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12 Cultura
GIORNALEdelPOPOLO
SABATO 14 MAGGIO 2016
Tutti i colori del giallo
La rassegna letteraria alla sua XII edizione
Il fascino senza tempo
di misteri e delitti
L’appuntamento
annuale con il genere
giallo è giunto alla sua
dodicesima edizione,
e non dà alcun segno
di cedimento. Anzi,
i posti nella sala
del Cinema Lux
sembrano non più
bastare...
Un autore
di “rock
fiction”
di luca cerchiari*
di debora giampani
È una sala (come sempre) gremitissima quella che si è vista in occasione di Tutti i colori del giallo, la rassegna letteraria che da ormai dodici
anni anima le serate primaverili di
Massagno. Certo il tempo, quest’anno, non ha voluto concedersi nei
suoi panni migliori, ma gli incontri
di mercoledì, giovedì e venerdì sono
comunque trascorsi all’insegna di
un clima allegro, da salotto culturale d’altri tempi (dove, oltre ai libri,
non sono mancati i peccati di gola e
qualche bicchiere di buon vino). Un
appuntamento rodato, quello della rassegna, che dimostra di saper
sapientemente stuzzicare il gusto
- letterario e non - di tanti appassionati del genere. Con un inesaurito
successo ricordato, sul palco del Cinema Lux, dal sindaco di Massagno:
«Sembrava uno scherzo, dodici anni
fa» ha detto, «e invece eccoci qui».
Nell’osservare le schiere di lettori
che sgomitano per farsi fare un autografo, eventualmente, potrebbe
creare qualche problema l’inevitabile riflessione sulla natura del lettore
e dello scrittore d’oggi. Sulla superfluità che, al di là dell’ancestrale
tensione umana al mythos, pertiene
a tutti quegli eventi che bistrattano
il racconto per vestirsi di mondanità. Ma di percorsi tortuosi, all’indomani del (meritato) successo di una
manifestazione che porta vivacità e
cultura, non è proprio il caso di parlare. Anche perché, lungi dal pretendere la solennità di altri contesti, in
serate come queste il libro è (anche)
un pretesto per incontrarsi, per fare
due chiacchiere, per poter ridere
delle freddure degli scrittori. E va
bene così.
Di freddure, il pubblico ha potuto
abbondantemente godere nella serata di mercoledì, in occasione della
quale Gian Mauro Costa ha incontrato lo scrittore fiorentino Francesco Recami. Autore di gialli «senza
morti, senza investigatori e senza soluzioni» - come lui stesso li ha definiti
- Recami si è presentato al pubblico
con un sorriso sornione pronto a deformarsi in battute dallo humor fine,
dal sapore un po’ british. A cui, naturalmente, il pubblico ha risposto con
intorno al ritmo
generose risate e vivace partecipazione. Francesco Recami, in effetti, si
è definito fin da subito uno scrittore
che prima di tutto «vuole divertirsi».
Che non ha proprio voglia di ammazzare manciate di personaggi per
il semplice gusto di creare mistero.
Che preferisce «prendere in giro il
giallo» attraverso l’operazione un po’
dissacratoria di togliergli il delitto.
Il mistero, secondo Recami, il gioco
della suspence, è da cercare altrove.
Come, da cercare altrove, sono per
Recami anche i «buoni sentimenti».
«Se pensate di trovarli nei miei libri,
cambiate direzione», ha detto non
omettendo nemmeno una pungente
frecciatina: «Io detesto l’autoassoluzione alla Coelho. Le verità che vanno bene per tutti alla fine non vanno
bene per nessuno». Insomma, a dispetto dell’umile (o ambiguo?) preambolo (che ha ricordato al pubblico
la sua presunta incapacità di parlare
dei propri libri), Recami ha intelligentemente intercalato letture a riflessioni metaletterarie non prive di
interesse, restituendo un’immagine
autoriale assolutamente intrigante.
Di cui, all’uscita, davanti agli scaffali con le opere in vendita, si è visto il
risultato.
Non con lo stesso entusiasmo si
può parlare di Simone Sarasso, secondo autore incontrato dal pubblico. Piemontese, autore del volume di
recente pubblicazione Da dove vengo io (una storia di mafia negli Stati
Uniti delle grandi immigrazioni),
Sarasso è intervenuto - a rigor del
vero - per colmare il vuoto lasciato
dal norvegese Jo Nosbe, assente per
problemi di salute. Il pubblico l’ha
seguito sempre con il solito interesse e rispetto, anche se è legittimo far
cenno a qualche chiacchiera che soprattutto nell’approssimarsi della
fine dell’incontro - si è alzata qua
e là nella sala. Privo della retorica
pungente di Recami e tutto intento a
sciorinare le innumerevoli scoperte
fatte nel corso dell’indagine storiografica alla base del suo libro, non
si può dire che Sarasso abbia colpito
per dialettica o (almeno apparente)
profondità letteraria. L’apparenza,
in uno scrittore, spesso inganna; è
vero. Eppure - fa parte del gioco - in
un contesto simile è determinante.
Nella terza serata di ieri si è incontrato infine il personaggio forse più
celebre della rassegna, uno scrittore
che, per ammissione dell’organizzatore Fabrizio Quadranti: «Sognavo
Lo scrittore
toscano
Francesco
Recami è stato
intervistato
da Gian Mauro
Costa.
da anni di avere con noi». Uno dei
più importanti protagonisti del giallo nordico contemporaneo, lo svedese Hakan Nesser è autore di libri
campioni di vendite, in particolare le
- lunghissime - serie dei commissari
Van Veeteren e Gunnar Barbarotti.
Intervistatrice dell’occasione Carmen Giorgetti, sua traduttrice in italiano, che ha esordito sottolineando
la pertinenza del titolo della serata:
Quella Svezia un po’ così. Elemento presente nei romanzi di Nesser è
infatti la Svezia poco conosciuta e
ancor meno attraente della periferia,
che l’autore utilizza quale «sfondo
neutro» per le proprie storie. Storie
che - sempre secondo la Giorgetti «non sono solo da leggere, ma anche
da rileggere», che parlano soprattutto di vita, oltre che di morte - di
morti. Sinceri - così è parso - complimenti che hanno scalfito solo in parte la personalità nordicamente statuarla di Nesser: «Dovrò ricordarmi
di segnalarti quale autrice del mio
necrologio», ha risposto, sullo sguardo divertito di traduttrice e spettatori in sala. Ironia noir e compostezza,
Hakan Nesser ha potuto approfondire l’atipicità degli assassini protagonisti dei suoi romanzi, decostruiti
al punto da renderli «criminali sono
all’esterno» e talmente umanizzati
da spingere una signora (incontrata
dallo scrittore in posta) ad affermare, con sincero sollievo, di essere
contenta nel leggere che «anche il
quarto uomo sia stato fatto fuori».
Alla fine della serata, tra un pubblico in fermento per lo spassoso
intervento di Nesser e il languorino
stuzzicato dall’aperitivo, Quadranti ha promesso che, per il prossimo
anno, si ovvierà al problema della
scarsità di posti a sedere. Segno che
la manifestazione è destinata a tingere Massagno di giallo ancora per
molto...
Quando è nato il rock? Negli anni Sessanta,
perché all’inizio del decennio precedente
apparve uno stile musicale (Bill Haley, Jerry
Lee Lewis, Elvis Presley &c.) che si avvaleva
dello stesso termine, ma addizionato di
un “and roll” indicativo della componente
coreutica propria di questa musica appunto
ballabile (in coppia, con quei movimenti
ancheggianti e circolari che ribadivano la
secolare componente erotica della danza
maschile-femminile) e di molte relazioni
con altri stili della musica nera e bianca
nordamericana. Il rock esplose negli USA
e in Europa, Inghilterra in primis, come
musica dalla spiccata componente vocale e
dalla strumentazione elettrica e acustica in
parte derivata dal jazz e dal blues: esplose
anche in luoghi altri e nuovi, terreni, arene,
spazi inediti, affollati improvvisamente
(dopo l’epoca dei locali, dei club, dei teatri)
da decine di migliaia anziché centinaia
o migliaia di persone. I festival metà-fine
Sessanta ne furono l’epicentro emotivo e
performativo, e tra quegli spettatori o talora
attori ne scaturì, tra gli entusiasmi per le novità
sonore e la componente socio-ambientale
e monogenerazionale (la musica giovanile,
novità assoluta della storia) una prima critica.
Oggi la critica “rock” è diffusissima a livello
planetario, con decenni di presenza in tutti
i possibili media, mentre da anni il rock
ha generato anche una propria riflessione
più approfondita, di tipo musicologico
e culturologico, ospitata da Università e
Conservatori: sono i cosiddetti popular music
studies, come tutte le cosa talora pregevoli
talora meno.
La critica rock, apparsa contemporaneamente
ai grandi festivals (Monterey, Woodstock,
Isola di Wight) ha avuto riviste dedicate,
spazi su quotidiani e su radio e tv. Tra i
primi ad occuparsene a livello saggistico, in
lingua italiana, è stato il novarese Riccardo
Bertoncelli. La sua Pop Story edita da Arcana
nel 1973 fu uno dei primi esempi di riflessione
sul fenomeno. Da allora Bertoncelli ha
creato una vera e propria editoria dedicata
al rock, scrivendo o curando innumerevoli
pubblicazioni, collane e enciclopedie, per la
stessa Arcana, e da anni per l’editore Giunti.
Il suo merito è però anche di tipo “solistico”:
Bertoncelli ha inventato una scrittura quasi
unica nel genere, supportata da una buona
cultura generale e da un originale taglio
espressivo, peraltro desunto da modelli
letterari più che musicali, e alimentato da
una fantasia descrittiva talora indipendente
dagli oggetti descritti. Ne è un esempio anche
l’ultimo suo volume, dove musicisti come
Frank Zappa, Jimmy Page o Janis Joplin sono
ritratti con la consueta vena immaginifica, ma,
conseguenza di quanto accennato, nella quasi
totale assenza di riferimenti alla loro effettiva
produzione sonora. Questa rock-fiction suona
quindi in sé, per le sue frasi e parole, e talora
diverte facendoci, magari, sentire “suonati”.
Riccardo Bertoncelli,
“Topi caldi. Frank Zappa e altri bei malanni”.
Giunti, Firenze 2016.
*Università di Milano-IULM e di Padova
GdP 14.5.2016
dimmi un libro
di Michele fazioli
le vite, la vita di cristina castrillo
Tu chiamalo romanzo, se vuoi.
Chiamala prosa lirica, chiamalo
teatro scritto e non parlato. Tracce,
ovvero “la mappa di un mestiere”, è
l’Io liberato in musica di scrittura di
Cristina Castrillo, regista teatrale,
attrice, scrittrice, fondatrice a Lugano del “Teatro delle radici”. Argentina, avvolta dall’aura nativa sudamericana e travolta dalle derive
della cupa stagione della dittatura
militare, Castrillo è rinata, risorta,
grazie al teatro. Tracce non è un romanzo ma in un certo senso sì. Lo
dice bene nella prefazione Manuela
Camponovo: «Non è una autobiografia, almeno nel senso che attribuiamo a questo genere di scrittura.
Non è neppure la storia di un percorso professionale. Si tratta appunto di Tracce, tracce di memoria, di
quel che resta dopo tutto ciò che si è
perduto…». Il libro è un filo di frammenti che nella loro anarchia narrativa riescono infine a comporre un
insieme armonioso, una specie di
proustiano “tempo ritrovato” senza
la morbosità “maladive” del grande
francese. Tracce cammina lungo
un percorso di vita in cui si capisce
che la bambina argentina è lei, così
come è lei la ragazza che divora libri, poesia, romanzi, cinema, è lei la
giovane donna che scopre il teatro e
lo fa, lo farà pur essendo sin lì completamente digiuna di teatro, è lei la
donna che incappa nella tragedia
del golpe militare, nella repressione,
nei giorni malvagi di terrore e lutto.
Difficile davvero parlare, in una
sintesi, della volubile danza di parole dense e scritte benissimo, con
grande cura e scavo, per raccontare,
confessando oppure nascondendo
appena un poco il vero nella sottile
invenzione narrativa, una vita. La
memoria è centrale: «Non ho mai
considerato la memoria come un
residuo statico, fermo o fisso nei
cerchi del suo tempo, ma piuttosto
come una proprietà cangiante e
viva, presente ed evolutiva. La me-
moria non è l’accaduto e basta. La
memoria fa riaccadere le cose. C’è
tanto e tutto (una vita, appunto) in
questo libro. Le pagine che chiamo
politiche, civili, sono importanti e
dicono il dramma di un popolo. Imperdibili per capire. Poi ci sono momenti di narrazione pura che sono
brandelli di romanzo vero. C’è per
esempio la figura del padre, bellissima: un padre magico (quanti rintocchi di Gabriel Garcia Marquez,
qui e altrove!), giocoso, stravagante.
In pochi mesi per la terza volta mi
imbatto in una donna che racconta un padre strambo e decisivo,
che lascia tracce per sempre: mi è
capitato con Rosa Matteucci (Tutta
mio padre, Costellazione familiare)
e con Rossana Campo (Dove troverete un padre come il mio) e ora
con Cristina Castrillo. Non scomodo la psicanalisi ma tre indizi cominciano a diventare una prova…
E poi c’è una ieratica, archetipica
figura indigena di nonna, venuta
da una lontana radice (orfana, sembrava giungere «da
un altro mondo»):
«La nonna è stata
la colonna, la trave
del soffitto, il muro
portante, l’ancora
e la sicurezza…»).
E poi naturalmente
c’è il teatro, già molto tempo prima che
Castrillo inventasse teatro a Lugano,
terra d’esilio e patria nuova. Ci fu,
in Argentina, la nascita del “Libre
Teatro Libre”, un gruppo di giovani matti, ribelli e ingenui, vocati
a inventare teatro per cantare in
altro modo la vita vera: «In questo
contesto, in cui per molti salvare la
pelle e creare sembravano sinonimi, l’atto teatrale diventò non solo
una questione di posizione e riscatto, ma una maniera di recuperare
quei semi di umanità che facesse-
ro di ogni persona,
e del disegno di un
teatro possibile, una
reale sfida all’autoritarismo, alla violenza e alla cultura
ufficiale». Altro ancora, molto altro ci
sarebbe da dire su
questa febbrile e lucida narrazione per
frammenti. Lo stile
è scrupoloso, alto.
Abituata alla precarietà dell’effimero teatrale (qui e
ora, poi tutto svanisce) Castrillo ha
scelto stavolta la lunga durata della prosa ma in qualche modo senza abbandonare l’ammiccamento
della scena, facendo balenare brani
di storie che sono come copioni di
vite, di vita, di una vita.
Cristina Castrillo
Tracce
Edizioni Ulivo
Uscito
dalla casa
editrice
di Balerna,
in questo libro
si racconta
la regista,
attrice,
pedagoga
argentina
che a Lugano
ha fondato
e dirige
lo storico
Teatro
delle Radici,
un luogo
di resistenza...
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