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Francesco, chiamalo - Cultura Commestibile
[email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci Con la cultura non si mangia 9 N° 10 La legge sull’aborto non ha consentito di venire al mondo ad oltre sei milioni di italiani e la scarsità di figli ci ha fatto sprofondare in questa crisi economica Luigi Negri Vescovo di Ferrara Francesco, chiamalo editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Da non saltare 7 febbraio 2015 pag. 2 Elda Torres [email protected] di I Pharos Pharos, la piattaforma web per segnalare alla polizia forme di incitamento alla violenza o di apologia del terrorismo, ha smesso di funzionare per l’enorme afflusso di dati nelle ultime due settimane, passati dalle 400 segnalazioni a più di 3000 al giorno. Intanto Joacquin Ronsin, l’inventore di Je suis Charlie, direttore artistico della rivista di moda Stylist rilascia dichiarazioni sulla stampa, dopo la guadagnata visibilità. Parigi fredda e fascinosa come sempre, cielo chiaro e sole pallido dopo la pioggia notturna. Il dramma vissuto solo due settimane fa sembra ormai un fatto lontano se non fossero lì a ricordarlo i tanti cartelli giganti con le scritte appunto Nous sommes tous Charlie o Paris est Charlie attaccati sui muri dell’Hotel de Ville, o su altri palazzi. La città è tranquillissima, famiglie intere pattinano sul ghiaccio nella piazza dell’Hotel de Ville, la gente passeggia, ride, ama, inonda le strade. Tantissimi i giovani da ogni continente, coppie di innamorati che come in un gioco di bimbi si scambiano tenerezze nel metrò o mentre sono in coda da qualche parte. In prevalenza asiatici, soprattutto giapponesi, ma anche tanti africani e americani, e naturalmente i francesi, oltre gli europei e tra loro gli italiani. Come se l’evento luttuoso abbia rilanciato l’appeal di questa città, di norma già così alto. Pochi i poliziotti in giro, nemmeno uno nelle stazioni del metrò o nei Bolulevards o nelle strade del centro, né nel quartiere dell’Horloge dove si trova il Beaubourg, né intorno alle Halles, né a Montmatre o S. Germain o alla Bourse. Distribuiti solo in punti strategici i corpi speciali in tenuta antisommossa, controllano le entrate delle auto all’angolo rue du Bac, rue de Varenne dove si trovano diversi palazzi sedi dell’esecutivo come quello delle Relazioni con l’Assemblea Nazionale o di Ministeri come l’Hotel de Matignon. Code ovunque La città si autoregola ed è questo n tilt Paris après Charlie il vivere associato democratico, quando la convivenza avviene per senso civico. Ci sono i saldi nei grandi magazzini e nei negozi di ogni quartiere, così folla dappertutto e code ordinate ovunque, dalla cassa del supermercato alla piccola boulangerie, ai musei. Un’ora di fila per entrare al Centre Pompidou, dopo il rafforzamento dei controlli: si entra uno alla volta, si controllano le borse, si passa traverso una porta che segnala esplosivi, come in aeroporto. Ancora lunghe code per depositare i cappotti, deposito obbligatorio, altra folla per entrare alle due esposizioni in chiusura, una delle quali è dedicata all’artista marocchina Latifa Echakhch, emigrata nel 1978 a tre anni, vincitrice del premio Duchamp 2013. Opportunità oltre a disagio Da non saltare 7 febbraio 2015 pag. 3 Un clochard di origine giapponese di nome Morimoto espone quadri al Grand Palais, e Clementine Benjamin, giovane anglo-ganiana che suonava la chitarra sulla linea 2 del metrò a Parigi, è ora lanciata come cantante piena di promesse. E’ anche questo la Francia. Di fronte ai pochi che ce la fanno, troppi restano gli emarginati: per le strade dormono i barboni in pieno giorno, in mezzo al traffico, su un marciapiede presso Châtelet, ma anni fa se ne vedevano molti di più nei sotterranei del metrò. Tanti sono i ragazzi di colore o magrebini che ballano in modo gaio per le strade o nelle piazze al suono di un registratore, improvvisando piccoli spettacoli, mentre accanto un gruppo di ucraini innalza cartelli contro la Russia. Vivere non è aspettare che il temporale passi, ma imparare a Viaggio nella capitale francese due settimane dopo la strage danzare sotto la pioggia Con le parole di Seneca la vignetta di apertura del settimanale L’Express, dove un iman, un vescovo e un rabbino ballano sotto la pioggia con gli ombrelli aperti a forma di matite da cui nascono cuori. Il dibattito su quanto avvenuto sopravvive nei giornali, quotidiani e settimanali. I quotidiani seguono la cronaca: Le Monde di domenica 25 gennaio riporta come primo titolo le parole appena pronunciate dal primo ministro Manuel Valls: La France est-elle en situation d’apartheid? Ne segue un vivace dibattito su cosa è fallito nel tentativo di integrazione di quasi 2 milioni di mussulmani nelle banlieues parigine. Sullo stesso giornale intervengono il socio-demografo Patrick Simon che parla del sistema che pensandosi egualitario crea però discriminazioni; Georges Felouzis, sociologo, autore di “Le diseguaglianze scolastiche” (PUF 2014), mette in risalto come la scuola registri le differenze sociali che danno luogo all’esclusione poi nel mondo del lavoro; Benoit Dupin, professore a Sciences Po, specialista dell’Africa del sud, analizza le differenze tra varie tipologie di segregazione e invita a non generalizzare: la Francia è un paese libero ove tutti possono agire con il proprio voto; il pezzo forte è di Gérard Noiriel, storico dell’immigrazione, il quale mette l’accento sullo chômage come causa prima dell’esclusione sociale, invitando a non legare attentati alla questione dell’integrazione. Fa parecchi riferimenti alle crisi del passato tra cui l’assassinio del presidente della Repubblica Sadi Carnot nel 1894 da parte di un anarchico italiano, fatto che poi provocò reazioni violente contro la massa degli immigrati italiani in molte città. E a proposito di votazioni si attende l’esito delle prossime legislative, quelle del 1 e 8 febbraio, con il partito della Le Pen come favorito. Tanti sono quelli che l’appoggiano specie in provincia, ma anche tra quelli non schierati a destra ma si dicono di sinistra si sentono opinioni verso la politica dell’Isis verso l’Europa come questa:“La tattica è chiara, il metodo pure. Pensavamo a loro come dei barbari arretrati e invece hanno una strategia sofisticata, evidente ormai. L’obiettivo è chiaro: coinvolgere l’Europa nella guerra totale che hanno in mente per far prevalere la loro ideologia. La logica è quella di fare paura a ogni livello: con il primo risultato dell’invito all’autocensura.” Su L’Express grande spazio è dato a una serie di inchieste e di articoli che il titolo di copertina riassume bene: L’internazionale Jiadista. In dettaglio vengono analizzati i vari gruppi sul territorio dell’intero mondo dal Marocco all’Asia del sud, e le ipocrisie e ambiguità dei paesi islamici detti moderati nei confronti dell’Occidente, sino all’interessante intervento del filosofo Abdennour Bidar, il quale da mussulmano lucidamente dichiara che per il grande corpo malato che è il mondo mussulmano è ormai ora: ... di passare dall’autodifesa alla responsabilità dell’autocritica. Gli italiani a Parigi “L’Histoire du jour” in prima pagina di Le Monde col titolo: In Italia, essere gay o guidare l’auto, bisogna scegliere, è dedicata al caso di un italiano Danilo Giuffrida, che ha denunciato lo Stato italiano per omofobia. Agli occhi del corrispondente da Roma Philippe Ridet e dei francesi la storia appare bizzarra e ridicola, con la conclusione che se si ha cultura e soldi, cioè i mezzi per difendersi, magari si vince la causa. La Corte di Cassazione infatti il 22 gennaio ha condannato lo Stato a pagare per violazione della privacy e discriminazione. Siamo insomma i cugini arretrati da trattare con ironia. Ma è ormai lontano il tempo in cui gli immigrati italiani erano visti come oggi i marocchini: sabato 24 gennaio una giornata internazionale di studi è stata dedicata a Carlo Scarpa all’Auditorium dell’INHA col titolo “L’art d’exposer”. Studenti italiani frequentano la Sorbona e altre Università parigine, ne sono pieni i bus che legano i quartieri del centro. Si sente parlare italiano per le strade e nei metrò. Intanto al Teatro Du Rond-Point Ascanio Celestini e David Murgia fanno il pieno di pubblico con “Discorsi alla nazione”. La critica francese apprezza Murgia che dichiara la vera scoperta dello spettacolo. E giornalisti con cognomi italiani sono firme importanti su prestigiose testate. Insomma a Parigi c’è speranza per tutti, è solo questione di tempo con un po’ di fortuna. riunione di famiglia 7 febbraio 2015 pag. 4 Le Sorelle Marx Scherza con i fanti, ma lascia stare i santi. Proverbio valido per la bianca Lucca, ma anche per l’ex rossa Viareggio che, persa la cantieristica, non le rimane che il Carnevale, tanto da essersi inventati anche quello estivo (tanto per il mare chi va più in Versilia?). E allora la traduzione di “Je suis Charlie” in viareggino suona molto simile a “Teniamo famiglia”. Anzi il Burlamacco è uno spettacolo “per un pubblico di famiglie e bambini”, mica può macchiarsi di blasfemia per far contenti i difensori della libertà di satira e parola. Comunque se c’è da lottare contro la censura, carristi e figuranti sono in prima linea: “La vera forma di censura grave che ci è stata imposta è di fermare la musica alle 18, mentre la gente sta andando via. Un divieto incomprensibile di cui Satire Bobo però nessuno parla”. Da “Je suis Charlie” a “Meu amigo Charlie” il passo è breve. La Stilista di Lenin Zapruder Prima fu il nodo allentato poi quello torto. Mattarella, sulle cravatte, non parte benissimo. Il Presidente che si annuncia grigio, inciampa subito quando le due presidenti di Camera e Senato vanno ad informarlo dell’avvenuta elezione. Mattarella le accoglie in completo scuro ma con il nodo della cravatta che si è leggermente allentato. Viene poi il giuramento alle Camere e al Presidente il nodo venne torto. Due inconvenienti tipici di alcuni nodi. L’allentamento è tipico del nodo classico, che con cravatte di seta, tende ad allentarsi spesso. Inconveniente a cui Mattarella ha pensato, credo, saggiamente di rispondere approntando per il giuramento, un più saldo nodo scappino, o come è noto nel mondo “mezzo Windsor”. Nodo importante, di ampie dimensioni, va però fatto con molta attenzione perché ha la tendenza per l’appunto di tirare da un lato. Non disperiamo però che i magnifici specchi del Quirinale forniranno l’occasione al Presidente per allenarsi nei nodi. Settimana non felice per le cravatte dei potenti. Grazie alla segnalazione di una lettrice ho infatti scoperto che Renzi si è presentato a Porta Zapruder non può mancare alla creazione di un nuovo partito. Oh, questo è di quelli importanti: sul sito delle foto bellissime, una grafica avveniristica, Zapruder è intimidito. Ma sente il dovere di riprendere i grandi avvenimenti, non può mancare con la sua 8 millimetri. Zapruder, si sa, è campanilista e non può non soffermarsi sul personaggio importante della sua terra che è entrato nel nuovo movimento: Cristina Scaletti. La ricorda benissimo, assessore in Regione, l’ultima campagna elettorale a Firenze. Zapruder, lo sappiamo, è timido: per caso si trova sempre presente ai grandi appuntamenti della storia, ma ancora non si abitua al main stream, alla gente ricca e potente, ma soprattutto alle belle donne. Arrossisce, si impappina…e così, con gli occhi bassi e farfugliando, da toscano doc, non riesce a non pensare al significato e al significante del cognome del leader, del fondatore: Passera. Oddio, che vergogna, Zapruder sa che non dovrebbe pensare a questi doppi sensi…e poi si ricorda l’inaugurazione del comitato elettorale di Cristina, in Piazza Le cravatte di chi ci governa L’origine del mondo a Porta con una cravatta rosso fuoco con un nodo talmente strizzato e stretto che probabilmente la sera a casa ha dovuto tagliarlo con le forbici. Anche per lui ripetizioni al primo Colloquio al Quirinale. della Passera, a Firenze! E giù che arrossisce ancora e ancora…e poi non può non pensare che Cristina è proprio bella: alta, sportiva… una bella pass…ehm, donna! Oddio, per un pelo ha evitato un’altra gaffe e di passare per maschilista. Ma spesso, come Serafino Gubbio operatore, la gente con Zapruder si confida ed è venuto a conoscenza di una notizia bomba: la grafica finale della campagna elettorale di Passera sarà “l’Origine del mondo” di Courbet. Così Zapruder capisce che forse, ora in Italia, non ha più senso un po’ di pudore: Zapruder si sente proprio fuori moda. 7 febbraio 2015 pag. 5 di John A Stammer lla fine l’idea giusta venne a Ugo Caffaz, capogruppo dei DS in Palazzo Vecchio. La nuova sede del partito DS (sigla che stava a indicare Democratici di Sinistra) sarebbe sorta a Novoli, sul terreno della Casa della Cultura. Era da tempo che il maggior partito della città aveva in mente di realizzare una nuova sede per ospitare le attività politiche, le riunioni dei parlamentari e per soddisfare le esigenze di rapporto con i cittadini, che un partito strutturato aveva. Ma non era stato semplice individuare un’area di dimensioni sufficienti per realizzare un edificio di almeno 1000 mq di pavimento. Il segretario di allora Emanuele Auzzi (il “Meme” come veniva chiamato dalla stampa)) aveva indicato questo obbiettivo anche come un modo per agevolare la costruzione di un partito organizzato, strutturato e presente, anche fisicamente, nella vita della città e della regione. La prima ipotesi fu un’area in via Gran Bretagna dove, nel 2004, fu pensata una sede che già esprimeva le nuove idee organizzative: flessibilità degli spazi, open space e cablatura, sale per seminari ecc. Ma non fu la soluzione giusta. L’idea di Caffaz fu quella di realizzare l’edificio sulla proprietà della Casa della Cultura, una associazione privata di cittadini, che molti anni prima avevano costruito un edificio, una “casa del popolo” si sarebbe detto, che aveva ospitato anche una famosa, all’epoca, sala da ballo. Lo spazio del giardino sarebbe stato sufficiente per costruire la nuova sede. Furono fatti gli atti di cessione del diritto di superficie, si avviarono le procedure urbanistiche e alla fine , nel 2005 l’edificio iniziò a essere costruito. Il progetto rappresentava simbolicamente, anche con un passaggio pedonale, il collegamento dalla “Casa della Cultura alla Casa della Politica”. Concezione molto lontana da quella che l’arch. Sergio Sozzi aveva ideato per la storica sede della Federazione del PCI di via Alamanni, una sorta di austero convento in cemento armato, che aveva tratto ispirazione dal convento de La Tourette di Le La cultura politica ha trovato casa Corbusier e dalla sede del PCF di Niemeyer. Ma la realizzazione dell’edificio non fu semplice. Poco tempo dopo l’avvio dei lavori venne a mancare proprio il maggiore artefice della costruzione della sede. Meme Auzzi morì infatti nel novembre del 2006 mentre, in auto, tornava nella notte, dopo una delle innumerevoli riunioni alle quali partecipava, stroncato da un infarto. E poco dopo anche il partito dei DS cambiò strategia e avvio la fase di costruzione del Partito Democratico insieme al partito della Margherita. In queste condizioni Paolo Antonio Martini ha progettato un edificio essenziale, con l’obbiettivo di essere funzionale alle esigenze, che però mutavano in continuazione, cercando di mantenere fede alle indicazioni di Auzzi. E’ nato così, fra mille difficoltà, l’edificio che oggi ospita, quasi in disparte, la sede del Parti- to Democratico della città, e della regione. Un edificio che è caratterizzato da una copertura quasi aggettante del ballatoio di copertura, ballatoio che ospita la sala riunioni, ma che per un periodo ha ospitato una sorta di grande loft (ufficio – residenza) dell’allora segretario regionale. Un edificio semplice, che si fa notare poco nel sistema di edilizia lineare degli anni trenta del secolo scorso. Un edificio inaugurato il 2 settembre del 2010 dall’allora segretario del Partito Pier Luigi Bersani, ma che vide come effettivo protagonista, quasi una premonizione, l’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi. Un edificio che rappresenta quasi il simbolo visivo di una concezione politica non più “di moda” si potrebbe dire, e che ora sta lì svuotato di contenuti e di persone da una evoluzione della politica e organizzativa che non era stata neppure percepita come possibile al momento della sua ideazione. Ora, che la politica si fa con un Tweet, e con riunioni nelle quali le decisioni sono prese quasi a prescindere dal dibattito, questa sede è il “monumento”, forse, alla fine del periodo dei partiti strutturati, omniscenti e omnipresenti. 7 febbraio 2015 pag. 6 Laura Monaldi [email protected] di più vera e autentica. Le opere di Emily Joe sono esili tracce da tramandare alla collettività, in cui riconoscersi e leggere il mondo con occhi diversi, privi delle regole precostituite dell’interpretazione, ma con un’intellegibilità pluridirezionale. L’artista di fatto opera un’attenta e profonda ricerca sul linguaggio e sull’espressione contemporanea, volta a sviscerare i valori semantici che l’Arte porta in sé, sia sul piano dell’espressione che su quello del contenuto, recuperando l’autenticità della materia. Invenzione, ironia, soluzioni immaginarie, spirito iconoclastico, principi dell’assurdo e del paradosso sono i dettami attraverso cui le opere di Emily Joe “parlano” e comunicano l’esigenza di porsi al di là del tempo e delle leggi delle eccezioni e dei contrari, riscoprendo valori che la contemporaneità sembra aver dimenticato e abbandonato nell’oblio di una memoria collettiva da recuperare e proiettare al di là dell’oggi e del domani. L ’opera d’arte nasce da un incontro fortuito, involontario, a volte ricercato, fra l’Io artistico e un ignoto che, attraverso il gesto estetico, si concretizza e manifesta la propria esistenza agli occhi del mondo. Al momento creativo è dato l’arduo compito di esprimere la spontaneità e la genuinità della forma artistica, che prende corpo nelle mani di colui che è dedito a un’Arte da donare alla collettività e ad assolutizzare l’espressione estetica nella dinamica e nella retorica della creatività. Con Emily Joe la materia evoca il proprio linguaggio in un dialogo intimo fra il sé estetico e le cose del mondo, creando una semanticità corporea di particolare impatto evocativo. Assemblaggi e installazioni regolano le leggi del Tempo in un cammino di rimandi psicologici e processi interiori: un divertissement materico che afferma un’autenticità che può essere scoperta e rivelata attraverso vie e soluzioni diverse dalla norma estetica. Non a caso recuperi dal passato e interventi contemporanei pongono l’opera d’arte in una dimensione temporale in grado di trascendere le equivalenze universali, in modo tale da indagare e sperimentare i limiti della potenzialità espressiva dei piccoli elementi presi a prestito dal mondo. La specificità del particolare viene messa in luce in una relazione opposta ai massimi Sistemi, troppo caotici e complessi per essere compresi e ordinati secondo le leggi della Scienza attuale. Una forma di dialogo, quindi, fra esperienze e riflessioni, fra la tendenza innata dell’artista a comunicare e una prassi estetica che partecipa attivamente al presente in quanto presente, valutandolo nella propria precarietà. In tal senso l’artista si muove con una sensibilità nuova e inedita, ricostruendo identità atemporali e donando all’opera d’arte una vita propria, capace di superare le parvenze del passato e del presente per proiettarsi in un futuro ipotetico e utopico in un confronto globale e disinteressato, dove le dimensioni pubbliche e private sono minimizzate in virtù di una comunicazione Emily Joe Incontri fortuiti In alto Senza titolo, 2015 Collage su cartoncino Sopra Libro d’artista, esemplare unico, 2015 A destra I could have lied, 2015 Scrittura e collage su cartoncino e Cervelli in fuga, 2015 Assemblaggio su cartoncino Tutte Courtesy Collezione Carlo Palli Prato 7 febbraio 2015 pag. 7 Danilo Cecchi [email protected] di R afal Maleszyk, polacco di nascita, inizia a fotografare a quattordici anni, e nel 1997, all’età di diciannove anni, comincia a viaggiare fra Europa, Stati Uniti ed America Latina, privilegiando le immagini di paesaggio ed approdando nel 2009 alle isole Hawaii, dove decide di stabilirsi, almeno per un po’. Dopo avere compiuto diverse esperienze artistiche, come pittura e scultura, rimane colpito dalle immagini in bianco e nero di Sebastiao Salgado e decide di utilizzare la fotografia come mezzo espressivo esclusivo. Nel corso dei suoi viaggi sviluppa una particolare sensibilità nei confronti della natura, di cui tuttavia percepisce una sorta di inadeguatezza di fondo, che cerca di bilanciare con un serie di interventi tecnici allo scopo di valorizzare quegli aspetti visivi e Le sculture di vento di Rafal Maleszyk spettacolari che la natura tende a nascondere o che manifesta in maniera eccessivamente effimera. Se la fotografia è l’arte della rivelazione, essa richiede talvolta qualche piccolo artificio per rendere con maggiore evidenza ciò che può sfuggire ad uno sguardo non sempre educato e non sempre sufficientemente attento. L’educazione artistica di Rafal Maleszyk lo porta a confrontarsi con gli spettacoli della natura in maniera non passiva. Il suo ruolo di osservatore comporta una partecipazione attiva, un ruolo interpretativo che non si limita ad indicare il risultato di un processo naturale, ma lo spinge ad intervenire esaltando il divenire dei processi stessi. L’elemento fondamentale della natura, quello che affascina maggiormente Rafal, è il movimento, quello anche violento ed impetuoso del vento, delle nuvole e delle onde. Il movimento viene sottolineato e drammatizzato con la tecnica delle esposizioni lunghe, lasciando che le masse in movimento scorrano liberamente imprimendo una vistosa traccia del loro passaggio, senza che rimangano imbrigliate o bloccate nel ristretto spazio dell’istantanea, nell’attimo in cui tutto si risolve, ma anche talvolta tutto si annulla. Tuttavia le lunghe esposizioni, da sole, sembrano non essere sufficienti ad esprimere tutta la potenzialità del movimento, del repentino cambiamento e di tutta la tensione emotiva presente nel processo naturale. Così Rafal interviene offrendo al movimento delle masse d’aria un elemento incorporeo ma visivamente percepibile, una serie di teli chiari che il vento tende, gonfia e distorce, facendogli assumere forme sempre diverse, sempre cariche di tensione e di significati. A metà strada fra arte concettuale e la land-art, l’operazione artistica di Rafal si traduce in immagini effimere ed irripetibili, mutevoli come il vento stesso, il clima e le stagioni. I suoi non sono paesaggi ampi, in cui lo sguardo corre da un piano all’altro per perdersi contro l’infinito, sono paesaggi ristretti, compressi, in cui la dilatazione dello spazio non è sottolineato in maniera artificiale ed artificiosa dall’impiego del grandangolare e della forzatura prospettica. I suoi orizzonti pulsano di un movimento costante, che espande lentamente lo spazio portandolo al di fuori dell’inquadratura, come in un processo continuo di allargamento della visione. Ciascuna immagine è la sintesi perfetta di una spinta vitale, allo stesso tempo simbolo di una natura in perenne trasformazione e di un intero universo in fase di continua espansione. 7 febbraio 2015 pag. 8 importante è il trasporto per le strade di Tirana del calco in plastica dello scheletro di un enorme balena, uccisa (sempre durante il comunismo) perché scambiata per un sottomarino Russo (e quindi testimonianza dello stato di paura e di paranoia vissuto in prima persona proprio da Hoxha). Lulaj lavora con questi “simboli involontari”, la balena, il nome del dittatore, come per ricordare alla Nazione l’assurdità e le contraddizioni proprie di un periodo storico formalmente concluso, ma che ancora popola l’immaginario sociale, etico e politico, del presente. Il lavoro di Lulaj consiste in un Marco Mazzi [email protected] di N on posso dire molto, per il momento. Non posso svelare tutto il contenuto della nuova installazione di Armando Lulaj, che rappresenterà l’Albania alla prossima Biennale di Venezia. Posso provare a raccontare le emozioni, l’atmosfera e la forza di questa esperienza e di questo incontro. Lulaj è un artista del 1980, albanese, ma con studi all’Accademia delle Belle Arti di Bologna e Firenze, noto al pubblico Italiano per importanti partecipazioni e presenze a mostre e rassegne di arte contemporanea. È presente alla mostra “Il piedistallo vuoto”, a cura di Marco Scotini, che si è tenuta in occasione dell’edizione di Artissima, a Bologna, lo scorso anno, e alla mostra “Uninspired Architecture”, curata da Vincent W.J. Van Gerven Oei e da chi scrive per gli spazi della galleria Sincresis di Empoli. Per quanto conoscessi e ammirassi il suo lavoro, ho conosciuto Lulaj di persona solo questa estate. Ero con Vincent W. J. Van Gerven Oei a Tirana, pronti per partire per un’avventura straordinaria, e cioè la documentazione fotografica e la catalogazione di tutti i siti monumentali e architettonici risalenti al periodo comunista presenti sul territorio Albanese. Lavoravamo per tutta la durata della luce del giorno, fra difficoltà tecniche e ambientali di ogni tipo. Quando succedeva qualcosa (si rompeva il fuoristrada, per esempio, le strade erano disastrate), la prima persona a cui chiedere aiuto, soccorso e consiglio era proprio Lulaj. Quest’estate si parlava moltissimo della partecipazione di Lulaj alla Biennale. Secondo molti, Lulaj era il miglior artista albanese, me meritava di rappresentare il suo paese a Venezia, all’Arsenale, con una importante e seria mostra. Meritava di vincere il bando, e così è stato. Lulaj ha già dato prova del suo talento con grandi progetti che hanno visto protagonista l’arte e la cultura storica del suo Paese. Già presente alla Biennale di Berlino, ha tracciato sul dorso di una montagna la scritta “Never”, modificando il nome di battesimo di Enver Hoxha, lo storico dittatore comunista, attraverso l’inversione della prima e la seconda lettera. Un’altro lavo L’Albania di Lulaj Scavezzacollo video. Una troupe cinematografica ha seguito il suo progetto dall’inizio alla fine, filmando un’azione performativa legata a un altro simbolo (che non posso adesso svelare!) del periodo comunista. Sono stato chiamato a lavorare come fotografo di scena, e come fotografo incaricato di scattare la foto che rappresenterà alla Biennale il lavoro finale di Lulaj. Muovendosi in una sintassi principalmente concettuale, Lulaj affida ad altri professionisti la realizzazione fisica dell’oggetto, lavorando esclusivamente all’idea essenziale che forma e determina l’opera. Massimo cavezzali [email protected] di Evoluzione Ci sono voluti milioni di anni di evoluzione per fare me. Ringrazio tutte le scimmie, che si sono molto impegnate per questo. Un grazie di cuore a quella antropomorfa di mia nonna, che dodici milioni di anni fa scese dall’albero. A fare che non lo so. Comunque grazie nonna. E grazie nonno. Che eri alto poco più di un metro. E molto peloso. Non ti radevi mai. Grazie perché hai provato a stare eretto. E alla nonna questa erezione piacque molto. Grazie anche a nonno sapiens. Che fu il primo che provò a pensare. E a disegnare sulle pareti delle caverne. E grazie a nonno cro-magnon. Il più tecnologico. Cro-magnon fu il primo nickname usato. Grazie a tutti per l’impegno profuso. Non vi deluderò. Vedrete. 7 febbraio 2015 pag. 9 Alessandro Michelucci [email protected] di N egli anni Settanta gli appassionati italiani di rock conoscevano i termini inglesi che indicano molti strumenti, ma non tutti. Fra quelli che ignoravano c’era bassoon (fagotto). Hanno colmato questa lacuna soltanto quando hanno conosciuto Lindsay Cooper, che suonava lo strumento con gli Henry Cow, gruppo fra i più lucidi e innovativi della scena europea (1968-1978). Purtroppo Lindsay non è più fra noi: il 18 settembre 2013 è morta di sclerosi multipla, a soli 62 anni. La malattia le era stata diagnosticata nel 1978, poco prima che gli Henry Cow si sciogliessero, ma lei l’aveva tenuta segreta continuando a suonare fino alla fine degli anni Novanta, quando le sue condizioni l’avevano costretta a ritirarsi. Nel novembre scorso tre concerti - uno a Forlì e due in Gran Bretagna - hanno ricordato questa grande musicista inglese. I concerti erano interamente dedicati alle sue composizioni, che sono state eseguite da alcuni dei musicisti che avevano lavorato con lei: Chris Cutler, Fred Frith, Tim Hodgkinson, Dagmar Krause, Phil Minton, Sally Potter, etc. Michel Berckmans, dei belgi Univers Zero, ha suonato le parti per fagotto che originariamente venivano eseguite da lei. Nomi ben noti a chi ha seguito le vicende del movimento denominato Rock in Opposition, creato nel 1978 dai suddetti Henry Cow e da altri gruppi europei estranei allo showbiz angloamericano. I tre concerti, comunque, non erano la solita rimpatriata nostalgica (quella che si definisce reunion): i musicisti appartenevano ad alcuni dei vari gruppi nei quali la musicista aveva suonato. Dopo questi concerti, ognuno ha ripreso a fare quello che faceva prima (quasi tutti sono ancora attivi). L’omaggio concepito dagli amici di Lindsay, comunque, non sarebbe stato coerente se non fosse stato accompagnato da un disco che raccogliesse le composizioni inedite o difficilmente reperibili della musicista inglese. Proprio per questo è uscito il doppio CD intitolato Rarities (Recommended Records, 2014). Non è la so- Per un’amica lita operazione commerciale, ma il dono sincero di un amico: la casa discografica è quella fondata e tuttora diretta da Chris Cutler, batterista degli Henry Cow. Il materiale contenuto nel CD è molto più ampio di quello eseguito nei concerti suddetti, così come i musicisti coinvolti sono molto più numerosi. I due dischi rendono piena giustizia a questa musicista, ugualmente ispirata dal jazz, dalla musica classica e da Frank Zappa. Si ascolta così musica composta per la televisione; “Education”, cantata dalla regista Sally Potter; una stupenda esibizione dal vivo del Trio Trabant, dove Lindsay è affiancata da Alfred Harth e Phil Minton; un estratto del Concerto for Sopranino Saxophone and Orchestra; “In The Dark Year”, cantata da Robert Wyatt. Ma il ritrovamento più prezioso è un lungo pezzo senza titolo dove la musicista si esibisce al piano. Infatti Lindsay non suonava soltanto il fagotto, ma anche Lido Contemori [email protected] di Il migliore dei Lidi possibili Tutto il parlamento verso le riforme altri strumenti, fra i quali il sax, il clarinetto e il piano. Rarities è accompagnato da un ricco fascicolo che contiene foto inedite oltre a testi di Tim Hodgkinson, Sally Potter, David Thomas e Kate Westbrook. I loro contributi permettono di inquadrare la musicista nel suo contesto storico e culturale. Femminista e marxista, Lindsay Cooper sviluppa gran parte della propria creatività negli anni bui di Margaret Thatcher, che reprime duramente la minoranza nordirlandese e vanta l’amicizia con Augusto Pinochet. Impossibile citare tutti i gruppi di cui fa parte e quelli con cui collabora: oltre ai citati Henry Cow, il Feminist Improvising Group, National Health, News From Babel... Fra i suoi autori preferiti annovera Bertolt Brecht, la scrittrice Alice Toklas e Ennio Morricone. Rigorosa e dotata di un raro talento, Lindsay Cooper riesce a evitare le secche del marginalismo senza rinunciare a scelte originali e coraggiose. Allo stesso modo, pur mettendo in evidenza il proprio impegno politico, non permette mai che questo soverchi la musica trasformandola in semplice propaganda. eco lette ratura 7 febbraio 2015 pag. 10 Diego Salvadori [email protected] di foto di Maurizio Berlincioni A partire dagli ultimi decenni, lo spazio ha riconquistato un ruolo preminente negli studi letterari e sembrano ormai lontane le affermazioni di Gerard Genette che, in “Figures III”, quasi lo ponevano in sudditanza verso l’elemento temporale: «posso benissimo raccontare una storia senza precisare il luogo in cui si svolge, […] mentre mi è quasi impossibile non situarla nel tempo rispetto al mio atto narrativo». Ma la parola, in opposizione all’asse verticale del tempo, si articola e si struttura anche nell’orizzonte dello spazio, dove trascende la mera determinazione di luogo per giungere a una visione del mondo, in nome di un rapporto che Roman Jakobson aveva definito ‘contiguo’. Un legame, questo, che non può non far pensare al concetto di ‘Spazio-Tempo’, elaborato da Albert Einstein nei primi anni del Novecento, poi mutuato dalla critica letteraria nell’accezione di ‘cronotopo’, generatore – per Michail Bachtin – della forma testuale stessa. Questi brevi accenni illustrano lo “Spatial Turn”, ovverosia l’attenzione critica riservata all’elemento spaziale nei testi letterari. E se Agostino – in un celebre Cristina Pucci [email protected] Spazi viventi, vissuti e...pensati passo delle “Confessiones” – si domandava «che cosa è dunque il tempo?», il quesito potrebbe essere adesso riformulato e coinvolgere la nozione di ‘spazio’, declinabile in un ampio ventaglio di formule e opposizioni binarie (aperto/ chiuso; naturale/artefatto; reale/astratto e via dicendo), ma in ogni modo legate al rapporto tra uomo e mondo. E l’ecocritica, nel prediligere i luoghi, s’inserisce in questo nuovo orizzonte: la parola ‘ambiente’, già di per sé, evoca un muoversi in cerchio – come suggerito dall’etimo latino “ambīre”: andare intorno; girovagare; cingere; circondare – entro uno spazio che, quasi sempre, è accompagnato dall’aggettivo ‘circostante’, pronto a suggerire un paritetico fronteggiarsi di sguardi, dove uomo e natura diventano l’uno parte attiva dell’altra. Per certi aspetti, la biosfera si fa creativa e la parola – quasi filtrata dall’elemento naturale – istituisce un habitat ulteriore, dove il testo chiama, anticipa e ri-scrive il mondo in nome di una “ecologia della mente”. L’espressione – coniata dall’antropologo inglese Gregory Bateson – estende l’idea stessa di ‘ecosistema’ dalla sfera naturale all’intelletto umano, dove quest’ultimo occupa un ruolo cruciale sugli equilibri stessi della natura: va da sé che la mente cessi di essere uno spazio astratto, euclideo, per diventare anch’essa luogo abitato (come suggerito dal suffisso “eco”: “oikos-casa”). E se il testo – ovverosia l’opera letteraria – è frutto della mente creatrice, va da sé che l’ambiente (sia esso naturale, paesaggistico o urbano) intrattenga con la pagina scritta un legame forte, di osmosi, dove la permeabilità fra due o più esistenze (umana e non) è rivelata dalla forza evocativa della parola. Il «lievito poetico», per dirlo con le parole di Luigi Meneghello, è sempre in continuo fermento, come i processi della natura che, dentro e intorno a noi, portano avanti le loro narrazioni semisegrete.t a cura di Altro oggetto artistico, altra professione antica e abbastanza in disuso. Statuetta di bronzo, senza firma, 1920/30. Un uomo, a cavalcioni di un blocco di pietra serena, alza il braccio armato di mazzuolo per colpire lo scalpello con cui lo “scava” per formare un abbeveratoio o, forse, una fontana. Gli scalpellini erano e operai specializzati nel segnare e squadrare pietre e marmi per trarli dalle cave e, anche, artigiani più raffinati in grado di eseguire figure, sagome e decorazioni su disegno. Malpagati e preda di malattie professionali devastanti, dalle deformazioni artrosiche di dita, polsi e spalla, alla “soffocazione” dovuta alla silicosi, microparticelle di polvere invadevano i loro polmoni riducendone progressivamente la capacità respiratoria. Per questo lavoro sono richieste calma, precisione e pignoleria. La pietra serena decora e abbellisce Firenze e Dalla collezione di Rossano Bizzarria degli oggetti caratterizza l’architettura Toscana, rinascimentale e non solo, colonnati, volte, archi, balaustre, cornici intorno a portoni e finestre, leoni, stemmi. Le varie cave della periferia fiorentina, Fiesole, Vincigliata, Maiano non sono più attive e oggi la pietra serena della Regione proviene quasi tutta da Firenzuola. E’, Firenzuola, un paese non grande, con case di pietra e poderi sparpagliati fra valli e monti dalla vista mozzafiato dell’Appennino ...“il bel paese che il Santerno bagna ove si parla tosco in terra di Romagna.. Costruito nel 1332, quasi completamente distrutto dai bombardamenti Alleati in quanto proprio lungo la “linea gotica”, risorto dalle sue macerie, ha nelle vicinanze due cimiteri di guerra, quello “Germanico”, bellissimo, in cima alla Futa , 31.000 morti sotto prati e tombe di pietra tutte uguali, l’altro a Coniale, più piccolo, per 300 alleati. Nei sotterranei scoperti sotto la sua Rocca è allestito un bel “Museo della pietra”, con opere di artisti contemporanei, percorsi che mostrano cavatura e attrezzi usati da cavatori e scalpellini, manufatti del vivere quotidiano popolare e contadino, acquai, fornelli, abbeveratoi, trogoli e decorativi, stemmi, fontane, camini. Ogni anno c’è, a ottobre, una festa “Dal bosco e dalla pietra” che permette, oltre che mangiare e comprare ottimi marroni e loro derivati, anche di vedere all’opera gli scalpellini e magari provare l’ebbrezza , sotto la loro accorta guida, di dare qualche piccolo colpo che scalfisca e incida una pietra. 7 febbraio 2015 pag. 11 Simonetta Zanuccoli [email protected] di L e città respirano e mutano con e come i loro abitanti. In quelle cosmopolite questo respiro è come se fosse più profondo e l’alternanza tra i momenti di caos e quelli di quiete diventano più evidenti. La mostra Paris Magnum presentata dal 12 dicembre 2014 nel luogo che è il cuore di questa città, l’Hotel de Ville, l’imponente Municipio vicino a Notre Dame, si è trovata, in maniera imprevista, dopo i tragici eventi di qualche giorno fa, a testimoniare questo fenomeno ed a rendere omaggio a una grande capitale che è apparsa ferita e dolorante davanti al mondo. La mostra presenta i grandi fotografi dell’agenzia internazionale Magnum che con le loro splendide foto hanno testimoniato il “respiro” e le mutazioni di Parigi negli ultimi settanta anni, catturando le sfumature di tutti i giorni, da quelli tragici a quelli normali o di festa, attraverso i suoi cittadini famosi o anonimi. L’agenzia Magnum Photo fu fondata subito dopo la fine della guerra, nel 1947, da 4 giovani fotografi Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, George Rodger e David Seymour. Il loro intento era quello di creare una cooperativa di fotografi-azionisti per permettere che le immagini scattate rimanessero di proprietà esclusiva dell’autore. Questo voleva dire la massima indipendenza sia dalla carta stampata sia sulla scelta dei soggetti dei reportages e sulla selezione delle foto da pubblicare. I quattro fondatori si divisero delle aree: Cartier-Bresson scelse l’Asia, Seymour l’Europa, Rodger l’Africa e Capa l’America. Nei cinque anni successivi alla fondazione vennero associati all’agenzia altri tra i migliori fotografi del momento, ognuno con una diversità creativa ma tutti con la fisionomia riconoscibile della Magnum e del suo modo di comunicare nuovo e senza limiti. La sede che in origine era a Parigi e a New York è stata trasferita a Londra e Tokyo. Oggi Magnum è costituita da 80 fotografi. Per diventare associato l’opera del fotografo richiedente è sottopo- Il respiro di Parigi sta ad un’attenta osservazione per un periodo molto lungo, dai quattro agli otto anni, nei quali viene valutato lo stile, il rigore, la singolarità e la capacità d’informazione. Il percorso cronologico della mostra comincia dagli anni 30 e continua con le foto di una Parigi all’indomani della guerra. Le immagini ci invitano a penetrare in un mondo che non esiste più con i suoi autobus con la piattaforma e i tassisti con il guidatore esterno in un un sottofondo di freddo, fame e visi senza sorriso. Passano gli anni ma la vita rimane dura, con pochi diritti e, per i nostri occhi ormai disincantati, talmente naif da commuovere: uomini semplici in canottiera davanti al bancone di un bistrot nella calda estate del 1952, poverissimi saltimbanchi che davanti a pochi bambini ammirati e poverissimi mostrano in un angolo di strada il loro spettacolo, un grande cane che cammina sulla corda con un altro cane sul dorso, la foto del 1953 di Marc Riboud passata alla storia, di un operaio sulla Tour Eiffel in bilico sul vuoto con la sola sicurezza della presa della sua mano.....Le foto degli anni 60 già ci mostrano un mondo totalmente cambiato, la Nouvelle Vague, le prime minigonne, la Pop Art, l’inizio delle grandi assemblee e, accanto, ancora, quello più semplice e “antico” come la lunga tavolata, forse in un giorno di festa, di borghesi sereni sotto le vecchie volte di Les Halles per un pranzo a base di ostriche. Negli stessi anni i fotografi di Magnum testimoniano le dimostrazioni per la pace in Algeria, le sfilate del maggio 1968 degli studenti in place de La Republique, nel quartiere latino, davanti alla Sorbonne, le barricate fatte di cassette di frutta in legno in boulevard Saint Michel (Henri Cartier Bresson), gli operai della Renault in sciopero...Sartre che parla con loro, il movimento femminista con donne in corteo e una carrozzina in primo piano, Truffaut e Gainsbourg ancora giovani e belli.... Negli ultimi anni l’immediatezza e l’abbondanza di immagini televisive e l’uso ormai globalizzato di internet hanno dissolto ogni confine e fatto di tutti noi spettatori degli eventi in tempo reale mettendo così in crisi il concetto stesso di reportage. Questo fenomeno irreversibile ha portato alla sparizione di molte agenzie fotografiche e anche i fotografi di Magnum sembrano aver abbandonato i grandi temi per preferire qualcosa di più circoscritto e intimista. Ma il fatto che qualche giorno fa, nel commentare la mostra Paris Magnum, Le Figaro si chiedesse come i fotoreportes rappresenteranno i nostri confusi tempi di jiadismo globale, fa capire che il senso dei grandi reportages sarà sempre quello di essere parte di quei preziosi tasselli dell’intricato puzzle che è la nostra memoria collettiva. La mostra, senz’altro da non perdere per chi sarà nelle prossime settimane a Parigi, durerà fino al 28 marzo. 7 febbraio 2015 pag. 12 di M. Donata Spadolini U na selezione delle opere di Guido Spadolini è esposta fino al 12 marzo all’Archivio Storico del Comune di Firenze. Organizzata in collaborazione fra la Fondazione Spadolini Nuova Antologia, l’Archivio Storico del Comune e la Fondazione Il Bisonte – per lo studio dell’arte grafica, la mostra vuol mettere in evidenza gli aspetti più intimi dell’artista relativi alla famiglia e alla città in cui è nato e ha vissuto. Un percorso in cui si può ripercorrere quella “ricerca del segno” che ha caratterizzato l’opera di questo artista rimasto fino a pochi anni or sono del tutto ignoto al pubblico. Guido Spadolini – padre di Giovanni giornalista e uomo politico – nasce a Firenze nel 1889, si forma in quell’atmosfera particolare nota come il fin de siecle, proprio perché protrae fino all’inizio della prima guerra mondiale quella società medio-borghese in cui gli uomini si dedicano principalmente al lavoro e alla famiglia. Una famiglia, quella di Guido, rappresentata alla mostra attraverso fotografie e documenti; fra questi una matita su carta con il ritratto di Lionella, un disegno che, insieme alle notevoli capacità artistiche di Guido Spadolini, dimostra il profondo legame che lo unisce alla moglie. E ancora un grande dipinto che Fabrizio Pettinelli [email protected] di Nel 1563 tale Pietro Bonaventuri, di professione, si direbbe oggi, broker, fu inviato in missione dalla famiglia Salviati, dalla quale dipendeva, a Venezia. Qui conobbe la quindicenne Bianca Cappello, bellissima rampolla di una facoltosa famiglia veneziana, e la convinse a seguirlo a Firenze per sposarlo, spacciandosi per un nobile fiorentino e intascandone la ricca dote. In realtà la famiglia Bonaventuri era decaduta e viveva in un fatiscente palazzotto nella zona dell’attuale Piazza San Marco; qui l’ingenua Bianca, oltre a rinunciare ai fasti della sua “prima vita”, doveva anche guardarsi dai minacciosi emissari del padre Bartolomeo, che aveva tutte le intenzioni di riappropriarsi del maltolto, facendo rapire la fanciulla. Ma, come in tutte le favole che si rispettano, arrivò inaspettato il principe azzurro, nella persona di Francesco I dei Medici di fronte alla cui carrozza Bianca si era le, eppur qui documentata con dovizia di particolari. Un mondo sconosciuto alla maggior parte dei fiorentini, scorci di giardini quasi incantati, con statue, muri di cinta e ringhiere finemente decorati. Dall’incanto dei giardini si passa alla sala dove sono esposti vari personaggi e alcuni scorci di paesaggio giocati su toni del verde e del rosso. Un frate domenicano in meditazione sotto gi archi del chiostro di San Marco, un arrotino che fa girare la ruota della sua bicicletta, la sua allieva, Amalia Mecherini, ritratta nell’atelier e ancora una giovanetta che, appoggiata allo stipite di un muro, colpisce per la profonda malinconia. Accanto ai personaggi scorci di paesaggio, dagli alberi alle cascine con lo sfondo verde al profilo di Torre del Gallo fra i cipressi che colpisce per il rosso infuocato del cielo. Un altro giardino e un grande olivo che si espande su tutta la larghezza della matrice sullo sfondo purpureo del tramonto. E, nelle bacheche, le opere piccole: paesaggi, disegni con appunti a matita, piccole acqueforti stampate su seta. Due spiritose caricature accanto al volume manoscritto “La mia prospettiva”, e quello a stampa sul viaggio in Sardegna edito da Vittorio Alinari nel 1914. Materiale vario che aiuta a inquadrare l’artista nell’ambito in cui si è formato: quell’ambiente artistico fiorentino che, fra la fine della prima e l’inizio della seconda guerra mondiale, vede Spadolini presente sulla scena cittadina non solo come “artista”, ma quale attivo promotore di mostre ed altri eventi artistici in qualità di segretario della Promotrice fiorentina e della grande mostra retrospettiva dedicata a Giovanni Fattori in Palazzo Strozzi nel 1924. Negli anni successivi è Segretario del Sindacato fascista di Belle Arti: divulgatore dell’opera di artisti formatisi a Firenze sulla scia dei “post-macchiaioli”, nel 1942 organizza la prima grande mostra di artisti toscani a Düsseldorf e, nel 1943, quella di artisti tedeschi a Firenze. Poche le testimonianze della prima guerra mondiale, fra queste l’incisione “La guerra – 1915” realizzata su una lastra a semicerchio da cui il figlio Giovanni fece montare un ventaglio. Nelle due guerre mondiali, la sua militanza nella Croce Rossa Italiana, sottolineano la sua disponibilità al volontariato. Nell’ultima saletta pochi pezzi, principalmente documenti, a testimonianza della morte prematura dell’artista, caduto sotto la seconda incursione del bombardamento che colpì Firenze l’11 marzo 1944, mentre, insieme ad altri barellieri, stava recuperando i feriti. riempire di regali Bianca, finchè la già vacillante virtù della fanciulla capitolò davanti al palazzo di Via Maggio che Francesco fece costruire per lei dal Buontalenti e che pare fosse collegato a Palazzo Pitti da un passaggio segreto sotterraneo che, ovviamente, facilitava assai gli incontri dei due adulteri, mentre Pietro, da parte sua, si consolava con le damigelle di corte. Nel 1577 Giovanna, finalmente, partorì un maschio, che sarebbe però morto, per ignoti motivi, a soli quattro anni. L’anno successivo Giovanna, di nuovo incinta, morì ruzzolando le scale e, singolarissima coincidenza, quasi contemporaneamente Pietro Bonaventuri fu ucciso durante una rissa in Piazza Santo Spirito: dopo soli due mesi di vedovanza, Francesco convolò a nozze con Bianca. La quale Bianca tanto ingenua non doveva essere: l’anno prima che Giovanna sfornasse il maschio, con l’aiuto della fedele domestica Giovanna Santi, aveva “costruito” un erede ai Medici. Non potendo avere figli, aveva finto per nove mesi di essere incinta e, al momento opportuno, aveva presentato a Francesco, come se fosse il figlio nato dal loro rapporto, un neonato acquistato da tale Lucia, una popolana di Sant’Ambrogio. Qualche anno dopo Francesco venne a conoscenza di tutta la storia, ma riconobbe tuttavia Antonio come figlio naturale. Quanto alla misteriosa morte di Francesco e Bianca, se ne parla altrove. La Firenze di Spadolini raffigura la sorella Lolì nel salotto di casa, e un bozzetto condotto con pennellate veloci ed espressive ritrae il padre suonatore di violino; altri due dipinti accompagnano la vasta serie dei giardini pubblici e privati della città colti nella loro intimità, attraverso il disegno di Alberto Zardo e l’incisione all’acquaforte eseguita da Spadolini. Un’intera sala in cui ben 24 giardini avvolgono lo spettatore, presentando aspetti di una Firenze oggi difficilmente rintracciabi- Via Maggio Intrighi di corte inginocchiata chiedendo protezione. Il giovanissimo Francesco aveva appena assunto la reggenza del granducato al posto del padre Cosimo I e, proprio in quei giorni, si apprestava a sposare la bruttoccia Giovanna d’Austria. Ma l’imminente matrimonio, peraltro combinato fra Medici e Asburgo per ragione di Stato, non gli impedì di innamorarsi a colpo d’occhio della maliarda veneziana, alla quale garantì la sua tutela; non solo: considerate le non floride condizioni della famiglia Bonaventuri, assunse a corte Pietro. Mentre Giovanna, con singolare pervicacia, si rifiutava di offrire un erede maschio ai Medici, sfornando a ritmo continuo sei femmine una dopo l’altra, Francesco cominciò a 7 febbraio 2015 pag. 13 Fiorella Ilario L di a cronaca ha parlato di circa sette milioni di fedeli, per la recente visita del Papa nelle Filippine. Una distesa oceanica. Le gallerie di immagini mostrano dunque un immenso, indistinto brulichio festante, ma in qualsiasi ingrandimento si può notare che in quella toccante moltitudine, quasi tutte le mani protese nel saluto, stringono anche un dispositivo fotografico. Come ormai per qualsiasi esperienza umana- sia essa insignificante oppure esemplare, solitaria o pluricondivisa, pubblica o esclusivamente privata- milioni di individui immortalano attimi della loro esistenza producendo selve, intrichi, foreste pluviali di fotografie, che tracimano poi nel cyberspazio o negli spazi reali e convenzionali della quotidianità. Un vertiginoso, sterminato territorio formale, che definisce un paesaggio artificiale, conformista ed illusorio e che, al di là degli aberranti diktat religiosi e divieti politici di alcuni paesi, a condividere appunto immagini personali contribuisce a saturare il già concitato e iperdigitalizzato “rumore mediatico” contemporaneo. Così, contrapposto allo sgomento per i primordiali abissi di silenzio e solitudine e alla terrificante ansia del vuoto del primitivo horror vacui, la moltitudine di immagini dell’universo mediale e virtuale odierno, congestiona di segnali, subcomunicazioni e narrazioni ipertestuali, ogni pratica quotidiana e finisce con asfissiare e annebbiare la visuale, anche interiore e generare “horror pieni” (come dall’omonimo saggio di Gillo Dorfles, del 2008) con uno spaesamento da stress visivo e comunicativo, dove la overdose di immagine disturba la immaginazione. “Lo sviluppo della fotografia, dagli inizi ad oggi, è un processo della crescente presa di coscienza del concetto di informazione: dall’avidità per cose sempre nuove secondo un metodo sempre uguale, si passa all’interesse per metodi sempre nuovi. Dilettanti e documentaristi non hanno però afferrato il concetto di “informazione”. Essi producono memorie dell’apparecchio, non informazioni e meglio lo fanno, meglio documentano la vittoria degli apparecchi sull’uomo”. (Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia) Dunque quale ricaduta, per un epifenomeno ormai planetario, sul La seconda vista valore spirituale, etico ed estetico della sperimentazione artistica contemporanea? E’ ancora possibile citare, senza incorrere in fastidio o persino irrisione, la remota ed altissima lezione kandinskijana de Lo spirituale nell’arte, che avverte che: “tutto ciò che è di natura esteriore è senza avvenire e tutto quanto invece di natura interiore abbia in sé il germe del futuro?” In un saggio del 2007 intitolato L’arte dell’accecamento, il filosofo francese Paul Virilio, avvertiva del rischio che l’unico mezzo d’espressione potesse diventare un ossessivo e sterile choc di immagini- in una società il cui fine non è più quello di vedere- ma di essere visti. Una sovraesposizione massmediatica diventata di tali proporzioni da offuscare la vista - in primis quella interiore - fino ad impedire ogni personale ed originale (originaria) messa a fuoco, in una omologante rappresentazione della percezione di sé e dell’altro da inconsapevole avatar, che annienta ogni residua immagine mentale, fino a una reale minaccia di cecità interiore. L’arte dell’accecamento infatti, diventa fatalmente arte dell’amnesia, perché l’appiattimento e la deformità della visione, dirottano la memoria personale in una memoria mostruosamente collettiva, in una sorta di circuito chiuso, autoreferenziale e contaminante, in cui la pletora di immagini concede la archiviazione e la catalogazione delle esistenze, ormai rese tutte uguali- con una “tele-sorveglianza” anche dell’arte stessa. “Come opporre una resistenza efficace alla repentina derealizzazione di un mondo in cui tutto è visto- già visto e immediatamente dimenticato?” Omologati, consenzienti e distratti dalle apparenze, in una “ trans-apparenza del lontano che elimina il prossimo” abbacinati e ormai quasi incapaci di vedere, “in una sorta di culto della personalità che non coinvolge più unicamente il tiranno, ma la maggior parte dei mortali, in altri termini: ciascuno di noi. “ Oggi dobbiamo necessariamente non tanto chiudere gli occhi ma abbassarli e non per timidezza ma al contrario, per coraggio. Per poter guardare in faccia non la Fine della Storia, bensì quel supporto-superficie il cui confine è visibile al di sotto di noi, nell’humus di una statica che ci sostiene dalla notte dei tempi.” Dunque scattare foto con lo sguardo abbassato? Forse non proprio, ma almeno rammentare gli occhi dei ritratti di Modigliani, uno aperto e l’altro vuoto, “perché con uno guardi il mondo, con l’altro guardi in te stesso”. Almeno aprirli con più profonda consapevolezza politica delle immagini“ Imparare di più su come funzionano le fotografie come strumento di comunicazione : non solo come procedimento tecnico che riguarda gli obbiettivi, la grana, la chimica oppure le qualità estetiche , ma soprattutto nei contesti cognitivi, politici, economici, culturali. (…)” Essere insoddisfatti dell’immagine “giusta” e piuttosto far crescere un senso di “responsabilità” delle immagini da restituire ad un pubblico di osservatori” (David Levi Strauss, Politica della fotografia). L’ultima tentazione, almeno quella artistica, potrà davvero essere del “tutto nero”. Una lunghissima serie di scatti in assenza di luce. A che scopo, se come sappiamo le astrazioni non sono fotosensibili? Forse per attivare una “seconda vista”, quella remota ed archetipica, di cui scriveva Marc: “La nostra fede, la fede nella conoscenza è la seconda vista.” Una conoscenza non più esclusivamente utilitaristica e materialistica, ma quella che dilata la visuale partendo da una intima visione del mondo e sposta lo sguardo verso l’infinito. Una conoscenza che diventi specchio e rifrangenza interiore senza bisogno di prolunghe per selfie panoramici. Forse l’unico gesto davvero autentico dell’artista che usa oggi la fotografia come mezzo di riflessione e di ricerca dovrebbe essere rappresentare questo pozzo buio - dal fondo del quale si potrà però di nuovo osservare il kantiano “universo stellato”. Fuori da ogni retorica, fuori da ogni scontata e altezzosa analisi e dalla sbrigativa svalutazione di chi ha sicure messe a fuoco e crede di vedere e di capire tutto, Una sofferenza della visione che attende forse di rigenerarsi proprio attraverso quell’oscurità. in un romanzo di Truman Capote, intitolato Musica per camaleonti, il protagonista parla di uno specchio nero: “l’oggetto nel salotto di Madame è uno specchio nero. È alto diciotto centimetri e largo quindici. È chiuso in una custodia di consunta pelle nera a forma di libro. Anzi, la custodia giace aperta su un tavolo come fosse un’edizione di lusso pronta per essere raccolta e sfogliata, ma non vi è nulla da leggere o da vedere, salvo il mistero della propria immagine rifratta dalla superficie dello specchio nero, prima che indietreggi nelle sue profondità senza fine, nei suoi meandri di tenebre. “Apparteneva a Gauguin,” mi spiega. “Quello era il suo specchio nero. Erano molto diffusi tra gli artisti del secolo scorso. Van Gogh ne usava uno. E così pure Renoir.” “Non capisco bene. A che scopo?” “Per ricaricare la propria capacità visiva. Ravvivare la reazione al colore, alle variazioni di tono. Dopo un certo periodo di lavoro, con gli occhi affaticati, si riposavano contemplando questi specchi neri. “ Prende dal tavolo il volumetto che contiene lo specchio e me lo passa. “Vi ricorro sovente, quando i miei occhi sono stati colpiti da troppo sole. È distensivo.” Distensivo, ma pure inquietante. Quel buio, man mano che lo si scruta, cessa di essere nero e diviene di uno strano azzurro argenteo, la soglia verso segrete visioni…” Così simile a quello impresso su carta fotografica… Francesco Cusa [email protected] 7 febbraio 2015 pag. 14 di S ono andato a vedere “Exodus” e sono stato davvero male. Uno non sa con chi prendersela; di certo si fa il tifo per gli egiziani. Viene naturale, anche se si sa poi come andrà a finire. Non ce la possiamo prendere con Ridley Scott, che gira una pellicola magnifica (dal punto di vista cinematografico) e che - più o meno, con qualche imbarazzante licenza,- quella storia racconta, ovvero quella di Mosé e dell’Esodo Biblico. E con chi te la prendi? Col prete che ti ha raccontato palle al catechismo? Procediamo con ordine. La visione di “Exodus” è consigliata perché, al-di-là-diciò-che-sappiamo, un conto è lasciar decantare le simbologie nel nostro inconscio, illudendosi d’essere affrancati da una tale dimensione di follia, un altro è riviverle nella gigantografia dello schermo e con l’ausilio del 3D. I ricordi precipitano in un passato remotissimo, alla visione del monumentale “I Dieci Comandamenti” col Mosé/Charlton Heston, che ci pareva cazzuto, severo ma biblicamente con le rotelle a posto, nella magia del cine parrocchiale, col prete a dare sberle a chi faceva casino. E ci sembrava sacrosanto che il mare avesse inghiottito i “cattivi”, rendendo giustizia all’unico vero Dio, con i giudei-cowboy a trionfare nella magnificenza di quella che allora pareva tecnologia aliena (il Cinemascope). E ora, rieccomi qui, col mio fagotto di esperienze di vita, a rivivere lo stesso trauma, in un processo fin troppo evidente di inversione. Le domande che nascono, mentre si assiste alla messa in scena del nostro mito (per atei, cattolici, testimoni di Geova, mormoni, avventisti di non so quale giorno si possa mai essere), sono le più scontate: ma davvero la gente può “credere” a questa caterva di minchiate? A questa grossolana esposizione dei fatti? Ma, soprattutto, un simile Dio perfido, vendicativo, violento, sterminatore, come è conciliabile con i valori e i concetti professati quali pietà, perdono, carità, rispetto ecc. (AVVISO AI LETTORI: stiamo dicendo cose fin troppo ovvie, ma ricordiamo che stiamo parlando del “vissuto” dello spettatore Buoni e cattivi medio, della sua triste vicenda allegorica, dello shock da “pellicola nuova”, nella ri-confezione patinata di una robaccia che è al centro della nostra attuale speculazione, della rilfessione ontologica sui “Valori dell’Occidente” messi sotto scacco dagli attacchi ciechi di una cultura sanguinaria. E non la venite a menare con la differenza tra Vecchio e Nuovo Testamento, eh?). di Beppe Pirrone In occasione del Carnevale 2015, Il Cenacolo degli Sparecchiatori, e il Centro Socio Culturale Anziani del Fuligno, con il patrocinio dell’Arga (Ass. Giornalisti Agricoltura, Alimentazione, Ambiente…), promuove l’VIII edizione del pubblico concorso: “La più buona Schiacciata alla Fiorentina”, riservato non solo a fornai, pasticceri, ristoratori ma anche a massaie, casalinghe e casalinghi competenti di Firenze. Si tratta di un’iniziativa che negli anni è cresciuta sempre di più come quelle ormai consolidate del miglior Pandoro Farcito e della miglior Schiacciata con l’Uva portate avanti sempre dal Cenacolo. La giuria, composta anche da giornalisti della Stampa Toscana, vedrà palati storici dei Centri Anziani, personalità della vita pubblica e buongustai accreditati riunirsi martedì 17 febbraio, alle ore 12,30 dopo un frugale pranzo al Centro Anziani del Fuligno, in via Faenza, 52 per assaggiare, degustare, deliberare e quindi consegnare al meritevole vincitore la tradizionale Targa Premio 2015. Mentre al vincitore della sezione Queste la basi dei valori nostri! Lo sterminio dei piccoli bambini egiziani nella notte, durante una delle famose “piaghe”. Una delle frasi più angoscianti del film di Scott è questa: “Nessun bimbo ebreo è morto stanotte”. La sibila sprezzante Mosé in faccia al disperato Ramses con in braccio il pargoletto morto. E’ la sua risposta a: “Che razza di Dio adorate, un Dio che uccide i bambini nella La più buona Schiacciata alla Fiorentina massaie e casalinghi sarà consegnato un prezioso grembiule e un camicione da notte per serate indimenticabili, entrambi della collezione di abbigliamento da cucina de’ Il Cenacolo degli Sparecchiatori (prodotti dal noto camiciaio fiorentino Giuliano de’ La Ruche). Inoltre è possibile partecipare al pranzo ed è prevista, per l’occasione, la visita gratuita all’Educatorio della SS. Concezione, detto di Fuligno, che conserva un bellissimo affresco del Perugino raffigurante l’Ultima Cena, alla scoperta di un grande luogo, da sempre al femminile, oasi di spiritualità nel centro città, arricchito, nei secoli, da affreschi e mirabili opere d’arte, che oggi si presenta agli occhi dei visitatori in tutto il suo antico splendore. Partecipare è semplicissimo, e del tutto gratuito: basta telefonare dal lunedì al venerdì al numero 055 2728603 dalle ore 9,30 alle 12,30 e dalle ore 15,30 alle ore 18,30, per confermare l’adesione. notte?” (Ramses sarai pure uno stronzo fichetto, ma dammi qua il cinque dio bono!) Tornano in mente le dichiarazioni dei Salvini, dei Ferrara, il coro delle menzogne e di chi accusa le altre religioni d’esser violente, d’essere vendicative, portatrici di messaggi di morte e bla bla bla. Domanda banale ma sacrosanta: ma con che faccia si presentano certi peronaggi in pubblico a fare certe affermazioni? Ecco i politici in parata, a difesa dei nostri valori…quali? Questi! Nel film “Exodus”, Mosè dialoga con un bambino antipaticissimo e dispettoso (che sarebbe poi Dio), una chiara metafora, a mio modesto avviso, dell’embrionale e nascente culto monoteista, di una divinità appena “sorta” (con buona pace del concetto di Eterno), crudele come solo i bambini possono esserlo: in pratica di una Entità in “formazione”. Questo bimbo appare e scompare. Se Mosè ha qualche titubanza, eccolo ghignare mefitico e saltare fuori a tradimento: “ora ti faccio vedere”. E giù cavallette, alligatori, rane, sangue, insetti, malattie, a sterminare i popoli. Questo film andrebbe proiettato in prima serata e a reti unificate. E’ il più grande deterrente contro il nostro delirio di onnipotenza. E’ la paradossale parabola che ci rende simili al nostro “Nemico” (ovviamente siamo noi il Mostro, altro che “simili”). E’ una sana abluzione nel demagogico della nostra simbologia farlocca, artificiosa costruzione volta a condizionare menti, ad assoggettare popoli e culture. Tutto è palesemente falso, ma viene vissuto realmente dal nostro inconscio, dal nostro mondo onirico. Viviamo “come se” tutto questo mito corrotto possa essere in qualche modo effettivamente contemplato: lo abbiamo sublimato e codificato attraverso i tabù, le ritualità, le norme, le leggi, i codici, lo abbiamo reso solubile a dispetto del suo detestabile contenuto; esso regola i nostri calendari, scandisce le ricorrenze, abita il nostro quotidiano. Di più; abbiamo costruito una metafisica della democrazia, l’abbiamo plasmata secondo nuove modalità di sterminio ed oppressione al fine di generare un nuovo Credo Globale: quello degli Oppressori che si sentono Oppressi. 7 febbraio 2015 pag. 15 Roberto Giacinti [email protected] di L a sera del 3 febbraio 1865, in una città illuminata a giorno e gremita da una folla di senatori, deputati, autorità civili, militari e comuni cittadini, il Re Vittorio Emanuele II faceva il suo ingresso a Firenze, appena proclamata nuova capitale del giovanissimo Regno d’Italia. Fu la soprano Adelina Patti, voce di bellezza ed estensione eccezionali, pronta ad ogni virtuosismo, ad interpretare, quella sera, Rosina ne Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, al Teatro Pagliano, poi Verdi, in via del Diluvio, cioè l’attuale via Verdi. Il pubblico applaudiva ad ogni istante con impeto di ammira- Davide Virdis Bacino artificiale di zione e non cessò per tutta la sera di festeggiare la Diva preso forse anche dall’emozione della giornata. Il Teatro Pagliano aveva sollevato il sipario, per la prima volta, il 10 settembre del 1854 sulle note dell’opera verdiana Il Viscardello che sarebbe poi diventato Rigoletto. Il nuovo teatro, una struttura polivalente adibita a circo equestre, sala da musica, anfiteatro, era stato costruito sui resti del trecentesco carcere delle Stinche, tra via Ghibellina e via “dell’Isola delle Stinche”, demolito, all’inizio del XIX secolo per essere ricostruito all’ex convento delle “Murate”. Curiosamente oggi, dopo che anche questo edificio è stato dismesso, alcuni locali delle Murate ospitano delle rassegne teatrali. L’imprenditore Girolamo Pagliano, ex baritono, noto nel suo tempo per il famoso sciroppo “Centerbe di lunga vita”. era un uomo ricco, famoso e molto chiacchierato. L’immensa fortuna economica, che gli aveva consentito di aprire la più grande sala teatrale di Firenze, derivava dall’invenzione, del 1838, di uno sciroppo antiacido “depurativo e rinfrescativo del sangue e degli umori”, con strabilianti pro- Contaminature Adelina Patti al Teatro Pagliano prietà che erano magnificate nel volumetto “La medicina per i padri di famiglia”, o “il medico di se stesso e de’ bambini”, pubblicato per la prima volta nel 1846 e più volte stampato dopo vari rimaneggiamenti. L’arma segreta del popolare sciroppo ce la rivela con sottile ironia Carlo Collodi nel suo “Romanzo in vapore da Firenze a Livorno” del 1856: “Invano i chimici hanno tentato di investigare di quali elementi si compone questa bibita; ne hanno scoperti quattro o cinque!” Anche oggi ne beviamo una, avvolta dal mistero! II Pagliano era uno dei teatri consigliati: si spendeva 1,50 lire per il primo spettacolo e solo 1 lira per la commedia. Ai buzzurri, così li definiva ironicamente Adolfo Matarelli, detto Mara, nelle vignette pubblicate sul “Lampione” lo svago piaceva. E sembra di vederlo il pubblico dell’epoca, che usciva dai salotti o dai palazzi borghesi; gli anziani pare si portassero dietro anche lo scaldino, per andare a teatro, a piedi o in carrozza. Diventato Teatro Verdi nel 1901, è dal 1998 proprietà della Fondazione ORT e sede stabile dell’Orchestra della Toscana. Il Teatro continua ad avere una sua storia ed ha un valore “pubblico”, perché interpreta la cultura del proprio o di un altro tempo passato. 7 febbraio 2015 pag. 16 Scottex Aldo Frangioni presenta L’arte del riciclo di Paolo della Bella Dibattito sulla Scultura leggera 7 Gentili amici, trovo alquanto bizzarro che la redazione, o chi per essa, si sia permessa di manomettere la mia opera d’arte denominata “Scultura leggera” ovvero Scottex numero 7. Ma chi vi credete d’essere, Pierre Menard? Lui almeno ebbe la correttezza di scrivere a Borges il suo proposito quando volle riscrivere, non copiare, il Don Chisciotte. “Il mio proposito è semplicemente stupefacente” scrive appunto Menard il 30 settembre 1934 da Bayonne a Jorge Louis Borges, “La mia impresa non è difficile, nella sostanza. Mi basterebbe essere immortale per condurla a termine”. Il Chisciotte di Menard, per alcuni più sottile e più ricco di quello di Cervantes, oppone alle finzioni cavalleresche la povera realtà provinciale del suo paese. Il raffronto fra i due autori è senz’altro rivelatore. Cervantes, per esempio, scrive: “…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire”. Redatta nel XVII secolo, quell’enumerazione appare come un mero elogio retorico della storia. Menard, invece, scrive: “…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire”. Menard (forse senza volerlo) ha arricchito mediante una tecnica nuova l’arte immobile e rudimentale della lettura: la tecnica dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee. Gentili amici voi pensate di avere fatto questo? Se mettiamo a confronto la mia opera originale con quella che avete pubblicato sul numero scorso… non mi pare proprio! Cordiali saluti dal vostro Paolo della Bella Chiediamo scusa all’artista. Nel comporre la pagina il grafico ha effettivamente rimesso l’opera originale e non quella da noi modificata che questa volta riportiamo! A.F. 7 febbraio 2015 pag. 17 Don’t beware of Rinoceronte Paolo Marini [email protected] di E ssendo mammifero perissodattile o ‘impari-digitato’, lontano parente (a quanto pare) dell’asino e del cavallo, massiccio e un po’ sgraziato, una specie di ciclopico maiale con due corni (non corna) sul muso allungato, dalla vista per nulla eccezionale ma con udito e olfatto finissimi, giammai il più famoso o famigerato o temibile animale - almeno nella mia memoria di fanciullo - a differenza del leone o della tigre, io quando mai avrei più riflettuto sulla figura (e sulla essenza) del rinoceronte - se non incontrando - del tutto involontariamente - il “Rinoceronte” di Paolo Della Bella? Deve aver toccato qualche corda profonda del mio essere, mi son detto, dal momento che ha mosso la mia fantasia e, con essa, il pensiero; una fila di suggestioni e di idee, di emozioni e di riflessioni. Non è questo lo scopo, il senso, la missione, il destino, l’ulteriore compimento di un’opera d’arte (una volta che sia ultimata e ‘sfornata’ dalla fucina/atelier dell’artista)? Già. Ed è così che la stessa diventa, in un certo senso, bene a ‘proprietà diffusa’. Tutte le opere d’arte, infatti, hanno un autore che può rivendicarne la paternità, e un proprietario (ove non sia ancora lo stesso autore) che ne gode il possesso e i diritti di utilizzazione; quindi ci sono coloro – un numero indefinito di persone - che le opere d’arte le osservano e che talora – in una misura soggettiva e incognita – se ne lasciano affascinare o appassionare e dunque le interpretano, ed interpretandole possono arrivare ad amarle e con ciò - quasi senza accorgersene e in un mondo tutto immaginario - ad impadronirsene. Per meglio dire, si configura dunque un rapporto specialissimo ed esclusivo, affine a quello di genere proprietario, con l’immagine e il senso di un’opera d’arte. Ecco allora, in sintesi, il mio “Rinoceronte”: le macchie di colori – colori vividi - come tessere di un puzzle placano il misterioso, selvatico animale e lo introducono nella nostra fantasia come deprivato delle sue pur non irrilevanti qualità offensive; lo addomesticano apposta perché viva esso stesso a proprio agio - più coccolato che temuto, più spensierato che seccato – nella galleria, nella sala o nel loft di turno, magari su un’estesa parete, a sormontare un divano o manufatti di varia foggia in apparente disordine. Attenzione: per quanto come sopra tradotto, il “Rinoceronte” di Della Bella è nato per sovrastare, cioè per stare-sopra, per incombere – pur non minacciosamente – su qualcosa. Dopo questo ingresso nella nostra realtà quotidiana, tuttavia, il “Rinoceronte” può avere in serbo qualche sorpresa, può essere la causa (o l’occasione) di un contro-movimento anche più profondo per il quale, dietro tranquillanti apparenze, ciascuno (ri-) scopre nell’immagine, e dunque dentro di sé, la dimensione primordiale ed istintuale dell’esistenza. Di questo che ho chiamato “contro-movimento” sono segno indiscutibile le campiture di nero che abbondano nella parte meridionale dell’animale, a partire dalle zampe posteriori, e che apparentemente salgono, s’insinuano o s’impongono su per la medesima; in realtà le Sara Chiarello [email protected] Le voci di Napoli di Cauteruccio di Fino al 15 febbraio è in scena al Teatrostudio di Scandicci Napolisciosciammocca, scritto, diretto e interpretato da Giancarlo Cauteruccio, il primo atto di una trilogia sulle città di mare che il regista di Teatro Studio Krypton ha ideato, scegliendo Napoli, Genova (2016) e Trieste (2017). È un omaggio che ricorda Eduardo De Filippo, Leo De Berardinis, Antonio Neiwiller, Enzo Moscato, attraverso i luoghi, i paesaggi, i sentimenti, passando dalle canzoni del grande repertorio, da O sole mio a Torna a Surriento. Un viaggio nella Napoli da cartolina, e in quella metropolitana, stridente; in scena, Cauteruccio si muove su un tappeto di stelle, mentre sugli schermi scorrono le immagini della Napoli di oggi. Dice Cauteruccio: ‘È da tempo che penso alla possibilità di rendere l’essenza della città materia drammaturgica: tramite le voci femminili, le città si possano raccontare in prima persona. La città è femmina, madre, sorella, amante e così può parlare di amore, di passione, di carnalità, di desiderio e nello stesso tempo di dolore, di disagio, di vita e di morte. Il mio desiderio segreto di cantare qui si realizza e metto alla prova la mia voce, non certo quella di un cantante, con il suo timbro dissonante ma è forte la voglia di continuare a sperimentarla. La mia improbabile voce, che si misura con il canto melodico, diventa metafora di quella corrosione dell’armonia in atto da tempo in svariate città, e specchio di quei disagi e di quelle criticità di cui quotidianamente abbiamo notizie’. Le repliche sono dal martedì al stesse essendo traccia di una figura necessariamente tutta nera, forse in omaggio ad una delle due specie africane (appunto, il rinoceronte nero) ovvero rinviando a tutto ciò che il nero può evocare. Val la pena di citare, al proposito, le parole di un maestro della pittura: “Il nero è qualcosa di spento, come un rogo arso completamente. E’ qualcosa di immobile, come un cadavere che non conosce più gli eventi e lascia che tutto scivoli via da sé” (W. Kandinsky, “Lo spirituale nell’arte”). Anche se nel “Rinoceronte” il rogo non sarebbe stato completamente arso, l’immobilità non impedirebbe il tuffo (altro che quello scivolare via da sé!) in un mondo fatto di paure ancestrali, privo di orpelli e tutto vissuto nella tensione tra Eros e Thanatos - vita e morte. Tensione che si può concretamente rinnovare/attualizzare ogni volta che si abbia la ventura di incontrare un rinoceronte in carne ed ossa, magari incazzato e sul punto di iniziare una carica. In “Fuga sul Kenya” Felice Benuzzi racconta come nei cartelli di certe strade fosse scritto: “Beware of Rhino”. Cautela per fortuna superflua, per chi avrà il privilegio di incontrare personalmente, sorprendentemente, semplicemente il “Rinoceronte”. sabato ore 21.00, domenica ore 18.00, lunedì riposo. Gli incassi della replica di venerdi 13 febbraio saranno devoluti dalla compagnia a FILE – Fondazione Italiana di Leniterapia Onlus e il costo dei biglietti per quella replica è di 14 euro, senza riduzioni. Per ulteriori informazioni www.teatrostudiokrypton.it. in giro 7 febbraio 2015 pag. 18 Domenica 8 febbraio all’ Auditorium di piazza della Resistenza a Scandicci, ore 11, Luigi Lombardi Valauri presenta I Centomila canti di Milarepa horror vacui Non si sa di preciso quanto Putin sia un piccolo zar o un condottiero euro-asiatico che cerca di tenere unito il suo popolo dopo lo sfacelo sovietico. Non si sa neppure se le ragazze che si denudano per protestare contro di lui siano delle idealiste o cerchino una parte in qualche film. Troppe cose non sappiano per poter sventolare con leggerezza, in quelle terre, qualsiasi bandiera. 7 febbraio 2015 pag. 19 Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni L immagine ultima 7 febbraio 2015 pag. 20 Dall’archivio di Maurizio Berlincioni H [email protected] o sempre considerato questa immagine un’immagine decisamente drammatica. Mi spiego meglio: si tratta del dettaglio della parte posteriore di un vecchissimo autobus, probabilmente uscito di fabbrica nella prima metà degli anni ’50 e letteralmente tenuto assieme con il fil di ferro che veniva utilizzato per il trasporto dei raccoglitori giornalieri di frutta nelle diverse fattorie di questo importante distretto agricolo. In basso a destra si vede chiaramente un piccolo rubinetto per l’acqua potabile con sopra il dispenser per i bicchieri di plastica, di un formato abbastanza improbabile, con una scritta a pennello che indica un’altrettanto improbabile “Drinking Water”. Lascio immaginare al lettore la temperatura del liquido esposto inesorabilmente per ore ed ore all’implacabile solleone estivo delle pianure interne della California. Patterson, San Joaquin Valley, 1972