(1965) e Wood (1975). Il primo studioso, in una serie di studi degli inizi degli anni ’60, postula che, per fronteggiare la
concorrenza nella raccolta di depositi, le banche possono cercare di trattenere i propri clienti depositanti offrendo loro prestiti a tassi vantaggiosi. Sulla base degli studi di Hodgman, Kane e Malkiel approfondiscono tale tesi evidenziando che la
banca è in grado di ottenere un vantaggio informativo che le
consente di distinguere i migliori depositanti – quelli che apportano fondi più stabili – e ai quali è vantaggioso offrire prestiti a tassi bassi. Infine, nel ’75, Wood sottolinea l’importanza della relazione quale strategia per competere anche sul fronte dei prestiti e suggerisce che la banca può utilizzare la leva
del prezzo per acquisire nuovi clienti e per stabilire una relazione di clientela e, successivamente al consolidamento della
stessa, può aumentare i prezzi praticati.
Successivamente a questi studi pionieristici in cui la relazione è intesa principalmente come strategia concorrenziale, a
cavallo tra gli anni ’70 e ’80, il concetto di relazione tra la banca e i suoi clienti (perlopiù prenditori di fondi) si sviluppa nell’ambito degli studi sulle asimmetrie informative e viene inizialmente utilizzato nella teoria dell’intermediazione finanziaria per giustificare l’esistenza delle banche quali fonti di finanziamento alternative ai mercati. Tali studi prendono spunto dal
filone di letteratura teorica, riconducibile a Leland e Pyle
(1977), Diamond (1984), Ramakrishan e Thakor (1984) e Fama (1985), che teorizza l’unicità della banca, rispetto ad altri
intermediari finanziari, grazie alla sua capacità di ridurre le
asimmetrie informative tra debitori finali (imprese) e depositanti. Attraverso le relazioni di clientela, la banca – agendo
quale inside debtholder – riesce ad acquisire informazioni di
natura privata e a colmare una situazione di distribuzione asimmetrica delle informazioni che impedisce l’accesso ai mercati
dei soggetti informativamente opachi (Bhattacharya e Thakor
1993). Inizialmente, il concetto di relazione bancaria identifica pertanto un generico rapporto banca-cliente, o più spesso,
banca-impresa quale modalità antitetica al rapporto mercatoimpresa. Tale interpretazione risulta coerente con il fatto che
la maggior parte degli studi sul tema sono svolti da autori statunitensi o che comunque si rifanno alla struttura del sistema
finanziario anglosassone, tipicamente caratterizzato da un maggior peso dei mercati finanziari e per i quali la questione fondamentale è comprendere quali benefici possano derivare dallo sviluppo dell’attività di prestito svolta dalle banche, considerata la maggiore onerosità delle risorse prestate dalle banche
rispetto a quelle offerte dai mercati.
A partire dai primi anni ’90 il concetto di relazione bancaria viene interpretato non più o non solo in contrapposizione alla finanza via mercati, bensì come una delle modalità
a disposizione delle banche per svolgere la propria attività di
intermediazione creditizia (Rajan 1992, Petersen e Rajan
1994). Questi sviluppi comportano alcune precisazioni sul
concetto di relazione banca-cliente che si riscontra quando il
rapporto prevede una serie di interazioni ripetute tali da consentire alla banca l’accumulazione di informazioni non pubbliche e da permetterle di ammortizzare i costi sostenuti per il
loro reperimento in più anni o su più servizi venduti al cliente. In particolare, si sottolinea come la disponibilità di informazioni non pubbliche consente alla banca di individuare la
struttura contrattuale più adeguata (sfruttando la flessibilità
propria dei contratti bancari) e di concedere credito anche a
soggetti che diversamente non avrebbero accesso a tale canale di finanziamento. Inoltre si postula che l’instaurarsi di relazioni intense e durature comporta i benefici per le imprese
affidate in termini di una maggiore quantità di credito offerta e/o migliori condizioni di accesso al credito, essenzialmente rappresentate dal tasso praticato e dalle garanzie richieste
(Boot e Thakor 2000).
Successivi sviluppi negli studi sul Rb comportano un’ulteriore precisazione sulla tipologia delle informazioni che vengono raccolte e prodotte nell’ambito delle relazioni: si tratta
infatti di informazioni di tipo qualitativo (le capacità dell’imprenditore e/o del managment, il loro profilo etico, ecc.)
e difficilmente quantificabili che vengono definite informa-
3
CONTRIBUTI
zioni «soft» in contrapposizione alle informazioni «hard» e
cioè informazioni quantificabili e solitamente contenute nei
documenti contabili dell’impresa (Petersen 2004). Secondo
tale approccio, il Rb costituisce una lending technology alternativa a quelle proprie del transactions banking che si basano esclusivamente su informazioni di tipo hard. Berger e
Udell (2002) affermano al riguardo che «the information
gathered over time has significant value beyond the firm’s financial statements, collateral, and credit score, helping the
relationship lender deal with informational opacity problems
better than potential transactions lenders».
Parallelamente agli approfondimenti sulla natura delle
informazioni soft e hard e sul contributo da esse fornito in sede di valutazione del merito del credito, si sviluppano studi
che si propongono di verificare se la capacità della banca di
raccogliere e sfruttare le soft information è in qualche misura
influenzata dalle caratteristiche strutturali, organizzative e
operative della banca. In questo ambito, il filone di studi che
ha sino ad oggi ricevuto maggiore attenzione concerne la relazione che lega le variabili dimensionali della banca con la
sua efficienza allocativa. Le tesi sviluppate, e spesso empiricamente verificate, postulano che le banche di piccole dimensioni – nelle quali la separazione tra chi raccoglie le informazioni e chi le utilizza per decidere sulla concessione dei crediti è minima se non nulla e la vicinanza della banca al cliente
massima – sono più efficienti nel selezionare soggetti informativamente opachi, segnatamente le piccole e medie imprese (Angelini et al. 1998, De Young et al. 2003, Scott 2004,
Avery e Samolik 2004, Bongini et al. 2007a). Simili considerazioni sollevano una questione rilevante circa le conseguenze dei processi di aggregazione tra banche e sulla possibilità
che le imprese meno trasparenti – e cioè le Pmi – siano oggetto di un generalizzato fenomeno di razionamento dovuto
allo spostamento delle nuove più grandi entità bancarie verso clientela meno opaca e di maggiori dimensioni (Peek e Rosengren 1998, Focarelli et al.2002, Bonaccorsi e Gobbi 2001,
Sapienza 2002).
Nell’ambito dello stesso filone di studi, altri autori, partendo dal lavoro di Hansmann 1996, si concentrano sulla struttura proprietaria della banca e, in particolare, sulle differenze
che intercorrono tra le relazioni di clientela che si sviluppano
nelle banche cooperative e quelle che riguardano le altre banche. I vantaggi riconosciuti al Rb si amplificano qualora la banca è strutturata in forma di cooperativa e pertanto concede credito in misura prevalente ai propri soci. In tal caso il rischio
connesso all’attività creditizia si riduce – e così dovrebbe accadere anche al prezzo del credito – per il fatto che a favore
della banca operano strumenti di sanzione sociale legati al peer
monitoring (Stiglitz 1990) – ad esempio, la riprovazione da parte degli altri soci nonché componenti della stessa comunità –
che incentivano il prenditore ad adempiere ai propri impegni
di rimborso (Angelini, Di Salvo e Ferri 1998, Banerjee et al.
1994, Chaddad e Cook 2004, Hesse e Čihák 2007).
Più recentemente l’attenzione si è spostata dalle variabili
dimensionali a quelle di natura organizzativa e operativa e sul
nesso che lega queste ultime all’efficace utilizzo delle informazioni nei processi di affidamento. Questi studi si intrecciano con gli studi sulla «prossimità» tra il cliente e la banca e si
concentrano sulle modalità organizzative interne di quest’ultima, partendo dalla considerazione che forme organizzative
caratterizzate da più livelli decisionali – tipicamente le strutture organizzative piramidali – rispetto a organizzazioni piatte sembrano meno adatte a utilizzare efficacemente informazioni soft (Stein 2002). L’implicazione che ne deriva è che il
Rb non deve pertanto essere considerato una tecnica o un approccio strategico di stretto appannaggio delle banche di piccole dimensioni; anche banche grandi o gruppi bancari possono scegliere tale tecnica purché essi siano dotati di modelli organizzativi piatti.
Un primo aspetto che emerge dalla rassegna sin qui svolta
è che il Rb – così come è stato sviluppato nella maggior parte degli studi sull’intermediazione finanziaria – si riferisce di
fatto alla sola attività di prestito e per questo motivo viene
spesso e più correttamente indicato con il termine di Relationship lending (Rl).
Una seconda indicazione riguarda le caratteristiche distintive del Rb, ossia gli elementi in presenza dei quali possiamo
classificare l’operatività di una banca come Rb o Rl1. Tali elementi possono essere individuati nei seguenti:
1 durata della relazione banca-cliente;
1 D’ora in poi useremo i due termini Relationship banking e Relationship lending come sinonimi.
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CONTRIBUTI
BANCARIA n. 5/2009
intensità della relazione, a sua volta misurata (contemporaneamente o alternativamente) in base al:
• numero totale di banche che finanziano l’impresa (Petersen e Rajan 1994, Cole 1998; Elsas e Krahnen, 1998; Ongena e Smith 2000, de Bodt et al. 2005; Ongena et al. 2008);
• ampiezza (scope), ossia numero di prodotti/servizi acquisiti da uno stesso cliente (Cole 1998; Degryse e van Cayseele
2000);
• profondità della relazione (depth), ossia percentuale del
credito offerto dalla main bank rispetto al totale utilizzato dal
cliente (Harhoff e Koerting 1998; Ferri e Messori 2000; Machauer e Weber 2000; Ongena e Smith 2000; Berger et al.
2001a; Ongena et al. 2008);
3 modalità operative e organizzative con cui si realizza la relazione banca-cliente, a loro volta dipendenti da:
• tipologia dell’informazione (hard e soft information) raccolta (Stein 2002, Petersen 2004);
• tipologie di lending technology utilizzate (Berger e Udell
2002, 2006);
• «prossimità» della banca al cliente e scelte organizzative
della banca ( Stein 2002, Degryse e Ongena 2005, Cerquiero
et al 2007, Alessandrini et al 2008).
2
3 La durata della relazione
La rilevanza della durata quale elemento qualificante della relazione banca-impresa viene inizialmente riconosciuta dai
modelli teorici che affrontano la questione della scelta del circuito di finanziamento (Sharpe 1990, Diamond 1991, Slovin
et al. 1993, Boot e Thakor 1994, Petersen e Rajan 1994, von
Thadden 1995). Secondo tali studi, la possibilità di perfezionare una serie di transazioni ripetute, implicita nella relazione tra banca e cliente, costituisce una modalità per ammortizzare i costi di ricerca ed elaborazione delle informazioni necessarie a svolgere l’attività di screening che, con riferimento
a un solo contratto monoperiodale, risulterebbe viceversa
troppo onerosa e porterebbe al mancato finanziamento dell’impresa.
In secondo luogo lo sviluppo di relazioni stabili e durature
consente la stratificazione delle informazioni, e quindi una più
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CONTRIBUTI
BANCARIA n. 5/2009
puntuale conoscenza del prenditore e del rischio connesso. In
linea di principio, ciò dovrebbe comportare l’applicazione da
parte della banca di condizioni – principalmente in termini di
tasso – migliori di quelle praticabili in assenza di una relazione. Esiste peraltro la possibilità di «cattura» dell’impresa cliente: la difficoltà o la maggiore onerosità di accedere a fonti di
finanziamento alternative alla banca, a loro volta causate dalla scarsa diffusione di informazioni sul prenditore, determinano fenomeni di hold-up da parte della banca che, una volta
che la relazione sia divenuta significativa, può praticare tassi
più elevati di quelli giustificati dall’effettivo profilo di rischio
del prenditore. A questo riguardo la letteratura teorica, a partire da Sharpe (1990), Hellwig (1991) e Rajan (1992), sottolinea infatti come le banche, che intrattengono relazioni di
clientela, siano di fatto rent-seeker e non condividano con le
imprese-clienti i vantaggi legati alla relazione stessa. Nello
schema di Diamond (1984) e nei successivi modelli in cui la
banca agisce come delegated monitor (Mayer 1988; Terlizzese 1988; Von Thadden 1990; Diamond 1991), le relazioni di
clientela consentono all’impresa di ottenere credito a condizioni meno onerose grazie, tra l’altro, alla possibilità per la banca di approfondire la conoscenza del debitore nel tempo. In
tali modelli, però, la caratteristica dell’esclusività del rapporto banca-cliente è fondamentale, anche se rapporti esclusivi
con un intermediario espongono il debitore al rischio di essere «informationally captured» dalla propria banca, la quale
può sfruttare un potere di monopolio implicito nel vantaggio
informativo che ha acquisito rispetto agli altri intermediari
suoi concorrenti e imporre ex post maggiori tassi di interesse
(Sharpe 1990).
La stabilità del rapporto bancario, cui si associa una più approfondita conoscenza dell’impresa affidata e delle sue strategie, e la volontà della banca di mantenere in vita una relazione per il cui avvio ha sopportato dei costi iniziali dovrebbe
inoltre consentire e/o indurre la banca, da un lato, a svolgere
un ruolo di shock absorber, ossia ad ammortizzare gli effetti di
tensioni monetarie che diversamente condurrebbero alla concessione di minore credito o all’innalzamento dei tassi praticati all’impresa, e, dall’altro lato, a gestire le eventuali crisi finanziarie dell’impresa con un approccio più lungimirante e
non esclusivamente rivolto al recupero del credito precedentemente erogato (Hoshi et al. 1990).
Tra gli studiosi che si sono occupati di Rb esiste un vasto
consenso sull’importanza della durata della relazione, così come conferma l’impiego di questa informazione in numerose
verifiche empiriche in cui essa costituisce una delle proxy dell’esistenza e della stabilità della relazione banca-cliente. I risultati di tali verifiche non sono univoci nel dimostrare la rilevanza della durata della relazione al fine del conseguimento dei vantaggi di cui beneficia solitamente l’impresa all’interno di una relazione bancaria stabile. In particolare sembra
che al crescere della durata si abbia maggiore disponibilità di
credito (Cole 1998), ma non sempre minori costi o migliori
condizioni contrattuali (Petersen e Rajan 1994, Degryse e Van
Cayselee 2000, Elsas e Krahnen 1998)2. Risulta altresì che i
benefici di una relazione duratura siano maggiori per le imprese di medio piccole dimensioni che, verosimilmente, sono
maggiormente affette da problemi di asimmetria informativa.
Al di là di queste indagini empiriche, in cui la durata della relazione non viene indagata per sé, esistono solo limitati
studi che si sono proposti di stimare il reale valore della durata e la sua capacità di segnalare la presenza di una relazione di
clientela. Sul primo aspetto Ongena e Smith (2001) hanno
condotto una verifica su un campione di imprese quotate all’Ose (Oslo Stock Exchange) relativamente al periodo 19791995, giungendo a concludere che la durata della relazione ha
valore per le imprese clienti. L’ipotesi di base del loro lavoro
è che il valore della relazione aumenta all’aumentare della sua
lunghezza temporale e che, al contempo, all’allungarsi della
durata dovrebbero verificarsi fenomeni di hold up. Lo studio
analizza la durata delle relazioni detenute dalle imprese del
campione con le principali banche dalle quali esse acquistano servizi finanziari e riscontra che la probabilità che una relazione si interrompa aumenta con la durata della relazione, e
che ciò è tanto più probabile per le imprese giovani e per quelle molto indebitate. In aggiunta a ciò, emerge che spesso le
imprese interrompono la relazione con una banca per passare
a una banca di maggiori dimensioni. Tali evidenze suggeriscono, da un lato, che il valore della relazione si riduce nel
tempo e, dall’altro, che non si verifica hold up del cliente,
nemmeno nel caso in cui questi sia informativamente più opaco, ma che la decisione di interrompere la relazione è dovuta
alla ricerca di banche in grado di offrire servizi più adeguati
all’impresa. Una seconda evidenza che emerge da questo lavoro indica che le imprese che intrattengono rapporti con più
banche tendono comunque ad avere una relazione di lungo
termine accanto alla quale si sviluppano altre relazioni sensibilmente più brevi, il che suggerisce che la pressione competitiva non intacca il ruolo e il valore della banca principale.
Ulteriori indicazioni sulla rilevanza della durata della relazione banca-impresa sono fornite da Gopalan et al. (2007).
Essi analizzano i dati di un campione di prestiti concessi a imprese medio-grandi statunitensi e dimostrano che la probabilità che una relazione bancaria non venga interrotta è maggiore per le imprese molto opache e per quelle molto trasparenti. Ciò suggerisce che la durata della relazione ha un valore specifico soprattutto per le imprese per le quali le soft information sono determinanti. Al tempo stesso il fatto che proprio le imprese più opache mantengano relazioni durature potrebbe confermare l’ipotesi che si verificano fenomeni di holdup, e ciò diversamente da Ongena e Smith (2001).
Se la maggior parte degli studi riconosce che per le imprese affidate la durata della relazione bancaria è importante non
è viceversa dimostrato che questa stessa caratteristica sia determinante per le banche nell’identificare relazioni stabili. A
questo riguardo Elsas (2005) conclude che, dal punto di vista
della banca, una lunga durata della relazione non implica che
essa sia anche «intensa» e tale da rientrare nell’accezione di
Rb. In dettaglio lo studio si propone di individuare gli elementi sulla base dei quali una banca definisce relationship un
rapporto di clientela. La verifica è condotta su un campione
di imprese di piccole o medie dimensioni aventi rapporti con
una delle prime 5 banche tedesche per le quali è stato, in primo luogo, chiesto al responsabile crediti della banca se si trattava di una relazione di tipo Hausbank o meno e perché. Nei
195 casi per i quali è stata individuata una relazione del tipo
Hausbank, la durata della relazione non appare un’importante variabile esplicativa dell’attribuzione effettuata dal responsabile crediti. Non si rilevano inoltre differenze significative
tra la durata delle relazioni tipo Hausbank e le altre, né que-
2 Sui risultati di tali verifiche si veda il paragrafo successivo.
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CONTRIBUTI
sta variabile è risultata in grado di discriminare efficacemente tra le imprese con relazioni di Hausbank e le altre3.
4 L’intensità della relazione
Se, come afferma la letteratura sull’intermediazione finanziaria degli ultimi 30 anni, il vantaggio informativo delle banche rispetto ai mercati risiede nel disporre di informazioni non
pubbliche, raccolte anche attraverso l’osservazione dell’andamento delle operazioni perfezionate con il cliente (Diamond
1984, Sharpe1990), allora si può concludere che l’ampiezza e
la profondità della relazione banca-cliente sono importanti.
Nel caso estremo in cui l’impresa utilizzi i servizi finanziari offerti da un’unica banca, quest’ultima ha infatti la possibilità
di avere una conoscenza completa della gestione finanziaria
dell’impresa. Esiste inoltre un forte incentivo a sostenere i costi necessari ad appropriarsi di tali informazioni e a elaborarli. Viceversa, nel caso in cui l’impresa intrattenga una molteplicità di rapporti bancari, le informazioni private a disposizione di ogni singola banca si riducono.
È altresì vero che, per un’impresa, concentrare la propria
attività con una sola banca aumenta i rischi di essere informativamente catturata e questo potrebbe indurre le imprese
a diversificare le fonti di finanziamento per ridurre il rischio
di liquidità (Sharpe 1990, Rajan 1992, Berger et al. 2001b, de
Bodt et al. 2005). Al tempo stesso si osserva che la necessità
per la banca di mantenere un portafoglio crediti adeguatamente diversificato comporta in taluni casi l’impossibilità di
coprire l’intero fabbisogno finanziario esterno dell’impresa.
Come nel caso della durata, l’intensità della relazione è utilizzata come proxy nelle numerose verifiche empiriche sul tema del Rb. Tuttavia, a differenza della durata – espressa solitamente attraverso il numero di anni intercorsi dall’inizio della relazione bancaria – il concetto di intensità è stato espresso facendo riferimento a una pluralità di variabili tra cui:
• numero di banche finanziatrici (Petersen e Rajan 1994, Cole 1998; Ongena e Smith 2000, de Bodt et al. 2005);
• numero di servizi – diversi da quelli di credito – acquistati
presso un’unica banca (ampiezza della relazione) (Cole 1998,
Degryse e van Cayseele 2000);
3 La scarsa importanza del fattore tempo è confermata anche dalla non significatività della variabile rappresentata dalla percentuale di prestiti a lungo termine concessi all’impresa
sul totale del credito erogato.
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CONTRIBUTI
BANCARIA n. 5/2009
• quota del credito bancario concesso da una banca rispetto
al totale utilizzato da un’impresa (profondità della relazione)
(Harhoff e Koerting 1998; Ferri e Messori 2000; Machauer e
Weber 2000; Ongena e Smith 2000; Berger et al. 2001a, Ongena et al. 2008).
Gli studi indicano che, anche in sistemi finanziari cosiddetti bank-based (essenzialmente quelli dell’Europa continentale) in cui il Rb dovrebbe essere maggiormente sviluppato anche a motivo della minore dimensione media delle imprese e della conseguente maggiore opacità informativa, le imprese intrattengono una pluralità di rapporti bancari. In particolare, Ongena e Smith (2000) analizzano le risposte fornite nel 1996 a un questionario erogato a un campione di più di
1.000 imprese europee (20 paesi) dalle quali emerge che in media solo il 15% delle imprese ha rapporti4 con una sola banca
e che tale percentuale appare più elevata nei paesi del Nord
Europa rispetto all’Europa meridionale. Negli altri casi,
conformemente con la teoria, il numero di banche tende ad
aumentare al crescere delle dimensioni dell’impresa, confermando i risultati di Houston e James (1996), anche se questa
relazione appare discontinua tra le varie classi dimensionali e
se permangono specificità legate al paese di origine delle imprese. Il caso estremo di multibanking è rappresentato dall’Italia dove in media le imprese hanno rapporti con 15 banche
(rispetto alla media dell’intero campione pari a 5,6).
Dalla letteratura empirica emerge inoltre che la presenza
di una pluralità di banche finanziatrici riduce i benefici attesi dal Rb (Petersen e Rajan 1994 e 1995), che invece aumentano all’aumentare dell’ampiezza della relazione, ossia quando l’impresa acquista dalla stessa banca anche strumenti per
la gestione della liquidità e dei pagamenti. Tuttavia, gli studi
più recenti evidenziano che l’ipotesi alla base del multiple
banking, e cioè che tutte le banche con cui un’impresa opera
apportano la stessa quota di finanziamenti, appare poco verosimile dal momento che, come Ongena et al. (2008) dimostrano, è quasi sempre individuabile una banca principale
(main- o haus-bank) che è quella che effettivamente detiene
una relazione.
Questa impostazione appare coerente con i risultati del già
citato studio di Elsas (2005) da cui emerge che, per le banche,
4 L’indagine si concentra sul numero di banche da cui l’impresa acquista servizi di cash management intesi in senso lato. Il 92% delle imprese del campione dichiara infatti di ricomprendere sotto questa dicitura anche servizi lending-related oltre che di liquidity management.
la variabile in assoluto più rilevante per poter attribuire la caratteristica di Hausbank a un rapporto di clientela è la percentuale erogata dalla banca del totale dei prestiti bancari utilizzati dall’impresa. La verifica empirica, condotta su un ampio campione di imprese tedesche clienti delle maggiori banche del paese, mostra infatti che a fronte del limitatissimo valore esplicativo della variabile «numero di banche finanziatrici», la quota di prestiti concessi dalla banca all’impresa possiede una significativa capacità di discriminare tra le relazioni di tipo Hausbank e le altre.
Il Rb si conferma quindi come un fenomeno che non è necessariamente in contrasto con la prassi – ampiamente diffusa in Italia – del multiaffidamento, sempre ammesso che esista una banca presso la quale si concentra una parte consistente delle transazioni finanziarie perfezionate dall’impresa.
5 Modalità operative e organizzative del Rb
Accanto alle caratteristiche di durata e intensità della relazione banca-cliente, il Rb presuppone che la banca che gestisce tale relazione operi in modo tale da acquisire effettivamente un vantaggio legato all’acquisizione di informazioni
private rispetto agli altri prestatori. Tali modalità operative si
identificano in:
a capacità di acquisire soft information relativamente al
cliente;
b utilizzo di tecniche di prestito (lending technolgies) e di
specifici contratti che consentano di sfruttare al meglio nelle
fasi di screening e di monitoring le informazioni di cui al punto precedente;
c assetto distributivo e/o organizzativo della banca tale da garantirne la «prossimità» al cliente, fattore che risulta cruciale per il verificarsi delle due condizioni sopraillustrate.
L’importanza della distinzione tra hard information e
soft information. Negli ultimi anni la letteratura sul Rb ha
introdotto un’esplicita distinzione tra hard information e soft
information. Gli autori che maggiormente hanno cercato di
definire le due tipologie di informazioni sono Stein, 2002 e
Petersen, 2004. La distinzione è stata poi frequentemente utilizzata in numerosi lavori empirici recenti.
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CONTRIBUTI
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Stein (2002) esplicitamente afferma di rifarsi a una distinzione da tempo in uso nella letteratura di accounting e definisce soft «l’informazione che non può essere direttamente verificata da nessun altro all’infuori dell’operatore che la produce» e hard l’informazione verificabile sulla base di dati oggettivi. Petersen, anziché definire le due tipologie di informazione, si sofferma sulle loro diverse caratteristiche e modalità
di raccolta e di elaborazione. Secondo tale approccio la hard
information riguarda variabili quantitative ed è pertanto rappresentabile attraverso numeri, ad esempio dati di bilancio,
dati su produzione, su puntualità nei pagamenti, su andamento
dei titoli azionari, ecc. La soft information è invece rappresentata da variabili qualitative, ad esempio giudizi, opinioni,
idee, «rumors» e altre valutazioni di aspetti quali la qualità del
management e della proprietà nonché il loro profilo etico, i
progetti futuri dell’impresa, le condizioni dei mercati di sbocco e di approvvigionamento, ecc. Queste ultime variabili sono solitamente espresse e comunicate con parole.
La raccolta di hard information è impersonale e standardizzata. Ciò implica che:
a la persona che raccoglie l’informazione può essere diversa
dalla persona che valuta e decide sulla base della stessa informazione;
b possono essere conseguite economie di scala nel processo
di produzione dell’informazione e si può beneficiare degli sviluppi della tecnologia che ne hanno facilitato la raccolta, la
trasmissione e la conservazione;
c la possibilità di riutilizzare nel tempo la hard information
è maggiore per il fatto che essa è facilmente archiviabile e che
il costo di mantenimento dell’informazione stessa è basso.
Specularmente, il contesto nel quale viene raccolta la soft
information e la persona che la raccoglie sono parte integrante
dell’informazione e non è possibile separare questi aspetti.
Inoltre la soft information è basata sull’esperienza di chi la osserva e pertanto essa:
a non può essere facilmente verificata e/o trasmessa a persone diverse da quelle direttamente coinvolte nella relazione;
b non è facilmente catalogabile e archiviabile per poter essere utilizzata in futuro.
Diventa quindi fondamentale, nella decisione di concede-
re o rinnovare il prestito, il ruolo svolto dal soggetto responsabile della raccolta delle informazioni.
Entrambi gli autori, inoltre, introducono l’idea che la soft
information in alcuni casi può essere trasformata in hard information. Petersen sottolinea che la distinzione non è definita
esogenamente proprio perché nella pratica è possibile cambiare la natura dell’informazione. Un interessante esempio
che egli riporta è quello della nascita delle agenzie di rating
come operatori che offrono un servizio di trasformazione delle informazioni soft utilizzate dai mercanti locali per concedere dilazioni di pagamento, in informazioni hard che i diversi
mercanti poterono così utilizzare in contesti commerciali ben
più ampi. Stein, a sua volta, sottolinea come l’hardening delle soft information permette di trasferire e condividere l’informazione all’interno di un’organizzazione.
Nella pratica, l’hardening di alcune soft information consente il loro inserimento nei modelli di credit scoring che pertanto possono essere impiegati anche per la valutazione del
merito di credito di soggetti per i quali questa seconda tipologia di informazioni risulta determinante5. A questo proposito
Petersen evidenzia tuttavia che la trasformazione di soft information in hard information comporterebbe inevitabilmente
una perdita di informazione. Questa importante considerazione va verificata sul campo: se come alcuni lavori dimostrano (Berger e Frame 2007, Akhavein et al. 2005) contestualmente all’utilizzo del Small Business Credit Scoring, la quantità di credito alle piccole e medie imprese aumenta (senza peraltro che aumenti sensibilmente il rischio di credito del portafoglio), si può concludere che:
• per le banche il vero ostacolo nel concedere credito a soggetti opachi è rappresentato dagli elevati costi di transazione,
più che dall’impossibilità di una stima del rischio puntuale;
• il processo di hardening delle soft information funziona, nel
senso che sebbene vengano perse alcune informazioni, le soft
information arricchiscono efficacemente la valutazione del
merito di credito;
• tutto ciò non esclude la validità del Rb, perché per raccogliere informazioni soft, e ancor di più per renderle efficacemente hard, bisogna sviluppare una stretta relazione di clientela.
Le lending technologies. Tra gli studiosi che maggiormente si sono occupati di Rb, Berger e Udell hanno sviluppato,
negli ultimi quindici anni, una serie di contributi che:
1 sistematizzano il tema del Rb in una prospettiva di gestione della banca, introducendo problematiche di carattere tecnico/gestionale e organizzativo;
2 svolgono una serie di riflessioni e approfondimenti, ma anche ripensamenti di natura concettuale e teorica, che risultano di interesse anche nella prospettiva della regolamentazione (ad esempio, Basilea 2);
3 pur muovendosi nel contesto nord-americano, affrontano
tematiche di rilievo per il contesto italiano ed europeo, caratterizzato da una maggiore presenza di piccole e medie imprese.
Benché i due autori si propongano di sistematizzare in termini generali il tema del Rb, la maggior parte delle loro considerazioni si riferisce al Rb nei confronti delle piccole e medie imprese. Negli studi di questi autori l’oggetto del Rb si intreccia con il tema delle caratteristiche strutturali/dimensionali ottimali delle banche che lo praticano, con quello delle
possibili conseguenze (negative) per le piccole e medie imprese delle numerose operazioni di M&A nell’industria bancaria e, infine, con quello della possibile evoluzione dell’industria bancaria (nord americana) in termini di grandi e piccole/nuove banche.
Sin dal 1995 i due autori riconoscono l’importanza delle diverse forme tecniche di prestito ma è nel 2002 che introducono una classificazione dei prestiti basata sulle «lending technologies» classificazione che nel corso dei successivi contributi (2006) dettagliano ulteriormente. Il termine si riferisce contemporaneamente alle diverse forme tecniche, ma anche e soprattutto ai retrostanti differenziati processi di erogazione/monitoraggio del credito. In particolare, viene specificato che una lending technology rappresenta la combinazione unica tra principale fonte di informazione (hard o soft),
processo di screening, struttura del contratto, politiche e procedure di monitoring.
Nel lavoro del 1995 Berger e Udell distinguono tra la forma tecnica dell’apertura di credito in conto corrente – quella
che a loro parere meglio delle altre si presta appunto a svilup-
5 Un’indagine condotta dalla Banca d’Italia (Albereto et al. 2008) mostra che le tecniche di
scoring si stanno ampiamente diffondendo in Italia a partire dal 2003 anche se al 2007 sono state adottate in prevalenza dalle banche maggiori. Inoltre l’incorporazione di informazioni di tipo qualitativo nei modelli di scoring ha un peso modesto e un utilizzo limitato.
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CONTRIBUTI
pare relazioni di clientela di lungo periodo – e le altre tipologie contrattuali di prestiti definiti «transactions-driven» loans,
quali i mutui e i prestiti per l’acquisto di autoveicoli, e dimostrano che la clientela che utilizza la prima forma tecnica beneficia, a parità di tutte le altre caratteristiche (rischio, durata della relazione, ecc.), di migliori condizioni contrattuali.
Successivamente (Berger e Udell 2002), con riferimento
all’attività di credito alle piccole e medie imprese, affinano la
classificazione dei prestiti individuando quattro diverse «tecnologie», di cui tre riferibili al Transactions based lending (Tl)
e una al Rl. Al Tl appartengono: a) financial statement lending (prestiti erogati sulla base dei bilanci dell’impresa che devono essere certificati da un’autorevole società di revisione);
b) asset-based lending (prestiti garantiti da componenti dell’attivo circolante dell’impresa, quali le scorte e i crediti commerciali), e c) credit scoring (prestiti basati su tecniche di credit scoring che si avvalgono di informazioni sia raccolte dalla
banca sia ottenute da credit bureaus). In tutti e tre i casi si
tratta di prestiti la cui valutazione si basa su hard information.
Nel caso del Rb la banca basa, invece, la decisione di concedere il prestito prevalentemente su informazioni proprietarie
di tipo soft, il cui valore supera quello delle informazioni che
si possono ottenere dai bilanci, dal credit scoring e dalle garanzie, e permette al relationship lender di affrontare i problemi dell’opacità delle informazioni sul cliente meglio di
quanto possa farlo il transactions lender.
Nel 2006 i due autori, dopo avere ribadito che la comune
distinzione tra transactions lending e relationship lending è
una semplificazione eccessiva perché porta erroneamente a ritenere che il primo si rivolge esclusivamente a clientela trasparente e il secondo a clientela opaca, alle tre tecnologie proprie del transactions lending individuate nel 2002 ne aggiungono altre tre: d) factoring, e) leasing e f) fixed-asset lending
(ossia prestiti concessi sulla base di una garanzia rappresentata da attività immobilizzate). La conclusione cui giungono è
che nel novero delle transactions based lending technologies
solo il financial statement lending si rivolge a clientela trasparente, mentre tutte le altre tecniche possono essere utilizzate anche con clientela informativamente opaca. Tali considerazioni danno conto dello sforzo fatto dai due economisti di
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CONTRIBUTI
BANCARIA n. 5/2009
modellare il problema in modo più aderente alla complessità
tecnica e operativa dell’attività di prestito bancaria. Al tempo
stesso, esse spiegano indirettamente le difficoltà che si incontrano nei lavori empirici che contrappongono la clientela relationship a quella transactions, dal momento che nel caso in
cui il cliente venga affidato con forme tecniche che rimandano sia al Tl sia al Rl, è difficile comprendere dall’esterno quale sia l’approccio predominante nella relazione di clientela, e
tale difficoltà si acuisce nel caso di multiaffidamento.
In realtà questo filone recente di letteratura necessita di un
ulteriore affinamento dal momento che la classificazione di
lending technologies proposta non riesce a tenere debitamente conto della distinzione tra modalità di screening e forma tecnica e che contemporaneamente nella realtà operativa
sono prevalenti i casi in cui nei confronti di un singolo cliente non emerge una specifica lending technology come prevalente sulle altre. Ad esempio, il credit scoring che è considerato una lending technology a sé stante, in realtà rappresenta
una screening technology che può essere utilmente applicata
sia per erogare un’apertura di credito – tipica operazione di
Rb – sia per erogare un mutuo ipotecario – tipica operazione
di Tb. Analogamente, il financial statement lending, ossia l’analisi di bilancio, viene utilmente applicata anche su bilanci
non certificati – che caratterizzano la clientela opaca – sebbene in questo secondo caso l’analista finisca con l’integrare
questa analisi con altre informazioni, ad esempio quelle di tipo soft e/o con forme tecniche di tipo asset-based.
La prossimità tra banca e cliente e le scelte organizzative della banca. Nell’ambito del Rb ampio spazio è stato
dato al tema della prossimità tra banca e cliente, quale caratteristica in grado di influenzare le modalità secondo le quali si
svolge la relazione banca-cliente e soprattutto la possibilità per
la prima di acquisire un vantaggio informativo. Inizialmente,
la prossimità è stata intesa come vicinanza fisica tra il luogo in
cui risiede o ha sede il cliente (impresa) e la banca e ad essa sono stati riferiti alcuni benefici, tra cui il sostenimento di minori costi di trasferimento per l’acquisizione di informazioni
utili sia in fase di screening sia in fase di monitoring nonché la
maggiore disponibilità e/o la minore onerosità delle informazioni relative al contesto ambientale in cui il cliente opera.
Con riferimento al primo aspetto Petersen e Rajan (2002)
e Petersen (2004) sottolineano che per l’acquisizione di soft
information è necessaria l’interazione tra la banca e il cliente, interazione che a sua volta genera costi per il trasferimento del cliente verso la banca. Tali costi aumentano all’aumentare della distanza e rappresentano un onere per il cliente; si creano così le condizioni perché la banca possa praticare politiche di pricing basate sulla discriminazione spaziale della clientela. Ai clienti più lontani – che sostengono maggiori costi di trasferimento e che più facilmente possono decidere di rivolgersi a banche a loro più vicine – vengono pertanto praticati tassi più bassi rispetto a quelli praticati alla clientela prossima e quindi meno esposta alla concorrenza di banche più lontane (Sussman e Zeira 1995).
Degryse e Ongena (2005), sulla base di un campione di prestiti concessi da una grande banca belga a piccole e medie imprese, forniscono evidenze sull’esistenza di una relazione inversa tra il livello del tasso e la distanza che separa la banca
dal cliente e, viceversa, una relazione positiva tra tasso e distanza cliente-banca concorrente. La discriminazione spaziale appare però meno forte nel caso in cui il cliente sia legato
alla banca da una relazione ampia e duratura e cioè nei casi in
cui questi acquisti dalla banca più di un servizio finanziario e
sia cliente della stessa banca da più tempo. Questo ultimo risultato suggerisce che la prossimità/distanza banca-cliente ha
una minore rilevanza sulle politiche di pricing relative alla
clientela relazionale; lo studio non fornisce peraltro alcuna indicazione sulla reale rilevanza della prossimità quale elemento cruciale per lo sviluppo di relazioni banca-cliente. A tale
proposito Agarwal e Hauswald (2006), sulla base di un campione di piccole e medie imprese nordamericane, dimostrano
che le imprese non scelgono necessariamente la banca più vicina, suggerendo che altri fattori influenzano la scelta della
banca. Questa evidenza può derivare dal fatto che sempre più
frequentemente la clientela imprese viene seguita da consulenti specializzati che si recano direttamente dal cliente e non
viceversa: i costi di trasferimento non gravano pertanto più
sul cliente.
L’evidenza empirica – Petersen e Rajan (1995 e 2002) e
Cerquiero et al. (2007) – suggerisce che, soprattutto negli Sta-
ti Uniti, la distanza tra banca e cliente è aumentata nel corso
degli ultimi due decenni6. I progressi nella tecnologia della comunicazione e nel trattamento delle informazione hanno, da
un lato, consentito di avviare un processo di trasformazione
delle informazioni soft in informazioni hard (Petersen 2004)
anche attraverso il ricorso al credit scoring (DeYoung et al.
2008) e, dall’altro, hanno accresciuto le possibilità di trasferimento delle informazioni per via telematica. Tutto ciò ha sicuramente abbattuto i costi di trasferimento e di trasmissione
delle informazioni, ma non è chiaro se abbia ridotto la significatività della prossimità tra banca e cliente ai fini informativi. A questo proposito Petersen e Rajan (1995), dopo avere
riscontrato che nel corso degli anni ’80 e’90 è aumentata la
distanza che separa un vasto campione di piccole e medie imprese statunitensi e gli intermediari da cui esse ottengono credito ed è aumentata la probabilità che i contatti avvengano
in modo impersonale, evidenziano che se tra gli intermediari
prestatori si considerano solo le banche – e in particolare quelle presso le quali le imprese detengono un rapporto di conto
corrente – i risultati cambiano sensibilmente. Si accresce la
percentuale di imprese che comunicano di persona con la banca e si riduce notevolmente la distanza media tra banca e cliente. La preferenza per il contatto personale con la banca aumenta anche nel caso in cui la banca in questione sia considerata la banca con la quale l’impresa principalmente opera.
Nel complesso, tali evidenze suggeriscono che nel caso in cui
si sviluppino rapporti del tipo Rb la distanza tra banca-impresa
mantiene una sua rilevanza e che la distanza dal cliente rappresenta un ostacolo al superamento delle lacune informative che caratterizzano le imprese di piccole dimensioni.
Più recentemente, il concetto di prossimità banca-cliente
è stato interpretato non più in termini di distanza spaziale,
bensì di distanza «funzionale». Secondo Alessandrini et al.
(2008) – che introducono per primi il concetto di distanza
«funzionale» – si deve tenere conto non solo degli aspetti prettamente spaziali ma anche di quelli di carattere culturale e sociale. Diventa così rilevante non solo la distanza tra il cliente e lo sportello bancario, bensì quella tra il cliente e la cosiddetta «testa pensante» della banca, ossia la sede o comunque il luogo fisico nel quale vengono effettivamente perfezio-
6 Diversamente Degryse e Ongena (2005), che con riferimento al Belgio osservano che
nella seconda metà degli anni ’90 la distanza tra banca e impresa si è ridotta. Con riferimento all’Italia, la notevole espansione degli sportelli che si è realizzata negli ultimi vent’anni farebbe propendere per una situazione simile a quella belga.
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CONTRIBUTI
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nate le decisioni creditizie7. A parità di distanza tra il cliente
e lo sportello bancario, ben diversa è la situazione a seconda
che il potere decisionale necessario per deliberare su una richiesta di prestito spetti allo sportello stesso ovvero a un organo localizzato lontano dallo sportello. Nel secondo caso è
evidente che si ripropongono, ancorché a un livello superiore, molti dei problemi inizialmente analizzati e derivanti dalla distanza tra banca e cliente. Si passa pertanto dall’analisi
del rapporto banca-cliente con riferimento alla caratteristiche
distributive dei servizi finanziari, a un approccio che pone l’accento sugli aspetti organizzativi e sulle interrelazioni tra questi ultimi e il Rb.
Stein (2002) teorizza le condizioni organizzative ottimali
in base alle quali la banca è in grado di sfruttare le soft information nel processo di valutazione del merito di credito di un
cliente. Considerata la natura delle soft information si postula che all’aumentare del grado di verticalizzazione gerarchica
della struttura organizzativa della banca, diminuisce la sua capacità di utilizzare le soft information. Ciò porterebbe a concludere che banche di grandi dimensioni e molto diversificate e caratterizzate da modelli organizzativi complessi e accentrati risultano meno efficienti nella gestione di relazioni con
clientela informativamente opaca.
Analogamente, nello schema proposto da Berger e Udell
(2002) si sottolinea che nel Rb il loan officer (la filiale, il gestore imprese) deve disporre di un elevato potere decisionale
e che allo stesso tempo tale maggior potere deve essere controbilanciato da un sistema di controlli volti a minimizzare i
problemi di agenzia che potrebbero sorgere tra loan officer e
top management e, a catena, tra top management e proprietà
e tra proprietà e autorità di vigilanza e creditori (ad esempio,
detentori di prestiti subordinati). Questo porta a concludere
che la migliore forma organizzativa per lo svolgimento del Rb
è quella propria delle banche di piccole dimensioni, in cui si
osservano un numero inferiore di livelli gerarchici e, conseguentemente, minori problemi di controllo. Berger et al
(2005) partono dal modello di Stein e testano empiricamente l’ipotesi secondo la quale le grandi banche sono svantaggiate nella produzione e nell’uso delle soft information e dimostrano che le grandi banche:
tendono a concentrare il loro portafoglio prestiti verso
grandi imprese o comunque imprese più trasparenti;
b tendono a interagire con imprese che sono fisicamente più
distanti dalla banca e che tendono a rapportarsi con la banca
in modo più impersonale (via telefono o per posta!);
c hanno relazioni di più breve durata e meno esclusive con
le imprese clienti;
d non svolgono altrettanto efficacemente delle banche piccole il ruolo di shock absorber.
Questi risultati non consentono, peraltro, di formulare alcuna conclusione sull’effettiva possibilità per una banca di
grandi dimensioni di superare i problemi legati alla raccolta e
all’utilizzo di soft information attraverso l’implementazione di
un modello organizzativo piatto e molto decentralizzato. A
questo riguardo, Bongini et al. (2007b) replicano alla considerazione che la complessità organizzativa propria delle banche grandi e la distanza che spesso separa il cliente dai centri
decisionali di queste ultime impedisce il trasferimento delle
soft information e costituisce un ostacolo alla soluzione delle
problematiche informative proprie delle Pmi, osservando, da
un lato, che la grande dimensione consente di implementare
con successo ed economicamente le sofisticate tecniche di
prestito basate sulle hard information (rating, credit scoring,
factoring) e, dall’altro, che la grande dimensione può in pratica essere conseguita mediante l’agglomerazione di più unità
bancarie di piccole dimensioni. In altri termini, si sostiene che
la contrapposizione tra banca grande e banca piccola è in
realtà troppo semplicistica e può essere superata nel momento in cui le banche grandi si strutturano in forma di gruppi al
cui interno operano tante piccole banche. Questa soluzione,
peraltro assai diffusa in pratica, consente in linea di principio
alle banche di beneficiare dei vantaggi legati alle economie di
scala e al tempo stesso di quelli propri della vicinanza al territorio. Con specifico riferimento al contesto italiano, è stato
osservato che esistono modalità diverse secondo cui le partecipate vengono organizzate all’interno dei gruppi bancari e che
la scelta del modello organizzativo all’interno dei gruppi non
è indifferente rispetto alla capacità dello stesso di perseguire i
propri obiettivi economici e alle performance ottenute. Resta
peraltro il dubbio che le banche (piccole) facenti parte di un
a
7 Una recente indagine di Banca d’Italia (Albereto et al. 2008) evidenzia che tra il 2000 e
il 2006 si assiste a un generale aumento della distanza tra la struttura centrale e gli sportelli delle banche italiane.
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CONTRIBUTI
gruppo siano effettivamente in grado di replicare le caratteristiche operative proprie delle banche piccole indipendenti,
cui la letteratura attribuisce una posizione di privilegio nei rapporti con le Pmi.
6 Miti e realtà del Rb
La nostra rassegna della letteratura teorica ed empirica sul Rb
ha evidenziato che gli elementi tradizionalmente utilizzati per
descrivere il Rb sono stati identificati nei seguenti:
• presenza di rapporti duraturi tra banca e cliente;
• intensità della relazione, in particolare, con riferimento ai
rapporti di credito;
• ampiezza della relazione (scope), che si sostanzia nell’offerta di una pluralità di prodotti/servizi oltre al credito;
• vicinanza fisica tra la banca (sportello) e il cliente.
In realtà l’elemento veramente caratterizzante risulta essere la profondità della relazione di clientela, sia in termini di
intensità del lending, misurata da un indice dato dalla quota
di finanziamenti erogati da una singola banca sul totale dei
prestiti bancari utilizzati dall’impresa, sia in termini di scope
della relazione. Per contro la durata della relazione rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente per identificare il Rb: il solo protrarsi nel tempo della relazione, in assenza delle precedenti condizioni, non appare in grado di discriminare un rapporto di tipo relationship da uno di tipo transactions-based. Infine, la vicinanza fisica tra banca e cliente
non rappresenta più un elemento distintivo del Rb dal momento che la tecnologia e le nuove modalità distributive consentono altre e talora più efficaci forme di interazione tra banca e cliente.
Nel momento in cui si verificano le condizioni di cui sopra, la teoria suggerisce che il Rb dovrebbe comportare per il
cliente, a parità di condizioni di rischio, specifici vantaggi in
termini di:
• maggiore disponibilità di credito;
• minore necessità di fornire garanzie;
• minore costo del credito;
• disponibilità della banca a praticare condizioni indipendenti dalle condizioni economiche generali e da temporanei
scostamenti nella situazione di rischio specifica del cliente
(loan rate smoothing).
Le numerose evidenze empiriche che si sono susseguite nel
corso degli ultimi venti anni mostrano una sostanziale conferma dei primi due punti, indipendentemente dai contesti
istituzionali ai quali ci si riferisce (anglosassoni o dell’Europa
continentale). Per contro, sul fronte del costo del credito le
evidenze empiriche non possono considerarsi conclusive.
Inoltre, a differenza di quanto in passato sottolineato da numerosi autori e cioè che il Rb comporta i maggiori vantaggi
essenzialmente per le imprese di minori dimensioni, i recenti
studi empirici hanno evidenziato che i vantaggi del Rb si
estendono anche alle imprese di maggiori dimensioni e la relazione di clientela non è confinata all’attività di lending tradizionale bensì riguarda anche altre aree di business, in particolare l’investment e il corporate banking.
Dal punto di vista degli intermediari, numerosi contributi,
soprattutto in passato, hanno sottolineato che il Rb riguarda
le banche commerciali che lo scelgono come unica modalità
operativa in alternativa a un approccio di tipo Transaction
banking (Tb). In realtà, come abbiamo avuto modo di evidenziare nella rassegna effettuata, il Rb non è di specifico appannaggio delle sole banche commerciali: anche le investment banks vi ricorrono nella loro operatività di accompagnamento delle imprese sui mercati finanziari. Inoltre, il Rb
rappresenta una scelta gestionale in funzione del segmento di
clientela servito e della tipologia di prodotti e servizi offerti e
ciò vale anche nell’ambito del solo lending. Nei contributi
teorici più recenti e soprattutto nella realtà operativa, le banche utilizzano contestualmente i due approcci, Tb e Rb, nell’ambito delle numerose lending technologies di cui possono
disporre. Ciò implica il superamento dei binomi clientela opaca-Rb e clientela trasparente-Tb.
Nella scelta tra un approccio di tipo transaction e uno di
tipo relationship, per la banca risulta determinante la sua capacità di raccogliere e utilizzare le soft information. Tuttavia,
le recenti innovazioni nelle modalità di misurazione del rischio di credito, incentivate anche dagli sviluppi della regolamentazione (Basilea 2), hanno indotto le banche a un utilizzo sempre più spinto ed esclusivo di tecniche e modelli di
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CONTRIBUTI
scoring e rating della clientela, alimentati da sole informazioni quantitative (hard information). In realtà lo sviluppo di
questi modelli non comporta necessariamente il declino della raccolta e dell’utilizzo di soft information e quindi del Rb.
Infatti, tali informazioni possono essere proficuamente utilizzate anche in metodologie più avanzate di misurazione del merito di credito purché opportunamente sottoposte a un processo di hardening. Tale processo non esclude quindi la validità del Rb perché per raccogliere informazioni soft, e ancor
di più per renderle efficacemente hard, occorre sviluppare una
stretta relazione di clientela.
A lungo la letteratura ha individuato nelle banche di minori dimensioni quelle più attrezzate per offrire il Rb a motivo
della loro minore complessità organizzativa che consente un
più agevole ed efficace utilizzo delle soft information. A nostro
parere, la contrapposizione tra banca grande e banca piccola è
in realtà troppo semplicistica e comunque può essere superata
nel momento in cui le banche grandi si strutturano in forma
di gruppi al cui interno operano tante piccole banche radicate sul territorio. Più in generale, la dimensione risulta meno
importante quando il modello organizzativo è in grado di conciliare la necessità di attribuire maggiore autonomia decisionale alla periferia con quella di consentire uno stretto controllo
da parte del centro. Su questi aspetti non vi sono ampie evidenze empiriche, e questo filone di indagine appare al momento tra i più promettenti. Tra i pochi a nostra conoscenza,
possiamo citare lo studio di Rajan e Wulf (2006) che dimostra,
per il caso statunitense e con riferimento a tutti i settori industriali, una tendenza all’appiattimento (flattening) delle strutture gerarchiche nelle imprese di maggiori dimensioni, grazie
al quale, da un lato, si è ampliato il grado di controllo dei CEOs
e, dall’altro, si è accresciuto il potere decisionale e più in generale l’empowerment dei divisional managers, cui peraltro
fanno capo divisioni dimensionalmente più piccole. Ad analoghi risultati giunge un’indagine di Banca d’Italia (Albareto
et al. 2008) che, analizzando le caratteristiche delle soluzioni
organizzative adottate dalle banche nell’attività di erogazione
del credito, evidenzia come tra il 2003 e il 2006 siano aumentati il potere decisionale dei responsabili delle filiali e l’uso di
incentivi economici legati ai risultati conseguiti.
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CONTRIBUTI
BANCARIA n. 5/2009
A conclusione di questo lavoro, ci sembra opportuno evidenziare come nell’ambito di una letteratura così vasta poco
spazio è stato sino ad oggi dedicato alla misurazione dei vantaggi economici che la banca trae dal praticare Relationship
banking, anche se recentemente sono stati svolti studi che
mostrano, tra l’altro, che la focalizzazione da parte delle banche su aree d’affari tradizionali e su politiche incentrate sul Rb
rappresenta l’elemento caratterizzante delle banche che hanno risentito meno della crisi diffusasi nel sistema bancario nel
corso del 2008 (cfr. Beccalli et al. 2009).
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