Le maschere di Raggi e Appendino nascondono la vera natura del
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Le maschere di Raggi e Appendino nascondono la vera natura del
IL FOGLIO quotidiano Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1 ANNO XXI NUMERO 136 Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO VENERDÌ 10 GIUGNO 2016 - € 1,50 DIRETTORE CLAUDIO CERASA Le maschere di Raggi e Appendino nascondono la vera natura del grillismo. Perfettamente sintetizzata in una parola: “Monetine” L e monetine, già. Beppe Grillo è un grande comico e come tutti i grandi comici sa giocare magnificamente con le maschere portate in scena dai suoi personaggi. Le maschere dei comici hanno un’infinità di significati ma quando un attore presenta al suo pubblico una maschera si preoccupa prima di tutto di una cosa: rendere credibile ciò che si mostra e rendere almeno per un attimo invisibile ciò che si è. Quando la maschera funziona, chi la osserva viene conquistato da quel personaggio. Sorride. Viaggia. Si emoziona. Proietta se stesso in un altro mondo. A volte, persino, gli capita di sognare. Da questo punto di vista, almeno finora, lo show delle elezioni comunali è uno degli spettacoli meglio riusciti a Beppe Grillo e le belle maschere usate dal Movimento 5 stelle per far sognare il pubblico e proiettarlo in un mondo diverso stanno funzionando. Le maschere oggi hanno il volto di due ragazze per bene che si chiamano Virginia Raggi e Chiara Appendino e attraverso le loro sto- rie, i loro occhi, la loro voce bassa, calma, piatta, rassicurante, il partito di Grillo sta cercando di mettere in scena un’esibizione perfetta, anche se a suo modo comica: rendere credibile ciò che si mostra e rendere invisibile ciò che si è. L’operazione funziona solo se ciò che c’è dietro la maschera scompare per un attimo, come per magia, ed è anche in virtù di quest’operazione che il fondatore del Movimento, Beppe Grillo, ha deciso di fare un momentaneo passo di lato (salvo poi firmare con lo “staff di Beppe Grillo” il licenziamento di assessori sgraditi). Molti osservatori, incantati dalle mascherine, hanno cominciato a descrivere il favoloso mondo delle Raggi e delle Appendino come se fosse autonomo rispetto a quello di appartenenza. Ma un conto è innamorarsi delle maschere (comprensibile). Un conto è dimenticare la differenza tra ciò che si mostra e ciò che si è. Ciò che si è, ovvero la vera natura del Movimento 5 stelle, lo ha sintetizzato ieri con una battuta rapida il volto più importante del grillismo, Luigi Di Maio, che si è augurato che dopo i fischi ricevuti da Confcommercio Renzi riceva una buona dose di monetine in testa. “Oggi i fischi da Confcommercio, presto gli lanceranno le monetine e poi Matteo Renzi a casa”. Le maschere possono sedurre quanto si vuole, e in molti, soprattutto sui giornali, oggi ne sono conquistati. Ma quando si sposta la maschera e si osserva la vera natura del Movimento 5 stelle bisogna essere sinceri. Il Movimento 5 stelle è un partito che avrà molti elettori per bene ma è una realtà che come un fungo trae la sua forza e la sua linfa dai peggiori concimi disseminati in giro per l’Italia, molti dei quali sono stati impiantati nel nostro paese proprio ai tempi di Tangentopoli e delle famose monetine dell’Hotel Raphaël. Al netto delle maschere, l’Italia sognata da Grillo è un’Italia governata dalla cultura del sospetto, dalla politica del linciaggio, dal giacobinismo giudiziario, dalla dittatura delle procure, dalle cialtronerie MINIMIZZARE I MORTI D’ISRAELE L’ERETICO SECONDO FRANCESCO Il Papa si scaglia contro chi s’affida solo alla “rigidità della legge” e “agli idealismi che non ci fanno bene”. E invita a vivere di “sano realismo cattolico”. Che è quello dell’ et et e non dell’aut aut Roma. “Tante volte non si può arrivare alla perfezione, ma almeno fate quello che potete, mettetevi d’accordo per non arrivare al giudizio. E’ questo il sano realismo della chiesa cattolica, che mai insegna ‘o questo o quello’. Piuttosto la chiesa dice ‘questo e questo’. Ecco il sano realismo del cattolicesimo. Invece non è cattolico ma è eretico dire ‘o questo o niente’”. Nella consueta omelia mattutina di Santa Marta, Francesco si scaglia contro l’idealismo rigido che “non permette di riconciliarsi”. E’ l’idealismo degli scribi e dei farisei, “tanto che quando veniva un profeta che dava loro un po’ di gioia lo perseguitavano e anche lo ammazzavano: non c’era posto per i profeti lì”. La chiesa non può contemplare il tutto o il niente, bisogna vivere “la santità piccolina del negoziato”, che poi è ciò che viene insegnato. La strada da seguire, la ricetta proposta, è quella “del possibile”, ha spiegato il Pontefice, che per la sua riflessione è partito dal Vangelo del giorno. “Gesù – ha detto – è il vero legislatore, quello che ci insegna come dev’essere la legge per essere giusti”. Il problema è che “il popolo era un po’ disorientato, un po’ allo sbando, perché non sapeva cosa fare e quelli che insegnavano la legge non erano coerenti. Ed è proprio Gesù stesso a dire loro: ‘Fate quello che dicono, ma non quello che fanno’. Del resto – ha sottolineato Bergoglio – non erano coerenti nella loro vita, non erano una testimonianza di vita”. Ed ecco che torna l’esigenza di “superare”, concetto già illustrato la scorsa settimana ai sacerdoti che hanno seguìto le tre meditazioni spirituali offerte dal Papa in occasione del Giubileo loro dedi- cato. Francesco in quell’occasione aveva detto “a volte mi dà un misto di pena e di indignazione quando qualcuno si premura di spiegare l’ultima raccomandazione, il ‘non peccare più’. E utilizza questa frase per ‘difendere’ Gesù e che non rimanga il fatto che si è scavalcata la legge”. Stavolta, il Pontefice ha rimarcato come Cristo, “in questo passo del Vangelo dice che ‘la vostra giustizia deve superare quella degli scribi e dei farisei’. A questo popolo un po’ imprigionato in questa gabbia senza uscita, Gesù indica il cammino per uscire: è sempre un uscire in su, superare, andare in su”. Il disorientamento del popolo era inevitabile, anche perché “Gesù afferma che è peccato non solo uccidere, ma anche insultare e sgridare il fratello. E questo fa bene sentirlo, proprio in questo tempo dove noi siamo tanto abituati ai qualificativi e abbiamo un vocabolario tanto creativo per insultare gli altri. Anche offendere – ha chiosato Bergoglio – è peccato, è uccidere”. Qui Francesco ha tratto un paragone con i tempi correnti, citando gli esempi di contro testimonianza che pure sono presenti nella chiesa: “Quante volte noi nella chiesa sentiamo queste cose, quante volte!”, ha detto, ricordando come sia frequente sentire frasi del tipo: “Ma quel prete, quell’uomo, quella donna dell’Azione cattolica, quel vescovo, quel Papa ci dicono ‘dovete fare così!’, e lui fa il contrario”. Questo – ha aggiunto – è proprio “lo scandalo che ferisce il popolo e non lascia che il popolo di Dio cresca, che vada avanti. Non libera”. E anche “questo popolo aveva visto la rigidità di questi scribi e farisei”. (mat.mat) Il vero limite di una dottrina à la page Un Dio a nostra immagine e somiglianza espone la chiesa al rischio relativista A nche se a questo mondo ci sono tante cose importanti da fare (per esempio seguire i playoff di basket tra Milano e Reggio Emilia, e capire che fine farà l’InDI ALDO MARIA VALLI ter in mani cinesi), continuo a studiare la questione che mi sta a cuore dopo le perplessità sorte in me in seguito alla lettura e rilettura di Amoris laetitia, specialmente per quanto riguarda la pastorale del “caso per caso”. Due le domande. La prima: può una norma morale generale essere ridimensionata e resa meno stringente per adattarla al caso particolare? E qual è la relazione tra misericordia, giustizia divina e verità rivelata? Voi direte: amico mio, continua a dedicarti al basket e all’Inter, forse è meglio! Posso essere d’accordo, però sapete che cosa c’è? Sono entrato in un’età in cui mi succede sempre più spesso di pensare alla morte, ma non alla morte in generale: dico alla mia morte. Non ho paura, ma prendo molto sul serio il buon Dio, che mi ha donato la fede e mi ha dotato di ragione. Di qui le domande. Per esempio: una legge morale universale, penso ai dieci comandamenti, è adattabile a un caso particolare? Si può derogare a una legge universale se l’applicazione della legge suona ingiusta per la coscienza individuale? E poi la relazione tra misericordia e perdono. Misericordia è solo perdono? E il giudizio di Dio? Se la misericordia è solo perdono, Dio non dimostra forse di non prendere sul serio la mia libertà e la mia responsabilità? E se io elimino dalla misericordia i riferimenti alla giustizia, non finisco col crearmi un Dio a mia immagine e somiglianza, solo consolatorio? In chiesa nessuno più ci parla di queste cose. Dei cosiddetti Novissimi, che abbiamo studiato da piccoli al catechismo, non si occupa quasi più nessuno. I Novissimi sono le cose che succederanno all’uo- Non lo riesco a capire. Non riesco davvero a capire perché, con tutti i problemi che abbiamo per la testa, perfino una vacca nel corridoio, e le mammine di sinistra dei ragazzi che votano cinque stelle le quali si scoprono grillette a sessant’anni, e il Milan da vendere, e quello della Consob che non risponde alla Gabanelli, e Benigni che fa la bella mo alla fine della vita: la morte, il giudizio, il destino eterno, la pace o il castigo, il paradiso o l’inferno. Ho notato che preti e parroci parlano volentieri di cose importantissime come il riscaldamento globale e il tasso di disoccupazione, ma diventano improvvisamente reticenti quando ci sono di mezzo i Novissimi. Perché? Mah! E pensare che la nostra vita quaggiù è un battito di ciglia. Procediamo. Circa il rapporto tra norma morale generale e caso particolare mi sono imbattuto in un interessantissimo discorso di Pio XII. E’ del 1952, quando io ancora non ero nato. Papa Pacelli lo tenne, in francese, alla Federazione cattolica mondiale della gioventù femminile e vi si legge quanto segue: “Ci si chiederà come la legge morale, che è universale, possa essere sufficiente e persino essere obbligatoria in un determinato caso singolare che nella situazione concreta sua propria è sempre unico e di ‘una sola volta’”. Bravo Pio XII, è proprio quello che mi chiedo io! Ed ecco la risposta: “Lo può e lo fa perché, precisamente a causa della sua universalità, la legge morale comprende necessariamente e intenzionalmente tutti i casi particolari in cui si verificano i suoi concetti, e in numerosissimi casi lo fa con una logica talmente concludente che persino la coscienza del singolo fedele vede immediatamente e con piena certezza la decisione da prendere”. Ecco quella che si dice una risposta chiara. Ovviamente le parole di Pio XII non saltano fuori dal nulla, ma arrivano dopo secoli di riflessioni della chiesa (pensiamo solo a san Tommaso). E Pio XII, già nel 1952, sapeva bene che si stava facendo strada una ‘nuova morale’, detta anche ‘morale della situazione’, secondo la quale alla norma universale viene attribuita una certa, chiamiamola così, fluidità, in modo tale che si possa procedere con adattamenti al caso (segue a pagina due) particolare. vita coi quattrini della destra, e la Meloni stoppata sul bagnasciuga da un’ex fascia di gran pregio, e Pjanic alla Juve, e la Repubblica delle idee che non ne scova una manco morta, non riesco proprio a capire perché mai dovremmo, proprio noi, farci distrarre da un paio di ebrei del menga accoppati a Tel Aviv tra gli applausi palestinesi, quando la nostra Europa se ne fotte. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 20.30 benecomuniste, dal mito dispotico della democrazia diretta, dalla retorica vuota dell’antipolitica, dal disprezzo per gli strumenti del mercato e da una generica propensione alla diffusione di teorie complottiste (l’11 settembre, i vaccini, il Bilderberg, gli inciuci, le scie chimiche, l’industria della shoah) messe scientificamente in circolo per creare zizzania, fare massa critica e imporre una nuova illuminata dottrina caratterizzata dal riconoscere, possibilmente senza contraddittorio, la parola del blog redentore come unica verità rivelata. Chi vota Grillo lo fa per mille ragioni e spesso lo fa in modo sincero ma chi sceglie di votarlo e sceglie di appoggiarlo deve ricordarsi che dietro la maschera c’è il volto di un mondo medievale che prova a camuffarsi dietro gli sguardi garbati di Raggi e di Appendino ma che alla fine non riesce a nascondere la sua vera natura. E a volta basta dire una parola per mostrare il trucco e far sparire la magia. Le monetine, già. Da Rep. al Monde, i media non chiamano “terrorismo” la strage di Tel Aviv. Al Arabiya meglio di Cnn Harvard assume un falco iraniano che parla di “pericolo ebraico”. Una cattedra comprata da Teheran Roma. Mentre i leader di tutto il mondo condannavano l’uccisione di quattro israeliani al ristorante Max Brenner di Tel Aviv (Max Brenner è uno dei marchi israeliani Roma. Ali Akbar Alikhani è un celebre professore dell’Università di Teheran. Ha scritto e curato quindici libri accademici. Al suo curriculum ora Alikhani ha aggiunto anche “visiting scholar” della Harvard University, dove è stato assunto per lavorare a un progetto incentrato sulla “convivenza pacifica nell’islam”. Ma come rivela il Washington Free Beacon, il suo lavoro precedente ha indicato che il professore ha tutt’altro che pacifici sentimenti nei confronti di Israele e dell’ebraismo. La Facoltà di studi mondiali presso l’Università di Teheran, dove insegna Alikhani, è strettamente legata al regime iraniano che ha spesso minacciato Israele di distruzione e la Facoltà ingaggia gli studiosi che appoggiano direttamente l’ideologia del regime khomeinista. Alikhani ha pubblicato un libro intitolato “La minaccia ebraica - Pericolo per il cristianesimo e l’islam”. “L’autore fornisce soluzioni pratiche ed evidenti al giudaismo e al sionismo”, si legge. In una serie di paper accademici controversi, Alikhani ha elogiato anche Roger Garaudy, un filosofo comunista francese che si è convertito all’islam e che ha guadagnato un po’ di notorietà quando ha negato l’Olocausto. “Le istituzioni occidentali danno credibilità accademica e una piattaforma agli estremisti che operano incontrastati attraverso le sembianze del dialogo interreligioso”, ha detto Sam Westrop, direttore di Stand for Peace. “Legittimando un sostenitore del regime come Alikhani, Harvard sta tradendo le migliaia di musulmani iraniani moderati che lavorano per liberarsi dalla tirannia della teocrazia iraniana”. Non è il primo caso di infiltrazione del regime iraniano nelle università americane. Nel gennaio 2010, il regime di Teheran annunciò il boicottaggio di Yale a causa della presenza del Centro studi sull’antisemitismo. Il governo iraniano etichettò Yale come “sovversiva”, dichiarando che qualsiasi contatto fra Yale e i cittadini iraniani era “illegale e proibito”. Il professor Walter Reich, che insegna alla George Washington University e ha diretto il museo dell’Olocausto di Washington, sul Washington Post ha rivelato che “Yale ha ucciso il miglior istituto americano per lo studio dell’antisemitismo” perché “critico dell’antisemitismo arabo e iraniano”. Il Centro, infatti, venne poi chiuso. I paesi arabi sunniti non sono gli unici benefattori delle università americane. Il regime iraniano ha fatto la stessa cosa in maniera massiccia attraverso la Fondazione Alavi di New York. E’ stato il Washington Post a rivelare che la Fondazione “promuove il punto di vista di Teheran sugli affari mondiali”. Trenta università in nord America hanno ricevuto il finanziamento di questa fondazione iraniana. Fra queste proprio Harvard, dove la fondazione iraniana ha sostenuto programmi sia all’Harvard College sia alla Harvard Law School. Il portavoce di Harvard, Kevin Galvin, ha detto che i funzionari di Harvard non erano a conoscenza dei legami della fondazione con il regime iraniano. Harvard ha ricevuto 345 mila dollari dalla fondazione iraniana, compresi 40 mila dollari all’Harvard Center for Middle Eastern Studies nel 2011. Questo è il centro che ha offerto la cattedra al professor Alikhani. L’obiettivo di questo braccio culturale degli ayatollah è quello di “offrire corsi di lingua persiana, studi iraniani e cultura islamica con una particolare attenzione agli studi sciiti”. Si sono dimenticati di menzionare la chiamata alla distruzione di Israele e le proposte per una “soluzione del problema ebraico”. Fra queste, l’attacco terroristico in cui sono rimasti uccisi quattro israeliani a Tel Aviv. (gm) DI PROGNOSI DEL BERLUSCONISMO Il cuore del Cav. ha rischiato ma ora è fuori pericolo. Molti auguri, sospiri di sollievo. Ma dopo l’operazione, il tema è più che mai urgente: il futuro, l’eredità del centrodestra, la scelta tra i Matteo. Che fare? L’orizzonte c’è U na volta, appena operato e guarito, chiese all’amico che era andato a trovarlo in clinica: “Scommetti che non avevo niente, e questi medici mi hanno operato per farsi pubDI SALVATORE MERLO blicità?”. E sempre Silvio Berlusconi si è rapportato in modo gagliardo alle grandi malattie, quelle del suo corpo e quelle della sua politica, dando sempre del tu al pericolo, un po’ per esorcismo e connaturato ottimismo, per gioia birbante e allegra megalomania, così ha dato del tu al cancro alla prostata, che lui ha combattuto e sconfitto, così alla decadenza da senatore, agli alterni impicci e ai guai che hanno ininterrottamente agitato la vita litigiosa delle sue ventennali coalizioni di governo. La forza, per il Cavaliere, è sempre stata quella di truffare il dolore, l’umiliazione, persino l’età: “Sono invincibile”; “Mi odori Vespa, lo sente? Questo è odore di santità”; “Un erede? Ne ho almeno due o tre in testa”; “State tranquilli, ho un dinosauro nel cilindro”. Frasi palindrome, ribalderie, allusioni a un suo sempre impossibile ritiro, serissime spiritosate, perché il dinosauro preferito di Berlusconi è sempre stato Berlusconi, e solo Berlusconi, l’uomo che ha costruito tutto se stesso e la propria epica del comando intorno al carisma monocratico, ludico e cinematografico dei grandi palchi illuminati dove un solo capo sulla tolda intona assieme al popolo i gingle elettorali di “Forza Italia” e “Meno male che Silvio c’è”. Sedici anni fa, nel frastuono del Forum di Assago, primo strano congresso di Forza Italia, qualcuno gli chiese: “Chi è il numero due di Forza Italia?”. E lui: “E’ Gianni Letta!”. “Ah, bene. Ma dov’è adesso Letta?”. “Non c’è”. “Anzi, non è nemmeno iscritto”. Come disse una volta Adriano Galliani: “Si sa bene chi sono i tre eredi di Silvio Berlusconi”. E chi sono? “Il primo è Silvio, il secondo è Berlusconi, il terzo è Silvio Berlusconi”. Così adesso, ora che l’hanno ricoverato al San Raffaele, in questa vicenda in cui forse c’è anche l’esaurimento momentaneo di un uomo che si è svuotato nel trasfondere sangue all’organismo anemico del centrodestra, adesso che giungono i bollettini medici, i sospiri di sollievo per lo scampato pericolo, gli auguri e le urgenti prescrizioni d’una operazione chirurgica a cuore aperto, adesso lo si può immaginare non meno scavezzacollo e spensierato di tutte le altre volte in cui si è trovato in difficoltà, spensierato nel senso d’un uomo troppo sicuro di sé per porsi il problema del futuro, e troppo superbamente impolitico anche so- lo per immaginare di rimettere ordine e offrire un orizzonte d’immortalità al berlusconismo, e insomma di fare nella politica quello che in realtà da quasi un anno ha cominciato a fare nelle sue aziende. Esattamente un anno fa veniva infatti ceduto il 25 per cento delle antenne Ei Towers, poi ci fu la liquidazione del leasing della sede del Giornale a Milano, la cessione del 50 per cento delle assicurazioni Mediolanum, poi a novembre del 2015 la storica acquisizione della Rizzoli Libri da parte di Mondadori, poi l’8 aprile 2016 l’ingresso di Vincent Bolloré in Mediaset, e infine anche il Milan, che prima o poi sarà venduto ai cinesi. Ma Forza Italia non la si può vendere ai cinesi. E il centrodestra non è la Mondadori che conta sulla determinazione di Marina, e non è nemmeno Mediaset che ha Pier Silvio. In politica c’è un non erede che si chiama Matteo Salvini, c’è uno strano amatissimo avversario che si chiama Matteo Renzi, ci sono tanti voti sorprendentemente ricomparsi in queste elezioni amministrative e c’è poi un partito sospeso, incerto, in bilico, che ha sempre vissuto all’ombra del potere finanziario e carismatico del suo padrone: che ne sarà di Forza Italia? “Fare il leader di un partito è cosa che gli sconsiglio da tempo”, ha detto ieri, con un saggio sorriso, il suo medico personale, Alberto Zangrillo. “Ma tra un mese, dopo l’operazione al cuore, potrà fare quello che vuole”, potrà decidere. E che vorrà farne il Cavaliere del berlusconismo? Quale destra sceglierà, se mai sceglierà? Nel Medioevo, come raccontano i libri di Marc Bloch sui re taumaturghi, con l’impedimento del sovrano si rischiava la dissoluzione del regno: la sua salute era il collante tribale. E nessuno più di Berlusconi, nella politica europea, ha assunto tratti pre-politici, da re taumaturgo, appunto. Così da una parte c’è l’ordine nel disordine, dunque il riassetto delle aziende, della roba e del portafoglio che si accompagna al lascito politico. Dall’altra, forse, la dissipazione di un ventennio e di una storia che è stata di governo e non di sole urla, di moderazione, a volte giocosamente immoderata, e non di cupo populismo trinariciuto. Un capo come lui, attorno al quale tutto si è sempre condensato e scomposto, per suo calcolo e capriccio, imperio e arbitrio, può certo spogliarsi ma mai dimettersi, può cioè mettere a posto l’eredità, indicare un orizzonte, ma senza dismettere il carisma. Non più leader, ma padre e bandiera. E d’altra parte non si lascia soltanto quando ci si sente “al di sotto”, ma anche quando si è “al di sopra”. Sul cuore matto e grande del Cavaliere P oi però andrà tutto bene, perché l’ottimismo è sempre stato la chiave di volta di Silvio Berlusconi. O meglio, più che ottimismo, CONTRO MASTRO CILIEGIA - DI MAURIZIO CRIPPA la convinzione naturale che la vita è bella e buona, e produce sempre un gioviale vantaggio e va vissuta così, senza risparmio, perché il tempo è denaro, e come no!, ma è anche l’allegria del fare e di godersi le cose. Poi però non era andato tutto bene, in quel ricovero di routine dopo lo stress delle elezioni, se ieri il suo medico di fiducia, Alberto Zangrillo, durante una conferenza stampa al San Raffaele ha dovuto dire che “Berlusconi ha rischiato di morire: è arrivato in ospedale in condizioni molto severe, ha rischiato la vita e ne era consapevole”. E che l’ex presidente del Consiglio e di infinite altre cose sarà operato al cuore “per un’insufficienza aortica grave”, con sostituzione della valvola aortica. Ma stare qui a far la cronaca coi bollettini medici e gli strologamenti non è da noi, da noi del Foglio, che al Cav., “l’Amor nostro”, abbiamo sempre voluto e solo bene. E honi soit chi stasera non la pensa bene assieme a noi. Ma andrà tutto bene davvero, perché neppure Silvio Berlusconi nei suoi momenti di onnipotenza col suo amico don Verzé – e neppure i suoi peggiori odiatori nei loro peggiori incubi – ha mai supposto di essere immortale. E quando è venuto a trovarci per i nostri vent’anni, il suo debutto in redazione, spargeva vitalità e celiava con grazia sui suoi ottant’anni e sulle battute che si scambiano, in materia, lui e l’amico Fidel. Certo, nel suo cuore diventato d’un tratto matto ci sono anche i segni di un uomo che non s’è risparmiato nulla e che del suo corpo di brianzolo ricco e postmoderno ha sempre fatto quel che ha voluto, inseguendo un suo ideale privato di bellezza e di eterna giovinezza. Fatto per cui tanti l’hanno detestato: gente di un mondo che invece gli assomiglia così tanto. E non vi spiegheremo adesso perché. Vi spiegheremo invece che come un re pronto a farsi fare a pezzi ha dato molto del suo cuore, della sua energica salute, per le cose in cui credeva, per la politica che sognava, per il “popolo della libertà” (sia scritto minuscolo) che ama e che lo adora. Meglio di così non potrebbe mai andare. Da noi abbia una stretta di mano, quelle strette di mano che non ha mai rifiutato a nessuno, e un in bocca al lupo. GIULIO MEOTTI di cioccolata presi di mira dal boicottaggio), i media italiani e stranieri sbagliavano ancora una volta i titoli. Fra le vittime della strage, oltre a un ex commando delle forze di sicurezza israeliane e a due donne, anche un professore della Ben Gurion University, il sociologo e antropologo Michael Feige. Il ministero della Difesa, ora sotto la guida di Avigdor Lieberman, ieri ha promesso che “la vita a Yatta non sarà più uguale” (è il nome del villaggio palestinese da cui provengono i due terroristi). “Catturati gli aggressori”, ha titolato il sito di Repubblica, senza mai usare la parola “terroristi”. Il Corriere della Sera li chiamava invece “killer”. Dal Monde a Libération passando per il Nouvel Obs, tutta la stampa francese ha usato la parola “fusillade”: sparatoria. La Cnn ha riportato dell’attentato mettendo fra virgolette la parola “terroristi”. La Bbc ha usato l’espressione “Tel Aviv shooting”, sparatoria, mentre le forze di sicurezza israeliane avevano già fermato i terroristi e non c’erano dubbi sulla matrice dell’attentato. Anche Sky News ha usato“Mass Shooting in Tel Aviv”, mentre il Guardian ha scritto: “Three Dead in Tel Aviv Market Shooting”. L’Independent ha fatto di peggio: “Tel Aviv shooting, three killed and six wounded in Israeli capital attack”. Non solo non c’è la parola “terrorismo”, ma Tel Aviv diventa “capitale” anziché Gerusalemme (l’Independent ha modificato il titolo dopo le proteste di Honest Reporting). Neppure il New York Times è riuscito a dire la verità e ha riferito dei terroristi come “Palestinian gunmen”. La migliore è stata la disinibita Fox News, che ha titolato: “Terror in Israel”. Era così difficile? Gli stessi media che hanno “sbagliato” i titoli, non hanno saputo o voluto mostrare le immagini dei palestinesi in festa a Gaza, a Hebron, a Tulkarem e alla Porta di Damasco a Gerusalemme, che hanno distribuito dolci ai passanti per celebrare l’attentato al ristorante di Tel Aviv. I giornali e le televisioni di tutto il mondo non sembrano aver imparato niente da quando è scoppiata “l’Intifada dei coltelli”. Per dirla con Simon Plosker, direttore di Honest Reporting, “nessun giornale in Europa ha riconosciuto chi sta attaccando chi”. Vittima israeliana e terrorista palestinese sono sempre finiti sullo stesso piano. L’Independent anche allora era riuscito a strangolare la verità con uno sproposito di parole: “Ragazzo di sedici anni diventa la settima vittima palestinese delle forze di sicurezza dopo un accoltellamento a Gerusalemme”. Neppure il Telegraph, giornale conservatore inglese, ieri riusciva a scandire “terrorista”, così come a ottobre scrisse: “Forze di sicurezza israeliane uccidono altri quattro palestinesi”. “Palestinese ucciso dopo inseguimento della polizia a Gerusalemme”, era stato il capolavoro a ottobre di Msnbc. Ieri la rete americana ha riferito di un “mass shooting”, neanche fosse successo nella scuola Columbine. Su Sky News, neppure la parola “palestinese” è emersa: “Polizia israeliana: gli attacchi di Gerusalemme fanno tre morti”. Il canale televisivo saudita al Arabiya è stato più onesto dei media occidentali, definendo “vittime” i morti israeliani. E Dahham al Enazi, membro dell’Associazione dei giornalisti sauditi, ha condannato così la strage: “L’uccisione di civili innocenti, come accaduto durante l’attacco di Tel Aviv, è terrorismo”. Terrorismo, non sparatoria. Altrettanto più onesta, nella sua sinistra franchezza, la giornalista di al Jazeera, Salma al Jamal, che ieri ha detto: “L’Operazione Ramadan è la migliore risposta alle storie sul ‘processo di pace’”. Anche molti comitati di redazione dalle nostre parti la sottoscriverebbero. DIROTTA SU RAQQA Arrivano anche i francesi. La missione “alternativa” dei russi Milano. Le forze speciali francesi sono arrivate nel nord della Siria per collaborare con gli Stati Uniti, i curdi (Ypg) e le Forze democratiche siriane (Sdf) alla riconquista di Raqqa. L’obiettivo militare principale è la cittadina di Manbij, nei tempi antichi famosa per il culto della “dea della Siria” Atargatis e oggi ultima via di comunicazione aperta dello Stato islamico con il resto del (Peduzzi segue a pagina quattro) mondo. ANNO XXI NUMERO 136 - PAG 2 La rimozione Storia di Giuseppe Tavecchio, vittima casuale e dimenticata della violenza politica. Un libro L’11 marzo 1972 era un sabato, a piazza della Scala e in tutto il resto del mondo. Solo che a Piazza della Scala, per un milanese che si chiamava Giuseppe RIPA DEL NAVIGLIO Tavecchio, sessant’anni, pensionato, il tempò si fermò per sempre. Alle cinque e dieci del pomeriggio, all’angolo tra via Manzoni e via Verdi, fu colpito a morte durante una manifestazione. Una di quelle manifestazioni che da tre anni erano diventate fatto quotidiano in città, e nel resto del mondo. Ma che a Milano a poco a poco (o in fretta in fretta) erano diventate sempre più violente: “Tre anni di lotta ce l’hanno insegnato, uccidere un fascista non è reato”. Mentre dall’altra parte si poteva urlare: “L’ebreo è sempre reo”. La mattina di quel sabato forse il signor Tavecchio non aveva letto il giornale, con la notizia che “i gruppuscoli della sinistra extraparlamentare” (il Corriere) avevano confermato una loro manifestazione “per la liberazione immediata di Pietro Valpreda”. Mentre gruppi della destra avevano programmato un comizio, sempre in centro. Il rischio di incidenti avrebbe dovuto essere scongiurato dal divieto della questura circa lo svolgimento contemporaneo di manifestazioni di opposto estremismo. Ma la “decisione di cercare lo scontro a tutti i costi” era già stata presa da giorni, tra i capi delle varie organizzazioni. Il pomeriggio di quel sabato, il signor Tavecchio, che abita nella periferia sud-est di Milano, a piazzale Martini, decide di prendere il tram, il 13, e andare in centro, dietro alla Scala. Precisamente in via del Monte di Pietà, dal suo vecchio macellaio di fiducia. Il percorso di Giuseppe Tavecchio punta inconsapevole verso un collo di bottiglia fatale, tra il Castello sforzesco, dove sta per finire il turbolento comizio della destra, e via Mercato, dove la manifestazione della sinistra sta accendendo i primi fuochi di molotov. Il puzzo dei lacrimogeni è già nell’aria. Comprate le sue fettine di vitello, Tavecchio sta tornando verso piazza della Scala, lungo via Verdi. Alcuni ragazzi con caschi e fazzoletti stanno trasformando alcune auto in barricate. Così Tavecchio gira l’angolo, poi imbocca via Manzoni. Quando arriva alla piazza, è scoppiato l’inferno. Sgommano le camionette della Polizia, che si dirigono verso altri scontri in piazza Duomo, e verso la sede del Corriere in Via Solferino, presa d’assalto. Il signor Tavecchio, in un attimo di calma sospesa, decide di attraversare la strada. Nello stesso istante, dentro una camionetta, si dà l’ordine di sparare due lacrimogeni. Il secondo, non si sa perché, parte ad altezza uomo. All’altezza della nuca di Giuseppe Tavecchio, che “cade sul pavé in mezzo all’attraversamento pedonale”. Andrea Kerbaker è uno scrittore e un umanista sensibile, che ama molto Milano, un bibliofilo raffinato. Ha scritto “La rimozione - Storia di Giuseppe Tavecchio, vittima dimenticata degli anni di piombo” (Marsilio, 126 pagine, 15 euro) un po’ per rendere omaggio a una vittima sconosciuta della violenza politica e del caso (e del caos), un po’ per non perdere la memoria di una città, dei suoi luoghi, dei suoi protagonisti. Il suo è un viaggio pacato, quasi sottovoce, nelle vie, le istituzioni, le pagine dei giornali, il clima politico di quei primi anni 70. E i fatti, le ricostruzioni minuziose, compreso il resoconto della visita a casa dei figli della vittima, così tanti anni dopo, parlano da sé. A quella morte accidentale seguì un processo poco seguito. Una condanna lieve in primo grado per due agenti, annullata in Appello “perché il fatto non costituisce reato”. Non esiste una lapide all’angolo di piazza della Scala che ricordi Giuseppe Tavecchio, passante che avrebbe compiuto sessant’anni, ucciso quel sabato pomeriggio del 1972. Un bel capitolo del libro si intitola “Geografia delle lapidi”, è una passeggiata significativa dentro la storia di Milano e dentro alcune sue “rimozioni” dolorose e silenziose. Maurizio Crippa PREGHIERA di Camillo Langone C’era un omone diventato famoso perché picchiava le persone. C’era il sospetto che l’omone fosse diventato campione mondiale di pugni grazie ai mafiosi italoamericani, capaci di pagare il suo avversario affinché perdesse. Di sicuro l’omone era solito insultare i rivali e diffondere l’odio verso le persone con un colore della pelle diverso dal suo. Non pago di avere personalmente inflitto tanto dolore un bel giorno l’omone tradì Cristo convertendosi alla più violenta religione disponibile su piazza, prendendo il nome di un profeta guerrafondaio il cui libro sacro ha riempito e continua a riempire la storia di stragi. Le spoglie mortali dell’omone (la cui anima suppongo abbia raggiunto all’inferno colui che definì “nobile arte” il pugilato) vengono oggi onorate da un funerale internazionale con discorsi vip e passerella di potenti. Mi sono interrogato sulla ragione di così vasto rimpianto e l’ho trovata nel Vangelo di Giovanni, laddove Gesù definisce il diavolo “padre della menzogna”: un padre prolifico e persuasivo, in grado di convincere milioni di persone che il male sia bene e che un omone diventato famoso perché picchiava le persone meriti la beatificazione. IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 10 GIUGNO 2016 L’ E X M I N I S T R O I R A C H E N O W A R D A : “ L’ I T A L I A R I C O N O S C A I L G E N O C I D I O ” Prima le nozze forzate, poi lo stupro. Il destino di una cristiana a Mosul Roma. La piccola croce tatuata sul braccio è stata la sua condanna: fermata da una banda di miliziani califfali che presidiava le strade di Mosul, nell’estate di due anni fa, mentre stava cercando il marito, scomparso nel nulla mentre i jihadisti occupavano la città. “La gente se ne stava andando, tutti stavano abbandonando la città, anche i musulmani. Io però non avevo nessuno, avevo la speranza di ritrovare mio marito. Mi dicevo, se partissi, dove andrei?”. Subito trasferita – assieme a uno dei suoi tre bambini, gli altri due li aveva affidati ai vicini di casa – in un campo di prigionia, è stata più volte stuprata. “Fino a nove volte a notte”, ha detto la donna irachena intervistata dall’organizzazione no profit “In defense of Christians”. La storia è stata poi ripresa dall’emittente Fox News. “Prima di ogni stupro però, si celebrava un rapido matrimonio e poi un altrettanto rapido divorzio”: per i miliziani tanto bastava a giustificare la pratica, ammantandola d’un alone legale e religioso. “Mi prendevano ogni volta che volevano. Uno in particolare, Farouk, era ossessionato da me e diceva che gli piacevano le donne di Gesù”. Ciò che è capitato a lei è accaduto “a molti cristiani e yazidi”, ha detto Toufic Baaklini, presidente di “In Defense of Christians”, aggiungendo che la diffusione di storie come questa ha l’obiettivo di sensibilizzare il mondo a fare qualcosa per porre fine alla persecuzione. “La decisione degli Stati Uniti di definire ufficialmente genocidio la condizione dei cristiani in Iraq è il primo passo. Il prossimo dovrebbe essere la creazione di una zona protetta per loro sulla falsa riga di quella realizzata negli anni Novanta da Washington e dalla Nato per proteggere i musulmani durante la guerra in Bosnia”, ha aggiunto Baaklini. Dopotutto, i cristiani nel vicino e medio oriente “chiedono solo di vivere in pace, poter pregare ed essere liberi. Una zona protetta, un’area messa in sicurezza sarebbe dunque il passo necessario per garantire loro la possibilità di far rientro nelle proprie case”, prosegue il presidente dell’organizzazione no profit. Intanto arrivano le prime adesioni all’appello lanciato l’8 giugno su questo giornale dalla fondazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che soffre-Italia affinché anche l’Italia riconosca che quello in corso tra Siria e Iraq è un genocidio. Ottantasette parlamentari ita- liani, tra deputati e senatori, hanno già aderito, mentre Pascale Warda, già ministro iracheno per le Politiche migratorie e attuale presidente dell’organizzazione Hammurabi Human Rights, ha detto che “non abbiamo fatto nulla di fronte al massacro collettivo di persone innocenti. Ora il minimo che possiamo fare è chiamare con il loro nome le atrocità commesse dall’Isis”. Warda, che ha partecipato alla campagna che ha portato al riconoscimento del genocidio da parte del Congresso e del dipartimento di stato americani, invita il governo italiano a imitare Washington: “E’ la nostra prima responsabilità, se vogliamo davvero essere una comunità internazionale e non una mera unione di stati che di fatto stanno legalizzando delle atrocità”. Matteo Matzuzzi SALVEZZA DELLE ANIME VS. BENESSERE PSICOFISICO DEI FEDELI Il dramma di una chiesa che si limita solo a consolare e giustificare CI STIAMO COSTRUENDO UN DIO A NOSTRA IMMAGINE E SOMIGLIANZA. LA MISERICORDIA NON E’ UN COLPO DI SPUGNA (segue dalla prima pagina) Ascoltiamo dunque Pio XII mentre parla della nuova morale: “Il segno distintivo di tale morale è costituito dal fatto che essa non si basa in alcun modo sulle leggi morali universali, come ad esempio i dieci comandamenti, ma sulle condizioni o circostanze reali e concrete nelle quali si deve agire, e secondo le quali la coscienza individuale è tenuta a giudicare e a scegliere; questo stato di cose è unico ed è valido una sola volta per ciascuna azione umana. Perciò la decisione della coscienza, affermano coloro che sostengono tale etica, non può essere imperata dalle idee, dai principi e dalle leggi universali […]. Espressa sotto questa forma, l’etica nuova è talmente al di fuori della Fede e dei principi cattolici che persino un bambino, se conosce il suo catechismo, se ne può rendere conto e lo può percepire”. Queste ultime parole sono forti e quindi sono andato a rileggerle nell’originale francese, trovando la conferma che il Papa dice proprio così: “Sous cette forme expresse, l’éthique nouvelle est tallement en dehors de la Foi et des principes catholiques, que même un enfant, s’il sait son catéchisme, s’en rendra compte et le sentira”. Qualcuno a questo punto dirà: “Vabbé, ma tu vai a prendere Pio XII! E’ preconciliare!”. Sì, è preconciliare, e allora? Forse per questo è meno ragionevole? Lo stesso Papa Francesco, pochi giorni fa, in una delle meditazioni rivolte ai preti per il loro giubileo, ha raccomandato di leggere Haurietis aquas, l’enciclica di Pio XII sulla devozione al Sacro Cuore (1956), e ha commentato: “Ma è preconciliare! Sì, ma fa bene!”. Nel corso del tempo, naturalmente, l’insegnamento della chiesa in materia è andato avanti, e san Giovanni Paolo II, con Veritatis splendor, l’enciclica del 1993 “circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della chiesa”, torna a confrontarsi con la questione della “morale della situazione” o, come diciamo oggi, del caso per caso. Ascoltiamo dunque Papa Wojtyla. Il capitolo di Veritatis splendor che qui ci interessa è il secondo (La coscienza e la verità), dove il Pontefice, interrogandosi sul rapporto tra la libertà dell’uomo e la legge di Dio, e sottolineando che ciascuno di noi avverte dentro di sé, nell’intimo della sua coscienza, una legge che non è lui a darsi e che lo chiama sempre a fare il bene e a fuggire il male, a un certo punto scrive: “In tal senso le tendenze culturali […] che contrappongono e separano tra loro la libertà e la legge ed esaltano in modo idolatrico la libertà conducono ad un’interpretazione “creativa” della coscienza morale, che si allontana dalla posizione della tradizione della chiesa e del suo Magistero”. Giovanni Paolo II è ben cosciente dell’opinione di diversi teologi, secondo i quali la funzione della coscienza non può essere ricondotta alla semplice applicazione di norme morali generali. Secondo tali teologi, dice il Papa, “queste norme non sono tanto un criterio oggettivo vinco- lante per i giudizi della coscienza, quanto piuttosto una prospettiva generale che aiuta in prima approssimazione l’uomo nel dare un’ordinata sistemazione alla sua vita personale e sociale”. Quando però si tratta di fare i conti con la realtà concreta del singolo caso, è la coscienza individuale, con la sua “creatività” a essere esaltata. Qui sembra proprio che Giovanni Paolo II, con più di vent’anni d’anticipo, immagini certi passi di Amoris laetitia che mi lasciano perplesso. Ma ascoltiamo ancora Wojtyla: “Per giustificare simili posizioni, alcuni hanno proposto una sorta di duplice statuto della verità morale. Oltre al livello dottrinale e astratto, occorrerebbe riconoscere l’originalità di una certa considerazione esistenziale più concreta. Questa, tenendo conto delle circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla regola generale e permettere così di compiere praticamente, con buona coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge morale”. E che cosa succede lungo questa strada? Dove si va a parare secondo la logica delle eccezioni alla regola generale? Risposta di Giovanni Paolo II: “In tal modo si instaura in alcuni casi una separazione, o anche un’opposizione, tra la dottrina del precetto valido in generale e la norma della singola coscienza, che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene e del male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette ‘pastorali’ contrarie agli insegnamenti del Magistero e di giustificare un’ermeneutica ‘creatrice’, secondo la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare”. Parole profetiche. Alle quali Giovanni Paolo II aggiunge questa riflessione: “Non vi è chi non colga che con queste impostazioni si trova messa in questione l’identità stessa della coscienza morale di fronte alla libertà dell’uomo e alla legge di Dio”. Consiglio a tutti di rileggere interamen- BORDIN LINE di Massimo Bordin La parola chiave è un aggettivo: “Vero”. Più impegnativo e meno preoccupante della “Verità” con la maiuscola, usata dalla procura di Trani quando manda lettere a questo giornale. L’aggettivo si usa per definire qualcosa come corrispondente alla realtà, qualcosa di effettivamente avvenuto e di verificabile. “Gravi, scomposte e sorprendenti” sono state definite da una nota del Csm le parole pronunciate, e poi smentite, dal presidente dell’Anm Davigo sul metodo correntizio per le nomine dei magistrati. Il profluvio di aggettivi copre l’economia di quello decisivo: “False”. Sul merito delle dichiarazioni l’aggettivo è rimasto nella penna dei consiglieri. Il criterio di verità viene però recuperato a proposito della effettiva pronuncia di quelle parole. La nota te Veritatis splendor. Ma io, dicevo, ho una seconda questione da affrontare: quale relazione c’è tra misericordia e giustizia divina? Papa Francesco, meditando sulla parabola del padre misericordioso (cfr Lc 15,11-31), nel corso degli esercizi spirituali con i preti (San Giovanni in Laterano, prima meditazione, 2 giugno 2016) a un certo punto spiega: “Il cuore di Cristo è un cuore che sceglie la strada più vicina e che lo impegna. Questo è proprio della misericordia, che si sporca le mani, tocca, si mette in gioco, vuole coinvolgersi con l’altro, si rivolge a ciò che è personale con ciò che è più personale, non ‘si occupa di un caso’ ma si impegna con una persona, con la sua ferita”. Poi, dopo aver messo in guardia dal “clericalismo” che riduce una persona a un caso non che dalla “pastorale pulita” ed “elegante” che però non si mette in gioco e non rischia niente, dice: “La misericordia va oltre la giustizia e lo fa sapere e lo fa sentire; si resta coinvolti l’uno con l’altro. Conferendo dignità – e questo è decisivo, da non dimenticare: la misericordia dà dignità – la misericordia eleva colui verso il quale ci si abbassa e li rende entrambi pari, il misericordioso e colui che ha ottenuto misericordia. Come la peccatrice del Vangelo (Lc 7,36-50), alla quale è stato perdonato molto, perché ha amato molto, e aveva peccato molto”. Sono parole molto belle, che certamente toccano il cuore di molti. Non di meno c’è da interrogarsi: “La misericordia va oltre la giustizia”. Dunque, quando io morirò e sarò davanti a Dio, secondo quale metro sarò giudicato? Se, in nome della morale della situazione, non avrò rispettato le leggi universali date da Dio e trasmesse dalla mia santa madre chiesa, come sarò accolto da Dio? E poi: è la misericordia, solo la misericordia, che mi conferisce dignità? E la libertà? E la responsabilità? Qui mi è arrivato in aiuto il testo di un amico. Non farò il suo nome, perché non so se gli fa piacere (da quando alcuni mi hanno bacchettato per le mie criè successiva a una smentita di Davigo, di cui sembra tenere conto molto relativamente. Davigo quelle parole le ha veramente dette? A questo punto l’aggettivo slitta, cambia di bersaglio e si può usare. Una agenzia riassume: “Csm: se vere, parole gravi e sorprendenti”. Dopo meno di mezz’ora Davigo replica per la stessa via: “Non vere le dichiarazioni attribuitemi”. Nel senso che sostiene di non averle dette. La verità, minuscola, è che sono vere le dichiarazioni, sentite da un paio di centinaia di magistrati che le confermano e vero il loro merito. Come si deduce dalla singolare volgarità dell’aggettivo “sorprendente” che il Csm spiega nella sua nota, dove in soldoni dice: ma come? Ti abbiamo appena promosso e tu ci ripaghi così? La ribadita smentita dell’incorruttibile Davigo suona come una presa d’atto del punto da non oltrepassare. tiche al pensiero pastorale di Francesco, continuo a esporre me stesso ma evito di farlo con altri, che potrebbero non gradire), però saccheggerò impunemente il suo pensiero. Dunque, sostiene il mio amico, sulla parola misericordia, così centrale nel magistero di Francesco, occorre interrogarsi. E’ parola bellissima, che tocca direttamente il cuore, specialmente dei sofferenti (come ho visto bene dalle decine e decine di reazioni che mi sono arrivate dopo i miei ultimi articoli dedicati ad Amoris laetitia), ma non bisogna pronunciarla invano. Se ci facciamo caso, nell’insegnamento della chiesa la misericordia non è mai lasciata sola. Recita per esempio il Salmo 84: “Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo”. Ecco. Misericordia, giustizia, verità. Non ci sarebbe bisogno di misericordia se non ci fosse il peccato e non ci fossero i peccatori. Possiamo isolare la misericordia infinita di Dio dai suoi comandamenti? Si può disgiungere la misericordia dalla giustizia? Si può separare la misericordia dalla legge assegnata per la nostra salvezza? La misericordia senza giustizia e senza verità, dice il mio amico, non ha significato. Per la chiesa c’è un tribunale di misericordia sempre aperto, fino all’ultimo respiro: è il sacramento della confessione. E’ lì che tutti noi, anche all’ultimo secondo dei tempi supplementari, e anche se nella nostra vita siamo stati grandissimi peccatori, possiamo essere perdonati. Possiamo esserlo se ci pentiamo sinceramente e chiediamo perdono. Ecco la giustizia che fa capolino. La misericordia non è il colpo di spugna che tutto cancella. Dio ci prende sul serio! E noi siamo chiamati a fare altrettanto con lui! “Neanch’io ti condanno” dice Gesù all’adultera. Ma aggiunge: “Va’ e d’ora in poi non peccare più”. Io ho invece l’impressione che oggi ci stiamo costruendo un Dio a nostra immagine e somiglianza, del quale diventa espressione una chiesa molto simpatica ma, ahimé, relativista. Una chiesa che sembra avere a cuore non la salvezza delle anime, ma il benessere psicofisico delle persone. Una chiesa che, ignorando giustizia e verità, non giudica ma si limita a consolare e giustificare. E’ una chiesa à la page, che pensa di non dover perdere tempo con la dottrina e per questo piace molto ai laicisti di ogni colore ed estrazione. E’ una chiesa che non ritiene necessario, perché poco “moderno”, confermare i fratelli nella fede, ma è sensibile agli applausi che arrivano dai lontani. Così tutti quelli che, con ostinazione e senza rendersi conto di essere fuori moda, continuano a porsi il problema della giustizia e della verità (poverini: leggono ancora Pio XII!), diventano automaticamente “dottori della legge” e “farisei”. Mi sbaglierò, ma c’è qualcosa che non funziona. Aldo Maria Valli Vaticanista del Tg1. L’articolo è tratto dal suo sito personale MARCO TEGLIA (1949-2016) Guardare la tempesta ricordando quel grand’uomo del “Popolo” I eri c’è stata una tempesta sopra la mia casa. Ha abbattuto arbusti, piegato alberi, strappato fiori, una cascata d’acqua, tuoni e lampi hanno fatto saltare la luce e PICCOLA POSTA - DI ADRIANO SOFRI tremare i muri e spaventare Brina e Brillo, che non hanno paura di niente. Con la tempesta è un po’ come con i naufragi. Hans Blumenberg, riprendendo la metafora di Lucrezio, intitolò un suo gran libro “Naufragio con spettatore”. Se ne accorgono ora i soccorritori del Mediterraneo, e tutti noi che guardiamo tre o quattro volte al giorno il nostro prossimo che naufraga e annega, e ci commuoviamo un po’ per lui e ci rallegriamo molto per noi. La casa in cui abito non è al mare, è una vecchia casa colonica con una loggia, e quando fischia il vento e la bufera infuria mi copro, mi metto seduto al riparo e me ne sto a guardare la furia degli elementi. Anche ieri, e mi sono ricordato di quando ci sedevamo insieme, io e Marco Teglia, a guardare il temporale e stare zitti, coi cani suoi e miei accucciati accanto senza litigi. Marco è nato a Lucca nel 1949 e ha abitato per più di trent’anni nella stessa casa, anzi fu grazie a lui e a suo fratello che vi fui accolto con Randi quando Lotta Continua finì e, spiantati, ci rifacemmo una vita. Marco, che era anche buon suonatore di piano e di chitarre, liuti e mandolini, tre anni fa pubblicò un libro intitolato “Il Popolo va agli Uffizi”, e poi un seguito, “Il Popolo va a Viareggio”. “Nacque Guerrino Anchioni, ma la mamma non ebbe latte per sfamarlo, lo portava, dunque, da tutte le conoscenti di recente parto. Guerrino succhiò il latte di cento donne del popolo, ebbe cento fratelli, divenne il figlio del popolo e poi il ‘Popolo’, come tutti da allora lo chiamarono”. Era il Millenovecentoventotto, nella campagna della Lucchesia, e il Popolo si fa la sua strada, venti chilometri ad andare e venti a tornare, a vendere braccia e vanga, e intanto recita a memoria i versi della Gerusalemme e di Dante e dell’Orlando. Finché decide di prendere il treno e andare agli Uffizi a veder Giotto, L’Angelico e Leonardo. Il Popolo è un gran personaggio, che fa ridere e intenerisce. Anche Marco Teglia. Magari l’avete conosciuto, per qualcuna delle serate che faceva nei locali e i teatri e le case del popolo e degli amici raccontando le sue storie e cantando le sue canzoni, metà sentimentali da far quasi piangere, metà comiche da far ridere con le lacrime agli occhi. Insomma, il Popolo viene a Firenze. Sale sul treno come un soldato che va alla guerra. Al Duomo non c’è un omino che rovescia manciate di granturco ai piccioni? “O che li mangiate?”. “Mangiate cosa?”. “Codesti piccioni”. “O che date i numeri?”, risponde quello inorridito. “Allora che li governate a fare?”. “Rallegrano la città con i loro voli”. Un piccione gli sale sul cappello, gliela fa sulla giacca. “Sì, rallegrano la città e concimano la vostra bella giubba”, ride il Popolo, pensando che quello è più bischero di lui. In piazza della Signoria si indigna per la Giuditta che ha tagliato la testa di Oloferne, e gli hanno fatto pure un monumento; poi agli Uffizi passa e ripassa davanti alla Madonna di Giotto, con l’occhio intenditore, fissa la vergine al centro, e sembra guardarlo, si sposta di lato, e continua a fissarlo. “Questa move gli occhi!”. Incontra uno, ci parla un po’, quello lo trova buffo. “Anche voi siete buffo, parete un prete”. “Sono un prete!”. I preti di città sono strani. Anche al paese c’è gente strana, ma si conosce. Ferragalline, il miglior amico del Popolo, fa il fabbro, si fa pagare in uova e castagne. Un vizio ce l’ha, di rubacchiare. Quello che gli manca per il lavoro, lo prende dove lo trova. Il Popolo gli chiede una lastra di marmo per il lavandino, la sua gli s’è rotta. Ferragalline gliela procura, e va a montargliela, quando il Popolo è a vangare. Raccomanda alla sorella del Popolo di non toccarlo finché la calce non avrà tirato. Il Popolo torna, gli pare che il marmo sia bello lucido, e anche robusto. “Già. Ro- busto!”, fa lei con l’aria ironica. “Perché, non ti piace?”. “A te ti piace?”. “A me sì, e poi il marmo è sempre marmo”. “Allora vieni a vedere!”, e s’infila sotto la lastra cementata, e gli mostra la scritta: “Qui giace colpito da fiero morbo…”. Il Popolo pensa che dritti si ha un’aria di prosopopea, e distesi non si vale nulla, come essere vivi o essere morti. Poi pensa che è vero anche il contrario, per uno sdraiato quello ritto è disteso, e forse per uno morto il vivo è il vero defunto e viceversa. Cerca di sbrogliare i pensieri, ma intorno le cicale fanno sarabanda, riempiono tutto, non lasciano l’intimità. “Le cicale rompono i coglioni!”, sentenzia il Popolo a voce alta, le cicale si zittiscono. C’è una prefazione di Adolfo Natalini, che passava parecchie sere a inseguire Teglia nelle osterie di qua e di là, con Roberto Barni e Staino e gli altri che vivon d’arte e il ragazzo Francesco. Marco Teglia somiglia al suo Popolo? Non tanto: ha un aspetto da Mangiafuoco che la sa lunga, è musicista e antiquario e figlio d’arte, perché suo padre Remo era medico e scrittore di libri pubblicati nei “Gettoni” Einaudi di Vittorini. Però è mimetico, e sa mettersi nei panni di un filosofo di campagna. Le bufere vanno guardate in silenzio, con una donna, o con un amico. Marco Teglia ora è morto, la tempesta di ieri era formidabile e l’ho guardata da solo. Darsi all’ippica (Letteralmente). Mentre infuria la battaglia pre-ballottaggio, c’è tutta una Roma che “corre” coi cavalli Non solo ballottaggio. Che altro succede in città, nei dieci giorni che mancano al ballottaggio Virginia Raggi-Roberto Giachetti? C’è infatti tutta una CAMPO DE’ FIORI Roma che si muove come se fosse in un altro film, anche se di ballottaggi quasi solo si parla, tanto più che ora ci si è messo di mezzo pure il “caso Totti”: il campione ha parlato di Olimpiadi – lui le vorrebbe eccome, a Roma, nel 2024, e a quel punto c’è chi gli ha detto “allora sei pro Giachetti” (candidato dem pro Olimpiadi) e Totti per due giorni ha dovuto rispondere incessantemente che li vuole, sì, i Giochi nella Capitale, ma che no, la politica non c’entra. E allora Maurizio Gasparri, noto esponente e senatore romanista di Forza Italia, ha detto alla “Zanzara”, su Radio 24, che l’intervento del “Pupone” non gli è piaciuto per niente, e ha tirato fuori una vecchia storia di investimenti immobiliari della famiglia Totti, gridando altresì “Totti dovrebbe appartenere a tutti”, mentre Alessandro Di Battista, dal M5s, ha fatto sapere che non saranno i Cinque stelle “a fermare lo sport”. E uno poteva anche cominciare a pensare “uffa”, mentre i candidati sindaci si scontravano a distanza e si recavano dall’ambasciatore americano e parlavano con Richard Gere e ascoltavano dichiarazioni di voto e non voto dagli ex avversari, quando si scopriva, improvvisamente, che nel quartiere Prati aveva aperto un “ristorante per cani e gatti”, dove i quadrupedi possono attendere i padroni in un finto prato, mentre i padroni possono scegliere per l’animale domestico pasti a chilometro zero (ossessione che non riguarda più solo la tavola degli umani) oppure far consumare al gatto o al cane le “verdure stagionali”, la carne “di qualità” e i “biscotti artigianali” in loco, in apposite ciotole “da degustazione” (ma presto ci sarà anche il takeaway). E poi, nelle prime serate estive, si apprendeva che c’è tutta una Roma solitamente invisibile intenta a giocare a polo (non era dunque un “polista” isolato Alfio Marchini, candidato sindaco non passato al secondo turno). Una Roma che gioca qui, e non all’estero, come si era sempre pensato per via della forse colpevole ignoranza di cose ippiche, qui nella città scenograficamente più inadatta a un simile sport, visto più che altro nei film con attori scelti a caso da “Pretty Woman” o “Quattro matrimoni e un funerale”. E si apprendeva che, a due passi da Corso Francia (Roma nord), gli appassionati di polo hanno addirittura un loro club, con distese di prati verdi e schiere di casette (box) per cavalli che la sera fanno “cù-cù” alle macchine degli ospiti del ristorante (molti dei quali neofiti del genere) o di eventi-grigliata con dj set nel fango (se piove), tipo Stonehenge Festival, o nell’erba (se non piove), tipo raduno ibizenco-hippie rivisitato in serata décontracté per liberi professionisti, con piccoli droni volteggianti sulla testa per ricognizioni fotografiche. Al primo cavallo che si affacci dal box, l’ignaro avventore, concentrato a cercare parcheggio tra le fioriere, può pensare magari di trovarsi nel prossimo film di Paolo Sorrentino (con apparizioni di destrieri al posto delle apparizioni di fenicotteri. Ma al secondo e al terzo cavallo costui o costei capisce di trovarsi in un altrove rispetto al tutto elettorale (e altrove persino rispetto alle serate di maggio in Piazza di Siena, quelle sì in linea con la tradizione ippica della città, che da Giulio Andreotti in giù ha sempre avuto un debole per le corse e un’ossessione citazionista da pellicole come “Febbre da cavallo”). Se poi ci si sposta nei quartieri più a sud, è pur sempre un ippodromo (Capannelle) a ospitare serate fuori-contesto rispetto al discettare di Mafie, debiti e riconteggi di voti, e proprio nei giorni in cui il pensiero di darsi per così dire all’ippica ancora non sfiora candidati sindaci e aspiranti consiglieri ancora intenti alla preparazione della battaglia finale: succede infatti che all’ippodromo, da molti anni adibito ad arena musicale estiva e mega-villaggio per cene in stile “food truck”, vada in scena, in una delle serate preballottaggio, nientemeno che il concerto dei Duran Duran, il gruppo più amato dalle ex ragazzine ed ex ragazzini anni Ottanta, oggi quaranta-cinquantenni capaci di andare ancora in delirio e visibilio, sì, ma senza riuscire del tutto a distaccarsi dall’attualità politica, tanto che su Facebook, prima e dopo il concerto, si potevano leggere commenti che coniugavano l’eterna bellezza della canzone “Wild Boys” all’eterna bruttezza dei cantieri della metro C o delle strade crivellate di buche. Anche se poi la “Grande Bellezza”, zitta zitta, all’ombra del ballottaggio, a volte si dimentica di essere romana: è stata infatti l’Accademia di Francia di Villa Medici, ieri, a organizzare una serata elettronica-mostraperformance live nel palazzo con giardino sopra Piazza di Spagna, luogo più che mai sorrentiniano da cui il dibattito pre-voto appare per forza di cose più marziano dell’ex sindaco marziano Ignazio Marino (e si capisce che, tra un artista e un dj, tra scalinate e saloni, alberi e labirinti, l’elettore possa pure pensare, per un attimo, di non trovarsi nel bel mezzo della cosiddetta “sfida capitale”). Marianna Rizzini CONSORZIO INTERCOMUNALE DEL NOVESE DEI SERVIZI ALLA PERSONA (C.S.P.) Bando di gara - CIG: 6705898A15 Questo ente indice una procedura aperta, tramite il criterio dell’ offerta economicamente più vantaggiosa, per l’affidamento dei servizi di assistenza domiciliare ed educativa territoriale per minori e disabili. Importo compl.vo: €. 859.000,00. Durata del contratto: dal 1/08/2016 al 31/12/2017. Termine ultimo per la ricezione delle offerte: 14/07/2016 ore 12,00. Apertura offerte: 14/07/2016, alle ore 15,30. Info: www.cspnovi.it. Invio alla GUUE: 26.05.2016. Il RUP dott.ssa Luciana Negri SETA S.P.A Esito di gara - CIG 6353417D8E Servizio di acquisto, lavaggio, sanificazione e controllo degli indumenti da lavoro e D.P.I ad alta visibilità per il personale dipendente. Aggiudicatario: Lit Service SRL Casalgrasso (Cn). Importo € 234.545,00+ IVA. Data di aggiudicazione 26/02/2016. Il Responsabile del procedimento - Dr. Teresio Asola ANNO XXI NUMERO 136 - PAG 3 EDITORIALI La Cassazione licenzia le riforme Sì all’art. 18 per la Pa. Tutti i danni dell’agenda economica dei giudici L a Corte di cassazione ha deciso “all’esito di una approfondita e condivisa riflessione” che il licenziamento del personale del pubblico impiego non è disciplinato dalla legge Fornero ma dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La legge del 2012 era intervenuta modificando le procedure precedenti il licenziamento dei dipendenti pubblici e specificando le motivazioni necessarie per procedere, allo scopo di equiparare dipendenti pubblici e privati. Ora la magistratura cancella questa riforma, introducendo nuovamente privilegi per i dipendenti pubblici, giustificati forse da qualche cavillo giuridico, ma sostanzialmente ingiusti. Per la verità, se c’era una ragione per ostacolare i licenziamenti per timore che essi non corrispondessero a esigenze aziendali oggettive ma fossero conseguenza di atteggiamenti discriminatori, questo poteva valere soprattutto nelle imprese private, dove in realtà quando fu varato lo Statuto, alla fine degli anni Sessanta, questa pratica era realmente diffusa. Era probabilmente in considerazione anche dell’esistenza e dell’efficacia di queste norme della legge Fornero che quando si è modificata con il Jobs Act la normativa sui licenziamenti per i nuovi assunti, abolendo per questa categoria l’articolo 18, si è esclusa l’applicazione delle nuove norme ai dipendenti pubblici. Ora la sentenza della Cassazione determina una ingiustificata differenzia- zione nei trattamenti che sembra essere un verdetto definitivo sull’inamovibilità dei dipendenti pubblici, che se non è esplicitamente anticostituzionale è comunque contraria al principio generale dell’eguaglianza dei cittadini. Può sembrare meschino attribuire questa decisione semplicemente al fatto che anche i membri della Corte sono dipendenti pubblici, ma comunque il carattere di difesa di vantaggi della “corporazione” di cui fanno parte gli stessi estensori della sentenza lascia perplessi. Più in generale si può osservare che è in corso una specie di azione generalizzata della magistratura per ostacolare le riforme che sono state adottate per fronteggiare gli effetti della crisi. Ci sono state sentenze contro il blocco degli automatismi di rivalutazione delle pensioni più alte, recentemente è stata annullata la riduzione dei ritorni ai comuni, oggi si eliminano le minime modifiche legislative volute dal governo Monti per i dipendenti pubblici. In particolare sulla delicata materia del mercato del lavoro l’azione della magistratura, a cominciare dai “pretori d’assalto” che si vantavano di non aver mai emesso un giudizio favorevole a un datore di lavoro, ha amplificato gli effetti di irrigidimento già presenti nella legislazione, con ripercussioni pesanti e permanenti sulla funzionalità dell’apparato produttivo. Anche così le già deboli propensioni alla crescita vengono raggelate. Gli assassini del Bangladesh Un’intervista descrive lo sprofondamento del paese nell’islamismo L a buona notizia, quanto meno, è che il governo del Bangladesh si è deciso, dopo quasi due anni, a confermare l’evidente: l’ondata di omicidi violenti contro blogger laici, volontari delle ong, tra cui il cooperante italiano Cesare Tavella, figure religiose non islamiche di spicco, è opera del terrorismo islamico. Non era così scontato: dei 39 omicidi in due anni (tre soltanto a giugno), molti erano stati derubricati come opera di gruppi di opposizione da parte di un governo laico ma timoroso di irritare la bellicosa componente islamista della società. Ancora pochi giorni fa, ambiguamente, il ministro della Casa citava come responsabile degli attacchi un complotto internazionale di cui farebbe parte, ovviamente, anche Israele. In un’intervista al New York Times, il capo dell’unità antiterrorismo della polizia del Bangladesh, Monirul Islam, non solo ha cercato di fare chiarezza su alcuni dei principali mandanti degli omicidi, ma ha anche fornito particolari inquietanti sul processo di radicalizzazione in corso nel paese. Secondo Monirul Islam, i due gruppi responsabili degli attacchi sarebbero Ansar al Islam e una formazione meno conosciuta, Jama’atul Mujahideen Bangladesh. Entrambi han- no acquisito molta influenza, reclutando e addestrando miliziani che sono stati poi disposti in varie cellule dormienti. Questa versione ha ancora alcuni punti oscuri, non tiene conto, per esempio, del fatto che lo Stato islamico e al Qaida hanno rivendicato alcuni degli omicidi. Il problema, secondo Monirul Islam, è che gli islamisti stanno riuscendo nel loro intento di progredire la radicalizzazione islamica del paese, retto dal 2009 da un governo che tollera la diversità religiosa. “In generale, la gente pensa che (i terroristi) abbiano fatto la cosa giusta, che non sia ingiustificabile uccidere” i blogger, gli attivisti gay e i sostenitori della laicità. I processi di reclutamento sono iniziati tra i giovani delle università, che sono stati gli assassini della prima vittima, il blogger laico Thaba Baba, e oggi gli islamisti sono riusciti a far passare il loro messaggio in tutto il paese, tanto che il governo adesso è sulla difensiva, ha condannato gli attacchi ma ha accolto parte delle richieste degli estremisti, dichiarando illegale la propaganda del “sesso non naturale”, e secondo gli analisti si trattiene dal colpire più duro i miliziani per timore di una reazione generale. E’ così che un paese sprofonda nell’islamismo. Buongiorno Davigo Wow! Il presidente dell’Anm scopre le nomine lottizzate delle toghe A l Consiglio superiore della magistratura “le nomine non convergono sul candidato migliore, ma temo che la prassi sia quella di uno a me, uno a te e uno a lui”, che è “una cosa orribile”. E’ con queste parole, pronunciate mercoledì sera in un incontro al Palazzo di giustizia di Milano, che il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, pare aver scoperto all’improvviso la prassi lottizzatoria con cui l’organo di autogoverno delle toghe è solito procedere alla nomina dei suoi componenti ai vertici degli uffici giudiziari sparsi nel paese. Per combattere questa degenerazione, secondo Davigo, occorre “pretendere dal Csm la massima trasparenza e, quindi, che venga messo in ‘intranet’ tutto quello che è in valutazione, il fascicolo personale di chi fa domanda”. E non si parli di privacy: “Chi ricopre un incarico pubblico rinunci alla privacy, perché è al buio che avvengono le porcherie e i baratti”. L’improvvisa presa di coscienza di Davigo arriva, forse, in maniera tardiva, se si considera che l’ex componente del pool di Mani pulite è in magistratura dal 1978 e che di nomine, anche nei suoi ri- guardi, da allora ne ha conosciute parecchie, inclusa quella a presidente di sezione di Cassazione ricevuta qualche giorno fa. Il corto circuito, insomma, è servito, ed è stato comprensibilmente colto al volo dalla consigliera laica del Csm, Elisabetta Casellati, che ha chiesto a Davigo di rinunciare alla nomina appena ottenuta, perché “o anche lui ha goduto di questa prassi scandalosa, e al buio sono avvenute, per usare le sue stesse parole, la porcheria e il baratto che lo riguardano, oppure dovrebbe avere il coraggio di fare piena luce sulle nomine che sarebbero state spartite”. Di fronte alle critiche, incluse quelle del Csm – che ha definito le parole di Davigo “gravi, scomposte e sorprendenti” – il presidente dell’Anm ha rettificato le sue dichiarazioni, ma solo precisando che si riferiva alle cosiddette “nomine a pacchetto”, anche se a rigor di logica nulla esclude che gli accordi spartitori tra le correnti possano concretizzarsi in deliberazioni del Csm distinte e separate nel tempo. La critica di fondo, dunque, rimane, e siamo sicuri che a tali “porcherie” Davigo ora intenderà subito porre rimedio. IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 10 GIUGNO 2016 E se Google&Co. spostassero gli algoritmi su un presidente? LA SILICON VALLEY È CAPACE DI PLASMARE IL NOSTRO MONDO. LE ACCUSE DI ASSANGE E LO SCANDALO DEL “BIAS” DI FACEBOOK Roma. E se Google o Facebook decidessero di schierarsi alle prossime elezioni americane? Ora che il circo elettorale entra nel vivo, con i candidati dei due partiti principali ormai definiti, questa domanda non è più impensabile. Cosa succederebbe se i giganti della Silicon Valley decidessero di schierarsi veramente, non con i singoli endorsement o le singole donazioni, pure milionarie, ai vari candidati, ma spostando il peso dei loro algoritmi su questo o quell’aspirante presidente? Potrebbero contribuire a cambiare la storia d’America, hanno il potere di farlo? Quel genio di Scott Adams, autore delle vignette di Dilbert, ha già inquadrato perfettamente il problema. In una striscia recente, Dilbert partecipa a una riunione della compagnia per cui lavora. “Abbiamo vinto un contratto per scrivere il software delle macchine per votare”, dice il capo, e Dilbert risponde subito: “Chi vuoi che diventi presidente?”. Il capo protesta, “stai insinuando che vuoi truccare il sistema?”. Dilbert si difende: “Non commetterei mai un crimine solo perché mi avvantaggia ed è impossibile farsi scoprire”. E’ difficile crederlo, o forse è fin troppo prevedibile, ma conversazioni simili, negli uffici dei giganti della Silicon Valley, sono avvenute per davvero. E’ successo ad aprile, per esempio, quando il sito Gizmodo ha ottenuto i risultati di un sondaggio interno ai dipendenti di Facebook per decidere le questioni di rilievo da sottoporre nelle riunioni con il ceo Mark Zuckerberg. Tra le questioni messe a tema si leggeva: “Quale responsabilità ha Facebook per evitare che Trump diventi presidente nel 2017?”. Nel sondaggio interno la domanda è stata scartata, ma è un sintomo di quanto tutti, dalla dirigenza ai dipendenti, sappiano dove potrebbe arrivare il potere di Facebook. Il sospetto è stato riproposto questa settimana da Julian Assange di Wikileaks, che intervenendo in video a una conferenza a Mosca a cui partecipava anche il presidente Putin ha accusato Google di fare campagna “direttamente” per Hillary Clinton. In realtà, Assange non si riferiva a Google, ma a un’azienda terza fondata dal suo presidente Eric Schmidt che, pubblicamente e con regolare contratto, fornisce servizi digitali alla campagna di Clinton. Ma tanto è bastato per far tornare a circolare i sospetti. Sia chiaro: non ci sono prove che Google, Facebook o altri abbiano influenzato elezioni o altri momenti della vita pubblica di qualsivoglia paese. Ma il fatto stesso che abbiano le potenzialità per farlo è un fattore di cui non si può non tenere conto. In una ricerca pubblicata l’anno scorso su Proceedings of the National Academy of Sciences, Robert Epstein e Ronald Robert- son dell’American Institute for Behavioral Research and Technology hanno calcolato, per esempio, che manipolando il proprio algoritmo Google può convincere “facilmente” circa il 20 per cento degli elettori indecisi a spostarsi su un determinato candidato. “Google ora ha il potere di ribaltare il 25 per cen- to delle elezioni nel mondo senza che nessuno se ne accorga”, ha scritto Epstein. Facebook invece ha fatto esperimenti su se stesso quando, alle elezioni americane di midterm del 2010, decise di testare il suo potere mostrando a 61 milioni di utenti dei messaggi che surrettiziamente li incitavano ad andare a votare (per nessun candidato in particolare: lo scopo era aumentare la partecipazione politica). Il social network calcolò che, complessivamente, 340 mila persone si lasciarono convincere. Facendo una proporzione priva di valore scientifico ma indicativa degli ordini di misura, se Facebook applicasse queste strategie a tutti i suoi 1,65 miliardi di utenti attivi riuscirebbe a mobilitare oltre 9 milioni di elettori. Abbastanza per far vincere un’elezione se i messaggi mostrati fossero a favore di un candidato specifico – e rispetto a sei anni fa, l’abilità di penetrazione e la tecnologia del social sono migliorate. Una questione di fiducia I dati dicono che tendiamo a fidarci dei social media più che di ogni altra fonte di informazione. Secondo un sondaggio Pew, citato da Robert Schlesinger su U.S. News, il 62 per cento degli americani ottiene le informazioni dai social media, e una percentuale simile ritiene che queste informazioni siano imparziali. Al contrario, i tassi di fiducia nei media tradizionali sono da anni in caduta libera: per ottenere un’opinione di cui fidarsi, l’utente medio preferisce rivolgersi a Facebook piuttosto che al New York Times. Questa fiducia è dovuta in buona parte alla spersonalizzazione dei social media. Siamo convinti che dietro ai risultati di ricerca di Google e agli articoli sulla bacheca di Facebook agisca un algoritmo freddo, un cervello digitale che distribuisce meriti e punizioni senza alcuna parzialità. Questa concezione si scontra contro due problemi. Il primo è che l’algoritmo, paradossalmente, è più umano di quello che crediamo, come ha mostrato il piccolo (e ridimensionato) scandalo della sezione “Trending topics” di Facebook, gestita da redattori in carne e ossa che avevano pieno giudizio editoriale (tendenzialmente liberal) sulle news da proporre agli utenti. Il secondo è che l’algoritmo risponde a parametri che sono modificati in continuazione: quello di Google, dice l’azienda stessa, è riaggiustato 600 volte in un solo anno. E cambiare l’algoritmo significa cambiare il nostro modo di pensare. “Google (e, aggiungiamo noi, Facebook) è diventato la porta d’ingresso praticamente per tutta la conoscenza umana”, ha scritto Epstein in un articolo recente su Aeon. Questo potere di persuasione, che Epstein e il suo socio, riferendosi a Google, hanno battezzato “Search Engine Manipulation Effect”, non si limita soltanto al campo politico, anzi. Per ora i teorici di internet hanno notato che i social network agiscono per “bolle”: gli algoritmi tendono a mostrarci opinioni simili alle nostre, creano un’immagine del mondo che vorremmo. Il Wall Street Journal di recente ha mostrato in maniera plastica che la bacheca di un elettore progressista e di uno conservatore cambiano drasticamente: nella prima Clinton, Sanders e Planned Parenthood la fanno da padroni, nella seconda è tutto un Trump e Breitbart. L’algoritmo modella il mondo digitale a nostra immagine e somiglianza. Ma cosa succederebbe se qualcuno decidesse di modellare noi? E’ un fenomeno quasi inedito nella storia democratica dell’occidente: mai prima tanta fiducia era stata riposta in enti con così tanto potere. L’unico precedente, forse, risale al lontano 1876, quando Western Union, che allora deteneva il monopolio delle linee del telegrafo negli Stati Uniti, decise di usare la sua influenza per far eleggere presidente Rutherford Hayes. Ci riuscì. Twitter @eugenio_cau Draghi smonta la favola: gli immigrati non curano la piaga demografica Roma. “Neppure la più alta immigrazione attesa sarà probabilmente in grado di compensare il declino naturale della popolazione della zona euro”. Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, parlando ieri davanti alla platea di banchieri e uomini d’affari del Brussels Economic Forum della Commissione europea ha così respinto la vulgata secondo la quale un aumento della popolazione extra-europea può da sola contrastare l’endemico declino demografico continentale. “Le politiche pubbliche – ha detto Draghi – possono certamente temperare tali effetti accogliendo e integrando gli immigrati ma dal momento che non possono fare molto per intervenire nei trend demografici, ne consegue che aumentare la crescita nel lungo termine richiede un aumento della produttività”. Draghi dunque sostiene che l’immigrazione di per sé non può risolvere il problema e offre una visione differente da quella proposta in passato dal suo vice, Vítor Constâncio. Il vicepresidente della Bce, un ex politico socialista portoghese, aveva detto che per sopperire alla mancanza di nascite (“un suici- dio demografico”) c’è bisogno di immigrati. Tuttavia l’apporto di nuova popolazione non può essere una panacea, come ha avvertito l’Economist ridimensionando i propositi buonisti tedeschi in fatto di accoglienza dei rifugiati. Secondo gli ultimi calcoli del demografo dell’Università di Milano-Bicocca Gian Carlo Blangiardo, in uno scenario che contempla l’assenza di migrazioni la popolazione dell’Unione europea a 28 membri calerebbe tra il 2015 e il 2050 di 40 milioni di abitanti, da 507 a 466. La forza lavoro (la popolazione in età 20-64) calerebbe di 70 milioni, da 306 a 233. Le stime, ripetiamo, si basano sullo scenario di assenza di immigrazione. E’ dunque chiaro che recuperare un “gap” di 70 milioni di persone prodotto in 35 anni significa avere un apporto netto regolare di popolazione di 2 milioni ogni anno in aggiunta a quella esistente. Un numero enorme. E’ perciò improprio ritenere che il declino demografico inerziale d’Europa sia risolvibile con politiche d’accoglienza spinte: nemmeno quelle basterebbero. Inoltre, anche se l’immigrazione apporta popolazione giovane non vuol dire che gli immigrati residenti conservino una “cultura della fecondità” di cui sono comunemente ritenuti portatori. In Italia, il secondo paese più vecchio al mondo, la popolazione immigrata è passata da una media di 2,6 figli per donna nel 2008 a una media di 1,9 nel 2015. “Hanno imparato in 6-7 anni a fare quello che gli italiani hanno fatto in 14-15”, dice Blangiardo. L’invecchiamento della popolazione e la cronica bassa natalità allarma politici, economisti, autorità religiose. E anche dal punto di vista di un banchiere centrale i motivi di preoccupazione abbondano. La Banca dei regolamenti internazionali (Bri), che opera da Banca centrale delle Banche centrali, ha provato la correlazione tra l’aumento della popolazione e la bassa inflazione nel paper “Can demography affect inflation and monetary policy?” del 2015. Lo studio, condotto analizzando 22 paesi nel periodo 1955-2010, afferma che l’aumento dell’età della popolazione ha un certo effetto inflazionistico, accelera la velocità di circolazione della moneta, contrariamente a quanto suggerirebbe la visione prevalente o, ad esempio, il caso del Giappone; pae- se più vecchio del pianeta e in deflazione da oltre un decennio. “Una quota maggiore di persone a carico (cioè giovani e vecchi) è correlato con l’inflazione più alta, mentre una quota maggiore delle coorti in età lavorativa è correlata con l’inflazione più bassa”, dice la Bri che però sottopone le sue analisi a ulteriori approfondimenti e lascia aperto il dibattito su quali siano le politiche più adatte, per quanto possibile, a gestire il fenomeno attraverso le leve monetarie. Una cosa però è chiara: l’invecchiamento della popolazione potrebbe limitare l’efficacia del programma di stimoli non convenzionali della Bce, in primis il Quantitative easing, perché si crea un ulteriore impedimento nel canale di trasmissione tra le banche e l’economia reale. Le persone anziane sono meno disposte a indebitarsi mentre i giovani europei, che in teoria dovrebbero essere più disposti a contrarre prestiti per finanziare progetti futuri, tipo mettere su famiglia, sono una piccola porzione di popolazione con un alto tasso di disoccupazione che decide di fare figli sempre più tardi. Un circolo vizioso. (a.bram.) In Turchia ora si accusa Berlino per gli attentati di Istanbul Roma. “E’ un lavoro tedesco”. Questo il titolo, a caratteri cubitali, sulla prima pagina del quotidiano filogovernativo turco Günes. Il riferimento è al terribile attentaDI MARIANO GIUSTINO to con autobomba che la mattina del 7 giugno scorso ha provocato la morte di 11 persone nel centralissimo quartiere di Vezneciler di Istanbul. Secondo il quotidiano pro Erdogan, dietro il tragico attentato vi sarebbe la mano della Germania. Sempre in prima pagina, sono riportati pesanti fendenti a Berlino, accusata di “aver sempre nutrito l’organizzazione terroristica curda Pkk” e di aver dato totale appoggio alle proteste di Gezi che il presidente turco Erdo an ha sempre considerato parte di una trama mirante a rovesciare il suo governo. “Questo è opera della Germania”, si legge in un occhiello dello stesso quotidiano Günes. E ancora: “La Germania ha cercato di C’ era una volta New York. Gli Stuyvesant, i Vanderbilt e i Roosevelt. La sala da ballo di Mrs Astor, “quella traditrice di Edith Wharton”, Zelda e Scott, Dottie Parker, “lingua e penna affilati come rasoi”, El Morocco, Hildegarde che si esibiva e Cary Grant inginocchiato ai suoi piedi. La Quinta Strada, Tiffany, le prime al Met. La New York “dei teatri, dei cinema, dei libri; la città del New Yorker, di Vanity Fair e di Vogue”. La New York dei balli e dei pranzi di beneficenza, degli attici e delle suite dei grandi alberghi. E c’erano una volta Truman Capote e i suoi cigni: Babe Paley, Slim Hawks, Marella Agnelli, Gloria Guinness, C. Z. Guest e Pamela Churchill (“non un gruppetto di debuttanti, di sicuro”). Si ritrovavano tutti a pranzo, il momento clou della giornata: “Il motivo per cui alzarsi al mattino, andare dal parrucchiere, comprarsi l’ultimo Givenchy o il nuovo Balenciaga; la ricompensa per la casa perfetta, i figli perfetti, il marito perfetto”. Si andava al Colony Club, al Quo Vadis, ma soprattutto alla Côte Basque, dove, nei locali che furono di Le Pavillon, il restaurateur Henri Soulé, esponeva le signore dell’alta società e, tra porcellane, argenterie e fiori freschi, i Cigni, spiluccando prelibati piatti francesi e bevendo Cristal di Roederer, cincischiavano, spettegolavano ma, soprattutto, si esibivano (“perché, ovviamente, per indossare un certo tipo di abiti e possedere il prestigio necessa- impedire la costruzione del terzo aeroporto e ha riconosciuto il genocidio degli armeni. E si pensa che vi sia la Germania dietro l’organizzazione terroristica che ha compiuto l’attentato del 7 giugno a Istanbul”. Gia durante il suo recente viaggio in Africa, Erdogan aveva dichiarato ai giornalisti che l’approvazione al Bundestag della risoluzione sul riconoscimento dei massacri degli armeni avvenuti tra il 1915-’16 sotto l’Impero ottomano era stato “frutto di una mente superiore”. Usando toni complottistici, Erdogan accusa senza mezzi termini il governo tedesco di compiere operazioni che hanno lo scopo di destabilizzare il suo governo, manovrando oppositori politici, giornalisti e personaggi influenti dei media turchi. Egli fa riferimento in particolare ad Aydin Dogan, proprie- LIBRI Melanie Benjamin I CIGNI DELLA QUINTA STRADA Neri Pozza, 368 pp., 18 euro rio per essere benvenuti al Pavillon non ci si poteva concedere il lusso di mangiare sul serio”). Fu nel 1965 che il loro splendore raggiunse l’apice e, mentre l’America iniziava a bombardare il Vietnam e Malcolm X moriva assassinato, i Cigni passavano il tempo azzuffandosi cercando di ricordare chi tra loro per prima avesse conosciuto quello scrittore, piccolo di statura, omosessuale e con la bionda frangetta corta che, all’improvviso, aveva saputo distrarle dalle loro vite deprimenti e solitarie. Melanie Benjamin la chiama “la magia di Truman”: le divertiva, le faceva sentire più belle, ascoltava i loro segreti, le rendeva uniche e straordinarie e loro, in cambio, si facevano in quattro per rendersi utili, “sostenitrici delle arti”. Gli donarono nuovi guardaroba e vacanze in yacht a zonzo per il Mediterraneo ma, soprattutto, gli offrirono tutto il mondo al quale appartenevano. Quando, nel 1966, fu pubblica- tario del maggior gruppo media del paese e del prestigioso quotidiano liberal Hürriyet, il più letto nel paese. Dogan è accusato dal presidente turco di essere al servizio dei tedeschi attraverso gli editorialisti Ahmet Hakan e Ertugrul Ozkök, definiti dal presidente come “camerieri” del prestigioso gruppo mediatico. Per Erdogan non vi sono dubbi: tutti i media del gruppo Dogan, critici nei confronti del suo governo, sono definiti da lui come “un problema molto grave per la Turchia, almeno quanto il terrorismo”. Egli invoca contro di essi l’intervento della magistratura, sostiene infatti che “i giudici dovrebbero occuparsi dei media di Dogan così come fanno col Pkk e con la comunità di Fethüllah Gülen”, anch’essa considerata un’organizzazione terroristica mirante a rovesciato “A sangue freddo”, la “non fiction novel” che vendette più di 300 mila copie e restò nell’elenco dei bestseller del “New York Times” per trentasette settimane, Truman Capote divenne ricco e famoso. Come i suoi Cigni. E siccome “Subito dopo le parate, le statue e i parchi, New York amava le feste” per consacrare il suo successo organizzò il “Ballo in bianco e nero”. Per tutta l’estate Babe, Marella, Slim, Gloria e C. Z lo aiutarono nei preparativi mentre lui, una “piuma intellettuale sui loro cappelli ingioiellati”, si dedicò con lo stesso impegno con cui scriveva, a redigere la lista degli invitati (“doveva essere una combinazione unica di alta società, aristocrazia del denaro, uomini rispettati e personaggi nuovi ed entusiasmanti”). Melanie Benjamin racconta – tra realtà e immaginazione – cosa è successo in quegli anni, ma soprattutto “quale prezzo avevano dovuto pagare per le vite che conducevano. Perché c’è sempre un prezzo da pagare. Specialmente nelle favole”. Nel 1975 infatti tutto cambiò: Capote pubblicò sull’Esquire “La Côte Basque 1965” (terzo capitolo di “Preghiere esaudite”), in cui mise a nudo i suoi Cigni, rivelando i loro segreti soprattutto quelli di Babe Paley, la preferita, l’unica che forse amò sinceramente. Ne raccontò ogni cosa: i vestiti, i tradimenti, i trucchi, le bugie. A New York scoppiò il pandemonio. I Cigni lo misero al bando. Lui li rese eterni. re il governo del partito Akp da lui fondato. L’opposizione in Turchia, in particolare quella filocurda e di sinistra libertaria del Partito democratico dei popoli (Hdp), è sempre più preoccupata che la crisi con la Germania possa contribuire ad alimentare la retorica antioccidentale di Erdogan, utilizzata per mantenere un elevato sostegno pubblico alla sua persona. Da qualche tempo Erdogan nei suoi comizi ha perfino utilizzato apertamente espressioni di disprezzo per i valori universali della democrazia e delle libertà, da lui definiti “valori occidentali estranei alla cultura e alla storia turca”. Come ha osservato recentemente Aydan Ozoguz, il commissario tedesco per l’integrazione, sul New York Times, “Erdogan e i turchi ultranazionalisti otterranno una spinta enorme da questa crisi. “Useranno la risoluzione del Bundestag come prova di un ulteriore attacco da parte dell’occidente alla Turchia”. IL FOGLIO quotidiano Direttore Responsabile: Claudio Cerasa Condirettore: Alessandro Giuli Vicedirettori: Maurizio Crippa e Marco Valerio Lo Prete Coordinamento: Piero Vietti Redazione: Giovanni Battistuzzi, Annalena Benini, Alberto Brambilla, Eugenio Cau, Mattia Ferraresi, Luca Gambardella, Matteo Matzuzzi, Giulio Meotti, Salvatore Merlo, Paola Peduzzi, Giulia Pompili, Daniele Raineri, Marianna Rizzini. Giuseppe Sottile (responsabile dell’inserto del sabato) Editore: Il Foglio Quotidiano società cooperativa Via Carroccio 12 - 20123 Milano Tel. 02/771295.1 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 Presidente: Giuliano Ferrara Redazione Roma: Lungotevere Raffaello Sanzio 8/c 00153 Roma - Tel. 06.589090.1 - Fax 06.58335499 Registrazione Tribunale di Milano n. 611 del 7/12/1995 Tipografie Stampa quotidiana srl - Loc. colle Marcangeli - 67063 Oricola (Aq) Qualiprinters srl - Via Enrico Mattei, 2 - Villasanta (Mb) Distribuzione: Press-di Distribuzione Stampa e Multimedia S.r.l. - Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (Mi) Concessionaria per la raccolta di pubblicità: A. MANZONI & C. SpA – Via Nervesa, 21 – 20139 Milano tel. 02.574941 Pubblicità legale: Il Sole 24 Ore Spa System Via Monterosa 91 - 20149 Milano, Tel. 02.30223594 e-mail: [email protected] Copia Euro 1,50 Arretrati Euro 3,00+ Sped. Post. ISSN 1128 - 6164 www.ilfoglio.it e-mail: [email protected] ANNO XXI NUMERO 136 - PAG 4 La Giornata * * * In Italia RENZI FISCHIATO: “RIVENDICO IL BONUS DI 80 EURO”. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, è stato fischiato durante il suo intervento all’assemblea annuale di Confcommercio, mentre parlava del bonus di 80 euro ai lavoratori dipendenti introdotto dal governo: “Che non fosse apprezzato da voi lo sapevamo da tempo – ha replicato il premier – ma che fosse una misura di giustizia sociale verso gente che non guadagna 1.500 euro al mese lo rivendico con forza”. * * * Silvio Berlusconi sarà operato al cuore la prossima settimana per la sostituzione della valvola aortica. Il suo medico personale, Alberto Zangrillo, ha detto che il leader di Forza Italia – ricoverato al San Raffaele – soffre di “un’insufficienza aortica di grado severo” e “ha rischiato di morire”. (articolo in prima pagina) * * * Aumentano gli occupati. L’Istat ha reso noto che nel primo trimestre del 2016, l’occupazione è cresciuta dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente, con 242 mila occupati in più su base annua (+1,1 per cento). Aumentano i dipendenti a tempo indeterminato: +341 mila in un anno. Per il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, “l’Italia sta gradualmente ripartendo”, ma ora è cruciale proseguire “con le riforme per la crescita e l’ammodernamento del paese”. * * * Agli statali si applica l’articolo 18. La Corte di Cassazione ha affermato in una sentenza che il licenziamento del personale del pubblico impiego non è disciplinato dalla legge Fornero, bensì dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. (editoriale a pagina tre) * * * ArcelorMittal verso offerta per Ilva. Il colosso industriale lussemburghese, leader nel settore dell’acciaio, ha confermato che intende presentare un’offerta insieme al gruppo Marcegaglia per l’acquisto dell’azienda siderurgica italiana. * * * Borsa di Milano. FtseMib -0,81 per cento. Differenziale tra Btp e Bund a 134. L’euro chiude in calo a 1,132 sul dollaro. Nel mondo BARACK OBAMA HA DATO IL SUO ENDORSEMENT A HILLARY CLINTON. “Non penso che sia mai stato qualcuno così tanto preparato per essere presidente”, ha detto ieri. Poco prima, il presidente aveva visto il candidato socialista Bernie Sanders, che correrà anche per l’ultima primaria del ciclo, quella di Washington, ma presto si incontrerà con Clinton per discutere su come “lavorare insieme” per sconfiggere Donald Trump. Clinton ha già ottenuto un numero di delegati sufficienti per assicurarsi la nomination. * * * Israele aumenta le truppe in Cisgiordania dopo l’attentato terroristico a Tel Aviv che mercoledì sera ha provocato la morte di quattro ebrei israeliani. Lo spostamento riguarda due battaglioni. Le autorità hanno inoltre sospeso 83 mila permessi concessi ai palestinesi della Cisgiordania per attraversare il confine. * * * Le forze libiche hanno conquistato Sirte. Lo comunica lo stesso comando dei combattenti vicini al governo di Tripoli, secondo cui lo Stato islamico sarebbe stato cacciato dalle sue ultime basi nel centro della città. Se i report si rivelassero veri, il gruppo terroristico avrebbe perso tutte le sue conquiste territoriali nel paese. Due attacchi esplosivi, uno provocato da un’autobomba e l’altro da un attentatore suicida, hanno fatto almeno 28 morti ieri a Baghdad. Colpiti una strada commerciale e un checkpoint dell’esercito. Lo Stato islamico ha rivendicato gli attacchi. IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 10 GIUGNO 2016 Produttività, fate presto! Che ci fa Fassina con Salvini? Al direttore - Fassina con chi? Giuseppe De Filippi Con Raggi, con Di Maio e con Salvini. Forse. Mamma mia. Auguri. Al direttore - L’ottimo Antonio Gurrado che scrive nella sua rubrica “Bandiera Bianca” sul sito del Foglio “la religione non è né un parere né un sentimento ma è quod religat, ossia ciò che da millenni lega gli individui in società”, si chiede “quante decine” di cristiani del genere “non intrinsecamente personale” (bellissimo) si possano trovare oggi, in Europa. Esagera, Antonio Gurrado. Qualche decina di migliaia di cristiani la si trova ancora, capace di rispondere alla domanda: “Quando cade la Pentecoste”. Molti di meno, alla successiva: “Chi è Nicodemo”. Scendiamo al centinaio con la terza e ultima: “Chi ha scritto gli Atti degli Apostoli”. A meno che Gurrado, con “quante decine”, non volesse riferirsi al clero. Gaetano Tursi Al direttore - La contrattazione decentrata, quindi a livello di singola azienda, è semplicemente una cosa intelligente da fare e non da oggi: sinistra e destra, in questo campo, sono connotazioni di “contorno” in una tavola di dibattito ma non colgono l’essenza del cambiamento in atto negli ultimi 20 anni e i cui prodromi si manifestano negli anni 90: globalizzazione e mercato dei servizi/prodotti, rap- porto clienti/fornitori,taglio della verticalizzazione delle strutture organizzative e sviluppo orizzontale delle stesse, digitalizzazione e “internet delle cose 4.0” di oggi. Education e competenza a tutti i livelli della struttura aziendale (privata e pubblica) costituiscono un valore necessario ai fini di un miglioramento della produttività e quindi nello scambio lavoro/remunerazione: il “Job grading” che si “disegnava” negli anni 90 e primi 2000 non è certo quello di oggi per la medesima azienda; di converso il necessario cambiamento di education e competenza, allo stesso modo degli operatori rappresentati, dei sindacati e dei gestori delle aziende. Lo studio citato di Ichino, riprende una vecchissima diatriba che, per sintesi, chiamerò “gabbie salariali”: se non si risolvono i problemi esplicitati sopra, e per il sud, allo sviluppo logistico (l’Inghilterra ha un budget di 30 miliardi di sterline per questo) i salari legati al “territorio” diventano diversivi politici ma di una politica da terzo mondo. Massimo Costantini Alta Società Uscirà in autunno un libro su Mario d’Urso, con articoli dei suoi più cari amici ed estimatori. Lo cura il nipote Serra di Cassano. Sarà un volume da non perdere. Come direbbe qualcuno, FATE PRESTO! Al direttore - Il suo Foglio e pochi altri hanno dedicato attenzione alla crisi umanitaria e politica in un paese vicino a Italia ed Europa come il Venezuela. Perciò le segnalo che ieri il Parlamento europeo, approvando una risoluzione ad hoc sostenuta dai maggiori gruppi politici, ha realizzato un balzo in avanti. Un gesto diplomatico forte. Al presidente Maduro chiediamo “urgenti riforme economiche” da realizzare insieme al Parlamento (dove l’opposizione ha conquistato il 6 dicembre la maggioranza dei due terzi e la possibilità di convocare un referendum per porre fine al mandato presidenziale). E’ la quarta risoluzione sul Venezuela dal febbraio 2014, ma presenta due novità. La prima: non ci focalizziamo più soltanto sulla difesa dei diritti umani, pure fondamentali e infatti reclamiamo il rilascio immediato dei circa duemila prigionieri politici, ma sull’emergenza umanitaria in un paese che pur essendo produttore di petrolio, soffre la scarsità di cibo e medicinali. Le cronache ci dicono che alcuni venezuelani curano per disperazione l’ipertensione con l’aglio e invece dell’insulina meditano il ricorso alle foglie di bambù. La mortalità negli ospedali è cresciuta in un anno del 31 per cento, quella infantile si è centuplicata rispetto al 2012 (dallo 0,02 al 2 per cento) e quella materna quintuplicata in 3 anni. Un misto di residui ideologici e malaf- fare ha fatto piombare uno dei pilastri dell’America latina (nostri cugini) in un incubo. La risoluzione chiede all’Alto rappresentante Federica Mogherini un piano di assistenza, e al presidente Maduro di accettare gli aiuti. La seconda novità è politica. Al governo di Caracas chiediamo di rispettare la Costituzione, in particolare i meccanismi legali dell’impeachment con la possibile revoca del mandato presidenziale nel 2016 per via democratica. Se l’inflazione, anche sui beni elementari, supera ormai il 700 per cento annuo secondo il Fondo monetario internazionale, e se il Venezuela ha subìto nel 2015 la terza peggiore recessione mondiale con un crollo del 18 per cento di pil, pane e medicine sono la frontiera che precede finanche la libertà. Nessuna dittatura o utopia in Terra, per quanto sostenuta in Italia da minoranze di nostalgici terzomondisti, può mascherare il disastro di un paese ostaggio di ideologismo e corruzione. Una Europa che rispetti se stessa e non voglia abdicare al proprio ruolo di attore diplomatico globale deve prendersi cura del paradosso venezuelano. E, soprattutto, dei venezuelani. Antonio Tajani, vicepresidente del Parlamento europeo con delega all’America del sud La posta va inviata a [email protected] (10 righe, non più di 600 battute) L’asse franco-americano si ricompatta su Raqqa. La domanda sul dopo (segue dalla prima pagina) E’ la prima volta che il ministero della Difesa francese conferma la presenza delle sue forze speciali in territorio siriano (non ha precisato il numero degli uomini impiegati): fino a ora era noto il dispiegamento francese soltanto nel Kurdistan iracheno (circa 150 uomini). “L’offensiva di Manbij è sostenuta da molti paesi, tra cui la Francia”, hanno detto alla France Presse fonti dell’entourage del ministro della Difesa, Jean-Yves Le Drian, che già venerdì, in un’intervista televisiva, aveva spiegato che il sostegno francese consiste in “armi, presenza aerea e consulenza strategica”. Washington, che ha già testimoniato il suo coinvolgimento nell’operazione di Raqqa con le immagini sul fronte pubblicate nelle settimane scorse, vuole riprendere Manbij per impedire allo Stato islamico di avere accesso a quel confine che serve per approvvigionamenti di armi e uomini e anche per far uscire jihadisti diretti in Europa. Secondo il Syrian Observatory for Human Rights, le forze dell’Sdf hanno ripreso il controllo dell’autostrada che porta a Manbij: stando alle stime di Washington avrebbero perso già alcune decine di uomini (almeno 100 i feriti) nell’operazione. Il coinvolgimento della Francia segna un’importante evoluzione della missione internazionale contro lo Stato islamico, a lungo caratterizzata da cautele e incertezze. Le relazioni tra Parigi e Washington sulla questione siriana avevano subìto un enorme raffreddamento all’inizio della crisi siriana, quando Barack Obama annunciò, nel 2013, un intervento contro il regime di Bashar el Assad, che aveva violato “la linea rossa” utilizzando armi chimiche contro il suo popolo, che poi non fece. Nelle 36 ore in cui il blitz pareva imminente, il presidente francese, François Hollande, aveva già fatto scaldare i motori dei suoi aerei da guerra, ma ricevette una telefonata notturna da Obama in cui gli annunciò: ferma tutto, voglio chiedere il voto al Congresso, l’operazione è rimandata. Hollande, che si era speso molto diplomaticamente per riconoscere le forze d’opposizione al regime di Assad e aveva più volte chiesto la dipartita del dittatore, rimase di sasso, e soltanto dopo gli attentati a Parigi dello scorso novembre ha deciso di rimettere a disposizione le sue forze (aeree) in Siria. Ora americani e francesi si riuniscono per la missione più importante (e attesa da tempo): espugnare Raqqa, assieme alle Sdf sostenute e armate dai paesi occidentali, con il sostegno sempre presente dei curdi siriani. Se sul futuro dell’offensiva – a chi va Raqqa una volta che è liberata? – ci sono molte perplessità e al momento non è noto se sia pronto un piano, la coalizione internazionale a guida americana non è mai apparsa tanto determinata ad attaccare frontalmente lo Stato islamico. Confermata la presenza dei francesi, il messaggio è chiaro anche per il regime di Damasco: il rais Assad ha annunciato che riprenderà “ogni centimetro” di Siria, ma è probabile che non sia questo il programma dell’alleanza occidentale, considerato che anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu, in visita a Mosca negli scorsi giorni per te- nere aperto il canale di collaborazione con la Russia, ha ribadito: “Non vedo Assad nel futuro della Siria”. Poiché i tempi sono importanti in una guerra che ha deciso di rinunciare all’urgenza, dopo mesi di intervento militare russo (dal settembre del 2015) e un annuncio di ritiro delle truppe da parte di Vladimir Putin, dopo la presa di Palmira, anche le forze di Damasco con la copertura di Mosca hanno deciso – proprio ora – di dirigersi verso Raqqa. La via d’accesso è diversa da quella americana, le notizie sono un po’ confuse, e fino a questo momento Washington ha negato ogni coordinamento con le forze russe. Gli osservatori spiegano che le due offensive alternative sono volte, appunto, al dopo: chi avrà la sovranità su Raqqa? La buona notizia è che lo Stato islamico potrebbe davvero subire una sconfitta importante, quella meno buona è che c’è voluta una competizione internazionale di potere, una gara, per andare finalmente a liberare Raqqa. Paola Peduzzi Mercoledì 15 giugno ore 15.30 ARA PACIS Lungotevere in Augusta (angolo via Tomacelli) Roma AI CONFINI DELLA GIUSTIZIA Che cos’è il giudice terzo? Quali sono gli interventi sulla giustizia che possono sbloccare il paese? * * * Il Foglio organizza un grande evento per discuterne a Roma, all’Ara Pacis, il prossimo 15 giugno, alle ore 15.30 * * * Interverranno il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, il primo presidente di Cassazione Giovanni Canzio, il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, il procuratore della Repubblica a Torino Armando Spataro La Francia condanna Uber. Il tribunale di Parigi ha condannato la società californiana a 800 mila euro di multa per il suo servizio UberPop, sospeso in Francia dal luglio 2015 e definito dalla corte “un sistema illegale”. Multati anche il direttore di Uber Europa e quello di Uber Francia. Al Shabaab colpisce in Somalia. Il gruppo terroristico islamista ha attaccato ieri una base dell’Unione africana occupata da forze etiopi, uccidendo, dicono, 43 soldati. La missione ha negato le perdite e detto che nello scontro centinaia di miliziani sono stati uccisi. IL RIEMPITIVO di Pietrangelo Buttafuoco Incorreggibile Matteo: dopo la ruspa, il lanciafiamme. Così ha detto: “Entreremo col lanciafiamme”. Tutto lo sforzo per avvicinarsi ai moderati, tutta la fatica per accreditarsi leader della maggioranza liberal-democratica viene vanificata da questa sparata. L’acqua – si sa – non gli va per l’orto: a Roma è andata male, a Milano il solito Silvio Berlusconi s’è preso la rivincita. Ed è proprio incorreggibile, Salvini. Dopo la ruspa, se ne viene dunque col lanciafiamme. Cosa dobbiamo vedere ancora, che si faccia una felpa – in collegamento tivù, contro i centri sociali armati di idrante – col suo nuovo motto: lanciafiamme? Contrordine, compagni: il lanciafiamme apparso ieri in tutti i giornali e rilanciato in tutte le televisioni non arriva dall’armamentario di Salvini, è, al contrario, la solita #voltabuona. Orsù, twittate: #lanciafiamme. Modera Claudio Cerasa direttore de Posti limitati. Ingresso libero fino a esaurimento. L’iniziativa è realizzata grazie al sostegno di Con la collaborazione di Piano con l’ordalia Perché in vista del referendum di ottobre i dati economici peseranno più dei ballottaggi S trane elezioni, quelle in cui sotto la vernice delle parole di rito s’affaccia la ruggine di una sconfitta corale. Abituati come siamo alle rivendicazioni ostinate di successi più o meno veritieri, scopriamo ora che alle comunali di domenica scorsa tutti i partiti hanno trovato ragioni per dolersi. Il Partito democratico l’abbiamo auscultato in diretta con il segretario Matteo Renzi: siamo i primi ma non ci basta, dice lui. Traduzione: arretramento omogeneo (peggio al sud), ritirate simbolicamente rilevanti nelle città principali, su tutte la Capitale, un senso di generalizzata irrequietezza che va ben oltre i richiami dei gufi e le malignità della minoranza interna. Dei Cinque stelle si dice che sono bravi nell’assedio delle casematte più sensibili (Roma e Torino) ma perdono consensi un po’ ovunque. Forza Italia ha di che consolarsi oltre la linea gotica, può premere per conquistare Milano epperò patisce molto la concorrenza della Lega salviniana ed è in via di liquefazione da Roma in giù. A sua volta la Lega delle destre non sfonda e anzi si consegna a un certo velleitarismo parolaio, portandosi dietro i sogni della pur valorosa Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia). Il resto sono dettagli marginalissimi (tipo la sinistra pulviscolare). E insomma, sebbene questo sia tecnicamente impossibile, vincitori rotondi e scintillanti stavolta non ce ne sono. Il che induce il variopinto fronte del TTR (Tutto Tranne Renzi) a ricercare un che di unitario, come dimostrano le profferte di voti per i ballottaggi che viaggiano lungo l’asse Salvini-Grillo. S’indovina un tramestio febbrile di minoranze a caccia di scalpo. Il destinatario della caccia selvaggia ha già risposto che eventuali rovesci a Milano e Roma non lo costringeranno a porgere il collo al nemico. Ha ragione lui, Matteo Renzi, e sono illusi i sedicenti cacciatori. Certo l’ordalia renziana è iniziata, il fatto è innegabile: per la prima volta, dacché governa, emergono crepe sulle mura portanti della sua politica e del suo consenso personale. Gli italiani convocati alle urne domenica scorsa potrebbero, sì, aver voluto punire il Pd al dettaglio nelle realtà locali più desolanti e terremotate, e perfino la sua dirigenza all’ingrosso laddove non è stata capace di offire nomi di qualità messi al riparo dalle faide interne. Ma questo non basta a farne un premier periclitante, il momento in cui la sua leadership incontrerà il segno del destino non può essere fissato all’indomani dei ballottaggi, perché è già saldamente ancorato al referendum di ottobre sulle riforme costituzionali. E qui entrano in gioco alcune variabili finora un po’ sottaciute. Il referendum si è ormai caricato d’un sovrappiù di senso, gli elettori ne sono consapevoli. Ma proprio per questo la scelta tra il Sì e il No non resterà circoscritta alla materia referendaria, terrà conto anche dei risultati economici di Palazzo Chigi, e delle sue capacità di maneggiare i dossier più urgenti, a cominciare da sicurezza e immigrazione. Sulla qualità della ripresa economica e degli effetti del Jobs Act ieri l’Istat ha diffuso dati incoraggianti: cresce dello 0,5 per cento il numero dei dipendenti a tempo indeterminato (+75 mila), diminuiscono quelli a termine (-2,4 per cento, -57 mila) e nel primo trimestre dell’anno si registrano 341 mila occupati in più su base annua (+1,1 per cento nei dati grezzi). Meno convincente invece è la posizione del governo nella gestione dei flussi migratori e di riflesso sulla sicurezza percepita nelle città più esposte. Ma la controversa prestazione elettorale della Lega dimostra che gli italiani votano con il portafogli più che con le viscere e sono poco disposti a premiare un’opposizione priva di caratteri omogenei coagulati intorno a una proposta alternativa impersonata da una figura precisa. Ancora una volta, al riguardo, il Cav. ospedalizzato e attendista si mostra più scaltro degli altri. (ag) INNAMORATO FISSO di Maurizio Milani Gentile Beyoncé, vi scrivo per dichiararvi il mio amore, vero e unico (che sareste voi). Abito in provincia di Lugano (CH), fino all’età di 27 anni ho vissuto di stenti. Vivevo con mia nonna che faceva la merlettaia. Le sue amiche la chiamavano “la povera scema”. Quando la nonna è mancata il nostro tenore di vita è ulteriormente calato (sotto i 5.000 franchi svizzeri). Io non ero in grado di fare il merlettaio. Mia sorella è andata a Londra, oggi ha un negozio di merlettaia a Piccadilly. E’ l’unica merlettaia di Londra. L’altra rimasta in tutto il Regno Unito è a Birmingham. E’ nostra zia. Oggi compie 97 anni. Oggi compio 46 anni, sono impiegato come magazziniere del Newcastle soccer. Porto le maglie dei calciatori a lavare. Siamo l’unica squadra al mondo che fa lavare le maglie a mano. Le lava mia zia. Non quella di 97 anni, sua sorella. Ieri mi ha detto di essere un po’ stufa. La capisco: prima la rosa della squadra era di quindici giocatori, adesso è del doppio. Guadagno mille sterline al mese. Beyoncè sei bellissima. Amore, ieri mi ha scritto la direzione di un noto social network. Loro sono rimasti delusi, e anche io: su 1.000 amicizie che ho richiesto nessuna ha accettato di ricambiare. Mai nella storia di Facebook era avvenuto un rifiuto così totale. Quelli della dirigenza per pro forma mi hanno dato la loro. Adesso ho 25 amici, tutti del cda del potente social network. ANNO XXI NUMERO 136 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 10 GIUGNO 2016 IL FiGLIO a cura di Annalena Dove c’è un bambino Finisce la scuola, inizia l’emergenza delle non vacanze PA D R I Non solo bar. Il Fanciullo Sovrano colonizza l’intera casa (i genitori felici nello stanzino delle scope) La campanella, la commozione, il Ramadan e l’insalata di riso. Risse fra genitori con panico estivo Stefano Bartezzaghi e quel brivido al coccige ogni volta che qualcuno dice: “Sei un bravissimo papà” N on è solo il bar/ristorante, dove i bambini ti si affollano soprattutto e non metaforicamente tra i piedi, anche se vicino a casa, nel romano quartiere Esquilino, c’è un locale che talvolta ospita molte mamme con bambini (bambini riflessivi, dunque vestiti di cachemire e vellutini, tipo piccoli Baby George ma in quota società civile). Lì ci sono queste mamme che ascoltano Lucio Dalla e bevono moltissimo mentre questi Baby George riflessivi-aggressivi giocano a terra con delle costruzioni di legno ecocompatibili, e tu inciampi in questi pargoli col tuo Franciacorta in mano e le mamme alzando l’occhio già allucinato dal loro Margarita ti guardano con disprezzo perché non cedi loro il passo (ai bimbi gentrificati). Ma questi pargoli allevati a terra non hanno colpa, sono abituati agli ampi spazi, pur essendo di città e non provenendo da ranch texani: ed è questa la temperie veramente inquietante che riguarda il Nuovo Mondo dei Bambini. E’ chiaro infatti che quello di oggi è il Mondo dei bambini; in una società che punta tutto sul ringiovanimento, è chiaro che i bambini sono padroni. Anche a causa del rapporto numerico invertito: un tempo vi erano quattro-cinque bambini per famiglia, i nonni causa cattiva alimentazione e stenti morivano presto, c’era un eccesso di offerta di bambini, dunque il loro valore di mercato era naturalmente basso; oggi i nonni vivono tipo highlander fino a 105 anni, sfasciando conti pubblici, e mamme ansiose incerte tra carriera e bebè producono rari marmocchi, e quando il marmocchio nasce, conteso da quattro, cinque, anche sei nonni in famiglie molto allargate, il marmocchio è un miracolo, e il potere sarà suo. Si diceva, la temperie: quella più notevole è architettonica e urbanistica, e ci si stupisce che Biennali e Saloni del mobile ancora non contemplino mostre e installazioni site-specific dedicate al mutamento progettuale e abitativo della casa del Bambino. Un tempo vi era infatti, nelle nostre case piccolo o gran borghesi, il salone, la camera dei genitori, e poi quella dei bambini, che era piccola; se proprio affluenti, una stanza dei giochi, da tenere molto ordinata. Adesso, in tutte le famiglie autoriprodotte che si conoscono, la planimetria è cambiata. La casa è trasformata in un’unica grande stanza dei bambini, dove i genitori, o il monogenitore, si aggirano furtivi. Formalmente, infatti, la stanza del figlio rimarrà, in catasto essa esiste, ma è chiaro che serve al fanciullo solo per ricoverarsi la notte e espletare il riposo notturno; è la casa intera che diventa teatro (proprio in senso letterale) delle gesta del bebè. Tutte le case possedute da bambini ormai sono simili: ingresso, salone o salotto, e al centro del salone, il palcoscenico del fanciullo. A seconda del ceto e dell’appartenenza politica, il palcoscenico o zona d’influenza del fanciullo avrà un maxischermo con collegate le manopole della playstation oppure un fondale, già parete di casa, con scarabocchi e disegni e calchi delle mani del fanciullo, tipo edicola votiva. Intorno, la platea (il tavolo) e i palchi (i divani) su cui i genitori e i loro ospiti possono ammirare le gesta del fanciullo (specie durante i pasti). Al centro del palco, la pila dei giochi accumulati che il Fanciullo deve avere sempre a portata di mano: non più relegati come un tempo nella cameretta vengono ora esibiti all’ospite incolpevole. Qui, forse, altri mutamenti sociologici; per chi è cresciuto negli anni Settanta-Ottanta il consumo vistoso del bambino, per dirla col filosofo Thorstein Veblen, era sottoposto a censure (“pensiamo ai bambini poveri”) mentre caduto il Muro e cessate le ideologie, anche nelle case più di sinistra, il bambino è allevato nel turboliberismo: il bambino in sé diventa, in quanto bene costoso e di difficile mantenimento, l’unico status symbol che la nostra sfortunata generazione si può permettere di ostentare. Il Fanciullo Sovrano avrà dunque tutto nel suo palco, giocherà con la sua playstation, si esibirà in karaoke, leggerà agli ospiti le fiabe dai venticinque libri con pop-up (Città del Sole, per ceti ecologisti) deposti ai suoi piedi tipo rito apotropaico, tipo Ziggurat; fino a quando, finalmente esausto, andrà nella sua cameretta. Che però col tempo crescerà in dimensioni: perché il senso di colpa del genitore anziano occidentale la troverà presto troppo piccola, come se il bambino non avesse già a disposizione l’intero salone e avesse bisogno invece, come un bisonte, di ampie praterie da brucare e distese incontaminate da cavalcare. Presto il genitore anziano e ansioso prenderà allora una decisione, e una stanza: quella più piccola e angusta della casa, quella di servizio, quella degli ospiti, anche il magazzino delle scope; ci infilerà un lettino, ci dormirà, sarà felice così, mentre il piccolo mostro di là crescerà in appetiti e ambizioni che il mondo poi non gli soddisferà. La mamma andrà spesso fuori a bere, talvolta portandoselo, per esibirlo, e risparmiare sulla baby sitter. Ed è il bambino in cui inciampiamo col nostro Franciacorta: e che ci fa decidere che non verremo mai più nei bar coi bambini della prateria. Michele Masneri di Annalena Benini A ll’improvviso, è finita. E’ suonata la campanella e i bambini di quinta elementare sono usciti, ognuno aggrappato alla maestra come poteva (le maestre hanno molte mani e molte braccia e riescono sempre ad abbracciarli tutti), e tanti piangevano, altri ridevano ma di un riso nuovo, come un fremito all’angolo della bocca, i pugni stretti, si guardavano intorno per vedere dov’erano le madri, o le nonne (c’era un solo padre davanti a scuola quel giorno, in bermuda sandali e marsupio, molte gli sorridevano e gli dicevano: bravo, una ha detto perfino: bel marsupio). Le madri e le nonne, e le baby sitter e le maestre, piangevano e si abbracciavano per salutarsi, e anche quelle che si stavano azzuffando su WhatsApp nelle chat della classe hanno fissato una tregua per commuoversi in pace, sicure comunque che non si è trattato di un addio alle armi: di lì a pochi minuti hanno ripreso a lottare, come se fosse già settembre. Yasmina, dieci anni, ha iniziato il Ramadan perché ormai è grande, quindi non andrà al picnic di fine anno, su cui si litiga da mesi, e la maestra piangeva soprattutto per il picnic senza Yasmina (che non è andata nemmeno al campo scuola, perché una femmina non può dormire fuori casa), e la baciava sulle guance e le diceva: la mia bambina, e Yasmina consolava la maestra ridendo: dice che la sera mangia la pizza davanti ai cartoni animati ed è una specie di grande avventura, mangiare solo quando fa buio, come gli adulti, e però i compagni insistono: dai, vieni a casa mia oggi pomeriggio e mangiamo la nutella di nascosto, oppure digiuniamo tutti insieme e aspettiamo la luna. Una madre, con gli occhiali da sole a coprire le lacrime, guardava Yasmina e gli altri bambini correre a prendere le piantine di pomodoro, regalarsi le ultime figurine e farsi promesse di amicizia eterna con un balletto delle mani, un linguaggio speciale imparato su YouTube, e ha sospirato a voce alta, un po’ troppo alta e teatrale: loro sono così migliori di noi. Le altre madri si sono girate di scatto, già piene di furia, e dopo un attimo di silenzio la rappresentante di classe si è messa davanti alla madre teatrale con gli occhiali da sole e le ha detto con una specie di ghigno: almeno questa volta all’insalata di riso ci pensi tu. La commozione è svanita, la riflessione sul Ramadan si è dissolta, i pensieri sul futuro dei nostri figli anche, andranno alle medie, poi alle superiori, chissà se troveranno la loro strada, il lavoro che non c’è, noi che li guardiamo partire, sembra ieri che sono nati, sembra ieri che ero giovane, e telefonami fra vent’anni, niente, non c’era più niente, nessuna malinconia, nessun dolore, sparito anche quell’attimo di felicità: adesso, a un minuto dalla fine della scuola, tutto lo spazio fisico e sentimentale è occupato dall’insalata di riso per il picnic. E dalle dodici settimane davanti, di cui almeno nove da riempire di campi estivi, nonni anche in affitto, anche sconosciuti, piscine, trekking, cortili di parrocchie, parchi acquatici, campeggi, corsi di sci nautico, corsi di stelle alpine, corsi di pittura, corsi di yoga nei boschi, corsi di brunch itinerante, e piscine gonfiabili in balcone, e pattini a rotelle in corridoio tutto il giorno e tutta la notte. La sera dell’ultimo giorno di scuola, dopo che lo zaino è finito nella cuccia del gatto (che in questo periodo entra in depressione), ci si siede con la testa fra le mani al tavolo della cucina, in mezzo a una nuvola di fumo e già di disordine estivo, canottiere, trucco colato, volantini di campi estivi lontanissimi, salvagenti bucati, ombrelli perché comunque piove, e sempre sempre sempre la borsa con i costumi da bagno che si è persa, ci si siede e si comincia a litigare su chi deve restare a casa la mattina dopo con i bambini. E’ una specie di incantesimo, di capovolgimento delle aspirazioni, perché per tutto l’inverno si è desiderato lavorare da casa, si è immaginato uno studio confortevole dove di tanto in tanto, nel tardo pomeriggio, un figlio si affaccia a chiedere un bacio, e poi tutti insieme felici apparecchiano la tavola per la cena, con la televisione spenta, e gli adulti bevono un bicchiere di vino e si raccontano la giornata e decidono quale film guardare dopo cena, quando i bambini dormono. Ma adesso che non è più inverno, adesso che questi tre mesi di emergenza sono iniziati ed è chiaro a tutti, anche ai genitori rissosi in chat già pronti a contestare le pagelle, che dureranno per sempre e che quasi nessuno arriverà vivo a settembre, il buon senso è svanito e ci si sente in guerra: adesso l’unico desiderio è la fuga, la diserzione. Quindi l’ufficio fino a notte fonda, quindi amore davvero domani se non vado a quella riunione mi licenziano, cerca di capire, stammi vicino, è importante. Forse pensi che io invece non abbia un lavoro? Pensi che adesso porto tutti in villeggiatura e tu arrivi il venerdì sera con la cravatta slac- ciata e la valigetta e io ti vengo incontro con un bicchiere di vino? E voi due, che cosa fate ancora alzati? Mamma, ma sono le nove, c’è ancora luce e domani non si va a scuola. Allora guardate i cartoni! Ma non ne abbiamo voglia. Giocate con l’iPad! Che pizza. Guardate video strani su YouTube! Ma hai sempre detto che non possiamo, che è pericoloso. Fate i compiti delle vacanze! Ma non ci hai neanche comprato i libri delle vacanze. Allora tirate le bombe d’acqua dalla finestra! Va bene. E’ un periodo molto pericoloso, questo, perché porta con sé il caos, perché saltano tutte le regole, perché si avvicinano anche le vere vacanze, a cui affidiamo i desideri di rinascita, e perché bisogna restare saldi e fare finta di essere normali, ed essere molto gentili con le animatrici del campo estivo per convincerle ad aspettarci ogni giorno per quasi un’ora oltre l’orario di chiusura. Ma soprattutto bisogna fare l’insalata di riso per mille persone, per il picnic di fine anno in campagna, come se ci fosse davvero qualcosa da festeggiare, in questa fine scuola, fine ciclo, fine pazze chat con i genitori, fine pazza gioia del lunedì mattina, e quando il picnic sarà finito, quasi sicuramente per pioggia, non avremo più niente per cui litigare, resteremo soli con le nostre non vacanze, con i nostri desideri di inverno. Così, con la testa tra le mani e in mezzo al fumo delle sigarette, è cominciata quest’estate lunghissima e quando, verso le due di notte, i bambini sovreccitati si sono addormentati, ho visto che il fratello di seconda elementare, che non si era per niente commosso all’uscita da scuola e non aveva salutato la maestra e aveva tirato la palla nel canestro per sette ore di seguito, adesso dormiva abbracciato a Hulk e stringeva qualcosa in mano, un pezzetto di carta scritto male a matita. Piano piano ho aperto la mano sudata e ho letto, era un biglietto di saluto: “Caro Giulio, mi è piaciuto molto giocare con te a sardina e penso che sei il ragazzo più buffo della classe, è un vero peccato che devo andare a Foggia. Matilde”. LA LETTERA. Flami pensa al futuro e Francesco De Gregori ricorda “un senso di libertà” Cara Annalena, Flami si alza dalla sedia, saluta con voce leggera e se ne va, portandosi dietro le borse sotto gli occhi, le mani sudate e un meritato sollievo che le massaggia le tempie. L’esame di maturità è andato bene, qualche volta lo rivivrà in sogno. Flami legge Raimond Carver e David Foster Wallace ma non ha il coraggio di leggere nel suo domani. A casa s’interroga con i suoi genitori, ma i loro consigli sono senza forma e senza peso. Lei ha chiesto come potrebbe prepararsi a un futuro popolato di lavori oggi sconosciuti. E loro hanno scritto nell’aria in stampatello maiuscolo che dovrà salvarsi dai rimpianti. Flami li osserva. Eccoli lì, due tipi assurdi catturati dai loro pensieri che induriscono come colla a presa rapida. Anche i genitori hanno i loro fantasmi. Ora Flami sa che può scontrarsi benissimo con le proprie paure, purché non le rimangano incollate addosso. Cari saluti. Antonio Cianfarini Caro Antonio, c’è un passo del libro-intervista di Francesco De Gregori con Antonio Gnoli, “Passo d’uomo” (Laterza) in cui De Gregori ricorda il rapporto con suo padre, funzionario di biblioteche preoccupato che la musica “rovinasse” Francesco e suo fratello, ma che comunque “ci portava in dono un certo senso di libertà”. Però una volta impedì al fratello Luigi di leggere “Furore” di Steinbeck, e non amava nemmeno che i figli leggessero romanzi di fantascienza. Ci si ricorda di certi gesti dei genitori, se ne dimenticano altri, importantissimi, e all’improvviso, spesso tardi, si scoprono cose nuove. Francesco De Gregori ha raccontato: “Qualche tempo fa ritrovai un passo di Kahlil Gibran annotato e sottolineato da mio padre, dove si dice che i figli non appartengono ai genitori: ‘Potete amarli, ma non costringerli ai vostri pensieri, poiché essi hanno i loro pensieri. Potete custodire i loro corpi ma non le loro anime, poiché abitano in case future, che neppure in sogno potrete visitare. Cercherete di imitarli, ma non potrete farli simili a voi”. Potrete portare in dono un senso di libertà. Scrivete le vostre lettere a [email protected] (non più di 10 righe, 600 battute) e inviateci i disegni dei vostri bambini Illustrazione di Anna Sutor Papà ci è sempre sembrato quello che era: schizzato, a tratti matto, un grande indefesso ubriacone Papà, a noi ci è sempre sembrato quello che era. Mio fratello Nic, mia madre ed io, lo abbiamo sempre visto per quello che era, un essere tremendamente fragile, uno sbandato, iperemotivo, schizzato, a tratti anche matto, e un grande indefesso ubriacone. Ho detto a mio fratello, un po’ per ridere un po’ no: Sai, pensandoci adesso credo che in fondo l’unica vera au- tentica passione della sua vita, l’unico punto fermo, quello a cui ha veramente tenuto fede fino all’ultimo è stato la bottiglia. Mia madre è andata a rovistare nei diari che Renato ha sempre scritto durante tutta la vita e specie nelle serate alcoliche e ci ha trovato, ancora fino a poche settimane prima della morte, ci ha trovato segnati una serie di wischetti che lui aveva tirato giù con piacere e anche con senso di spregio verso tutta l’umanità, in particolare verso i dottori che volevano sottrargli la sua amata compagna di vita, la sua steslla polare, la sua bottiglia. E poi verso i passati superiori di quando era carabiniere (i vari tenenti, colonnelli, generali eccetera a cui non aveva smesso di portare rancore anche a di- stanza di venti, trenta, cinquant’anni dai fatti). E per finire, verso l’amata moglie che comunque, anche se in gamba e bella come un’attrice, un chiaro difetto ce l’aveva, che continuava a rompergli il cazzo sul bere. Rossana Campo, “Dove troverete un altro padre come il mio” (Ponte alle Grazie, pagine 160, euro 13) L ei parlava seduta di fronte a me, io non ero veramente interessato. A distrarmi era anche uno strano fastidio crescente, non proporzionale alla lieve noia del colloquio, colloquio che a un certo punto virò sul personale. “Sono sicura che sarai un bravissimo papà”, mi disse. Era, lo capivo, sinceramente intenzionata a conferirmi una patente sulla fiducia, come il Nobel per la Pace a Barack Obama neoeletto; io però ci sentivo una nota stonata. Non fu comunque quello il motivo per cui poco dopo saltai in piedi, all’improvviso. Doveva scusarmi: non riuscivo proprio a rimanere lì e soprattutto non potevo più stare seduto, non sapevo perché. Me lo rivelò un medico il giorno dopo, impiegando una parola che ignoravo: coccigodinìa. E’ la pungente infiammazione di una minima terminazione nervosa laggiù, dove c’è il ricordo della coda; sue possibili cause: o trauma o stress. E’ passato più di un quarto di secolo. Per una delle associazioni che la bizzarria della vita ci propone, quel saettare dall’osso sacro mi si ripresenta da allora alla memoria, e con un brivido, ogni volta che sento usare l’espressione: “essere un bravo padre”. Mi capita anche con “una brava madre”, ma in grado più tenue, mancando l’immedesimazione. “Bravo”: il pur simpatico aggettivo coniuga il moralismo più sospiroso, e passivoaggressivo, e la mitologia dell’efficienza produttiva; correttezza e meritocrazia consociate in una specie di patto del Nazareno del controllo sociale. “Non-bravo!”: il ritiro della patente era implicito nelle torve occhiate di altri genitori, quando l’una o l’altra figlia incapricciata veniva ridotta alla ragione, e bruscamente. Cioè non per il tramite delle sfibranti trattative da suq o da conferenze di pace orientali a cui loro si sottoponevano, temendo di essere temibili, temuti. Le bambine almeno erano dirette: “Cattivo!”. Me lo dicevano senza litoti, e in faccia. Ogni genitore pare curioso di confrontarsi a ogni altro genitore, usando il metro della bravura: “E’ un bravo papa? E’ una brava mamma?”. Registrando il ritorno occasionale della dimenticata coccigodinia, io non ho mai risposto e ho cambiato discorso, sempre. Sono brave, bravissime le donne che riescono a conciliare accudimento e piena vita professionale e personale, senza neppure le facilitazioni che altri welfare offrono altrove. Ma non posso proprio prendere per “bravura”, cioè o performance o fioretto, i miei pensieri, le parole, le opere e ovviamente anche le omissioni dei venticinque anni intercorsi dall’età del primo pannolino a quella del primo sussidio di disoccupazione. E va certo concluso che a me è andata più che bene – altro che “bravo”! –, pensando al ménage con le due elettrici (di chissà chi) che ora vivono a casa mia, come me riempendo e svuotando frigorifero, forno, lavatrice, sacchetti della spesa con buona armonia e alternata assiduità. Adulti oramai tutti e tre, le mansioni di coordinamento del palinsesto dei soggiorni, passaggi, partenze, rientri si distribuiscono equamente, fra ognuno e ognuna, il più essendo però determinato dal Caso. Il Caso è più forte degli artifici che possiamo opporgli perché le cose vadano bene e noi possiamo uscirne diplomati con un “bravo” o “brava”. Si può essere bravi a lavorare, ma l’unico punto di analogia fra un mestiere e l’essere genitori è che ci si sente occupati, e anche lì occupati in senso più militare che professionale. Le tue terre sono invase da uno o più squatter, con usanze tribali proprie e una vocazione inesorabile al filibustering e alla resistenza passiva contro il potere, che sei poi tu. Impazienze, orgogli, ansie, errori marchiani, noie, frustrazioni, tenerezze indicibili e saggi scolastici più indicibili ancora: un intero film scorre nella ricapitolazione di quegli anni in cui è stata più intensa la formazione reciproca. Ne vanno poi a far parte persino le tue amnesie perché, cresciuta, una figlia ti dirà ridendo: “Ti ricordi quando…?”; tu non lo ricordi affatto e, appena lei lo fa, vorresti che non te l’avesse mai ricordato. Forse queste creature di cui tanto fermamente quanto scioccamente ci sentiamo autori sono le uniche persone con cui, finché sono in età infantile, non ci pare possibile fare “brutta figura”. Si incaricheranno da grandi di notificarci quanto erronea fosse l’illusione. Uno dei film che più mi piacquero da ragazzo fu quello di Carlos Saura il cui titolo, Cria cuervos, viene dal proverbio spagnolo che avverte: “Alleva i corvi che ti caveranno gli occhi”. Nessuna figlia mi ha ancora cavato gli occhi né mi ha mai causato una recrudescenza della coccigodinia. Brave loro. La casa è ancora piena, come il tempo e la vita, e mi viene in mente quel che i possidenti usavano dire ai primogeniti: “Un giorno tutto questo sarà tuo”. La direzione si è rovesciata: è la frase che, almeno con lo sguardo, sento rivolgermi dalle figlie, per il tempo in cui “padre” diverrà per me un titolo onorario, al più un laticlavio. Il tempo in cui tutto, e il tempo stesso, sarà appunto mio. Stefano Bartezzaghi ANNO XXI NUMERO 136 - PAG II IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 10 GIUGNO 2016 RITRATTI NON SOLO PALLONARI DEI 24 PAE Attentati, crisi politiche, nuove elezioni, vecchi burocrati, minacce di fuga, immigrati da gestire. Che Albania Per la prima volta l’Albania arriva a disputare la fase finale degli Europei e ha una squadra particolare: allenata dall’italiano Gianni De Biasi, è formata da giocatori albanesi e kosovari, due nazionali in una. E non è detto che in futuro non ce ne saranno di più. Dal 1999 non c’è sostanzialmente più immigrazione albanese verso l’Italia, semmai la tendenza è al rientro, ma il paese governato dal premier Edi Rama del Partito Socialista d’Albania (centrosinistra) non è solo diventato mèta per gli investimenti esteri (“non ci sono i sindacati e non si paga più del 15 per cento di imposte” ricordò Rama a Renzi nel 2014) ma di rifugiati e immigrati dal medio oriente. La chiusura a intermittenza della “rotta balcanica” dell’immigrazione verso l’Europa continentale potrebbe rendere l’Albania una porta di passaggio per gli immigrati economici e anche, come il Foglio ha raccontato, di guerriglieri islamisti. Una nuova frontiera di nuova immigrazione. Francia La paura è il sentimento nuovo, rispetto a quattro anni fa. Colpa degli attentati terroristici contro la redazione dei vignettisti di Charlie Hebdo nel gennaio 2015, e dell’ondata di attacchi in nome di Allah compiuti dieci mesi dopo: il massacro al Bataclan (93 morti), le sparatorie per le strade dei vari arrondissement di Parigi, e le esplosioni dei kamikaze udite nello Stade de France, durante un’amichevole tra la stessa nazionale di calcio francese e la Germania. Stato di allerta nazionale, chiusura temporanea delle frontiere, poi il lento ritorno alla normalità. Con un timore, però, strisciante, inedito. Perché la Francia, nelle parole del ministro socialista Kanner, scopre improvvisamente di aver allevato al suo interno “cento Molenbeek”. Nel frattempo, l’economia dopo quattro anni abbandona la crescita zero, in favore di una timida ripresa, fatta solo di zero virgola. Dati che non soccorrono in alcun modo il presidente François Hollande, ai minimi storici di popolarità, stretto tra scioperi di massa contro il Jobs Act francese, una sinistra che prova a organizzarsi su binari liberali (con Emmanuel Macron) e una Marine Le Pen che viaggia in testa nei sondaggi, sognando la conquista della poltrona dell’Eliseo il prossimo anno. Romania La Romania di Anghel Iordanescu, l’allenatore degli storici quarti di finale a Usa ‘94, è entrata a Euro 2016 solo grazie la disastrosa fase di qualificazione della Grecia. E sempre per la crisi (economica) della Grecia e per le condizioni di salvataggio che Atene ha dovuto accettare, Bucarest è intenzionata a rinviare di una decina d’anni l’entrata nell’euro (quello di carta e non di calcio). D’altronde dentro l’Unione europea e fuori dalla moneta unica per adesso non si sta tanto male: la Romania è un paese ancora in fase di transizione, ha seri problemi di corruzione, ma l’economia cresce attorno al 4 per cento e comunque rispetta gran parte dei parametri di Maastricht propedeutici all’ingresso nell’Eurozona. I problemi quindi non sono con Bruxelles, ma con Mosca. L’Ucraina è lì vicina e il timore è che l’espansionismo russo possa ripresentarsi negli stessi termini nella vicina e amica Moldavia, dove c’è il problema dalla repubblica separatista russofona della Transnistria. Se Putin dovesse decidere di risolvere la questione a modo suo, come in Crimea, sarebbe una chiara minaccia per l’autonomia e la sicurezza di Bucarest. A ciò bisogna aggiungere che da poco in Romania è operativo lo scudo anti missile della Nato ed è inutile dire che la Russia non l’ha presa con sportività. Svizzera Le polemiche sui paradisiaci vantaggi fiscali non hanno smesso di accompagnare la piccola confederazione elvetica negli ultimi quattro anni. Sarà stato per questo, e per la consueta pubblicazione (a puntate) dei nomi delle celebrità di tutta Europa presenti nelle liste “segrete” dei presunti evasori fiscali, che Berna ha deciso di darsi un restyling: svariati accordi anti evasione con i paesi occidentali e, l’anno scorso, una storica intesa con l’Unione europea per la fine del segreto bancario dal 2018. I tassi di crescita dell’economia, intanto, restano tra i più invidiati: il +1 per cento di pil del 2012 è raddoppiato nel biennio successivo, prima di scendere e risalire quest’anno al +1,4 per cento. Ma gli svizzeri continuano ad essere gente strana: il “no” all’introduzione del salario minimo pronunciato dagli elvetici in un referendum di due anni fa, è stato confermato da un altro “no”, agli inizi di giugno di quest’anno, stavolta contro un reddito di cittadinanza di oltre 2 mila euro al mese. Grillo ancora non ci crede. * * * Inghilterra La squadra inglese inizia gli Europei ma non sa come li finirà. Il calcio non c’entra, c’entra che nel bel mezzo della competizione, quando iniziano gli ottavi di finale, il Regno Unito vota al referendum sulla Brexit e nessuno sa che cosa accadrà dopo. I tedeschi e i francesi hanno presentato una mozione che dice: se vince la Brexit, la squadra inglese (pure quella nordirlandese e gallese tra l’altro) non gioca più, non è più europea, fatti suoi, “out is out”. Considerando che i tempi di un’eventuale Brexit non sono noti nemmeno ai fan più sfegatati dell’addio all’Europa, è difficile immaginare che ci siano effetti immediati sulle partite di calcio. Ma i tedeschi e i francesi nell’Uefa, intanto, ci provano. L’atmosfera apocalittica che avvolge il Regno Unito alle prese con il referendum più sciagurato del decennio contagia anche il calcio: se vince la Brexit, i calciatori con passaporto europeo non avranno più automaticamente il permesso di giocare in Inghilterra, e secondo gli esperti questo sarebbe un altro, devastante disastro. I sostenitori della Brexit rispondono: pazienza, ci sono tanti talenti nostrani da valorizzare. I tifosi britannici non fanno eccezione e, nei sondaggi, appaiono divisi sul referendum. Anche se il “leave” è sempre un po’ più avanti. Chissà perché, lo sospettavamo. Russia Quattro anni fa, in Russia, diventava presidente Vladimir Vladimirovich Putin. Dopo quattro anni è ancora lì, dopo essere già stato primo ministro dal 1999 al 2000, poi presidente dal 2000 al 2008, poi di nuovo primo ministro dal 2008 al 2012. La stabilità politica, insomma, è garantita. Più volatile il quadro dell’economia del paese. Ecco cosa scrive la Banca d’Italia nella sua ultima relazione: “Il quadro economico si è ulteriormente deteriorato a causa del crollo degli introiti dalle esportazioni e degli effetti delle sanzioni internazionali. Il pil è diminuito del 3,7 per cento nel 2015 (era cresciuto dello 0,7 per cento l’anno precedente), risentendo della domanda interna. Per sostenere l’economia la Banca centrale ha più volte abbassato il tasso di riferimento (dal 17 all’11 per cento), nonostante l’inflazione, sospinta dal deprezzamento del rublo, sia salita fino a sfiorare il 16 per cento in agosto”. E’ sulla politica estera che la Russia ha fatto miracoli: da paria delle relazioni internazionali in ragione del suo interventismo in Ucraina, Putin è diventato negli ultimi due anni – dopo l’intervento in Siria che ha bloccato l’avanzata di Stato islamico e islamisti vari – il Mr. Wolf che “risolve i problemi” della politica internazionale (copyright: Financial Times). Motto del Cremlino: l’importante non è partecipare, ma vincere. Slovacchia Nel 2012 per la prima volta nella storia della Slovacchia indipendente un solo partito conquistò la maggioranza assoluta in Parlamento: la Direzione-Socialdemocrazia di Robert Fico. Un ex-comunista che nel 2006 era già diventato premier su una piattaforma anti-austerity, nel 2010 aveva perso il potere per uno scandalo, ma che in capo a due anni era riuscito a recuperarlo promettendo più tasse per i ricchi. Riconosciuto dal socialismo europeo, in questi quattro anni Fico ne ha però sconcertato i leader per i suoi slogan anti immigrati: “Non c’è spazio per l’Islam in Slovacchia!”. Non gli è valso a mantenere la maggioranza assoluta al voto dello scorso 5 marzo, ma comunque è restato primo ministro. Così, il primo luglio assumerà la presidenza di turno dell’Ue: una prima volta della Slovacchia politica, in singolare abbinamento per la prima qualificazione agli Europei di una Slovacchia calcistica che comunque, non lo dimentichiamo, nel 2010 ci fece fuori dai Mondiali in Sudafrica. Galles La Regina Elisabetta c’era quattro anni fa come c’è adesso. David Cameron c’era quattro anni fa come c’è adesso. Perché il Galles è formalmente Gran Bretagna nonostante le squadre nazionali diverse per ogni competizione sportiva, Olimpiadi escluse. I movimenti indipendentisti sono come da anni dormienti, la vita prosegue senza strattoni, a eccezione dei due Sei nazioni conquistati dai gallesi nel rugby e alla vittoria della Coppa di lega inglese da parte dello Swansea nel 2013. Un fatto di portata storica: prima degli Swans solo il Cardiff 85 anni prima. L’altro accadimento epocale è una scoperta storica: l’arco lungo, l’invenzione che stava per far vincere la Guerra dei Cent’anni agli inglesi, non era inglese ma gallese. E sembra una cosa di poco conto, ma a Cardiff e dintorni non lo è. * * * Germania ”Angela Merkel guidava la Germania nel 2010 e la guida ancora oggi. L’economia tedesca era la più solida allora e lo è anche oggi”. Così scrivevamo due anni fa, nella guida fogliante ai Mondiali di calcio che la Germania vinse in finale contro l’Argentina (dopo aver battuto il Brasile 7 a 1, facendo lievitare la simpatia per Berlino). Oggi dovremo ripeterci: Angela Merkel guidava la Germania nel 2012, quando si giocarono gli ultimi Europei, e la guida ancora oggi. L’economia tedesca era la più solida allora in Europa e lo è ancora oggi. Ad aggiungere noia a noia, non passa anno senza che Forbes non nomini la cancelliere Merkel “donna più potente del mondo” (ci scuserà Hillary Clinton, ma quando lei cominciava a vantarsi di poter diventare “la prima presidente donna degli Stati Uniti”, noi qui in Europa eravamo già ermafroditi, svezzati da qualche decennio dal binomio tra gentil sesso e potere con Merkel, Margaret Thatcher, Helle Thorning-Schmidt e altre ancora). La Germania, nel frattempo, è diventata solo un po’ più affollata (nel 2015 ha aperto le porte a più di un milione di rifugiati) e purtroppo più filo turca (nel 2016 dona miliardi di euro a Erdogan perché non si ripeta quanto accaduto nel 2015). Sempre fortissima, comunque, e centrale. ese: God bless our homeland Ghana. Irlanda del Nord Una delle canzoni più cantate dai protestanti nordirlandesi ricorda il sanguinoso assalto della 36a Divisione dell’Ulster contro le trincee della Somme, il primo luglio 1916. Un secolo dopo, di nuovo in terra di Francia i nordirlandesi tenteranno un assalto impossibile contro uno sbarramento tedesco. Per fortuna, stavolta con un pallone, e non con quelle pallottole che nell’Ulster hanno continuato a fischiare fino a tempi recenti, tant’è che nel deplorare un’economia stagnante l’Economist ha comunque celebrato che dopo gli accordi di Stormont del 1998 “la buona notizia sull’Irlanda del Nord è che ha ora problemi normali”. Frutto della pace è una stretta interrelazione col Sud, e MartinMcGuinnes è oggi Deputy First Minister a Belfast dopo essersi candidato per la presidenza a Belfast nel 2011. E questi sono non solo i primi Europei in cui l’Irlanda del Nord si qualifica, ma anche la prima competizione calcistica in assoluto dove le due Irlande arrivano in fase finale assieme. Polonia A leggere dotti editoriali e terrorizzanti reportage redatti nelle redazioni chic dell’occidente gaudente, pare che la placida Polonia sia la Corea del nord d’Europa, con una sorta di Kim Jong-un al governo che minerebbe la democrazia e la felicità del popolo redento. La Costituzione messa in pericolo dal pugno di ferro del gemello sopravvissuto Kaczynski (l’altro è morto in circostanze misteriose con mezzo stato maggiore della Difesa mentre si recava a una cerimonia in Russia), che teleguiderebbe la giovane premier conservatrice Beata Szydlo e l’ancor più giovane presidente Andrzej Duda. Eppure, mentre fuori dai patri confini si urla al regime, l’economia va, il turismo tira e pure a Bruxelles – dove un altro polacco, il progressista Donald Tusk, è presidente del Consiglio europeo – sono costretti ad ammettere che tutto sommato sotto i totalitarismi le cose andavano peggio. Varsavia si rafforza, al punto da costituire una serie di brigate militari pronte per rispondere a un eventuale attacco del nemico storico russo. In Francia, la Polonia cerca la consacrazione da tempo annunciata e sempre smentita dal campo. Squadra in crescita e piena zeppa di giovani, federazione fortissima, Zibì Boniek come nume tutelare. L’obiettivo è non fare figuracce e andare oltre gli ottavi. Ucraina A pochi giorni dall’inizio degli Europei, un uomo di nazionalità francese era stato arrestato dai servizi segreti ucraini dell’Sbu al confine con la Polonia. Con sé portava cinque mitragliatrici, due lanciarazzi, 125 chilogrammi di Tnt e 100 detonatori. La ricca dotazione, secondo l’intelligence di Kiev, serviva a compiere almeno una quindicina di attacchi terroristici prima e durante gli Europei. L’Ucraina è diventata la grande armeria da cui qualunque terrorista degno di questo nome può attingere per piazzare bombe, soprattutto se nel mirino c’è l’Europa. D’altra parte, la guerra nel Donbass, tra un accordo di Minsk e un altro, nei fatti non si è mai interrotta. Nonostante l’elezione di una classe politica nuova, i sistemi di potere sono ancora legati all’oligarchia di una volta, e le istituzioni restano fragili. Le divisioni tra filorussi e sostenitori del governo di Kiev si riflettono anche nella Nazionale di calcio, descritta dagli esperti come una buona squadra ma dallo spogliatoio diviso in due blocchi: da una parte quello che vede il suo leader in Andriy Yarmolenko della Dinamo Kiev, dal- l’altra la corrente guidata da Taras Stepanenko, centrocampista dello Shaktar Donetsk, la squadra del Donbass per eccellenza. Dicono i bene informati che i due non si sopportino, né in campo né fuori e che la loro rivalità possa compromettere la campagna di Francia della Nazionale. Ah, agli Europei partecipa anche la Russia e con una giusta (e macabra) combinazione le due Nazionali potrebbero incontrarsi già agli ottavi di finale. Tanto per non farci mancare niente. * * * Croazia Il 22 gennaio 2012 il 66,7 per cento dei croati votarono sì al referendum per l’adesione all’Unione Europea. Il primo giugno 2016 si è presa la soddisfazione di poter decidere col suo sì sull’adesione della Serbia. Il primo quadriennio nell’Ue è stato accompagnato da una ripresa del Pil, ma alle elezioni d e l l o scorso 8 novembre il socialdemocratico Zoran Milanoviç, premier uscente, ha perso la maggioranza. Neanche il centrodestra di Tomislav Karamarko è riuscito a imporsi, per l’irruzione della terza forza, il “Most” (Ponte), simile ai Ciudadanos spagnoli. Un accordo tra Most e il centro-destra ha fatto così nascere il governo di Tihomir Ore‰koviç: tecnocrate già emigrato in Canada, dove era diventato un alto dirigente della multinazionale farmaceutica Teva. Dopo quattro mesi però la maggioranza è già andata a pezzi. I croati possono consolarsi con la nazionale più forte dei Balcani: terza ai Mondiali del 1998, qualificata in quattro delle ultime cinque edizioni degli Europei. Repubblica Ceca Quattro anni fa, la Repubblica Ceca si fermò agli ottavi, eliminata dal Portogallo dopo aver vinto il proprio girone. Sembrava la resurrezione, la fine del periodo oscuro: qualche anno buio culminato con la non partecipazione al mondiale del 2010 in Sudafrica e la misera figura agli Europei svizzero-austriaci del 2008. Bruciava, poi, l’ascesa della vicina e fin lì calcisticamente ininfluente Slovacchia, che in Sudafrica eliminò addirittura l’Italia. Adesso la Repubblica Ceca ha pure cambiato nome, diventando Cechia per l’orgoglio dei nazionalisti locali (non di tutti, molti avrebbero preferito il più romantico e storico Boemia) e l’orrore dei cultori dell’eufonia. Praga con i suoi ponti e la sua storia resta il cuore dell’Europa, anche se è meglio non mostrare troppo entusiasmo per Bruxelles in uno dei paesi più euroscettici dell’Unione, con il presidente Milos Zeman che non ne vuol sapere di ripartizione dei profughi e di avviare processi d’integrazione: “Siamo davanti a un’invasione”, ha detto qualche mese fa. Resta il paese meno cristiano in Europa e quello dove si vota meno (due anni fa, per il rinnovo del Parlamento europeo, s’è recato alle urne il 18 per cento degli aventi diritto). Spagna Una mattina di primavera del 2012, un dirigente europeo visitò la Moncloa, il palazzo presidenziale spagnolo, per parlare con il primo ministro Mariano Rajoy. L’eurocrate avrebbe poi raccontato al Mundo che Rajoy disse: “Io mi sveglio tutte le mattine senza sapere quello che succederà e mi addormento tutte le sere senza sapere quale disastro dovrò affrontare il giorno successivo”. Ecco, la Spagna di quattro anni fa era così, consapevole soltanto di essere diretta verso il disastro. Erano gli anni più duri della crisi finanziaria globale, Madrid era nell’occhio del ciclone e Rajoy era succeduto a Zapatero da appena un anno. L’ex premier socialista aveva già ANNO XXI NUMERO 136 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 10 GIUGNO 2016 ESI CHE DA OGGI SI GIOCANO GLI EUROPEI e cosa succede nelle nazioni che si sfidano a calcio in Francia da oggi al 10 luglio. Guida geopolitica approntato alcune durissime misure d’austerity, ma il grosso era ancora tutto da fare, e nel 2012 Rajoy dovette subire un’ondata di impopolarità come pochi altri. La cura da cavallo è riuscita, oggi la Spagna è una storia europea di successo, il suo pil cresce più di ogni altro paese del continente nonostante alcuni fondamentali economici, come l’occupazione, siano ancora preoccupanti. Negli ultimi tempi però alla fine dell’instabilità economica ha fatto seguito l’inizio di quella politica. Le ragioni dell’origine di due partiti anti establishment come Podemos e Ciudadanos è da ricercarsi negli anni terribili della crisi. Questi partiti oggi compongono un inedito quadripartitismo che ha paralizzato il quadro politico alle elezioni del 20 dicembre scorso e che rischia di ripetere il risultato ai comizi del prossimo 26 giugno, indetti da re Felipe dopo che non si è trovato un accordo sul nuovo governo. Tabellini, infografiche, commenti e stroncature. Così il Foglio racconterà Euro 2016 (O’Malley c’è) C ome al Mondiale di due anni fa, forse più di due anni fa, il Foglio apre i suoi orizzonti e si dà al calcio europeo. Da oggi fino al 10 luglio, giorno della finale di Parigi, racconteremo partite e curiosità dell’Europeo di Francia con articoli, commenti, analisi e infografiche. Lo faremo naturalmente sul nostro sito, www.ilfoglio.it, e nel numero che troverete in edicola, su tablet e smartphone tutti i giorni. La squadra che racconterà gli Europei è rodata. Dopo lunghe ed estenuanti trattative (e molto brandy promesso) abbiamo convinto Jack O’Malley a scriverci la sua su una competizione che disprezza (alme- no fino a quando l’Inghilterra non si avvicinerà alla finale). Il nostro storico collaboratore ha promesso di stroncare l’Europeo quotidianamente (o quasi) e ci chiede di garantire ai lettori che già scrivono preoccupati che con lui ci sarà la squadra delle wags per allietare chi legge. Troverete O’Malley online e su carta. Con lui anche Lanfranco Pace, che abbiamo legato alla poltrona davanti a al televisiore sintonizzato sui canali Sky e Rai che strasmetteranno le partite: con la sua penna meravigliosa racconterà ogni match che verrà giocato in terra francese nel prossimo mese. Subito su web, Pace compilerà i suoi tabellini non necessari e imperdibili, che gli amanti del cartaceo e dei tempi più posati troveranno, rimaneggiati, anche su carta. Non soltanto loro, però: su online e cartaceo altre firme della redazione racconteranno le partite, pubblicheranno le fotografie più belle e analizzeranno gli aspetti più curiosi. Tutta la redazione è mobilitata (Maurizio Crippa si sta scaldando da giorni), giornalisti e collaboratori arricchiranno sito e giornale con i loro articoli (già oggi trovate Francesco Caremani sugli stipendi dei mister delle Nazionali e Michele Boroni su come i principali sponsor della manifestazione sportiva hanno cambiato strategia comunicativa) e non mancherà la penna surreale di Alessandro Bonan a farci sorridere con le “frasette” fulminanti di Bonanza. Tornerà a grande richiesta (nostra) il “Bar Sport” fogliante: un reportage semi allucinato di tutte le opinioni calcistiche dei redattori del Foglio così come escono via Skype, mail, chat, WhatsApp e alla macchinetta del caffè (sì, ci sarà anche Marina Valensise). Sul Foglio online, poi, tutti gli interventi, articoli, video, fotografie e commenti saranno facilmente rintracciabili cliccando sul riquadro “Euro 2016” sotto la testata. Piero Vietti Turchia Rispetto al 2012, la Turchia ha ancora lo stesso leader (sebbene in una posizione diversa, era primo ministro, adesso è presidente), lo stesso partito politico al potere, la stessa classe dirigente. Ma è come se in quattro anni Recep Tayyip Erdogan fosse diventato un’altra persona. Quattro anni fa la Turchia e il suo leader, nonostante alcune avvisaglie preoccupanti, erano ancora un faro di democrazia nel mondo islamico, un esempio del fatto che la convivenza tra islam, moderazione politica e crescita economica erano alla portata di tutta la regione. Erdogan, con il suo ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, predicava la politica del “nessun problema con i vicini”. L’Erdogan di oggi, invece, non solo è invischiato in problemi enormi con tutti i confinanti, guerra siriana in primis, ma ha ricominciato il conflitto interno con i curdi, autori, in alternanza con lo Stato islamico, di attentati sanguinosi in tutto il paese – e nel frattempo ha fatto fuori politicamente Davutoglu. Sotto la guida del nuovo Erdogan, la Turchia è crollata nelle classifiche internazionali di libertà religiosa e di espressione, il governo ha fatto chiudere giornali e represso l’opposizione. I rapporti con l’Europa e l’occidente – per cui la Turchia rimane un alleato fondamentale, si veda per esempio l’accordo sui migranti con l’Ue – si sono sfilacciati. E l’economia, che pure continua a crescere a ritmi sostenuti, ha perso lo slancio di un tempo. Italia L’ultima volta che l’Italia si presentò a una competizione internazionale, i Mondiali 2014, c’era già il governo Renzi. Il nostro miglior biglietto da visita, in Francia, sarà la raggiunta stabilità politica che mancava da un po’, come la continuità nel calcio. Il paese si avviava a una stagione di riforme e crescita, ce lo riconosceva pure la Merkel. Il ct era Cesare Prandelli, fu un disastro. Ma tutti diedero la colpa a Balotelli: l’immigrato. E questo ci porta dritti all’Italia di oggi. Oggi gli Azzurri non è che facciano proprio sognare: anche questo ha qualche somiglianza con l’Italia come la vedono in Europa. Si sente un po’ la fine dello sprint, siamo un paese di ottusi frenatori. La Nazionale ha deciso di cambiare, affidando il futuro non a un giovanotto ma a un 68enne che si chiama Ventura (avviso ai francesi: non Lino Ventura) e c’è il rischio che dietro le quinte tornerà a comandare una zazzera grigia rotta a tutte le esperienze, Marcello Lippi. Se non trovate la somiglianza Ungheria L’ultima sua partecipazione a una competizione internazionale seria risale al 1986 e non è che nel precedente decennio l’Ungheria si fosse fatta valere sui campi di calcio. Ora che è tornata a giocare in mondovisione pure a giugno, già il collettivo mediatico-sentimentale si è dato al ricordo commosso e commovente dei tempi che furono, dell’èra dei Puskas e degli Albert, parlando di mito che torna e di araba fenice risorta. In realtà, molto più banalmente, l’Ungheria va agli Europei solo perché Platini ha deciso di allargare il numero delle squadre partecipanti, trasformando la competizione in una sorta di Clericus Cup dell’amicizia. Trent’anni fa Budapest era ancora nel Patto di Varsavia, i comunisti governavano e la cortina di ferro passava proprio lungo i suoi confini. Adesso al posto delle cortine ci sono le reti anti migranti, il governo è guidato da Viktor Orbán (che fa litigare i popolari europei che non lo ritengono uno dei loro) e la bandiera blu a dodici stelle sventola – seppur maliconicamente – lungo il Danubio. Mentre a Bruxelles guardano con terrore le riforme del premier, definito a giorni alterni razzista-populista-sciovinista, lui ricorda a tutti che nel 2014 l’Ungheria è il paese che più è cresciuto economicamente nel continente. Islanda * * * Belgio A Bruxelles gira molto una pubblicità inquietante del Carrefour in cui i 24 convocati dal ct Marc Wilmots sono ritratti stipati in un carrello della spesa, reparto salatini. Ma tant’è, perché l’entusiasmo è palpabile, è tutto un “Allez les Diables”, un tappezamento uniforme di foto che ritraggono il sogghigno sicuro della bandiera della Nazionale, Vincent Kompany (la foto, ahi loro, è probabilmente antecedente all’infortunio che lo terrà lontano dalla competizione). Quasi come fosse un collante artificiale, il paese si ricompatta attorno ai “diavoli rossi”, cercando di mettersi alle spalle uno dei periodi più difficili della sua storia. Dopo gli attentati di Bruxelles sono arrivati gli scioperi, i primi uniti ai secondi da una linea sottile: lo scollamento sociale, dove il multiculturalismo è vissuto con la spontanea noncuranza dei rassegnati. Il mondo alla rovescia del “paese delle illusioni”, come fu definito una volta da un politico belga, in questi mesi è fatto di secondini che non sorvegliano più i ladri, poliziotti che non acciuffano più i terroristi, militari che non vogliono fare il lavoro dei poliziotti, controllori di volo che non guardano più gli aerei, addetti alla sicurezza che non perquisiscono più agli aeroporti, autisti che non guidano più gli autobus, ferrovieri che non pilotano più i treni. Tutto è possibile, in Belgio. Persino che un giorno diventi un paese normale. chiola, gli estremismi, sia a destra che a sinistra, si fanno più forti e il problema migranti diventa centrale, fobia in molte parti del paese. I problemi sono alle frontiere. Da un lato quella con la Slovenia dove arrivano i profughi siriani che percorrono la tratta balcanica. Dall’altro il Brennero, presidiato da maggio dalla polizia austriaca. Vienna minaccia l’Europa di chiuderne l’accesso: per ora si sono intensificati i controlli e sono arrivati tre container per le procedure di identificazione. In blu le nazioni europee che saranno rappresentate dalle rispettive Nazionali di calcio a Euro 2016. In rosso quelle che non ce l’hanno fatta a qualificarsi (immagine presa da Wikipedia) con Denis Verdini, ve la suggeriamo noi. Diciamola tutta: a Renzi non sta portando proprio bene; speriamo meglio per la Nazionale. Però l’Italia non è messa male come nel 2014, e chi lo dice è un gufo. C’è il Jobs Act, la Buona scuola, la Fca di Marchionne, la Cirinnà. Soprattutto c’è la grande riforma costituzionale all’orizzonte, che ci farà entrare nella top ten delle nazioni europee. Noi italiani siamo un popolo di commissari tecnici e di costituzionalisti. In bocca al lupo. Eire Sulla carta l’Irlanda (Eire) è la meno temibile del girone dell’Italia, ma è pur sempre la nazione che sta uscendo meglio dall’europeo della crisi. Dopo la bolla immobiliare e il collasso del sistema bancario che l’avevano trasformata in uno dei pigs dell’Eurozona, tanto da dover richiedere l’intervento della Troika, la “tigre celtica” è tornata a correre. Dopo aver chiuso il programma d’assistenza (e d’austerity) da 85 mi- liardi di euro, l’Irlanda ha la crescita più alta d’Europa (più 8 per cento nel 2015 e più 5 nel 2016), il pil è il 10 per cento superiore ai livelli pre crisi, il pareggio di bilancio è vicino, la disoccupazione cala di almeno un punto l’anno e il debito pubblico è sceso di oltre 20. La situazione politica, logorata da anni di austerity, però è più instabile. E’ stato riconfermato Taoiseach (primo ministro) Enda Kenny del Fine Gael, ma in un governo di minoranza con l’appoggio esterno degli storici avversari del Fianna Fáil (i due partiti conservatori sono rivali dai tempi della guerra civile, eredi di Michael Collins contro quelli di Éamon de Valera). E sull’economia incombe la minaccia esterna della Brexit, che può rallentare la galoppata della tigre celtica. Svezia Nelle guide turistiche è “il paradiso degli ecologisti”, ricca di biciclette, piste ciclabili, aree verdi. La Svezia si fregia di essere la più moderna e cosmopolita d’Europa, un modello di Una guida interattiva sul nostro sito La Francia gioca in casa, la Germania vuole ripetersi dopo il mondiale vinto in Brasile, la Spagna vuole mettere in bacheca il quarto titolo continentale, il terzo consecutivo. Sarà gara a tre? Difficile. Perché Oltralpe in tante possono fare il colpaccio: dall’Inghilterra al Portogallo, passando per il Belgio. E l’Italia? Tutti la danno per dispersa. Come ai Mondiali del 2006. Ma quella era, forse, un’altra storia. Su www.ilfoglio.it trovate il nostro speciale, un’infografica interattiva che vi terrà compagnia per tutta la rassegna francese. I gironi, le partite, i convocati, i favoriti e i record battipali e imbattibili della quindicesima edizione dei Campionati europei di calcio raccolti in una guida imperdibile. (g.b.) uguaglianza, pari opportunità, alfabetizzazione, integrazione, welfare state, diritti civili. In svedese si dice “folkhemmet”, la casa di tutto il popolo, in cui c’è lo strapotere dei sindacati e un settore pubblico abnorme. In questa pietra filosofale della felicità economica, politica e sociale, le tasse sono “skat”, tesoro comune e bene al servizio della società. Bernie Sanders l’ha portata a modello, assieme agli imam. Una società prospera, indifferente alla religione, ideologicamente accogliente e tollerante, ma in cui l’illusione della “diversità” si è da tempo sfibrata nel contagio della violenza: gli ebrei svedesi scappano tutti, specie da Malmö; in molte città la popolazione islamica è già un quinto; i migranti arrivati sono già il due per cento della popolazione; gli stupri proliferano; i Verdi sono sotto inchiesta per infiltrazioni islamiste e il paese è da anni ormai il capofila del partito antisraeliano in Europa. Senza contare che 300 svedesi sono partiti per combattere per l’Isis in Siria (durante la Seconda guerra mondiale ci furono meno svedesi nelle fila delle SS naziste, 180). Tante ombre, dunque, dietro a questo mi- racolo di omogeneità, solidarietà, armonia e disimpegno, un mix di socialismo, luteranesimo e un pizzico di Eurabia. * * * Austria Quattro anni fa Heinz Fischer era il presidente della Repubblica, Werner Faymann il cancelliere; ora Heinz Fisher è ancora presidente della Repubblica, ma lascerà la carica l’8 luglio al vincitore delle ultime elezioni presidenziali, il verde Alexander Van der Bellen – che è riuscito al secondo turno ad avere la meglio del candidato della destra populista e xenofoba Norbert Hofer, vincitore al primo turno –, mentre alla guida del governo c’è Christian Kern, delfino del predecessore, membro del Partito socialdemocratico austriaco (SPO). In quattro anni è cambiato molto. La grande coalizione con i popolari del OVP scric- L’Italia? Male. I nostri pronostici apotropaici Credo che pure alla Gazzetta si vergognino della griglia di partenza (cioè dei pronostici) fatti per l’Europeo più snobbato che ci sia mai stato. L’hanno messa a pagina 4, addirittura dopo le cavolate di mercato che di solito tirano in piena estate quando non c’è altro da seguire che amichevoli del tipo Valli del SannioNapoli. Mettono la Germania in prima fila, e ci sta. Poi dietro la Francia, e siamo tutti d’accordo. Sul Belgio terzo (da qualche anno lo mettono sempre terzo, sarà perché è pieno di giovani e multietnico) iniziamo a dubitare, sulla Spagna quarta concordiamo. Ma ecco che al sesto posto (dopo l’Inghilterra di Hodgson) c’è l’Italia. Ora, va bene essere patriottici, colorarsi di verde bianco e rosso, rispolverare slogan da mondiale 2006 e piazzare la faccia di Lippi come fosse una sorta di amuleto meno sfigato di quello usato nel 2010. Ma a tutto c’è un limite. Come possa una squadra che schiera Pellé e non si sa chi in attacco, Thiago Motta con la maglia numero 10, e si affida all’anziano Buffon come sicurezza ultima e unica, lo sa forse solo la più ignota divinità che sovrintenda all’ordine delle cose. Comunque vedremo, c’è tempo per discutere e annoiarsi (il programma della prima fase è eccitante quanto una tribuna politica anni Settanta programmata alle undici di sera su RaiStoria) e, speriamo, per fare mea culpa. Penso che gli Azzurri non andranno oltre gli ottavi, soprattutto perché salvo poche eccezioni passeranno alla seconda fase tre su quattro, e il parterre propone squadre anni luce distanti dalla nostra per forza, fantasia e bel giuoco. Noi, come quasi sempre, ci affidiamo alla scaramanzia e ai ricorsi storici. Spesso ci va bene. Elpidio Pacifico E’ la prima volta che l’Islanda si qualifica a una competizione calcistica, e otto islandesi su 100 festeggeranno andando a seguire la nazionale in Francia: una cifra relativamente imponente, ma che in termini assoluti fa appena 20.000 persone. Scherzi di un micro-Paese dalle dimensioni talmente familiari che sulle maglie dei calciatori i tifosi hanno chiesto di far scrivere il nome invece del cognome. La piccola trasferta di massa ci segnala però possibilità di spendere, e in effetti dopo il crack finanziario del 2008 fu proprio nel 2012 che l’economia iniziò a riprendersi, in modo che ora è tornata ai livelli pre-crisi. In compenso, la politica resta agitata. Nel 2013 gli elettori hanno mandato a casa il governo di sinistra, richiamando al potere lo stesso centro-destra responsabile della crisi. Ma il primo ministro Sigmundur David Gunnlaugsson ha dovuto dare le dimissioni per i Panama Papers, e secondo i sondaggi alle elezioni anticipate potrebbero essere i Pirati il primo partito. Portogallo Il panico da rating, spread e debito pubblico di quattro anni fa sembra alle spalle, per il paese che dà l’iniziale al gruppo dei sorvegliati speciali dei “Pigs”. Terminato il piano di salvataggio della Troika, il pil nel 2015 è cresciuto dell’1,5 per cento, e si confermerà allo stesso tasso quest’anno. Le agenzie di rating hanno dichiarato la fine dell’emergenza finanziaria, mentre la disoccupazione è scesa dal 18 per cento del 2012 al 12 per cento degli ultimi mesi. Il premier di centrodestra Pedro Passos Coelho, autore delle misure di austerity, alle elezioni politiche del 2015 è diventato il primo leader della zona euro a confermarsi alla guida di un governo dopo il “trattamento Troika”. Ma in assenza di una maggioranza assoluta in parlamento, ciò non è bastato. A guidare il paese lusitano, dopo una sfiducia-lampo al governo Coelho, è da alcuni mesi una larga coalizione di sinistra, capitanata dal socialista Antonio Costa, che mira a “voltare pagina” rispetto all’austerità. La legge di bilancio dello scorso febbraio ha rischiato la bocciatura della Commissione europea, e ora Lisbona resta sorvegliato speciale dell’Ue. Un po’ come Cristiano Ronaldo, seppur in circostanze ben più dilettevoli. Hanno scritto in questa pagina: Ermes Antonucci, Giovanni Battistuzzi, Alberto Brambilla, Luciano Capone, Eugenio Cau, Maurizio Crippa, Luca Gambardella, Marco Valerio Lo Prete, Matteo Matzuzzi, Giulio Meotti, Paola Peduzzi, Maurizio Stefanini. ANNO XXI NUMERO 136 - PAG IV IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 10 GIUGNO 2016