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Francesco, chiamalo - Cultura Commestibile

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Francesco, chiamalo - Cultura Commestibile
[email protected] [email protected]
www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile
direttore
simone siliani
redazione
gianni biagi, sara chiarello, aldo
frangioni, rosaclelia ganzerli,
michele morrocchi, barbara setti
progetto grafico
emiliano bacci
Con la cultura
non si mangia
9
N° 10
La legge sull’aborto non ha consentito di venire al mondo ad oltre sei
milioni di italiani e la scarsità di figli ci ha fatto sprofondare in questa
crisi economica
Luigi Negri
Vescovo di Ferrara
Francesco, chiamalo
editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non
saltare
7
febbraio
2015
pag. 2
Elda Torres
[email protected]
di
I
Pharos
Pharos, la piattaforma web
per segnalare alla polizia
forme di incitamento alla violenza o di apologia del terrorismo,
ha smesso di funzionare per
l’enorme afflusso di dati nelle
ultime due settimane, passati
dalle 400 segnalazioni a più di
3000 al giorno. Intanto Joacquin
Ronsin, l’inventore di Je suis
Charlie, direttore artistico della
rivista di moda Stylist rilascia
dichiarazioni sulla stampa, dopo
la guadagnata visibilità.
Parigi fredda e fascinosa come
sempre, cielo chiaro e sole
pallido dopo la pioggia notturna.
Il dramma vissuto solo due settimane fa sembra ormai un fatto
lontano se non fossero lì a ricordarlo i tanti cartelli giganti con
le scritte appunto Nous sommes
tous Charlie o Paris est Charlie
attaccati sui muri dell’Hotel de
Ville, o su altri palazzi. La città
è tranquillissima, famiglie intere
pattinano sul ghiaccio nella piazza dell’Hotel de Ville, la gente
passeggia, ride, ama, inonda le
strade. Tantissimi i giovani da
ogni continente, coppie di innamorati che come in un gioco di
bimbi si scambiano tenerezze nel
metrò o mentre sono in coda da
qualche parte. In prevalenza asiatici, soprattutto giapponesi, ma
anche tanti africani e americani,
e naturalmente i francesi, oltre
gli europei e tra loro gli italiani.
Come se l’evento luttuoso abbia
rilanciato l’appeal di questa città,
di norma già così alto.
Pochi i poliziotti in giro,
nemmeno uno nelle stazioni
del metrò o nei Bolulevards o
nelle strade del centro, né nel
quartiere dell’Horloge dove si
trova il Beaubourg, né intorno
alle Halles, né a Montmatre o S.
Germain o alla Bourse. Distribuiti solo in punti strategici i corpi
speciali in tenuta antisommossa,
controllano le entrate delle auto
all’angolo rue du Bac, rue de
Varenne dove si trovano diversi
palazzi sedi dell’esecutivo come
quello delle Relazioni con l’Assemblea Nazionale o di Ministeri
come l’Hotel de Matignon.
Code ovunque
La città si autoregola ed è questo
n tilt
Paris
après Charlie
il vivere associato democratico,
quando la convivenza avviene per senso civico. Ci sono i
saldi nei grandi magazzini e nei
negozi di ogni quartiere, così
folla dappertutto e code ordinate
ovunque, dalla cassa del supermercato alla piccola boulangerie,
ai musei. Un’ora di fila per entrare al Centre Pompidou, dopo
il rafforzamento dei controlli: si
entra uno alla volta, si controllano le borse, si passa traverso una
porta che segnala esplosivi, come
in aeroporto. Ancora lunghe
code per depositare i cappotti,
deposito obbligatorio, altra folla
per entrare alle due esposizioni
in chiusura, una delle quali è
dedicata all’artista marocchina
Latifa Echakhch, emigrata nel
1978 a tre anni, vincitrice del
premio Duchamp 2013.
Opportunità oltre a disagio
Da non
saltare
7
febbraio
2015
pag. 3
Un clochard di origine giapponese di nome Morimoto
espone quadri al Grand Palais, e
Clementine Benjamin, giovane
anglo-ganiana che suonava la
chitarra sulla linea 2 del metrò
a Parigi, è ora lanciata come
cantante piena di promesse.
E’ anche questo la Francia. Di
fronte ai pochi che ce la fanno,
troppi restano gli emarginati:
per le strade dormono i barboni in pieno giorno, in mezzo
al traffico, su un marciapiede
presso Châtelet, ma anni fa se
ne vedevano molti di più nei
sotterranei del metrò. Tanti sono
i ragazzi di colore o magrebini
che ballano in modo gaio per le
strade o nelle piazze al suono di
un registratore, improvvisando
piccoli spettacoli, mentre accanto un gruppo di ucraini innalza
cartelli contro la Russia.
Vivere non è aspettare che il
temporale passi, ma imparare a
Viaggio nella capitale francese
due settimane dopo la strage
danzare sotto la pioggia
Con le parole di Seneca la
vignetta di apertura del settimanale L’Express, dove un iman,
un vescovo e un rabbino ballano
sotto la pioggia con gli ombrelli
aperti a forma di matite da cui
nascono cuori. Il dibattito su
quanto avvenuto sopravvive nei
giornali, quotidiani e settimanali. I quotidiani seguono la
cronaca: Le Monde di domenica
25 gennaio riporta come primo
titolo le parole appena pronunciate dal primo ministro Manuel
Valls: La France est-elle en situation d’apartheid? Ne segue un
vivace dibattito su cosa è fallito
nel tentativo di integrazione di
quasi 2 milioni di mussulmani
nelle banlieues parigine. Sullo
stesso giornale intervengono
il socio-demografo Patrick
Simon che parla del sistema
che pensandosi egualitario crea
però discriminazioni; Georges
Felouzis, sociologo, autore di
“Le diseguaglianze scolastiche”
(PUF 2014), mette in risalto
come la scuola registri le differenze sociali che danno luogo
all’esclusione poi nel mondo del
lavoro; Benoit Dupin, professore a Sciences Po, specialista
dell’Africa del sud, analizza le
differenze tra varie tipologie di
segregazione e invita a non generalizzare: la Francia è un paese
libero ove tutti possono agire
con il proprio voto; il pezzo
forte è di Gérard Noiriel, storico
dell’immigrazione, il quale mette l’accento sullo chômage come
causa prima dell’esclusione
sociale, invitando a non legare
attentati alla questione dell’integrazione. Fa parecchi riferimenti
alle crisi del passato tra cui
l’assassinio del presidente della
Repubblica Sadi Carnot nel
1894 da parte di un anarchico
italiano, fatto che poi provocò
reazioni violente contro la massa
degli immigrati italiani in molte
città. E a proposito di votazioni
si attende l’esito delle prossime
legislative, quelle del 1 e 8 febbraio, con il partito della Le Pen
come favorito. Tanti sono quelli
che l’appoggiano specie in provincia, ma anche tra quelli non
schierati a destra ma si dicono
di sinistra si sentono opinioni
verso la politica dell’Isis verso
l’Europa come questa:“La tattica
è chiara, il metodo pure. Pensavamo a loro come dei barbari
arretrati e invece hanno una strategia sofisticata, evidente ormai.
L’obiettivo è chiaro: coinvolgere
l’Europa nella guerra totale che
hanno in mente per far prevalere
la loro ideologia. La logica è
quella di fare paura a ogni livello:
con il primo risultato dell’invito
all’autocensura.”
Su L’Express grande spazio è
dato a una serie di inchieste e di
articoli che il titolo di copertina
riassume bene: L’internazionale
Jiadista. In dettaglio vengono analizzati i vari gruppi sul
territorio dell’intero mondo
dal Marocco all’Asia del sud,
e le ipocrisie e ambiguità dei
paesi islamici detti moderati nei
confronti dell’Occidente, sino
all’interessante intervento del
filosofo Abdennour Bidar, il quale da mussulmano lucidamente
dichiara che per il grande corpo
malato che è il mondo mussulmano è ormai ora: ... di passare
dall’autodifesa alla responsabilità
dell’autocritica.
Gli italiani a Parigi
“L’Histoire du jour” in prima
pagina di Le Monde col titolo:
In Italia, essere gay o guidare l’auto, bisogna scegliere, è dedicata al
caso di un italiano Danilo Giuffrida, che ha denunciato lo Stato
italiano per omofobia. Agli occhi
del corrispondente da Roma
Philippe Ridet e dei francesi la
storia appare bizzarra e ridicola,
con la conclusione che se si ha
cultura e soldi, cioè i mezzi per
difendersi, magari si vince la causa. La Corte di Cassazione infatti
il 22 gennaio ha condannato
lo Stato a pagare per violazione
della privacy e discriminazione.
Siamo insomma i cugini arretrati
da trattare con ironia.
Ma è ormai lontano il tempo in
cui gli immigrati italiani erano
visti come oggi i marocchini:
sabato 24 gennaio una giornata internazionale di studi è
stata dedicata a Carlo Scarpa
all’Auditorium dell’INHA col
titolo “L’art d’exposer”. Studenti
italiani frequentano la Sorbona e
altre Università parigine, ne sono
pieni i bus che legano i quartieri del centro. Si sente parlare
italiano per le strade e nei metrò.
Intanto al Teatro Du Rond-Point
Ascanio Celestini e David Murgia fanno il pieno di pubblico
con “Discorsi alla nazione”. La
critica francese apprezza Murgia
che dichiara la vera scoperta
dello spettacolo. E giornalisti
con cognomi italiani sono firme
importanti su prestigiose testate.
Insomma a Parigi c’è speranza
per tutti, è solo questione di
tempo con un po’ di fortuna.
riunione
di
famiglia
7
febbraio
2015
pag. 4
Le Sorelle Marx
Scherza con i fanti, ma lascia
stare i santi. Proverbio valido per
la bianca Lucca, ma anche per
l’ex rossa Viareggio che, persa la
cantieristica, non le rimane che il
Carnevale, tanto da essersi inventati anche quello estivo (tanto per
il mare chi va più in Versilia?).
E allora la traduzione di “Je suis
Charlie” in viareggino suona molto
simile a “Teniamo famiglia”. Anzi
il Burlamacco è uno spettacolo
“per un pubblico di famiglie e
bambini”, mica può macchiarsi di
blasfemia per far contenti i difensori della libertà di satira e parola.
Comunque se c’è da lottare contro
la censura, carristi e figuranti sono
in prima linea: “La vera forma di
censura grave che ci è stata imposta
è di fermare la musica alle 18,
mentre la gente sta andando via.
Un divieto incomprensibile di cui
Satire
Bobo
però nessuno parla”.
Da “Je suis Charlie” a “Meu amigo Charlie” il passo è breve.
La Stilista di Lenin
Zapruder
Prima fu il nodo allentato poi quello torto. Mattarella, sulle cravatte,
non parte benissimo. Il Presidente
che si annuncia grigio, inciampa
subito quando le due presidenti
di Camera e Senato vanno ad
informarlo dell’avvenuta elezione.
Mattarella le accoglie in completo
scuro ma con il nodo della cravatta
che si è leggermente allentato. Viene
poi il giuramento alle Camere e al
Presidente il nodo venne torto. Due
inconvenienti tipici di alcuni nodi.
L’allentamento è tipico del nodo
classico, che con cravatte di seta,
tende ad allentarsi spesso. Inconveniente a cui Mattarella ha pensato,
credo, saggiamente di rispondere
approntando per il giuramento,
un più saldo nodo scappino, o
come è noto nel mondo “mezzo
Windsor”. Nodo importante, di
ampie dimensioni, va però fatto
con molta attenzione perché ha la
tendenza per l’appunto di tirare da
un lato. Non disperiamo però che
i magnifici specchi del Quirinale
forniranno l’occasione al Presidente
per allenarsi nei nodi.
Settimana non felice per le cravatte
dei potenti. Grazie alla segnalazione di una lettrice ho infatti scoperto che Renzi si è presentato a Porta
Zapruder non può mancare alla
creazione di un nuovo partito.
Oh, questo è di quelli importanti:
sul sito delle foto bellissime, una
grafica avveniristica, Zapruder
è intimidito. Ma sente il dovere
di riprendere i grandi avvenimenti, non può mancare con la
sua 8 millimetri. Zapruder, si
sa, è campanilista e non può non
soffermarsi sul personaggio importante della sua terra che è entrato
nel nuovo movimento: Cristina
Scaletti. La ricorda benissimo,
assessore in Regione, l’ultima
campagna elettorale a Firenze.
Zapruder, lo sappiamo, è timido:
per caso si trova sempre presente
ai grandi appuntamenti della
storia, ma ancora non si abitua
al main stream, alla gente ricca e
potente, ma soprattutto alle belle
donne. Arrossisce, si impappina…e così, con gli occhi bassi e
farfugliando, da toscano doc, non
riesce a non pensare al significato
e al significante del cognome del
leader, del fondatore: Passera.
Oddio, che vergogna, Zapruder sa
che non dovrebbe pensare a questi
doppi sensi…e poi si ricorda
l’inaugurazione del comitato
elettorale di Cristina, in Piazza
Le cravatte
di chi ci
governa
L’origine
del
mondo
a Porta con una cravatta rosso fuoco con un nodo talmente strizzato
e stretto che probabilmente la sera
a casa ha dovuto tagliarlo con le
forbici. Anche per lui ripetizioni al
primo Colloquio al Quirinale.
della Passera, a Firenze! E giù che
arrossisce ancora e ancora…e poi
non può non pensare che Cristina
è proprio bella: alta, sportiva…
una bella pass…ehm, donna!
Oddio, per un pelo ha evitato
un’altra gaffe e di passare per maschilista. Ma spesso, come Serafino
Gubbio operatore, la gente con
Zapruder si confida ed è venuto a
conoscenza di una notizia bomba:
la grafica finale della campagna
elettorale di Passera sarà “l’Origine del mondo” di Courbet. Così
Zapruder capisce che forse, ora in
Italia, non ha più senso un po’ di
pudore: Zapruder si sente proprio
fuori moda.
7
febbraio
2015
pag. 5
di John
A
Stammer
lla fine l’idea giusta venne
a Ugo Caffaz, capogruppo
dei DS in Palazzo Vecchio. La nuova sede del partito
DS (sigla che stava a indicare
Democratici di Sinistra) sarebbe
sorta a Novoli, sul terreno della
Casa della Cultura. Era da tempo che il maggior partito della
città aveva in mente di realizzare
una nuova sede per ospitare le
attività politiche, le riunioni dei
parlamentari e per soddisfare le
esigenze di rapporto con i cittadini, che un partito strutturato
aveva.
Ma non era stato semplice
individuare un’area di dimensioni sufficienti per realizzare un
edificio di almeno 1000 mq di
pavimento. Il segretario di allora
Emanuele Auzzi (il “Meme”
come veniva chiamato dalla
stampa)) aveva indicato questo
obbiettivo anche come un
modo per agevolare la costruzione di un partito organizzato,
strutturato e presente, anche
fisicamente, nella vita della città
e della regione. La prima ipotesi
fu un’area in via Gran Bretagna
dove, nel 2004, fu pensata una
sede che già esprimeva le nuove
idee organizzative: flessibilità degli spazi, open space e
cablatura, sale per seminari ecc.
Ma non fu la soluzione giusta.
L’idea di Caffaz fu quella di realizzare l’edificio sulla proprietà
della Casa della Cultura, una
associazione privata di cittadini,
che molti anni prima avevano
costruito un edificio, una “casa
del popolo” si sarebbe detto,
che aveva ospitato anche una
famosa, all’epoca, sala da ballo.
Lo spazio del giardino sarebbe
stato sufficiente per costruire
la nuova sede. Furono fatti gli
atti di cessione del diritto di
superficie, si avviarono le procedure urbanistiche e alla fine ,
nel 2005 l’edificio iniziò a essere
costruito. Il progetto rappresentava simbolicamente, anche
con un passaggio pedonale, il
collegamento dalla “Casa della
Cultura alla Casa della Politica”.
Concezione molto lontana da
quella che l’arch. Sergio Sozzi
aveva ideato per la storica sede
della Federazione del PCI di via
Alamanni, una sorta di austero
convento in cemento armato,
che aveva tratto ispirazione dal
convento de La Tourette di Le
La cultura politica
ha trovato casa
Corbusier e dalla sede del PCF
di Niemeyer.
Ma la realizzazione dell’edificio
non fu semplice.
Poco tempo dopo l’avvio dei
lavori venne a mancare proprio il maggiore artefice della
costruzione della sede. Meme
Auzzi morì infatti nel novembre del 2006 mentre, in auto,
tornava nella notte, dopo una
delle innumerevoli riunioni alle
quali partecipava, stroncato da
un infarto.
E poco dopo anche il partito dei
DS cambiò strategia e avvio la
fase di costruzione del Partito
Democratico insieme al partito
della Margherita.
In queste condizioni Paolo
Antonio Martini ha progettato
un edificio essenziale, con l’obbiettivo di essere funzionale alle
esigenze, che però mutavano
in continuazione, cercando di
mantenere fede alle indicazioni
di Auzzi.
E’ nato così, fra mille difficoltà,
l’edificio che oggi ospita, quasi
in disparte, la sede del Parti-
to Democratico della città, e
della regione. Un edificio che è
caratterizzato da una copertura
quasi aggettante del ballatoio di
copertura, ballatoio che ospita
la sala riunioni, ma che per un
periodo ha ospitato una sorta di
grande loft (ufficio – residenza)
dell’allora segretario regionale.
Un edificio semplice, che si
fa notare poco nel sistema di
edilizia lineare degli anni trenta
del secolo scorso.
Un edificio inaugurato il 2
settembre del 2010 dall’allora
segretario del Partito Pier Luigi
Bersani, ma che vide come effettivo protagonista, quasi una
premonizione, l’allora sindaco
di Firenze Matteo Renzi. Un
edificio che rappresenta quasi
il simbolo visivo di una concezione politica non più “di
moda” si potrebbe dire, e che
ora sta lì svuotato di contenuti
e di persone da una evoluzione
della politica e organizzativa che
non era stata neppure percepita
come possibile al momento
della sua ideazione. Ora, che
la politica si fa con un Tweet, e
con riunioni nelle quali le decisioni sono prese quasi a prescindere dal dibattito, questa sede è
il “monumento”, forse, alla fine
del periodo dei partiti strutturati, omniscenti e omnipresenti.
7
febbraio
2015
pag. 6
Laura Monaldi
[email protected]
di
più vera e autentica. Le opere
di Emily Joe sono esili tracce
da tramandare alla collettività,
in cui riconoscersi e leggere il
mondo con occhi diversi, privi
delle regole precostituite dell’interpretazione, ma con un’intellegibilità pluridirezionale. L’artista di fatto opera un’attenta e
profonda ricerca sul linguaggio
e sull’espressione contemporanea, volta a sviscerare i valori
semantici che l’Arte porta in
sé, sia sul piano dell’espressione
che su quello del contenuto,
recuperando l’autenticità della
materia. Invenzione, ironia,
soluzioni immaginarie, spirito
iconoclastico, principi dell’assurdo e del paradosso sono i
dettami attraverso cui le opere
di Emily Joe “parlano” e comunicano l’esigenza di porsi al di
là del tempo e delle leggi delle
eccezioni e dei contrari, riscoprendo valori che la contemporaneità sembra aver dimenticato
e abbandonato nell’oblio di una
memoria collettiva da recuperare e proiettare al di là dell’oggi e
del domani.
L
’opera d’arte nasce da un
incontro fortuito, involontario, a volte ricercato,
fra l’Io artistico e un ignoto
che, attraverso il gesto estetico,
si concretizza e manifesta la
propria esistenza agli occhi del
mondo. Al momento creativo è dato l’arduo compito di
esprimere la spontaneità e la
genuinità della forma artistica,
che prende corpo nelle mani di
colui che è dedito a un’Arte da
donare alla collettività e ad assolutizzare l’espressione estetica
nella dinamica e nella retorica
della creatività. Con Emily
Joe la materia evoca il proprio
linguaggio in un dialogo intimo
fra il sé estetico e le cose del
mondo, creando una semanticità corporea di particolare
impatto evocativo. Assemblaggi
e installazioni regolano le leggi
del Tempo in un cammino di
rimandi psicologici e processi
interiori: un divertissement
materico che afferma un’autenticità che può essere scoperta e
rivelata attraverso vie e soluzioni
diverse dalla norma estetica.
Non a caso recuperi dal passato
e interventi contemporanei
pongono l’opera d’arte in una
dimensione temporale in grado
di trascendere le equivalenze
universali, in modo tale da
indagare e sperimentare i limiti
della potenzialità espressiva dei
piccoli elementi presi a prestito
dal mondo. La specificità del
particolare viene messa in luce
in una relazione opposta ai
massimi Sistemi, troppo caotici
e complessi per essere compresi
e ordinati secondo le leggi della
Scienza attuale. Una forma di
dialogo, quindi, fra esperienze
e riflessioni, fra la tendenza
innata dell’artista a comunicare
e una prassi estetica che partecipa attivamente al presente in
quanto presente, valutandolo
nella propria precarietà. In tal
senso l’artista si muove con
una sensibilità nuova e inedita,
ricostruendo identità atemporali
e donando all’opera d’arte una
vita propria, capace di superare
le parvenze del passato e del
presente per proiettarsi in un
futuro ipotetico e utopico in un
confronto globale e disinteressato, dove le dimensioni pubbliche e private sono minimizzate
in virtù di una comunicazione
Emily Joe
Incontri fortuiti
In alto Senza titolo, 2015
Collage su cartoncino
Sopra Libro d’artista, esemplare unico, 2015
A destra I could have lied, 2015
Scrittura e collage su cartoncino
e Cervelli in fuga, 2015
Assemblaggio su cartoncino
Tutte Courtesy Collezione Carlo Palli Prato
7
febbraio
2015
pag. 7
Danilo Cecchi
[email protected]
di
R
afal Maleszyk, polacco di
nascita, inizia a fotografare a quattordici anni, e nel
1997, all’età di diciannove anni,
comincia a viaggiare fra Europa,
Stati Uniti ed America Latina,
privilegiando le immagini di paesaggio ed approdando nel 2009
alle isole Hawaii, dove decide
di stabilirsi, almeno per un po’.
Dopo avere compiuto diverse
esperienze artistiche, come pittura e scultura, rimane colpito
dalle immagini in bianco e nero
di Sebastiao Salgado e decide
di utilizzare la fotografia come
mezzo espressivo esclusivo. Nel
corso dei suoi viaggi sviluppa
una particolare sensibilità nei
confronti della natura, di cui
tuttavia percepisce una sorta di
inadeguatezza di fondo, che cerca di bilanciare con un serie di
interventi tecnici allo scopo di
valorizzare quegli aspetti visivi e
Le sculture di vento
di Rafal Maleszyk
spettacolari che la natura tende
a nascondere o che manifesta in
maniera eccessivamente effimera. Se la fotografia è l’arte della
rivelazione, essa richiede talvolta
qualche piccolo artificio per
rendere con maggiore evidenza
ciò che può sfuggire ad uno
sguardo non sempre educato e
non sempre sufficientemente
attento. L’educazione artistica di
Rafal Maleszyk lo porta a confrontarsi con gli spettacoli della
natura in maniera non passiva.
Il suo ruolo di osservatore comporta una partecipazione attiva,
un ruolo interpretativo che non
si limita ad indicare il risultato
di un processo naturale, ma lo
spinge ad intervenire esaltando
il divenire dei processi stessi.
L’elemento fondamentale della
natura, quello che affascina
maggiormente Rafal, è il movimento, quello anche violento ed
impetuoso del vento, delle nuvole e delle onde. Il movimento
viene sottolineato e drammatizzato con la tecnica delle esposizioni lunghe, lasciando che le
masse in movimento scorrano
liberamente imprimendo una
vistosa traccia del loro passaggio, senza che rimangano imbrigliate o bloccate nel ristretto
spazio dell’istantanea, nell’attimo in cui tutto si risolve, ma
anche talvolta tutto si annulla.
Tuttavia le lunghe esposizioni,
da sole, sembrano non essere
sufficienti ad esprimere tutta
la potenzialità del movimento,
del repentino cambiamento
e di tutta la tensione emotiva
presente nel processo naturale.
Così Rafal interviene offrendo al movimento delle masse
d’aria un elemento incorporeo
ma visivamente percepibile,
una serie di teli chiari che il
vento tende, gonfia e distorce,
facendogli assumere forme sempre diverse, sempre cariche di
tensione e di significati. A metà
strada fra arte concettuale e la
land-art, l’operazione artistica
di Rafal si traduce in immagini
effimere ed irripetibili, mutevoli
come il vento stesso, il clima
e le stagioni. I suoi non sono
paesaggi ampi, in cui lo sguardo
corre da un piano all’altro per
perdersi contro l’infinito, sono
paesaggi ristretti, compressi, in
cui la dilatazione dello spazio
non è sottolineato in maniera
artificiale ed artificiosa dall’impiego del grandangolare e della
forzatura prospettica. I suoi
orizzonti pulsano di un movimento costante, che espande
lentamente lo spazio portandolo
al di fuori dell’inquadratura,
come in un processo continuo
di allargamento della visione.
Ciascuna immagine è la sintesi
perfetta di una spinta vitale, allo
stesso tempo simbolo di una natura in perenne trasformazione
e di un intero universo in fase di
continua espansione.
7
febbraio
2015
pag. 8
importante è il trasporto per le
strade di Tirana del calco in plastica dello scheletro di un enorme
balena, uccisa (sempre durante
il comunismo) perché scambiata
per un sottomarino Russo (e
quindi testimonianza dello stato
di paura e di paranoia vissuto
in prima persona proprio da
Hoxha). Lulaj lavora con questi
“simboli involontari”, la balena,
il nome del dittatore, come per
ricordare alla Nazione l’assurdità
e le contraddizioni proprie di
un periodo storico formalmente
concluso, ma che ancora popola
l’immaginario sociale, etico e
politico, del presente.
Il lavoro di Lulaj consiste in un
Marco Mazzi
[email protected]
di
N
on posso dire molto, per
il momento. Non posso
svelare tutto il contenuto
della nuova installazione di Armando Lulaj, che rappresenterà
l’Albania alla prossima Biennale
di Venezia. Posso provare a raccontare le emozioni, l’atmosfera
e la forza di questa esperienza e
di questo incontro. Lulaj è un
artista del 1980, albanese, ma con
studi all’Accademia delle Belle
Arti di Bologna e Firenze, noto
al pubblico Italiano per importanti partecipazioni e presenze a
mostre e rassegne di arte contemporanea. È presente alla mostra
“Il piedistallo vuoto”, a cura di
Marco Scotini, che si è tenuta in
occasione dell’edizione di Artissima, a Bologna, lo scorso anno, e
alla mostra “Uninspired Architecture”, curata da Vincent W.J.
Van Gerven Oei e da chi scrive
per gli spazi della galleria Sincresis
di Empoli. Per quanto conoscessi
e ammirassi il suo lavoro, ho
conosciuto Lulaj di persona solo
questa estate. Ero con Vincent
W. J. Van Gerven Oei a Tirana,
pronti per partire per un’avventura straordinaria, e cioè la
documentazione fotografica e la
catalogazione di tutti i siti monumentali e architettonici risalenti
al periodo comunista presenti sul
territorio Albanese. Lavoravamo
per tutta la durata della luce del
giorno, fra difficoltà tecniche e
ambientali di ogni tipo. Quando
succedeva qualcosa (si rompeva il
fuoristrada, per esempio, le strade
erano disastrate), la prima persona a cui chiedere aiuto, soccorso
e consiglio era proprio Lulaj.
Quest’estate si parlava moltissimo
della partecipazione di Lulaj alla
Biennale. Secondo molti, Lulaj
era il miglior artista albanese, me
meritava di rappresentare il suo
paese a Venezia, all’Arsenale, con
una importante e seria mostra.
Meritava di vincere il bando, e
così è stato. Lulaj ha già dato
prova del suo talento con grandi
progetti che hanno visto protagonista l’arte e la cultura storica del
suo Paese. Già presente alla Biennale di Berlino, ha tracciato sul
dorso di una montagna la scritta
“Never”, modificando il nome
di battesimo di Enver Hoxha,
lo storico dittatore comunista,
attraverso l’inversione della prima
e la seconda lettera. Un’altro lavo
L’Albania di Lulaj
Scavezzacollo
video. Una troupe cinematografica ha seguito il suo progetto
dall’inizio alla fine, filmando
un’azione performativa legata
a un altro simbolo (che non
posso adesso svelare!) del periodo
comunista. Sono stato chiamato a
lavorare come fotografo di scena,
e come fotografo incaricato di
scattare la foto che rappresenterà
alla Biennale il lavoro finale di
Lulaj. Muovendosi in una sintassi
principalmente concettuale, Lulaj
affida ad altri professionisti la
realizzazione fisica dell’oggetto,
lavorando esclusivamente all’idea
essenziale che forma e determina
l’opera.
Massimo cavezzali
[email protected]
di
Evoluzione
Ci sono voluti milioni di anni di evoluzione per
fare me. Ringrazio tutte le scimmie, che si sono
molto impegnate per questo. Un grazie di cuore
a quella antropomorfa di mia nonna, che dodici
milioni di anni fa scese dall’albero. A fare che non
lo so. Comunque grazie nonna. E grazie nonno.
Che eri alto poco più di un metro. E molto peloso.
Non ti radevi mai. Grazie perché hai provato a
stare eretto. E alla nonna questa erezione piacque
molto. Grazie anche a nonno sapiens. Che fu il
primo che provò a pensare. E a disegnare sulle
pareti delle caverne. E grazie a nonno cro-magnon.
Il più tecnologico. Cro-magnon fu il primo nickname usato. Grazie a tutti per l’impegno profuso.
Non vi deluderò. Vedrete.
7
febbraio
2015
pag. 9
Alessandro Michelucci
[email protected]
di
N
egli anni Settanta gli
appassionati italiani di
rock conoscevano i termini
inglesi che indicano molti strumenti, ma non tutti. Fra quelli
che ignoravano c’era bassoon
(fagotto). Hanno colmato questa
lacuna soltanto quando hanno
conosciuto Lindsay Cooper, che
suonava lo strumento con gli
Henry Cow, gruppo fra i più
lucidi e innovativi della scena
europea (1968-1978).
Purtroppo Lindsay non è più
fra noi: il 18 settembre 2013 è
morta di sclerosi multipla, a soli
62 anni. La malattia le era stata
diagnosticata nel 1978, poco
prima che gli Henry Cow si sciogliessero, ma lei l’aveva tenuta
segreta continuando a suonare
fino alla fine degli anni Novanta,
quando le sue condizioni l’avevano costretta a ritirarsi.
Nel novembre scorso tre concerti
- uno a Forlì e due in Gran Bretagna - hanno ricordato questa
grande musicista inglese. I concerti erano interamente dedicati
alle sue composizioni, che sono
state eseguite da alcuni dei musicisti che avevano lavorato con
lei: Chris Cutler, Fred Frith, Tim
Hodgkinson, Dagmar Krause,
Phil Minton, Sally Potter, etc.
Michel Berckmans, dei belgi
Univers Zero, ha suonato le parti
per fagotto che originariamente
venivano eseguite da lei. Nomi
ben noti a chi ha seguito le vicende del movimento denominato Rock in Opposition, creato nel
1978 dai suddetti Henry Cow e
da altri gruppi europei estranei
allo showbiz angloamericano.
I tre concerti, comunque, non
erano la solita rimpatriata nostalgica (quella che si definisce
reunion): i musicisti appartenevano ad alcuni dei vari gruppi nei
quali la musicista aveva suonato.
Dopo questi concerti, ognuno ha
ripreso a fare quello che faceva
prima (quasi tutti sono ancora
attivi).
L’omaggio concepito dagli amici
di Lindsay, comunque, non sarebbe stato coerente se non fosse
stato accompagnato da un disco
che raccogliesse le composizioni
inedite o difficilmente reperibili
della musicista inglese. Proprio
per questo è uscito il doppio CD
intitolato Rarities (Recommended Records, 2014). Non è la so-
Per un’amica
lita operazione commerciale, ma
il dono sincero di un amico: la
casa discografica è quella fondata
e tuttora diretta da Chris Cutler,
batterista degli Henry Cow.
Il materiale contenuto nel CD è
molto più ampio di quello eseguito nei concerti suddetti, così
come i musicisti coinvolti sono
molto più numerosi.
I due dischi rendono piena
giustizia a questa musicista,
ugualmente ispirata dal jazz,
dalla musica classica e da Frank
Zappa.
Si ascolta così musica composta
per la televisione; “Education”,
cantata dalla regista Sally Potter;
una stupenda esibizione dal vivo
del Trio Trabant, dove Lindsay è
affiancata da Alfred Harth e Phil
Minton; un estratto del Concerto
for Sopranino Saxophone and
Orchestra; “In The Dark Year”,
cantata da Robert Wyatt. Ma il
ritrovamento più prezioso è un
lungo pezzo senza titolo dove la
musicista si esibisce al piano.
Infatti Lindsay non suonava
soltanto il fagotto, ma anche
Lido Contemori
[email protected]
di
Il migliore
dei Lidi
possibili
Tutto il parlamento
verso le riforme
altri strumenti, fra i quali il sax,
il clarinetto e il piano. Rarities
è accompagnato da un ricco fascicolo che contiene foto inedite
oltre a testi di Tim Hodgkinson,
Sally Potter, David Thomas e
Kate Westbrook.
I loro contributi permettono
di inquadrare la musicista nel
suo contesto storico e culturale.
Femminista e marxista, Lindsay Cooper sviluppa gran parte
della propria creatività negli anni
bui di Margaret Thatcher, che
reprime duramente la minoranza
nordirlandese e vanta l’amicizia
con Augusto Pinochet.
Impossibile citare tutti i gruppi
di cui fa parte e quelli con cui
collabora: oltre ai citati Henry
Cow, il Feminist Improvising
Group, National Health, News
From Babel...
Fra i suoi autori preferiti annovera Bertolt Brecht, la scrittrice
Alice Toklas e Ennio Morricone.
Rigorosa e dotata di un raro
talento, Lindsay Cooper riesce
a evitare le secche del marginalismo senza rinunciare a scelte
originali e coraggiose. Allo stesso
modo, pur mettendo in evidenza
il proprio impegno politico, non
permette mai che questo soverchi la musica trasformandola in
semplice propaganda.
eco
lette
ratura
7
febbraio
2015
pag. 10
Diego Salvadori
[email protected]
di
foto di Maurizio Berlincioni
A
partire dagli ultimi decenni, lo spazio ha riconquistato un ruolo preminente
negli studi letterari e sembrano
ormai lontane le affermazioni di
Gerard Genette che, in “Figures
III”, quasi lo ponevano in sudditanza verso l’elemento temporale: «posso benissimo raccontare
una storia senza precisare il luogo
in cui si svolge, […] mentre mi
è quasi impossibile non situarla
nel tempo rispetto al mio atto
narrativo». Ma la parola, in
opposizione all’asse verticale del
tempo, si articola e si struttura
anche nell’orizzonte dello spazio,
dove trascende la mera determinazione di luogo per giungere a
una visione del mondo, in nome
di un rapporto che Roman Jakobson aveva definito ‘contiguo’.
Un legame, questo, che non può
non far pensare al concetto di
‘Spazio-Tempo’, elaborato da Albert Einstein nei primi anni del
Novecento, poi mutuato dalla
critica letteraria nell’accezione
di ‘cronotopo’, generatore – per
Michail Bachtin – della forma
testuale stessa.
Questi brevi accenni illustrano lo
“Spatial Turn”, ovverosia l’attenzione critica riservata all’elemento spaziale nei testi letterari.
E se Agostino – in un celebre
Cristina Pucci
[email protected]
Spazi
viventi,
vissuti
e...pensati
passo delle “Confessiones” – si
domandava «che cosa è dunque
il tempo?», il quesito potrebbe essere adesso riformulato e
coinvolgere la nozione
di ‘spazio’, declinabile
in un ampio ventaglio
di formule e opposizioni binarie (aperto/
chiuso; naturale/artefatto; reale/astratto e via
dicendo), ma in ogni
modo legate al rapporto
tra uomo e mondo.
E l’ecocritica, nel
prediligere i luoghi,
s’inserisce in questo
nuovo orizzonte: la
parola ‘ambiente’, già di
per sé, evoca un muoversi in cerchio – come
suggerito dall’etimo
latino “ambīre”: andare
intorno; girovagare;
cingere; circondare
– entro uno spazio che, quasi
sempre, è accompagnato dall’aggettivo ‘circostante’, pronto a
suggerire un paritetico fronteggiarsi di sguardi, dove uomo e
natura diventano l’uno parte
attiva dell’altra. Per certi aspetti,
la biosfera si fa creativa e la parola – quasi filtrata dall’elemento
naturale – istituisce un habitat
ulteriore, dove il testo chiama,
anticipa e ri-scrive il mondo
in nome di una “ecologia della
mente”. L’espressione – coniata
dall’antropologo inglese Gregory
Bateson – estende l’idea stessa di
‘ecosistema’ dalla sfera naturale all’intelletto umano, dove
quest’ultimo occupa un ruolo
cruciale sugli equilibri stessi della
natura: va da sé che la mente cessi di essere uno spazio astratto,
euclideo, per diventare anch’essa
luogo abitato (come suggerito
dal suffisso “eco”: “oikos-casa”).
E se il testo – ovverosia l’opera
letteraria – è frutto della mente
creatrice, va da sé che l’ambiente
(sia esso naturale, paesaggistico
o urbano) intrattenga con la
pagina scritta un legame forte,
di osmosi, dove la permeabilità
fra due o più esistenze (umana
e non) è rivelata dalla forza
evocativa della parola. Il «lievito
poetico», per dirlo con le parole
di Luigi Meneghello, è sempre
in continuo fermento, come i
processi della natura che, dentro
e intorno a noi, portano avanti le
loro narrazioni semisegrete.t
a cura di
Altro oggetto artistico, altra professione antica e abbastanza in disuso.
Statuetta di bronzo, senza firma,
1920/30. Un uomo, a cavalcioni
di un blocco di pietra serena, alza
il braccio armato di mazzuolo per
colpire lo scalpello con cui lo “scava” per formare un abbeveratoio o,
forse, una fontana. Gli scalpellini
erano e operai specializzati nel
segnare e squadrare pietre e marmi
per trarli dalle cave e, anche, artigiani più raffinati in grado di eseguire figure, sagome e decorazioni
su disegno. Malpagati e preda di
malattie professionali devastanti,
dalle deformazioni artrosiche di
dita, polsi e spalla, alla “soffocazione” dovuta alla silicosi, microparticelle di polvere invadevano i loro
polmoni riducendone progressivamente la capacità respiratoria. Per
questo lavoro sono richieste calma,
precisione e pignoleria. La pietra
serena decora e abbellisce Firenze e
Dalla collezione di Rossano
Bizzarria
degli oggetti
caratterizza l’architettura Toscana,
rinascimentale e non solo, colonnati, volte, archi, balaustre, cornici
intorno a portoni e finestre, leoni,
stemmi. Le varie cave della periferia fiorentina, Fiesole, Vincigliata,
Maiano non sono più attive e
oggi la pietra serena della Regione
proviene quasi tutta da Firenzuola. E’, Firenzuola, un paese non
grande, con case di pietra e poderi
sparpagliati fra valli e monti dalla
vista mozzafiato dell’Appennino
...“il bel paese che il Santerno bagna
ove si parla tosco in terra di Romagna..
Costruito nel 1332, quasi
completamente distrutto dai
bombardamenti Alleati in quanto
proprio lungo la “linea gotica”,
risorto dalle sue macerie, ha nelle
vicinanze due cimiteri di guerra,
quello “Germanico”, bellissimo,
in cima alla Futa , 31.000 morti
sotto prati e tombe di pietra
tutte uguali, l’altro a Coniale,
più piccolo, per 300 alleati. Nei
sotterranei scoperti sotto la sua
Rocca è allestito un bel “Museo
della pietra”, con opere di artisti
contemporanei, percorsi che
mostrano cavatura e attrezzi usati
da cavatori e scalpellini, manufatti
del vivere quotidiano popolare
e contadino, acquai, fornelli,
abbeveratoi, trogoli e decorativi,
stemmi, fontane, camini. Ogni
anno c’è, a ottobre, una festa “Dal
bosco e dalla pietra” che permette,
oltre che mangiare e comprare ottimi marroni e loro derivati, anche
di vedere all’opera gli scalpellini e
magari provare l’ebbrezza , sotto la
loro accorta guida, di dare qualche
piccolo colpo che scalfisca e incida
una pietra.
7
febbraio
2015
pag. 11
Simonetta Zanuccoli
[email protected]
di
L
e città respirano e mutano
con e come i loro abitanti. In quelle cosmopolite
questo respiro è come se fosse
più profondo e l’alternanza tra
i momenti di caos e quelli di
quiete diventano più evidenti.
La mostra Paris Magnum
presentata dal 12 dicembre
2014 nel luogo che è il cuore
di questa città, l’Hotel de Ville,
l’imponente Municipio vicino
a Notre Dame, si è trovata, in
maniera imprevista, dopo i tragici eventi di qualche giorno fa,
a testimoniare questo fenomeno
ed a rendere omaggio a una
grande capitale che è apparsa
ferita e dolorante davanti al
mondo. La mostra presenta i
grandi fotografi dell’agenzia
internazionale Magnum che con
le loro splendide foto hanno
testimoniato il “respiro” e le
mutazioni di Parigi negli ultimi
settanta anni, catturando le
sfumature di tutti i giorni, da
quelli tragici a quelli normali o
di festa, attraverso i suoi cittadini famosi o anonimi.
L’agenzia Magnum Photo fu
fondata subito dopo la fine della
guerra, nel 1947, da 4 giovani
fotografi Henri Cartier-Bresson,
Robert Capa, George Rodger e
David Seymour. Il loro intento
era quello di creare una cooperativa di fotografi-azionisti
per permettere che le immagini
scattate rimanessero di proprietà
esclusiva dell’autore. Questo
voleva dire la massima indipendenza sia dalla carta stampata
sia sulla scelta dei soggetti dei
reportages e sulla selezione delle
foto da pubblicare. I quattro
fondatori si divisero delle aree:
Cartier-Bresson scelse l’Asia,
Seymour l’Europa, Rodger
l’Africa e Capa l’America. Nei
cinque anni successivi alla
fondazione vennero associati
all’agenzia altri tra i migliori
fotografi del momento, ognuno
con una diversità creativa ma
tutti con la fisionomia riconoscibile della Magnum e del suo
modo di comunicare nuovo
e senza limiti. La sede che in
origine era a Parigi e a New
York è stata trasferita a Londra e Tokyo. Oggi Magnum è
costituita da 80 fotografi. Per
diventare associato l’opera del
fotografo richiedente è sottopo-
Il respiro
di Parigi
sta ad un’attenta osservazione
per un periodo molto lungo, dai
quattro agli otto anni, nei quali
viene valutato lo stile, il rigore,
la singolarità e la capacità d’informazione.
Il percorso cronologico della
mostra comincia dagli anni 30
e continua con le foto di una
Parigi all’indomani della guerra.
Le immagini ci invitano a
penetrare in un mondo che non
esiste più con i suoi autobus con
la piattaforma e i tassisti con il
guidatore esterno in un un sottofondo di freddo, fame e visi
senza sorriso. Passano gli anni
ma la vita rimane dura, con
pochi diritti e, per i nostri occhi
ormai disincantati, talmente
naif da commuovere: uomini
semplici in canottiera davanti
al bancone di un bistrot nella
calda estate del 1952, poverissimi saltimbanchi che davanti
a pochi bambini ammirati e
poverissimi mostrano in un
angolo di strada il loro spettacolo, un grande cane che cammina
sulla corda con un altro cane
sul dorso, la foto del 1953 di
Marc Riboud passata alla storia,
di un operaio sulla Tour Eiffel
in bilico sul vuoto con la sola
sicurezza della presa della sua
mano.....Le foto degli anni 60
già ci mostrano un mondo totalmente cambiato, la Nouvelle
Vague, le prime minigonne, la
Pop Art, l’inizio delle grandi
assemblee e, accanto, ancora,
quello più semplice e “antico”
come la lunga tavolata, forse in
un giorno di festa, di borghesi
sereni sotto le vecchie volte
di Les Halles per un pranzo a
base di ostriche. Negli stessi
anni i fotografi di Magnum
testimoniano le dimostrazioni
per la pace in Algeria, le sfilate
del maggio 1968 degli studenti
in place de La Republique, nel
quartiere latino, davanti alla
Sorbonne, le barricate fatte di
cassette di frutta in legno in
boulevard Saint Michel (Henri
Cartier Bresson), gli operai della
Renault in sciopero...Sartre che
parla con loro, il movimento
femminista con donne in corteo
e una carrozzina in primo
piano, Truffaut e Gainsbourg
ancora giovani e belli....
Negli ultimi anni l’immediatezza e l’abbondanza di immagini
televisive e l’uso ormai globalizzato di internet hanno dissolto
ogni confine e fatto di tutti noi
spettatori degli eventi in tempo
reale mettendo così in crisi il
concetto stesso di reportage.
Questo fenomeno irreversibile
ha portato alla sparizione di
molte agenzie fotografiche e
anche i fotografi di Magnum
sembrano aver abbandonato
i grandi temi per preferire
qualcosa di più circoscritto
e intimista. Ma il fatto che
qualche giorno fa, nel commentare la mostra Paris Magnum,
Le Figaro si chiedesse come i
fotoreportes rappresenteranno i
nostri confusi tempi di jiadismo
globale, fa capire che il senso dei
grandi reportages sarà sempre
quello di essere parte di quei
preziosi tasselli dell’intricato
puzzle che è la nostra memoria
collettiva. La mostra, senz’altro
da non perdere per chi sarà nelle
prossime settimane a Parigi,
durerà fino al 28 marzo.
7
febbraio
2015
pag. 12
di
M. Donata Spadolini
U
na selezione delle opere di
Guido Spadolini è esposta
fino al 12 marzo all’Archivio
Storico del Comune di Firenze.
Organizzata in collaborazione fra
la Fondazione Spadolini Nuova
Antologia, l’Archivio Storico del
Comune e la Fondazione Il Bisonte – per lo studio dell’arte grafica,
la mostra vuol mettere in evidenza
gli aspetti più intimi dell’artista
relativi alla famiglia e alla città in
cui è nato e ha vissuto. Un percorso in cui si può ripercorrere quella
“ricerca del segno” che ha caratterizzato l’opera di questo artista
rimasto fino a pochi anni or sono
del tutto ignoto al pubblico.
Guido Spadolini – padre di Giovanni giornalista e uomo politico –
nasce a Firenze nel 1889, si forma
in quell’atmosfera particolare nota
come il fin de siecle, proprio perché protrae fino all’inizio della prima guerra mondiale quella società
medio-borghese in cui gli uomini
si dedicano principalmente al lavoro e alla famiglia. Una famiglia,
quella di Guido, rappresentata
alla mostra attraverso fotografie e
documenti; fra questi una matita
su carta con il ritratto di Lionella,
un disegno che, insieme alle notevoli capacità artistiche di Guido
Spadolini, dimostra il profondo
legame che lo unisce alla moglie.
E ancora un grande dipinto che
Fabrizio Pettinelli
[email protected]
di
Nel 1563 tale Pietro Bonaventuri,
di professione, si direbbe oggi,
broker, fu inviato in missione
dalla famiglia Salviati, dalla quale
dipendeva, a Venezia. Qui conobbe
la quindicenne Bianca Cappello,
bellissima rampolla di una facoltosa
famiglia veneziana, e la convinse a
seguirlo a Firenze per sposarlo, spacciandosi per un nobile fiorentino e
intascandone la ricca dote.
In realtà la famiglia Bonaventuri era
decaduta e viveva in un fatiscente
palazzotto nella zona dell’attuale
Piazza San Marco; qui l’ingenua
Bianca, oltre a rinunciare ai fasti
della sua “prima vita”, doveva anche
guardarsi dai minacciosi emissari del
padre Bartolomeo, che aveva tutte
le intenzioni di riappropriarsi del
maltolto, facendo rapire la fanciulla.
Ma, come in tutte le favole che
si rispettano, arrivò inaspettato il
principe azzurro, nella persona di
Francesco I dei Medici di fronte alla cui carrozza Bianca si era
le, eppur qui documentata con
dovizia di particolari. Un mondo
sconosciuto alla maggior parte
dei fiorentini, scorci di giardini
quasi incantati, con statue, muri
di cinta e ringhiere finemente
decorati. Dall’incanto dei giardini
si passa alla sala dove sono esposti
vari personaggi e alcuni scorci di
paesaggio giocati su toni del verde
e del rosso. Un frate domenicano
in meditazione sotto gi archi del
chiostro di San Marco, un arrotino
che fa girare la ruota della sua bicicletta, la sua allieva, Amalia Mecherini, ritratta nell’atelier e ancora
una giovanetta che, appoggiata allo
stipite di un muro, colpisce
per la profonda malinconia.
Accanto ai personaggi scorci
di paesaggio, dagli alberi alle
cascine con lo sfondo verde
al profilo di Torre del Gallo
fra i cipressi che colpisce per
il rosso infuocato del cielo. Un altro giardino e un grande olivo che
si espande su tutta la larghezza della matrice sullo sfondo purpureo
del tramonto. E, nelle bacheche,
le opere piccole: paesaggi, disegni
con appunti a matita, piccole acqueforti stampate su seta. Due spiritose caricature accanto al volume
manoscritto “La mia prospettiva”,
e quello a stampa sul viaggio in
Sardegna edito da Vittorio Alinari
nel 1914. Materiale vario che aiuta
a inquadrare l’artista nell’ambito
in cui si è formato: quell’ambiente
artistico fiorentino che, fra la fine
della prima e l’inizio della seconda
guerra mondiale, vede Spadolini
presente sulla scena cittadina non
solo come “artista”, ma quale attivo promotore di mostre ed altri
eventi artistici in qualità di segretario della Promotrice fiorentina e
della grande mostra retrospettiva
dedicata a Giovanni Fattori in Palazzo Strozzi nel 1924. Negli anni
successivi è Segretario del Sindacato fascista di Belle Arti: divulgatore
dell’opera di artisti formatisi a
Firenze sulla scia dei “post-macchiaioli”, nel 1942 organizza la
prima grande mostra di artisti
toscani a Düsseldorf e, nel 1943,
quella di artisti tedeschi a Firenze.
Poche le testimonianze della prima
guerra mondiale, fra queste l’incisione “La guerra – 1915” realizzata
su una lastra a semicerchio da cui
il figlio Giovanni fece montare un
ventaglio.
Nelle due guerre mondiali, la
sua militanza nella Croce Rossa
Italiana, sottolineano la sua disponibilità al volontariato. Nell’ultima
saletta pochi pezzi, principalmente
documenti, a testimonianza della
morte prematura dell’artista, caduto sotto la seconda incursione del
bombardamento che colpì Firenze
l’11 marzo 1944, mentre, insieme
ad altri barellieri, stava recuperando i feriti.
riempire di regali Bianca, finchè la
già vacillante virtù della fanciulla
capitolò davanti al palazzo di Via
Maggio che Francesco fece costruire
per lei dal Buontalenti e che pare
fosse collegato a Palazzo Pitti da
un passaggio segreto sotterraneo
che, ovviamente, facilitava assai gli
incontri dei due adulteri, mentre
Pietro, da parte sua, si consolava
con le damigelle di corte. Nel 1577
Giovanna, finalmente, partorì un
maschio, che sarebbe però morto,
per ignoti motivi, a soli quattro
anni. L’anno successivo Giovanna,
di nuovo incinta, morì ruzzolando
le scale e, singolarissima coincidenza, quasi contemporaneamente Pietro Bonaventuri fu ucciso durante
una rissa in Piazza Santo Spirito:
dopo soli due mesi di vedovanza,
Francesco convolò a nozze con
Bianca. La quale Bianca tanto ingenua non doveva essere: l’anno prima
che Giovanna sfornasse il maschio,
con l’aiuto della fedele domestica
Giovanna Santi, aveva “costruito”
un erede ai Medici. Non potendo
avere figli, aveva finto per nove mesi
di essere incinta e, al momento
opportuno, aveva presentato a Francesco, come se fosse il figlio nato dal
loro rapporto, un neonato acquistato da tale Lucia, una popolana
di Sant’Ambrogio. Qualche anno
dopo Francesco venne a conoscenza
di tutta la storia, ma riconobbe tuttavia Antonio come figlio naturale.
Quanto alla misteriosa morte di
Francesco e Bianca, se ne parla
altrove.
La Firenze
di Spadolini
raffigura la sorella Lolì nel salotto
di casa, e un bozzetto condotto
con pennellate veloci ed espressive
ritrae il padre suonatore di violino;
altri due dipinti accompagnano la
vasta serie dei giardini pubblici e
privati della città colti nella loro
intimità, attraverso il disegno
di Alberto Zardo e l’incisione
all’acquaforte eseguita da Spadolini. Un’intera sala in cui ben 24
giardini avvolgono lo spettatore,
presentando aspetti di una Firenze
oggi difficilmente rintracciabi-
Via Maggio
Intrighi
di corte
inginocchiata chiedendo protezione. Il giovanissimo Francesco
aveva appena assunto la reggenza
del granducato al posto del padre
Cosimo I e, proprio in quei giorni,
si apprestava a sposare la bruttoccia
Giovanna d’Austria. Ma l’imminente matrimonio, peraltro combinato
fra Medici e Asburgo per ragione di
Stato, non gli impedì di innamorarsi a colpo d’occhio della maliarda
veneziana, alla quale garantì la sua
tutela; non solo: considerate le non
floride condizioni della famiglia
Bonaventuri, assunse a corte Pietro.
Mentre Giovanna, con singolare
pervicacia, si rifiutava di offrire un
erede maschio ai Medici, sfornando
a ritmo continuo sei femmine una
dopo l’altra, Francesco cominciò a
7
febbraio
2015
pag. 13
Fiorella Ilario
L
di
a cronaca ha parlato di circa
sette milioni di fedeli, per la
recente visita del Papa nelle
Filippine. Una distesa oceanica.
Le gallerie di immagini mostrano
dunque un immenso, indistinto
brulichio festante, ma in qualsiasi
ingrandimento si può notare che
in quella toccante moltitudine,
quasi tutte le mani protese nel
saluto, stringono anche un dispositivo fotografico. Come ormai per
qualsiasi esperienza umana- sia essa
insignificante oppure esemplare,
solitaria o pluricondivisa, pubblica
o esclusivamente privata- milioni
di individui immortalano attimi
della loro esistenza producendo
selve, intrichi, foreste pluviali di
fotografie, che tracimano poi nel
cyberspazio o negli spazi reali e
convenzionali della quotidianità. Un vertiginoso, sterminato
territorio formale, che definisce un
paesaggio artificiale, conformista
ed illusorio e che, al di là degli
aberranti diktat religiosi e divieti
politici di alcuni paesi, a condividere appunto immagini personali
contribuisce a saturare il già concitato e iperdigitalizzato “rumore
mediatico” contemporaneo. Così,
contrapposto allo sgomento per i
primordiali abissi di silenzio e solitudine e alla terrificante ansia del
vuoto del primitivo horror vacui, la
moltitudine di immagini dell’universo mediale e virtuale odierno,
congestiona di segnali, subcomunicazioni e narrazioni ipertestuali,
ogni pratica quotidiana e finisce
con asfissiare e annebbiare la visuale, anche interiore e generare “horror pieni” (come dall’omonimo
saggio di Gillo Dorfles, del 2008)
con uno spaesamento da stress
visivo e comunicativo, dove la
overdose di immagine disturba la
immaginazione. “Lo sviluppo della
fotografia, dagli inizi ad oggi, è un
processo della crescente presa di
coscienza del concetto di informazione: dall’avidità per cose sempre
nuove secondo un metodo sempre
uguale, si passa all’interesse per
metodi sempre nuovi. Dilettanti
e documentaristi non hanno però
afferrato il concetto di “informazione”. Essi producono memorie
dell’apparecchio, non informazioni
e meglio lo fanno, meglio documentano la vittoria degli apparecchi sull’uomo”. (Vilém Flusser,
Per una filosofia della fotografia)
Dunque quale ricaduta, per un
epifenomeno ormai planetario, sul
La seconda vista
valore spirituale, etico ed estetico
della sperimentazione artistica
contemporanea? E’ ancora possibile citare, senza incorrere in fastidio
o persino irrisione, la remota ed
altissima lezione kandinskijana de
Lo spirituale nell’arte, che avverte
che: “tutto ciò che è di natura
esteriore è senza avvenire e tutto
quanto invece di natura interiore
abbia in sé il germe del futuro?” In
un saggio del 2007 intitolato L’arte
dell’accecamento, il filosofo francese Paul Virilio, avvertiva del rischio
che l’unico mezzo d’espressione
potesse diventare un ossessivo e
sterile choc di immagini- in una
società il cui fine non è più quello
di vedere- ma di essere visti. Una
sovraesposizione massmediatica
diventata di tali proporzioni da
offuscare la vista - in primis quella
interiore - fino ad impedire ogni
personale ed originale (originaria)
messa a fuoco, in una omologante
rappresentazione della percezione
di sé e dell’altro da inconsapevole
avatar, che annienta ogni residua
immagine mentale, fino a una
reale minaccia di cecità interiore.
L’arte dell’accecamento infatti,
diventa fatalmente arte dell’amnesia, perché l’appiattimento e la
deformità della visione, dirottano
la memoria personale in una memoria mostruosamente collettiva,
in una sorta di circuito chiuso,
autoreferenziale e contaminante, in
cui la pletora di immagini concede
la archiviazione e la catalogazione
delle esistenze, ormai rese tutte
uguali- con una “tele-sorveglianza” anche dell’arte stessa. “Come
opporre una resistenza efficace
alla repentina derealizzazione di
un mondo in cui tutto è visto- già
visto e immediatamente dimenticato?” Omologati, consenzienti
e distratti dalle apparenze, in una
“ trans-apparenza del lontano che
elimina il prossimo” abbacinati e
ormai quasi incapaci di vedere, “in
una sorta di culto della personalità
che non coinvolge più unicamente
il tiranno, ma la maggior parte dei
mortali, in altri termini: ciascuno
di noi. “ Oggi dobbiamo necessariamente non tanto chiudere
gli occhi ma abbassarli e non per
timidezza ma al contrario, per coraggio. Per poter guardare in faccia
non la Fine della Storia, bensì quel
supporto-superficie il cui confine è
visibile al di sotto di noi, nell’humus di una statica che ci sostiene
dalla notte dei tempi.”
Dunque scattare foto con lo sguardo abbassato? Forse non proprio,
ma almeno rammentare gli occhi
dei ritratti di Modigliani, uno
aperto e l’altro vuoto, “perché con
uno guardi il mondo, con l’altro
guardi in te stesso”. Almeno aprirli
con più profonda consapevolezza
politica delle immagini“ Imparare di più su come funzionano
le fotografie come strumento di
comunicazione : non solo come
procedimento tecnico che riguarda
gli obbiettivi, la grana, la chimica
oppure le qualità estetiche , ma
soprattutto nei contesti cognitivi,
politici, economici, culturali. (…)”
Essere insoddisfatti dell’immagine
“giusta” e piuttosto far crescere
un senso di “responsabilità” delle
immagini da restituire ad un pubblico di osservatori” (David Levi
Strauss, Politica della fotografia).
L’ultima tentazione, almeno quella
artistica, potrà davvero essere del
“tutto nero”. Una lunghissima
serie di scatti in assenza di luce. A
che scopo, se come sappiamo le
astrazioni non sono fotosensibili?
Forse per attivare una “seconda
vista”, quella remota ed archetipica, di cui scriveva Marc: “La nostra
fede, la fede nella conoscenza è la
seconda vista.” Una conoscenza
non più esclusivamente utilitaristica e materialistica, ma quella che
dilata la visuale partendo da una
intima visione del mondo e sposta
lo sguardo verso l’infinito. Una
conoscenza che diventi specchio
e rifrangenza interiore senza
bisogno di prolunghe per selfie
panoramici. Forse l’unico gesto
davvero autentico dell’artista che
usa oggi la fotografia come mezzo
di riflessione e di ricerca dovrebbe
essere rappresentare questo pozzo
buio - dal fondo del quale si potrà
però di nuovo osservare il kantiano
“universo stellato”. Fuori da ogni
retorica, fuori da ogni scontata e
altezzosa analisi e dalla sbrigativa
svalutazione di chi ha sicure messe
a fuoco e crede di vedere e di
capire tutto, Una sofferenza della
visione che attende forse di rigenerarsi proprio attraverso quell’oscurità. in un romanzo di Truman
Capote, intitolato Musica per
camaleonti, il protagonista parla di
uno specchio nero: “l’oggetto nel
salotto di Madame è uno specchio
nero. È alto diciotto centimetri
e largo quindici. È chiuso in una
custodia di consunta pelle nera a
forma di libro. Anzi, la custodia
giace aperta su un tavolo come
fosse un’edizione di lusso pronta
per essere raccolta e sfogliata, ma
non vi è nulla da leggere o da vedere, salvo il mistero della propria
immagine rifratta dalla superficie
dello specchio nero, prima che indietreggi nelle sue profondità senza
fine, nei suoi meandri di tenebre.
“Apparteneva a Gauguin,” mi
spiega. “Quello era il suo specchio
nero. Erano molto diffusi tra gli
artisti del secolo scorso. Van Gogh
ne usava uno. E così pure Renoir.”
“Non capisco bene. A che scopo?”
“Per ricaricare la propria capacità
visiva. Ravvivare la reazione al colore, alle variazioni di tono. Dopo
un certo periodo di lavoro, con gli
occhi affaticati, si riposavano contemplando questi specchi neri. “
Prende dal tavolo il volumetto che
contiene lo specchio e me lo passa.
“Vi ricorro sovente, quando i miei
occhi sono stati colpiti da troppo
sole. È distensivo.” Distensivo,
ma pure inquietante. Quel buio,
man mano che lo si scruta, cessa di
essere nero e diviene di uno strano
azzurro argenteo, la soglia verso
segrete visioni…”
Così simile a quello impresso su
carta fotografica…
Francesco Cusa
[email protected]
7
febbraio
2015
pag. 14
di
S
ono andato a vedere “Exodus” e sono stato davvero
male. Uno non sa con chi
prendersela; di certo si fa il tifo
per gli egiziani. Viene naturale,
anche se si sa poi come andrà
a finire. Non ce la possiamo
prendere con Ridley Scott, che
gira una pellicola magnifica (dal
punto di vista cinematografico)
e che - più o meno, con qualche
imbarazzante licenza,- quella
storia racconta, ovvero quella
di Mosé e dell’Esodo Biblico. E
con chi te la prendi? Col prete
che ti ha raccontato palle al
catechismo? Procediamo con ordine. La visione di “Exodus” è
consigliata perché, al-di-là-diciò-che-sappiamo, un conto è
lasciar decantare le simbologie
nel nostro inconscio, illudendosi d’essere affrancati da una tale
dimensione di follia, un altro
è riviverle nella gigantografia
dello schermo e con l’ausilio del
3D. I ricordi precipitano in un
passato remotissimo, alla visione
del monumentale “I Dieci Comandamenti” col Mosé/Charlton Heston, che ci pareva cazzuto, severo ma biblicamente con
le rotelle a posto, nella magia
del cine parrocchiale, col prete
a dare sberle a chi faceva casino.
E ci sembrava sacrosanto che il
mare avesse inghiottito i “cattivi”, rendendo giustizia all’unico
vero Dio, con i giudei-cowboy
a trionfare nella magnificenza di
quella che allora pareva tecnologia aliena (il Cinemascope).
E ora, rieccomi qui, col mio fagotto di esperienze di vita, a rivivere
lo stesso trauma, in un processo
fin troppo evidente di inversione.
Le domande che nascono, mentre
si assiste alla messa in scena del
nostro mito (per atei, cattolici,
testimoni di Geova, mormoni,
avventisti di non so quale giorno
si possa mai essere), sono le più
scontate: ma davvero la gente
può “credere” a questa caterva di
minchiate? A questa grossolana
esposizione dei fatti?
Ma, soprattutto, un simile Dio
perfido, vendicativo, violento,
sterminatore, come è conciliabile
con i valori e i concetti professati quali pietà, perdono, carità,
rispetto ecc.
(AVVISO AI LETTORI: stiamo
dicendo cose fin troppo ovvie, ma
ricordiamo che stiamo parlando
del “vissuto” dello spettatore
Buoni e cattivi
medio, della sua triste vicenda
allegorica, dello shock da “pellicola nuova”, nella ri-confezione
patinata di una robaccia che è al
centro della nostra attuale speculazione, della rilfessione ontologica
sui “Valori dell’Occidente” messi
sotto scacco dagli attacchi ciechi
di una cultura sanguinaria. E non
la venite a menare con la differenza tra Vecchio e Nuovo Testamento, eh?).
di
Beppe Pirrone
In occasione del Carnevale 2015,
Il Cenacolo degli Sparecchiatori, e
il Centro Socio Culturale Anziani del Fuligno, con il patrocinio
dell’Arga (Ass. Giornalisti Agricoltura, Alimentazione, Ambiente…),
promuove l’VIII edizione del
pubblico concorso: “La più buona
Schiacciata alla Fiorentina”, riservato non solo a fornai, pasticceri,
ristoratori ma anche a massaie,
casalinghe e casalinghi competenti
di Firenze.
Si tratta di un’iniziativa che negli
anni è cresciuta sempre di più
come quelle ormai consolidate del
miglior Pandoro Farcito e della miglior Schiacciata con l’Uva portate
avanti sempre dal Cenacolo.
La giuria, composta anche da giornalisti della Stampa Toscana, vedrà
palati storici dei Centri Anziani,
personalità della vita pubblica e
buongustai accreditati riunirsi
martedì 17 febbraio, alle ore 12,30
dopo un frugale pranzo al Centro
Anziani del Fuligno, in via Faenza,
52 per assaggiare, degustare, deliberare e quindi consegnare al meritevole vincitore la tradizionale
Targa Premio 2015.
Mentre al vincitore della sezione
Queste la basi dei valori nostri!
Lo sterminio dei piccoli bambini
egiziani nella notte, durante una
delle famose “piaghe”. Una delle
frasi più angoscianti del film di
Scott è questa: “Nessun bimbo ebreo è morto stanotte”. La
sibila sprezzante Mosé in faccia al
disperato Ramses con in braccio il
pargoletto morto. E’ la sua risposta a: “Che razza di Dio adorate,
un Dio che uccide i bambini nella
La più buona
Schiacciata
alla Fiorentina
massaie e casalinghi sarà consegnato un prezioso grembiule e
un camicione da notte per serate
indimenticabili, entrambi della
collezione di abbigliamento da
cucina de’ Il Cenacolo degli
Sparecchiatori (prodotti dal noto
camiciaio fiorentino Giuliano
de’ La Ruche). Inoltre è possibile
partecipare al pranzo ed è prevista,
per l’occasione, la visita gratuita
all’Educatorio della SS. Concezione, detto di Fuligno, che conserva
un bellissimo affresco del Perugino
raffigurante l’Ultima Cena, alla
scoperta di un grande luogo, da
sempre al femminile, oasi di spiritualità nel centro città, arricchito,
nei secoli, da affreschi e mirabili
opere d’arte, che oggi si presenta
agli occhi dei visitatori in tutto il
suo antico splendore.
Partecipare è semplicissimo, e del
tutto gratuito: basta telefonare dal
lunedì al venerdì al numero 055
2728603 dalle ore 9,30 alle 12,30
e dalle ore 15,30 alle ore 18,30,
per confermare l’adesione.
notte?” (Ramses sarai pure uno
stronzo fichetto, ma dammi qua il
cinque dio bono!)
Tornano in mente le dichiarazioni
dei Salvini, dei Ferrara, il coro
delle menzogne e di chi accusa
le altre religioni d’esser violente,
d’essere vendicative, portatrici di
messaggi di morte e bla bla bla.
Domanda banale ma sacrosanta:
ma con che faccia si presentano
certi peronaggi in pubblico a fare
certe affermazioni? Ecco i politici
in parata, a difesa dei nostri valori…quali? Questi! Nel film “Exodus”, Mosè dialoga
con un bambino antipaticissimo
e dispettoso (che sarebbe poi
Dio), una chiara metafora, a mio
modesto avviso, dell’embrionale
e nascente culto monoteista, di
una divinità appena “sorta” (con
buona pace del concetto di Eterno), crudele come solo i bambini
possono esserlo: in pratica di una
Entità in “formazione”. Questo
bimbo appare e scompare. Se
Mosè ha qualche titubanza, eccolo
ghignare mefitico e saltare fuori a
tradimento: “ora ti faccio vedere”.
E giù cavallette, alligatori, rane,
sangue, insetti, malattie, a sterminare i popoli.
Questo film andrebbe proiettato
in prima serata e a reti unificate.
E’ il più grande deterrente contro
il nostro delirio di onnipotenza.
E’ la paradossale parabola che ci
rende simili al nostro “Nemico”
(ovviamente siamo noi il Mostro,
altro che “simili”). E’ una sana
abluzione nel demagogico della
nostra simbologia farlocca, artificiosa costruzione volta a condizionare menti, ad assoggettare popoli
e culture. Tutto è palesemente
falso, ma viene vissuto realmente
dal nostro inconscio, dal nostro
mondo onirico. Viviamo “come
se” tutto questo mito corrotto
possa essere in qualche modo
effettivamente contemplato: lo
abbiamo sublimato e codificato
attraverso i tabù, le ritualità, le
norme, le leggi, i codici, lo abbiamo reso solubile a dispetto del suo
detestabile contenuto; esso regola i
nostri calendari, scandisce le ricorrenze, abita il nostro quotidiano. Di più; abbiamo costruito una
metafisica della democrazia,
l’abbiamo plasmata secondo
nuove modalità di sterminio ed
oppressione al fine di generare
un nuovo Credo Globale: quello
degli Oppressori che si sentono
Oppressi.
7
febbraio
2015
pag. 15
Roberto Giacinti
[email protected]
di
L
a sera del 3 febbraio 1865,
in una città illuminata
a giorno e gremita da
una folla di senatori, deputati,
autorità civili, militari e comuni
cittadini, il Re Vittorio Emanuele II faceva il suo ingresso
a Firenze, appena proclamata
nuova capitale del giovanissimo
Regno d’Italia.
Fu la soprano Adelina Patti,
voce di bellezza ed estensione
eccezionali, pronta ad ogni
virtuosismo, ad interpretare,
quella sera, Rosina ne Il barbiere
di Siviglia di Gioachino Rossini,
al Teatro Pagliano, poi Verdi, in
via del Diluvio, cioè l’attuale via
Verdi.
Il pubblico applaudiva ad ogni
istante con impeto di ammira-
Davide Virdis
Bacino
artificiale
di
zione e non cessò per tutta la
sera di festeggiare la Diva preso
forse anche dall’emozione della
giornata.
Il Teatro Pagliano aveva sollevato il sipario, per la prima
volta, il 10 settembre del 1854
sulle note dell’opera verdiana
Il Viscardello che sarebbe poi
diventato Rigoletto.
Il nuovo teatro, una struttura
polivalente adibita a circo equestre, sala da musica, anfiteatro,
era stato costruito sui resti
del trecentesco carcere delle
Stinche, tra via Ghibellina e via
“dell’Isola delle Stinche”, demolito, all’inizio del XIX secolo per
essere ricostruito all’ex convento
delle “Murate”.
Curiosamente oggi, dopo che
anche questo edificio è stato
dismesso, alcuni locali delle
Murate ospitano delle rassegne
teatrali.
L’imprenditore Girolamo
Pagliano, ex baritono, noto nel
suo tempo per il famoso sciroppo “Centerbe di lunga vita”. era
un uomo ricco, famoso e molto
chiacchierato.
L’immensa fortuna economica, che gli aveva consentito di
aprire la più grande sala teatrale
di Firenze, derivava dall’invenzione, del 1838, di uno
sciroppo antiacido “depurativo
e rinfrescativo del sangue e degli
umori”, con strabilianti pro-
Contaminature
Adelina Patti al Teatro Pagliano
prietà che erano
magnificate nel
volumetto “La
medicina per i
padri di famiglia”,
o “il medico di se stesso e de’
bambini”, pubblicato per la
prima volta nel 1846 e più volte
stampato dopo vari rimaneggiamenti.
L’arma segreta del popolare
sciroppo ce la rivela con sottile
ironia Carlo Collodi nel suo
“Romanzo in vapore da Firenze
a Livorno” del 1856: “Invano
i chimici hanno tentato di
investigare di quali elementi si
compone questa bibita; ne hanno scoperti quattro o cinque!”
Anche oggi ne beviamo una,
avvolta dal mistero!
II Pagliano era uno dei teatri
consigliati: si spendeva 1,50 lire
per il primo spettacolo e solo 1
lira per la commedia. Ai buzzurri, così li definiva ironicamente
Adolfo Matarelli, detto Mara,
nelle vignette pubblicate sul
“Lampione” lo svago piaceva.
E sembra di vederlo il pubblico dell’epoca, che usciva dai
salotti o dai palazzi borghesi; gli
anziani pare si portassero dietro
anche lo scaldino, per andare a
teatro, a piedi o in carrozza.
Diventato Teatro Verdi nel
1901, è dal 1998 proprietà della
Fondazione ORT e sede stabile
dell’Orchestra della Toscana.
Il Teatro continua ad avere
una sua storia ed ha un valore
“pubblico”, perché interpreta la
cultura del proprio o di un altro
tempo passato.
7
febbraio
2015
pag. 16
Scottex
Aldo Frangioni presenta
L’arte del riciclo di Paolo della Bella
Dibattito sulla
Scultura
leggera
7
Gentili amici,
trovo alquanto bizzarro che la redazione, o chi per essa,
si sia permessa di manomettere la mia opera d’arte denominata “Scultura leggera” ovvero Scottex numero 7.
Ma chi vi credete d’essere, Pierre Menard? Lui almeno
ebbe la correttezza di scrivere a Borges il suo proposito
quando volle riscrivere, non copiare, il Don Chisciotte.
“Il mio proposito è semplicemente stupefacente” scrive
appunto Menard il 30 settembre 1934 da Bayonne a
Jorge Louis Borges, “La mia impresa non è difficile,
nella sostanza. Mi basterebbe essere immortale per
condurla a termine”.
Il Chisciotte di Menard, per alcuni più sottile e più
ricco di quello di Cervantes, oppone alle finzioni
cavalleresche la povera realtà provinciale del suo paese.
Il raffronto fra i due autori è senz’altro rivelatore. Cervantes, per esempio, scrive:
“…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo,
deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e
notizia del presente, avviso dell’avvenire”.
Redatta nel XVII secolo, quell’enumerazione appare
come un mero elogio retorico della storia. Menard,
invece, scrive:
“…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo,
deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e
notizia del presente, avviso dell’avvenire”.
Menard (forse senza volerlo) ha arricchito mediante
una tecnica nuova l’arte immobile e rudimentale della
lettura: la tecnica dell’anacronismo deliberato e delle
attribuzioni erronee.
Gentili amici voi pensate di avere fatto questo? Se
mettiamo a confronto la mia opera originale con quella
che avete pubblicato sul numero scorso… non mi pare
proprio!
Cordiali saluti dal vostro
Paolo della Bella
Chiediamo scusa all’artista. Nel comporre la pagina il
grafico ha effettivamente rimesso l’opera originale e non
quella da noi modificata che questa volta riportiamo!
A.F.
7
febbraio
2015
pag. 17
Don’t beware of Rinoceronte
Paolo Marini
[email protected]
di
E
ssendo mammifero perissodattile o ‘impari-digitato’,
lontano parente (a quanto
pare) dell’asino e del cavallo, massiccio e un po’ sgraziato, una specie
di ciclopico maiale con due corni
(non corna) sul muso allungato,
dalla vista per nulla eccezionale
ma con udito e olfatto finissimi,
giammai il più famoso o famigerato o temibile animale - almeno
nella mia memoria di fanciullo - a
differenza del leone o della tigre,
io quando mai avrei più riflettuto
sulla figura (e sulla essenza) del
rinoceronte - se non incontrando - del tutto involontariamente
- il “Rinoceronte” di Paolo Della
Bella? Deve aver toccato qualche
corda profonda del mio essere, mi
son detto, dal momento che ha
mosso la mia fantasia e, con essa, il
pensiero; una fila di suggestioni e
di idee, di emozioni e di riflessioni.
Non è questo lo scopo, il senso,
la missione, il destino, l’ulteriore
compimento di un’opera d’arte (una volta che sia ultimata e
‘sfornata’ dalla fucina/atelier dell’artista)? Già. Ed è così che la stessa
diventa, in un certo senso, bene a
‘proprietà diffusa’. Tutte le opere
d’arte, infatti, hanno un autore che
può rivendicarne la paternità, e un
proprietario (ove non sia ancora
lo stesso autore) che ne gode il
possesso e i diritti di utilizzazione;
quindi ci sono coloro – un numero
indefinito di persone - che le opere
d’arte le osservano e che talora – in
una misura soggettiva e incognita
– se ne lasciano affascinare o appassionare e dunque le interpretano,
ed interpretandole possono arrivare
ad amarle e con ciò - quasi senza
accorgersene e in un mondo tutto
immaginario - ad impadronirsene.
Per meglio dire, si configura dunque un rapporto specialissimo ed
esclusivo, affine a quello di genere
proprietario, con l’immagine e il
senso di un’opera d’arte.
Ecco allora, in sintesi, il mio
“Rinoceronte”: le macchie di colori
– colori vividi - come tessere di
un puzzle placano il misterioso,
selvatico animale e lo introducono
nella nostra fantasia come deprivato delle sue pur non irrilevanti
qualità offensive; lo addomesticano
apposta perché viva esso stesso a
proprio agio - più coccolato che temuto, più spensierato che seccato –
nella galleria, nella sala o nel loft di
turno, magari su un’estesa parete, a
sormontare un divano o manufatti
di varia foggia in apparente disordine. Attenzione: per quanto come
sopra tradotto, il “Rinoceronte” di
Della Bella è nato per sovrastare,
cioè per stare-sopra, per incombere
– pur non minacciosamente – su
qualcosa. Dopo questo ingresso
nella nostra realtà quotidiana,
tuttavia, il “Rinoceronte” può avere
in serbo qualche sorpresa, può
essere la causa (o l’occasione) di
un contro-movimento anche più
profondo per il quale, dietro tranquillanti apparenze, ciascuno (ri-)
scopre nell’immagine, e dunque
dentro di sé, la dimensione primordiale ed istintuale dell’esistenza. Di
questo che ho chiamato “contro-movimento” sono segno indiscutibile le campiture di nero che
abbondano nella parte meridionale
dell’animale, a partire dalle zampe
posteriori, e che apparentemente
salgono, s’insinuano o s’impongono su per la medesima; in realtà le
Sara Chiarello
[email protected]
Le voci
di Napoli
di Cauteruccio
di
Fino al 15 febbraio è in scena al
Teatrostudio di Scandicci Napolisciosciammocca, scritto, diretto
e interpretato da Giancarlo
Cauteruccio, il primo atto di
una trilogia sulle città di mare
che il regista di Teatro Studio
Krypton ha ideato, scegliendo
Napoli, Genova (2016) e Trieste
(2017). È un omaggio che ricorda Eduardo De Filippo, Leo
De Berardinis, Antonio Neiwiller, Enzo Moscato, attraverso i
luoghi, i paesaggi, i sentimenti,
passando dalle canzoni del
grande repertorio, da O sole mio
a Torna a Surriento. Un viaggio
nella Napoli da cartolina, e in
quella metropolitana, stridente;
in scena, Cauteruccio si muove
su un tappeto di stelle, mentre
sugli schermi scorrono le immagini della Napoli di oggi. Dice
Cauteruccio: ‘È da tempo che
penso alla possibilità di rendere l’essenza della città materia
drammaturgica: tramite le voci
femminili, le città si possano
raccontare in prima persona. La
città è femmina, madre, sorella,
amante e così può parlare di
amore, di passione, di carnalità,
di desiderio e nello stesso tempo
di dolore, di disagio, di vita e di
morte. Il mio desiderio segreto
di cantare qui si realizza e metto
alla prova la mia voce, non certo
quella di un cantante, con il suo
timbro dissonante ma è forte la
voglia di continuare a sperimentarla. La mia improbabile
voce, che si misura con il canto
melodico, diventa metafora di
quella corrosione dell’armonia
in atto da tempo in svariate
città, e specchio di quei disagi e
di quelle criticità di cui quotidianamente abbiamo notizie’.
Le repliche sono dal martedì al
stesse essendo traccia di una figura
necessariamente tutta nera, forse
in omaggio ad una delle due specie
africane (appunto, il rinoceronte
nero) ovvero rinviando a tutto ciò
che il nero può evocare. Val la pena
di citare, al proposito, le parole di
un maestro della pittura: “Il nero è
qualcosa di spento, come un rogo
arso completamente. E’ qualcosa
di immobile, come un cadavere
che non conosce più gli eventi e
lascia che tutto scivoli via da sé”
(W. Kandinsky, “Lo spirituale
nell’arte”). Anche se nel “Rinoceronte” il rogo non sarebbe stato
completamente arso, l’immobilità
non impedirebbe il tuffo (altro che
quello scivolare via da sé!) in un
mondo fatto di paure ancestrali,
privo di orpelli e tutto vissuto nella
tensione tra Eros e Thanatos - vita
e morte. Tensione che si può concretamente rinnovare/attualizzare
ogni volta che si abbia la ventura
di incontrare un rinoceronte in
carne ed ossa, magari incazzato e
sul punto di iniziare una carica. In
“Fuga sul Kenya” Felice Benuzzi racconta come nei cartelli di
certe strade fosse scritto: “Beware
of Rhino”. Cautela per fortuna
superflua, per chi avrà il privilegio
di incontrare personalmente, sorprendentemente, semplicemente il
“Rinoceronte”.
sabato ore 21.00, domenica ore
18.00, lunedì riposo. Gli incassi della replica di venerdi 13
febbraio saranno devoluti dalla
compagnia a FILE – Fondazione Italiana di Leniterapia Onlus
e il costo dei biglietti per quella
replica è di 14 euro, senza riduzioni. Per ulteriori informazioni
www.teatrostudiokrypton.it.
in
giro
7
febbraio
2015
pag. 18
Domenica 8 febbraio all’ Auditorium di piazza della Resistenza a Scandicci, ore 11, Luigi Lombardi
Valauri presenta I Centomila canti di Milarepa
horror
vacui
Non si sa di
preciso quanto Putin sia
un piccolo
zar o un
condottiero
euro-asiatico
che cerca di
tenere unito
il suo popolo
dopo lo sfacelo sovietico. Non si sa
neppure se le
ragazze che
si denudano
per protestare contro
di lui siano
delle idealiste
o cerchino
una parte in
qualche film.
Troppe cose
non sappiano per poter
sventolare
con leggerezza, in quelle
terre, qualsiasi bandiera.
7
febbraio
2015
pag. 19
Disegni di Pam
Testi di Aldo Frangioni
L
immagine
ultima
7
febbraio
2015
pag. 20
Dall’archivio
di Maurizio Berlincioni
H
[email protected]
o sempre considerato questa immagine un’immagine decisamente drammatica. Mi spiego meglio: si tratta del dettaglio della parte
posteriore di un vecchissimo autobus, probabilmente uscito di fabbrica nella prima metà degli anni ’50 e letteralmente tenuto assieme
con il fil di ferro che veniva utilizzato per il trasporto dei raccoglitori giornalieri di frutta nelle diverse fattorie di questo importante
distretto agricolo. In basso a destra si vede chiaramente un piccolo rubinetto per l’acqua potabile con sopra il dispenser per i bicchieri di
plastica, di un formato abbastanza improbabile, con una scritta a pennello che indica un’altrettanto improbabile “Drinking Water”. Lascio
immaginare al lettore la temperatura del liquido esposto inesorabilmente per ore ed ore all’implacabile solleone estivo delle pianure interne
della California.
Patterson, San Joaquin Valley, 1972
Fly UP