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Rosso Fiorentino e la Deposizione di Volterra
n° 320 - maggio 2005 © Tutti i diritti sono riservati Fondazione Internazionale Menarini - è vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle fotografie Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it Rosso Fiorentino e la Deposizione di Volterra Dalla Firenze dei drammatici rivolgimenti politici, della mistica predicazione savonaroliana, delle effimere repubbliche, dei tormenti religiosi, degli intrighi finanziari e delle inquietudini sociali, uscirono tre Maestri che seppero portare l’arte a livelli altissimi malgrado l’ombra titanica di Leonardo, Raffaello e soprattutto Michelangelo, la cui “terribilità” pareva gravare su Firenze con una forza speciale ed inusitata. I tre Maestri furono Andrea del Sarto, Pontormo e Rosso Fiorentino. A loro, Vasari ha dedicato pagine indimenticabili, nelle quali serpeggiano comprensione critica, gusto per l’aneddoto e strisciante antipatia di chi, artista cortigiano, già calato negli equilibri anche psicologici di compiacente interprete dei gusti del “Principe”, nutre sospetto verso colleghi tormentati ma, a modo loro, liberi. Per essi Vasari ha avuto parole, meglio, definizioni, in grado di stringere in una sintesi efficace il senso di una vita e del contributo lasciato da un passaggio terreno alla storia dell'arte. Così, Andrea del Sarto (1486-1530), è diventato il “pittore senza errori”, gravato da una timidezza profonda e invincibile, di cui lo sfortunato matrimonio con la perfida Lucrezia fu lo specchio, che gl’impedì di essere un grande senza pari, lasciando non pienamente soddisfatte le aspettative che le sue qualità innate avevano suscitato. Jacopo Carucci detto il Pontormo (1494-1557) è invece consegnato alla memoria come colui il quale «guastando e rifacendo oggi quello che aveva fatto ieri, si travagliava di maniera il cervello, che era una compassione». Spirito saturnino, Pontormo, «non avendo fermezza nel cervello andava sempre nuove cose ghiribizzando». Giovanni Battista di Jacopo, detto Rosso Fiorentino molto probabilmente per il colore dei capelli, nato a Firenze nella parrocchia di San Michele Visdomini l’8 marzo 1494, non sembrava gravato da tare caratteriali. Giorgio Vasari lo descrive come un uomo di brillante conversazione, gli riconosce “buoni termini di filosofia”, ovvero una preparazione culturale fuori dal comune, di cui furono prova l’amicizia con i letterati, in primis l’Aretino, afferma che sapeva suonare il liuto. Il solo difetto che lo storico aretino gli attribuisce, è l’eccessiva indipendenza di giudizio, che poteva sembrare una forma di spavalderia. Scrive, Vasari, che Rosso «con pochi maestri volle stare all’arte, avendo egli una certa sua opinione contraria alle maniere di quegli». Di certo, la sua formazione s’incontrò con la personalità di Andrea del Sarto, che aveva silenziosamente coltivato il proprio talento fino alla celebre opportunità derivatagli dall’allogagione degli affreschi per il Chiostrino dei Voti alla SS. Annunziata di Firenze. In una delle scene di maggiore modernità, l’Adorazione dei Magi, il Sarto rappresenta non un miracolo, non un momento topico della vita religiosa, ma la visita di alcuni regnanti senza potere, che arrivano alla capanna a piedi e si guardano attorno, con i doni in mano, all’ansiosa ricerca del destinatario di quegli omaggi. In mezzo a fanciulle che si muovono di corsa, con singolare leggiadrìa, si vede un giovane dagli ampi panni, che attraversa la scena con un incedere sicuro e quasi provocatorio, volgendosi con un accenno di sorriso verso lo spettatore . Si è fatta strada, negli ultimi anni, l’ipotesi che quella figura sia opera del giovane Rosso, già in possesso della sua creatività innovativa, insensibile al dogmatico rispetto dei precetti formali teorizzati e seguiti nel passato. Alla SS. Annunziata, Rosso ebbe l’opportunità di dare prova del proprio valore quando gli fu commissionato un affresco raffigurante l’Assunzione della Vergine. L’opera suscitò più stupore che ammirazione; più meraviglia che un’accoglienza favorevole. Il guizzare degli sguardi nelle direzioni più diverse, senza Rosso Fiorentino: Deposizione dalla Croce (part.) Volterra, Pinacoteca Civica pag. 2 incontrare punti di contatto; le fisionomie dilatate con un segno aggressivo, marcato, corrosivo; le anatomie dei santi, impegnati in un esauriente repertorio di torsioni, movimenti rapidi, contemplazioni attonite e rapimenti indicibili e infine il colore accordato su toni ora squillanti ora acidi, con il tocco finale di un panneggio che fuoriesce dai contorni architettonici e sembra cadere addosso all’astante: tutto ciò fece di Rosso un pittore le cui novità espressive venivano criticamente riconosciute, ma non apprezzate. Un esito ancora più scoraggiante ebbe la Pala d’Ognissanti, oggi agli Uffizi, commissionata a Rosso da Leonardo Buonafede, spedalingo di Santa Maria Nuova. Il committente, che pure non era un uomo di debole cultura, ma una persona aperta al confronto con l’arte a lui contemporanea, e in stretto contatto con Pontormo, rimase colpito fino al trauma, di fronte all’opera dipinta dal Rosso. L’artista lasciò che lo spazio fosse costruito solo dalle figure: non vi erano architetture dipinte, né artifici di nessun genere, ma solo alcuni gradini, nel più basso dei quali siedono due teneri angiolini assorti nella lettura. Forse, con un coraggio che solo i moderni possono accettare, l'artista voleva dimostrare che ogni verità, quella religiosa inclusa, presuppone la purezza del cuore, e la purezza del cuore è condizione che si ha solo nell’infanzia. Per questo, forse, ha lasciato che i due bambini angelici abbiano uno spazio a parte, mentre la Madonna, il Bambino Gesù e gli altri santi si muo- vono, si agitano, discutono, s’interrogano con lo sguardo. L’attenzione del malcapitato Buonafede si posò sulla figura di San Gerolamo, così magro e spettrale da essere poco rassicurante; non a caso Vasari, a questo proposito, riferisce che il santo ha un’espressione “crudele” e insieme “disperata”. Dopo le polemiche fiorentine, Rosso andò a cercare tranquillità in zone provinciali. Al pari di Lorenzo Lotto, con il quale la sua personalità e la sua vicenda hanno dei punti di contatto, egli si spostò pur di non affrontare il giudizio di chi, intimamente, disprezzava. Il suo talento audace faceva di lui il pittore ideale per le Confraternite, organizzazioni nelle quali l’impianto religioso si scioglieva nel fare, nel conforto operoso portato ai bisognosi. L’8 aprile 1521 “Johannes Baptista Iacopi Gasparis alias Maestro Rosso pictor de Florentia” era a Volterra. Da un atto rogato in quel giorno nella canonica della cattedrale dal notaio Tommaso d’Ottaviano Picchinesi risulta che il pittore, presente, aveva nominato come suo procuratore, Pietro di Nicola Calafati di Piombino, allora studente di Giurisprudenza all’Università di Siena e in seguito dottoratosi a Pisa. A Volterra, Rosso dipinse una delle più potenti e sconvolgenti opere della storia dell’arte di tutti i tempi: la Deposizione dalla croce, oggi conservata nella Pinacoteca Civica. In basso a destra, sull’estremità inferiore della scala posta dietro la figura di San Giovanni, figurano la firma e la data dell’opera: RUBEUS FLO. FAC. A.S.MDXXI. La figura di Cristo, malgrado la sofferenza e la morte, conserva una sorte di tenace bellezza, che neppure la drammatica patina grigia di colore riesce pienamente a scalfire. Il suo corpo scivola verso il basso, sta per precipitare, e ciò determina il movimento preoccupato e concitato dei depositori. In cima a scale dal precario equilibrio, essi sembrano muoversi con leggerezza, sospesi nel vuoto o nell’atto di urlare disposizioni. Alla sommità della croce, anche il vecchio Nicodemo assiste alla difficile operazione, mentre in basso la Madonna perde i sensi, sorretta da due giovani, e la Maddalena, con un insolito abito rosso stretto in vita da una cintura marrone, si protende ad abbracciarle le gambe. Un depositore regge la scala, ma il suo interesse è verso la sofferenza delle donne, alle quali guarda con compassione. San Giovanni ha i capelli rossi e si nasconde il viso fra le mani. È evidente che dietro tale schermo vi sia l’autoritratto del Rosso. Si tratta di un autoritratto negato, uno dei casi storicocritici più strani della storia dell’arte. Quello che si può indovinare è che l’artista aveva un corpo armonioso e asciutto e una folta capigliatura. Perché si cela al nostro sguardo? Forse perché ciò che noi cerchiamo di lui, è tutto nella pittura, in quel dialettico confronto fra tragedia e leggerezza, fra teatralità e dolore. Rosso utilizza alcuni precedenti: dalla Deposizione lignea del Duomo di Volterra alla Deposizione di Filippino Lippi, portata a compimento dal Perugino Rosso Fiorentino: Deposizione dalla Croce (part.) Volterra, Pinacoteca Civica pag. 3 ai primi del ‘500. Tuttavia, ogni fonte è richiamata e utilizzata in un’elaborazione del tutto personale, dove ogni intervento riflette una capacità di sintesi assoluta. Lo splendido effetto che la grande macchina pittorica messa a punto da Rosso produce sullo spettatore, non deve far pensare a una realizzazione di slancio, dalla quale sono state bandite le incertezze. Sulla spalla della donna in primo piano, il pittore prevedeva di adoperare un “violoso”, come ha annotato prima di intraprendere la stesura definitiva dell’opera, e altre annotazioni autografe emerse dagli esami scientifici condotti con le tecniche più sofisticate, hanno consentito di appurare che l’artista cambiò idea in varie occasioni. Ciò che resta, è un portentoso punto di convergenza fra testi pittorici precedenti e incredibili anticipazioni stilistiche. Il momento della deposizione del corpo di Cristo, ovvero il momento in cui Cristo è vicino alla cruda realtà dell’uomo, si rivela per la prima volta, a Volterra, come il tema più consono ai mezzi espressivi di Rosso. La Deposizione torna a scandire, come un metronomo perfetto, i tempi della vita dell’artista: da Sansepolcro, dove un carnefice vede il proprio volto trasformato in quello di una scimmia, in una metamorfosi degna di un Francis Bacon del ‘500, alla Deposizione oggi al Louvre, con un’altra invenzione sorprendente: il gesto della Madonna che, ebbra di dolore, spalanca le braccia e forma una croce, come se il supplizio, dal figlio morto innocente, si fosse trasferito a lei. Anche per Rosso, come per il proprio “maestro” Andrea del Sarto, si aprirono le porte della Francia. Dopo Parigi, Rosso si trasferì a Fontainebleau. Qui, prima di dedicarsi completamente all’abbellimento della galleria del re, realizza a fianco del Primaticcio i due grandi affreschi con gli Amori di Vertumno e Pomona in una sala a forma di padiglione, posta all’ultimo piano dell’edificio. L’opera andò distrutta con l’abbattimento del padiglione, risalente al settimo decennio del XVIII secolo. I registri dei pagamenti attestano l’attività del maestro fiorentino alla galleria di Francesco I dal 1533 al 1539. Un documento del 1536 indica l’artista quale direttore di tutti i lavori, alla testa di una folta équipe di artigiani, fra ceramisti, scultori, carpentieri, stuccatori, arazzieri. Rosso Fiorentino morì il 14 novembre 1540. Vasari adombra uno scenario cupo. Secondo la sua ricostruzione, infatti, l’artista sarebbe morto suicida, schiantato dal rimorso per aver ingiustamente incolpato un amico innocente. Gli storici dell’arte tendono a mettere fra parentesi questa ricostruzione, e preferiscono pensare a una morte dovuta a cause naturali. Certo è che un fosco finale, come quello ipotizzato da Vasari, risultò molto gradito alla letteratura romantica, che fece del Rosso una sorta di eroe irrequieto in contrasto con il proprio tempo. Così, mentre la sfortunata vicenda umana di Andrea del Sarto si prestava a una folta letteratura, da de Musset a Robert Browning, senza dimenticare Ernest Jones, il primo biografo di Freud, e la storia Rosso Fiorentino: Deposizione dalla Croce - Volterra, Pinacoteca Civica del Pontormo, dopo il ritrovamento del Diario e delle sue pagine dolorose si accompagnava a una serie di interpretazioni nelle quali il dubbio prevaleva su ogni altra posizione, la vicenda di Rosso lasciava sul terreno un interrogativo finale che gli storici hanno rimosso e mai affrontato. Resta, di lui, una pittura per molti aspetti ineguagliabile, di cui la Deposizione di Volterra rappresenta un vertice e un compendio. stefano derosa