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Le maschere di Raggi e Appendino nascondono la vera natura del

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Le maschere di Raggi e Appendino nascondono la vera natura del
IL FOGLIO
quotidiano
Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1
ANNO XXI NUMERO 136
Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO
VENERDÌ 10 GIUGNO 2016 - € 1,50
DIRETTORE CLAUDIO CERASA
Le maschere di Raggi e Appendino nascondono la vera natura del grillismo. Perfettamente sintetizzata in una parola: “Monetine”
L
e monetine, già. Beppe Grillo è un grande comico e come tutti i grandi comici sa giocare magnificamente con le maschere portate in scena dai suoi personaggi. Le maschere dei comici hanno un’infinità di significati ma quando un attore presenta al suo pubblico una maschera
si preoccupa prima di tutto di una cosa: rendere credibile ciò che si mostra e rendere almeno per un attimo invisibile ciò che si è. Quando la
maschera funziona, chi la osserva viene conquistato da quel personaggio. Sorride. Viaggia. Si emoziona. Proietta se stesso in un altro mondo.
A volte, persino, gli capita di sognare. Da questo punto di vista, almeno
finora, lo show delle elezioni comunali è uno degli spettacoli meglio riusciti a Beppe Grillo e le belle maschere usate dal Movimento 5 stelle per
far sognare il pubblico e proiettarlo in un mondo diverso stanno funzionando. Le maschere oggi hanno il volto di due ragazze per bene che
si chiamano Virginia Raggi e Chiara Appendino e attraverso le loro sto-
rie, i loro occhi, la loro voce bassa, calma, piatta, rassicurante, il partito di Grillo sta cercando di mettere in scena un’esibizione perfetta, anche se a suo modo comica: rendere credibile ciò che si mostra e rendere invisibile ciò che si è. L’operazione funziona solo se ciò che c’è dietro la maschera scompare per un attimo, come per magia, ed è anche
in virtù di quest’operazione che il fondatore del Movimento, Beppe Grillo, ha deciso di fare un momentaneo passo di lato (salvo poi firmare con
lo “staff di Beppe Grillo” il licenziamento di assessori sgraditi). Molti
osservatori, incantati dalle mascherine, hanno cominciato a descrivere
il favoloso mondo delle Raggi e delle Appendino come se fosse autonomo rispetto a quello di appartenenza. Ma un conto è innamorarsi delle
maschere (comprensibile). Un conto è dimenticare la differenza tra ciò
che si mostra e ciò che si è. Ciò che si è, ovvero la vera natura del Movimento 5 stelle, lo ha sintetizzato ieri con una battuta rapida il volto
più importante del grillismo, Luigi Di Maio, che si è augurato che dopo
i fischi ricevuti da Confcommercio Renzi riceva una buona dose di monetine in testa. “Oggi i fischi da Confcommercio, presto gli lanceranno
le monetine e poi Matteo Renzi a casa”. Le maschere possono sedurre
quanto si vuole, e in molti, soprattutto sui giornali, oggi ne sono conquistati. Ma quando si sposta la maschera e si osserva la vera natura del Movimento 5 stelle bisogna essere sinceri. Il Movimento 5 stelle è un partito che avrà molti elettori per bene ma è una realtà che come un fungo trae la sua forza e la sua linfa dai peggiori concimi disseminati in giro per l’Italia, molti dei quali sono stati impiantati nel nostro paese proprio ai tempi di Tangentopoli e delle famose monetine dell’Hotel
Raphaël. Al netto delle maschere, l’Italia sognata da Grillo è un’Italia
governata dalla cultura del sospetto, dalla politica del linciaggio, dal giacobinismo giudiziario, dalla dittatura delle procure, dalle cialtronerie
MINIMIZZARE I MORTI D’ISRAELE
L’ERETICO SECONDO FRANCESCO
Il Papa si scaglia contro chi s’affida solo alla “rigidità della legge”
e “agli idealismi che non ci fanno bene”. E invita a vivere di “sano
realismo cattolico”. Che è quello dell’ et et e non dell’aut aut
Roma. “Tante volte non si può arrivare
alla perfezione, ma almeno fate quello
che potete, mettetevi d’accordo per non
arrivare al giudizio. E’ questo il sano realismo della chiesa cattolica, che mai insegna ‘o questo o quello’. Piuttosto la chiesa dice ‘questo e questo’. Ecco il sano realismo del cattolicesimo. Invece non è cattolico ma è eretico dire ‘o questo o niente’”. Nella consueta omelia mattutina di
Santa Marta, Francesco si scaglia contro
l’idealismo rigido che “non permette di
riconciliarsi”. E’ l’idealismo degli scribi e
dei farisei, “tanto che quando veniva un
profeta che dava loro un po’ di gioia lo
perseguitavano e anche lo ammazzavano:
non c’era posto per i profeti lì”. La chiesa non può contemplare il tutto o il niente, bisogna vivere “la santità piccolina del
negoziato”, che poi è ciò che viene insegnato. La strada da seguire, la ricetta proposta, è quella “del possibile”, ha spiegato il Pontefice, che per la sua riflessione è
partito dal Vangelo del giorno. “Gesù – ha
detto – è il vero legislatore, quello che ci
insegna come dev’essere la legge per essere giusti”. Il problema è che “il popolo
era un po’ disorientato, un po’ allo sbando, perché non sapeva cosa fare e quelli
che insegnavano la legge non erano coerenti. Ed è proprio Gesù stesso a dire loro: ‘Fate quello che dicono, ma non quello che fanno’. Del resto – ha sottolineato
Bergoglio – non erano coerenti nella loro vita, non erano una testimonianza di vita”. Ed ecco che torna l’esigenza di “superare”, concetto già illustrato la scorsa
settimana ai sacerdoti che hanno seguìto
le tre meditazioni spirituali offerte dal
Papa in occasione del Giubileo loro dedi-
cato. Francesco in quell’occasione aveva
detto “a volte mi dà un misto di pena e di
indignazione quando qualcuno si premura di spiegare l’ultima raccomandazione,
il ‘non peccare più’. E utilizza questa frase per ‘difendere’ Gesù e che non rimanga il fatto che si è scavalcata la legge”.
Stavolta, il Pontefice ha rimarcato come
Cristo, “in questo passo del Vangelo dice
che ‘la vostra giustizia deve superare
quella degli scribi e dei farisei’. A questo
popolo un po’ imprigionato in questa gabbia senza uscita, Gesù indica il cammino
per uscire: è sempre un uscire in su, superare, andare in su”. Il disorientamento
del popolo era inevitabile, anche perché
“Gesù afferma che è peccato non solo uccidere, ma anche insultare e sgridare il
fratello. E questo fa bene sentirlo, proprio
in questo tempo dove noi siamo tanto abituati ai qualificativi e abbiamo un vocabolario tanto creativo per insultare gli altri. Anche offendere – ha chiosato Bergoglio – è peccato, è uccidere”. Qui Francesco ha tratto un paragone con i tempi correnti, citando gli esempi di contro testimonianza che pure sono presenti nella
chiesa: “Quante volte noi nella chiesa
sentiamo queste cose, quante volte!”, ha
detto, ricordando come sia frequente sentire frasi del tipo: “Ma quel prete, quell’uomo, quella donna dell’Azione cattolica, quel vescovo, quel Papa ci dicono ‘dovete fare così!’, e lui fa il contrario”. Questo – ha aggiunto – è proprio “lo scandalo
che ferisce il popolo e non lascia che il
popolo di Dio cresca, che vada avanti.
Non libera”. E anche “questo popolo aveva visto la rigidità di questi scribi e farisei”. (mat.mat)
Il vero limite di una dottrina à la page
Un Dio a nostra immagine e somiglianza espone la chiesa al rischio relativista
A
nche se a questo mondo ci sono tante
cose importanti da fare (per esempio
seguire i playoff di basket tra Milano e
Reggio Emilia, e capire che fine farà l’InDI
ALDO MARIA VALLI
ter in mani cinesi), continuo a studiare la
questione che mi sta a cuore dopo le perplessità sorte in me in seguito alla lettura
e rilettura di Amoris laetitia, specialmente
per quanto riguarda la pastorale del “caso per caso”. Due le domande.
La prima: può una norma morale generale essere ridimensionata e resa meno
stringente per adattarla al caso particolare? E qual è la relazione tra misericordia,
giustizia divina e verità rivelata? Voi direte: amico mio, continua a dedicarti al basket e all’Inter, forse è meglio! Posso essere d’accordo, però sapete che cosa c’è? Sono entrato in un’età in cui mi succede sempre più spesso di pensare alla morte, ma
non alla morte in generale: dico alla mia
morte. Non ho paura, ma prendo molto sul
serio il buon Dio, che mi ha donato la fede e mi ha dotato di ragione. Di qui le domande. Per esempio: una legge morale
universale, penso ai dieci comandamenti,
è adattabile a un caso particolare? Si può
derogare a una legge universale se l’applicazione della legge suona ingiusta per la
coscienza individuale? E poi la relazione
tra misericordia e perdono. Misericordia è
solo perdono? E il giudizio di Dio? Se la
misericordia è solo perdono, Dio non dimostra forse di non prendere sul serio la
mia libertà e la mia responsabilità? E se io
elimino dalla misericordia i riferimenti alla giustizia, non finisco col crearmi un Dio
a mia immagine e somiglianza, solo consolatorio? In chiesa nessuno più ci parla di
queste cose. Dei cosiddetti Novissimi, che
abbiamo studiato da piccoli al catechismo,
non si occupa quasi più nessuno. I Novissimi sono le cose che succederanno all’uo-
Non lo riesco a capire. Non riesco
davvero a capire perché, con tutti
i problemi che abbiamo per la testa, perfino una vacca nel corridoio, e le mammine di sinistra dei ragazzi
che votano cinque stelle le quali si scoprono grillette a sessant’anni, e il Milan da vendere, e quello della Consob che non risponde alla Gabanelli, e Benigni che fa la bella
mo alla fine della vita: la morte, il giudizio,
il destino eterno, la pace o il castigo, il paradiso o l’inferno. Ho notato che preti e
parroci parlano volentieri di cose importantissime come il riscaldamento globale
e il tasso di disoccupazione, ma diventano
improvvisamente reticenti quando ci sono
di mezzo i Novissimi. Perché? Mah! E pensare che la nostra vita quaggiù è un battito di ciglia. Procediamo. Circa il rapporto
tra norma morale generale e caso particolare mi sono imbattuto in un interessantissimo discorso di Pio XII. E’ del 1952, quando io ancora non ero nato. Papa Pacelli lo
tenne, in francese, alla Federazione cattolica mondiale della gioventù femminile e
vi si legge quanto segue: “Ci si chiederà come la legge morale, che è universale, possa essere sufficiente e persino essere obbligatoria in un determinato caso singolare che nella situazione concreta sua propria è sempre unico e di ‘una sola volta’”.
Bravo Pio XII, è proprio quello che mi
chiedo io! Ed ecco la risposta: “Lo può e
lo fa perché, precisamente a causa della
sua universalità, la legge morale comprende necessariamente e intenzionalmente
tutti i casi particolari in cui si verificano i
suoi concetti, e in numerosissimi casi lo fa
con una logica talmente concludente che
persino la coscienza del singolo fedele vede immediatamente e con piena certezza
la decisione da prendere”. Ecco quella
che si dice una risposta chiara. Ovviamente le parole di Pio XII non saltano fuori
dal nulla, ma arrivano dopo secoli di riflessioni della chiesa (pensiamo solo a san
Tommaso). E Pio XII, già nel 1952, sapeva
bene che si stava facendo strada una ‘nuova morale’, detta anche ‘morale della situazione’, secondo la quale alla norma
universale viene attribuita una certa, chiamiamola così, fluidità, in modo tale che si
possa procedere con adattamenti al caso
(segue a pagina due)
particolare.
vita coi quattrini della destra, e la Meloni
stoppata sul bagnasciuga da un’ex fascia di
gran pregio, e Pjanic alla Juve, e la Repubblica delle idee che non ne scova una manco morta, non riesco proprio a capire perché mai dovremmo, proprio noi, farci distrarre da un paio di ebrei del menga accoppati a Tel Aviv tra gli applausi palestinesi, quando la nostra Europa se ne fotte.
Questo numero è stato chiuso in redazione alle 20.30
benecomuniste, dal mito dispotico della democrazia diretta, dalla retorica vuota dell’antipolitica, dal disprezzo per gli strumenti del mercato
e da una generica propensione alla diffusione di teorie complottiste (l’11
settembre, i vaccini, il Bilderberg, gli inciuci, le scie chimiche, l’industria della shoah) messe scientificamente in circolo per creare zizzania,
fare massa critica e imporre una nuova illuminata dottrina caratterizzata dal riconoscere, possibilmente senza contraddittorio, la parola del
blog redentore come unica verità rivelata. Chi vota Grillo lo fa per mille ragioni e spesso lo fa in modo sincero ma chi sceglie di votarlo e sceglie di appoggiarlo deve ricordarsi che dietro la maschera c’è il volto
di un mondo medievale che prova a camuffarsi dietro gli sguardi
garbati di Raggi e di Appendino ma che alla fine non riesce a nascondere la sua vera natura. E a volta basta dire una parola per
mostrare il trucco e far sparire la magia. Le monetine, già.
Da Rep. al Monde, i media non
chiamano “terrorismo” la strage di
Tel Aviv. Al Arabiya meglio di Cnn
Harvard assume un falco iraniano
che parla di “pericolo ebraico”.
Una cattedra comprata da Teheran
Roma. Mentre i leader di tutto il mondo
condannavano l’uccisione di quattro israeliani al ristorante Max Brenner di Tel Aviv
(Max Brenner è uno dei marchi israeliani
Roma. Ali Akbar Alikhani è un celebre
professore dell’Università di Teheran. Ha
scritto e curato quindici libri accademici.
Al suo curriculum ora Alikhani ha aggiunto anche “visiting scholar” della Harvard
University, dove è stato assunto per lavorare a un progetto incentrato sulla “convivenza pacifica nell’islam”. Ma come rivela il
Washington Free Beacon, il suo lavoro precedente ha indicato che il professore ha
tutt’altro che pacifici sentimenti nei confronti di Israele e dell’ebraismo. La Facoltà di studi mondiali presso l’Università
di Teheran, dove insegna Alikhani, è strettamente legata al
regime iraniano
che ha spesso minacciato Israele
di distruzione e la
Facoltà ingaggia
gli studiosi che
appoggiano direttamente l’ideologia del regime
khomeinista. Alikhani ha pubblicato un libro intitolato “La minaccia ebraica - Pericolo per il cristianesimo e l’islam”. “L’autore fornisce soluzioni pratiche ed evidenti al giudaismo e al sionismo”, si legge. In
una serie di paper accademici controversi,
Alikhani ha elogiato anche Roger Garaudy,
un filosofo comunista francese che si è convertito all’islam e che ha guadagnato un po’
di notorietà quando ha negato l’Olocausto.
“Le istituzioni occidentali danno credibilità accademica e una piattaforma agli
estremisti che operano incontrastati attraverso le sembianze del dialogo interreligioso”, ha detto Sam Westrop, direttore di
Stand for Peace. “Legittimando un sostenitore del regime come Alikhani, Harvard sta
tradendo le migliaia di musulmani iraniani moderati che lavorano per liberarsi dalla tirannia della teocrazia iraniana”. Non
è il primo caso di infiltrazione del regime
iraniano nelle università americane.
Nel gennaio 2010, il regime di Teheran
annunciò il boicottaggio di Yale a causa
della presenza del Centro studi sull’antisemitismo. Il governo iraniano etichettò Yale
come “sovversiva”, dichiarando che qualsiasi contatto fra Yale e i cittadini iraniani
era “illegale e proibito”. Il professor Walter Reich, che insegna alla George Washington University e ha diretto il museo
dell’Olocausto di Washington, sul Washington Post ha rivelato che “Yale ha ucciso il
miglior istituto americano per lo studio
dell’antisemitismo” perché “critico dell’antisemitismo arabo e iraniano”. Il Centro, infatti, venne poi chiuso. I paesi arabi
sunniti non sono gli unici benefattori delle università americane. Il regime iraniano ha fatto la stessa cosa in maniera massiccia attraverso la Fondazione Alavi di
New York. E’ stato il Washington Post a rivelare che la Fondazione “promuove il
punto di vista di Teheran sugli affari mondiali”. Trenta università in nord America
hanno ricevuto il finanziamento di questa
fondazione iraniana. Fra queste proprio
Harvard, dove la fondazione iraniana ha
sostenuto programmi sia all’Harvard College sia alla Harvard Law School. Il portavoce di Harvard, Kevin Galvin, ha detto che i
funzionari di Harvard non erano a conoscenza dei legami della fondazione con il
regime iraniano. Harvard ha ricevuto 345
mila dollari dalla fondazione iraniana,
compresi 40 mila dollari all’Harvard Center for Middle Eastern Studies nel 2011.
Questo è il centro che ha offerto la cattedra al professor Alikhani.
L’obiettivo di questo braccio culturale
degli ayatollah è quello di “offrire corsi di
lingua persiana, studi iraniani e cultura
islamica con una particolare attenzione
agli studi sciiti”. Si sono dimenticati di
menzionare la chiamata alla distruzione di
Israele e le proposte per una “soluzione
del problema ebraico”. Fra queste, l’attacco terroristico in cui sono rimasti uccisi
quattro israeliani a Tel Aviv. (gm)
DI
PROGNOSI DEL BERLUSCONISMO
Il cuore del Cav. ha rischiato ma ora è fuori pericolo. Molti auguri, sospiri
di sollievo. Ma dopo l’operazione, il tema è più che mai urgente: il futuro,
l’eredità del centrodestra, la scelta tra i Matteo. Che fare? L’orizzonte c’è
U
na volta, appena operato e guarito, chiese all’amico che era andato a trovarlo in
clinica: “Scommetti che non avevo niente, e
questi medici mi hanno operato per farsi pubDI
SALVATORE MERLO
blicità?”. E sempre Silvio Berlusconi si è rapportato in modo gagliardo alle grandi malattie, quelle del suo corpo e quelle della sua politica, dando sempre del tu al pericolo, un po’
per esorcismo e connaturato ottimismo, per
gioia birbante e allegra megalomania, così ha
dato del tu al cancro alla prostata, che lui ha
combattuto e sconfitto, così alla decadenza da
senatore, agli alterni impicci e ai guai che
hanno ininterrottamente agitato la vita litigiosa delle sue ventennali coalizioni di governo.
La forza, per il Cavaliere, è sempre stata quella di truffare il dolore, l’umiliazione, persino
l’età: “Sono invincibile”; “Mi odori Vespa, lo
sente? Questo è odore di santità”; “Un erede?
Ne ho almeno due o tre in testa”; “State tranquilli, ho un dinosauro nel cilindro”. Frasi palindrome, ribalderie, allusioni a un suo sempre impossibile ritiro, serissime spiritosate,
perché il dinosauro preferito di Berlusconi è
sempre stato Berlusconi, e solo Berlusconi,
l’uomo che ha costruito tutto se stesso e la
propria epica del comando intorno al carisma
monocratico, ludico e cinematografico dei
grandi palchi illuminati dove un solo capo
sulla tolda intona assieme al popolo i gingle
elettorali di “Forza Italia” e “Meno male che
Silvio c’è”. Sedici anni fa, nel frastuono del
Forum di Assago, primo strano congresso di
Forza Italia, qualcuno gli chiese: “Chi è il numero due di Forza Italia?”. E lui: “E’ Gianni
Letta!”. “Ah, bene. Ma dov’è adesso Letta?”.
“Non c’è”. “Anzi, non è nemmeno iscritto”.
Come disse una volta Adriano Galliani: “Si sa
bene chi sono i tre eredi di Silvio Berlusconi”.
E chi sono? “Il primo è Silvio, il secondo è
Berlusconi, il terzo è Silvio Berlusconi”. Così
adesso, ora che l’hanno ricoverato al San Raffaele, in questa vicenda in cui forse c’è anche
l’esaurimento momentaneo di un uomo che si
è svuotato nel trasfondere sangue all’organismo anemico del centrodestra, adesso che
giungono i bollettini medici, i sospiri di sollievo per lo scampato pericolo, gli auguri e le urgenti prescrizioni d’una operazione chirurgica a cuore aperto, adesso lo si può immaginare non meno scavezzacollo e spensierato di
tutte le altre volte in cui si è trovato in difficoltà, spensierato nel senso d’un uomo troppo
sicuro di sé per porsi il problema del futuro,
e troppo superbamente impolitico anche so-
lo per immaginare di rimettere ordine e offrire un orizzonte d’immortalità al berlusconismo, e insomma di fare nella politica quello
che in realtà da quasi un anno ha cominciato a fare nelle sue aziende. Esattamente un
anno fa veniva infatti ceduto il 25 per cento
delle antenne Ei Towers, poi ci fu la liquidazione del leasing della sede del Giornale a Milano, la cessione del 50 per cento delle assicurazioni Mediolanum, poi a novembre del 2015
la storica acquisizione della Rizzoli Libri da
parte di Mondadori, poi l’8 aprile 2016 l’ingresso di Vincent Bolloré in Mediaset, e infine anche il Milan, che prima o poi sarà venduto ai cinesi. Ma Forza Italia non la si può
vendere ai cinesi. E il centrodestra non è la
Mondadori che conta sulla determinazione di
Marina, e non è nemmeno Mediaset che ha
Pier Silvio. In politica c’è un non erede che
si chiama Matteo Salvini, c’è uno strano amatissimo avversario che si chiama Matteo Renzi, ci sono tanti voti sorprendentemente ricomparsi in queste elezioni amministrative e
c’è poi un partito sospeso, incerto, in bilico,
che ha sempre vissuto all’ombra del potere finanziario e carismatico del suo padrone: che
ne sarà di Forza Italia? “Fare il leader di un
partito è cosa che gli sconsiglio da tempo”, ha
detto ieri, con un saggio sorriso, il suo medico personale, Alberto Zangrillo. “Ma tra un
mese, dopo l’operazione al cuore, potrà fare
quello che vuole”, potrà decidere. E che vorrà
farne il Cavaliere del berlusconismo? Quale
destra sceglierà, se mai sceglierà? Nel Medioevo, come raccontano i libri di Marc Bloch sui re taumaturghi, con l’impedimento del
sovrano si rischiava la dissoluzione del regno:
la sua salute era il collante tribale. E nessuno più di Berlusconi, nella politica europea,
ha assunto tratti pre-politici, da re taumaturgo, appunto. Così da una parte c’è l’ordine nel
disordine, dunque il riassetto delle aziende,
della roba e del portafoglio che si accompagna al lascito politico. Dall’altra, forse, la dissipazione di un ventennio e di una storia che
è stata di governo e non di sole urla, di moderazione, a volte giocosamente immoderata, e
non di cupo populismo trinariciuto. Un capo
come lui, attorno al quale tutto si è sempre
condensato e scomposto, per suo calcolo e capriccio, imperio e arbitrio, può certo spogliarsi ma mai dimettersi, può cioè mettere a posto l’eredità, indicare un orizzonte, ma senza
dismettere il carisma. Non più leader, ma padre e bandiera. E d’altra parte non si lascia
soltanto quando ci si sente “al di sotto”, ma
anche quando si è “al di sopra”.
Sul cuore matto e grande del Cavaliere
P
oi però andrà tutto bene, perché l’ottimismo è sempre stato
la chiave di volta di Silvio Berlusconi. O meglio, più che ottimismo,
CONTRO MASTRO CILIEGIA - DI MAURIZIO CRIPPA
la convinzione naturale che la vita è bella e
buona, e produce sempre un gioviale vantaggio e va vissuta così, senza risparmio, perché
il tempo è denaro, e come no!, ma è anche
l’allegria del fare e di godersi le cose. Poi
però non era andato tutto bene, in quel ricovero di routine dopo lo stress delle elezioni, se ieri il suo medico di fiducia, Alberto
Zangrillo, durante una conferenza stampa al
San Raffaele ha dovuto dire che “Berlusconi ha rischiato di morire: è arrivato in ospedale in condizioni molto severe, ha rischiato la vita e ne era consapevole”. E che l’ex
presidente del Consiglio e di infinite altre
cose sarà operato al cuore “per un’insufficienza aortica grave”, con sostituzione della
valvola aortica. Ma stare qui a far la cronaca coi bollettini medici e gli strologamenti
non è da noi, da noi del Foglio, che al Cav.,
“l’Amor nostro”, abbiamo sempre voluto e
solo bene. E honi soit chi stasera non la pensa bene assieme a noi. Ma andrà tutto bene
davvero, perché neppure Silvio Berlusconi
nei suoi momenti di onnipotenza col suo
amico don Verzé – e neppure i suoi peggiori odiatori nei loro peggiori incubi – ha mai
supposto di essere immortale. E quando è
venuto a trovarci per i nostri vent’anni, il suo
debutto in redazione, spargeva vitalità e celiava con grazia sui suoi ottant’anni e sulle
battute che si scambiano, in materia, lui e
l’amico Fidel. Certo, nel suo cuore diventato d’un tratto matto ci sono anche i segni di
un uomo che non s’è risparmiato nulla e che
del suo corpo di brianzolo ricco e postmoderno ha sempre fatto quel che ha voluto, inseguendo un suo ideale privato di bellezza
e di eterna giovinezza. Fatto per cui tanti
l’hanno detestato: gente di un mondo che invece gli assomiglia così tanto. E non vi spiegheremo adesso perché. Vi spiegheremo invece che come un re pronto a farsi fare a
pezzi ha dato molto del suo cuore, della sua
energica salute, per le cose in cui credeva,
per la politica che sognava, per il “popolo
della libertà” (sia scritto minuscolo) che ama
e che lo adora. Meglio di così non potrebbe
mai andare. Da noi abbia una stretta di mano, quelle strette di mano che non ha mai rifiutato a nessuno, e un in bocca al lupo.
GIULIO MEOTTI
di cioccolata presi di mira dal boicottaggio), i media italiani e stranieri sbagliavano ancora una volta i titoli. Fra le vittime
della strage, oltre a un ex commando delle
forze di sicurezza israeliane e a due donne, anche un professore della Ben Gurion
University, il sociologo e antropologo Michael Feige. Il ministero della Difesa, ora
sotto la guida di Avigdor Lieberman, ieri ha
promesso che “la vita a Yatta non sarà più
uguale” (è il nome del villaggio palestinese da cui provengono i due terroristi).
“Catturati gli aggressori”, ha titolato il sito di Repubblica, senza mai usare la parola “terroristi”. Il Corriere della Sera li
chiamava invece “killer”. Dal Monde a
Libération passando per il Nouvel Obs, tutta la stampa francese ha usato la parola
“fusillade”: sparatoria. La Cnn ha riportato
dell’attentato mettendo fra virgolette la parola “terroristi”. La Bbc ha usato l’espressione “Tel Aviv shooting”, sparatoria, mentre le forze di sicurezza israeliane avevano
già fermato i terroristi e non c’erano dubbi sulla matrice dell’attentato. Anche Sky
News ha usato“Mass Shooting in Tel Aviv”,
mentre il Guardian ha scritto: “Three Dead
in Tel Aviv Market Shooting”. L’Independent ha fatto di peggio: “Tel Aviv shooting,
three killed and six wounded in Israeli capital attack”. Non solo non c’è la parola
“terrorismo”, ma Tel Aviv diventa “capitale” anziché Gerusalemme (l’Independent
ha modificato il titolo dopo le proteste di
Honest Reporting). Neppure il New York
Times è riuscito a dire la verità e ha riferito dei terroristi come “Palestinian gunmen”. La migliore è stata la disinibita Fox
News, che ha titolato: “Terror in Israel”.
Era così difficile? Gli stessi media che hanno “sbagliato” i titoli, non hanno saputo o
voluto mostrare le immagini dei palestinesi in festa a Gaza, a Hebron, a Tulkarem e
alla Porta di Damasco a Gerusalemme, che
hanno distribuito dolci ai passanti per celebrare l’attentato al ristorante di Tel Aviv.
I giornali e le televisioni di tutto il mondo non sembrano aver imparato niente da
quando è scoppiata “l’Intifada dei coltelli”.
Per dirla con Simon Plosker, direttore di
Honest Reporting, “nessun giornale in Europa ha riconosciuto chi sta attaccando
chi”. Vittima israeliana e terrorista palestinese sono sempre finiti sullo stesso piano.
L’Independent anche allora era riuscito a
strangolare la verità con uno sproposito di
parole: “Ragazzo di sedici anni diventa la
settima vittima palestinese delle forze di sicurezza dopo un accoltellamento a Gerusalemme”. Neppure il Telegraph, giornale
conservatore inglese, ieri riusciva a scandire “terrorista”, così come a ottobre scrisse:
“Forze di sicurezza israeliane uccidono altri quattro palestinesi”. “Palestinese ucciso dopo inseguimento della polizia a Gerusalemme”, era stato il capolavoro a ottobre
di Msnbc. Ieri la rete americana ha riferito di un “mass shooting”, neanche fosse
successo nella scuola Columbine. Su Sky
News, neppure la parola “palestinese” è
emersa: “Polizia israeliana: gli attacchi di
Gerusalemme fanno tre morti”.
Il canale televisivo saudita al Arabiya è
stato più onesto dei media occidentali, definendo “vittime” i morti israeliani. E
Dahham al Enazi, membro dell’Associazione dei giornalisti sauditi, ha condannato
così la strage: “L’uccisione di civili innocenti, come accaduto durante l’attacco di
Tel Aviv, è terrorismo”. Terrorismo, non
sparatoria. Altrettanto più onesta, nella
sua sinistra franchezza, la giornalista di al
Jazeera, Salma al Jamal, che ieri ha detto:
“L’Operazione Ramadan è la migliore risposta alle storie sul ‘processo di pace’”.
Anche molti comitati di redazione dalle
nostre parti la sottoscriverebbero.
DIROTTA SU RAQQA
Arrivano anche i francesi. La missione “alternativa” dei russi
Milano. Le forze speciali francesi sono arrivate nel nord della Siria per collaborare
con gli Stati Uniti, i curdi (Ypg) e le Forze
democratiche siriane (Sdf) alla riconquista
di Raqqa. L’obiettivo militare principale è
la cittadina di Manbij, nei tempi antichi famosa per il culto della “dea della Siria”
Atargatis e oggi ultima via di comunicazione
aperta dello Stato islamico con il resto del
(Peduzzi segue a pagina quattro)
mondo.
ANNO XXI NUMERO 136 - PAG 2
La rimozione
Storia di Giuseppe Tavecchio,
vittima casuale e dimenticata
della violenza politica. Un libro
L’11 marzo 1972 era un
sabato, a piazza della Scala e
in tutto il resto del mondo.
Solo che a Piazza della Scala,
per un milanese che si
chiamava Giuseppe
RIPA DEL NAVIGLIO
Tavecchio, sessant’anni, pensionato, il
tempò si fermò per sempre. Alle cinque e
dieci del pomeriggio, all’angolo tra via
Manzoni e via Verdi, fu colpito a morte
durante una manifestazione. Una di quelle
manifestazioni che da tre anni erano
diventate fatto quotidiano in città, e nel
resto del mondo. Ma che a Milano a poco a
poco (o in fretta in fretta) erano diventate
sempre più violente: “Tre anni di lotta ce
l’hanno insegnato, uccidere un fascista non
è reato”. Mentre dall’altra parte si poteva
urlare: “L’ebreo è sempre reo”. La mattina
di quel sabato forse il signor Tavecchio
non aveva letto il giornale, con la notizia
che “i gruppuscoli della sinistra
extraparlamentare” (il Corriere) avevano
confermato una loro manifestazione “per
la liberazione immediata di Pietro
Valpreda”. Mentre gruppi della destra
avevano programmato un comizio, sempre
in centro. Il rischio di incidenti avrebbe
dovuto essere scongiurato dal divieto della
questura circa lo svolgimento
contemporaneo di manifestazioni di
opposto estremismo. Ma la “decisione di
cercare lo scontro a tutti i costi” era già
stata presa da giorni, tra i capi delle varie
organizzazioni. Il pomeriggio di quel
sabato, il signor Tavecchio, che abita nella
periferia sud-est di Milano, a piazzale
Martini, decide di prendere il tram, il 13, e
andare in centro, dietro alla Scala.
Precisamente in via del Monte di Pietà, dal
suo vecchio macellaio di fiducia. Il
percorso di Giuseppe Tavecchio punta
inconsapevole verso un collo di bottiglia
fatale, tra il Castello sforzesco, dove sta per
finire il turbolento comizio della destra, e
via Mercato, dove la manifestazione della
sinistra sta accendendo i primi fuochi di
molotov. Il puzzo dei lacrimogeni è già
nell’aria. Comprate le sue fettine di vitello,
Tavecchio sta tornando verso piazza della
Scala, lungo via Verdi. Alcuni ragazzi con
caschi e fazzoletti stanno trasformando
alcune auto in barricate. Così Tavecchio
gira l’angolo, poi imbocca via Manzoni.
Quando arriva alla piazza, è scoppiato
l’inferno. Sgommano le camionette della
Polizia, che si dirigono verso altri scontri
in piazza Duomo, e verso la sede del
Corriere in Via Solferino, presa d’assalto.
Il signor Tavecchio, in un attimo di calma
sospesa, decide di attraversare la strada.
Nello stesso istante, dentro una
camionetta, si dà l’ordine di sparare due
lacrimogeni. Il secondo, non si sa perché,
parte ad altezza uomo. All’altezza della
nuca di Giuseppe Tavecchio, che “cade sul
pavé in mezzo all’attraversamento
pedonale”.
Andrea Kerbaker è uno scrittore e un
umanista sensibile, che ama molto Milano,
un bibliofilo raffinato. Ha scritto “La
rimozione - Storia di Giuseppe Tavecchio,
vittima dimenticata degli anni di piombo”
(Marsilio, 126 pagine, 15 euro) un po’ per
rendere omaggio a una vittima
sconosciuta della violenza politica e del
caso (e del caos), un po’ per non perdere
la memoria di una città, dei suoi luoghi,
dei suoi protagonisti. Il suo è un viaggio
pacato, quasi sottovoce, nelle vie, le
istituzioni, le pagine dei giornali, il clima
politico di quei primi anni 70. E i fatti, le
ricostruzioni minuziose, compreso il
resoconto della visita a casa dei figli della
vittima, così tanti anni dopo, parlano da
sé. A quella morte accidentale seguì un
processo poco seguito. Una condanna
lieve in primo grado per due agenti,
annullata in Appello “perché il fatto non
costituisce reato”. Non esiste una lapide
all’angolo di piazza della Scala che ricordi
Giuseppe Tavecchio, passante che avrebbe
compiuto sessant’anni, ucciso quel sabato
pomeriggio del 1972. Un bel capitolo del
libro si intitola “Geografia delle lapidi”, è
una passeggiata significativa dentro la
storia di Milano e dentro alcune sue
“rimozioni” dolorose e silenziose.
Maurizio Crippa
PREGHIERA
di Camillo Langone
C’era un omone diventato famoso perché picchiava le persone. C’era il sospetto che
l’omone fosse diventato campione mondiale di pugni grazie ai mafiosi italoamericani, capaci di pagare il suo avversario affinché perdesse. Di sicuro
l’omone era solito insultare i rivali e
diffondere l’odio verso le persone con
un colore della pelle diverso dal suo.
Non pago di avere personalmente inflitto tanto dolore un bel giorno l’omone tradì Cristo convertendosi alla più
violenta religione disponibile su piazza, prendendo il nome di un profeta
guerrafondaio il cui libro sacro ha
riempito e continua a riempire la storia
di stragi. Le spoglie mortali dell’omone
(la cui anima suppongo abbia raggiunto all’inferno colui che definì “nobile
arte” il pugilato) vengono oggi onorate
da un funerale internazionale con discorsi vip e passerella di potenti. Mi sono interrogato sulla ragione di così vasto rimpianto e l’ho trovata nel Vangelo di Giovanni, laddove Gesù definisce
il diavolo “padre della menzogna”: un
padre prolifico e persuasivo, in grado
di convincere milioni di persone che il
male sia bene e che un omone diventato famoso perché picchiava le persone
meriti la beatificazione.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 10 GIUGNO 2016
L’ E X M I N I S T R O I R A C H E N O W A R D A : “ L’ I T A L I A R I C O N O S C A I L G E N O C I D I O ”
Prima le nozze forzate, poi lo stupro. Il destino di una cristiana a Mosul
Roma. La piccola croce tatuata sul
braccio è stata la sua condanna: fermata da una banda di miliziani califfali che
presidiava le strade di Mosul, nell’estate di due anni fa, mentre stava cercando
il marito, scomparso nel nulla mentre i
jihadisti occupavano la città. “La gente
se ne stava andando, tutti stavano abbandonando la città, anche i musulmani. Io però non avevo nessuno, avevo la
speranza di ritrovare mio marito. Mi dicevo, se partissi, dove andrei?”. Subito
trasferita – assieme a uno dei suoi tre
bambini, gli altri due li aveva affidati ai
vicini di casa – in un campo di prigionia,
è stata più volte stuprata. “Fino a nove
volte a notte”, ha detto la donna irachena intervistata dall’organizzazione no
profit “In defense of Christians”. La storia è stata poi ripresa dall’emittente Fox
News. “Prima di ogni stupro però, si celebrava un rapido matrimonio e poi un
altrettanto rapido divorzio”: per i miliziani tanto bastava a giustificare la pratica, ammantandola d’un alone legale e
religioso. “Mi prendevano ogni volta che
volevano. Uno in particolare, Farouk,
era ossessionato da me e diceva che gli
piacevano le donne di Gesù”. Ciò che è
capitato a lei è accaduto “a molti cristiani e yazidi”, ha detto Toufic Baaklini,
presidente di “In Defense of Christians”,
aggiungendo che la diffusione di storie
come questa ha l’obiettivo di sensibilizzare il mondo a fare qualcosa per porre
fine alla persecuzione. “La decisione degli Stati Uniti di definire ufficialmente
genocidio la condizione dei cristiani in
Iraq è il primo passo. Il prossimo dovrebbe essere la creazione di una zona
protetta per loro sulla falsa riga di quella realizzata negli anni Novanta da Washington e dalla Nato per proteggere i
musulmani durante la guerra in Bosnia”, ha aggiunto Baaklini. Dopotutto, i
cristiani nel vicino e medio oriente
“chiedono solo di vivere in pace, poter
pregare ed essere liberi. Una zona protetta, un’area messa in sicurezza sarebbe dunque il passo necessario per garantire loro la possibilità di far rientro
nelle proprie case”, prosegue il presidente dell’organizzazione no profit.
Intanto arrivano le prime adesioni all’appello lanciato l’8 giugno su questo
giornale dalla fondazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che soffre-Italia
affinché anche l’Italia riconosca che
quello in corso tra Siria e Iraq è un genocidio. Ottantasette parlamentari ita-
liani, tra deputati e senatori, hanno già
aderito, mentre Pascale Warda, già ministro iracheno per le Politiche migratorie
e attuale presidente dell’organizzazione
Hammurabi Human Rights, ha detto che
“non abbiamo fatto nulla di fronte al
massacro collettivo di persone innocenti. Ora il minimo che possiamo fare è
chiamare con il loro nome le atrocità
commesse dall’Isis”. Warda, che ha partecipato alla campagna che ha portato al
riconoscimento del genocidio da parte
del Congresso e del dipartimento di stato americani, invita il governo italiano a
imitare Washington: “E’ la nostra prima
responsabilità, se vogliamo davvero essere una comunità internazionale e non
una mera unione di stati che di fatto
stanno legalizzando delle atrocità”.
Matteo Matzuzzi
SALVEZZA DELLE ANIME VS. BENESSERE PSICOFISICO DEI FEDELI
Il dramma di una chiesa che si limita solo a consolare e giustificare
CI STIAMO COSTRUENDO UN DIO A NOSTRA IMMAGINE E SOMIGLIANZA. LA MISERICORDIA NON E’ UN COLPO DI SPUGNA
(segue dalla prima pagina)
Ascoltiamo dunque Pio XII mentre parla della nuova morale: “Il segno distintivo di tale morale è costituito dal fatto che
essa non si basa in alcun modo sulle leggi morali universali, come ad esempio i
dieci comandamenti, ma sulle condizioni
o circostanze reali e concrete nelle quali
si deve agire, e secondo le quali la coscienza individuale è tenuta a giudicare
e a scegliere; questo stato di cose è unico
ed è valido una sola volta per ciascuna
azione umana. Perciò la decisione della
coscienza, affermano coloro che sostengono tale etica, non può essere imperata
dalle idee, dai principi e dalle leggi universali […]. Espressa sotto questa forma,
l’etica nuova è talmente al di fuori della
Fede e dei principi cattolici che persino
un bambino, se conosce il suo catechismo,
se ne può rendere conto e lo può percepire”.
Queste ultime parole sono forti e quindi sono andato a rileggerle nell’originale
francese, trovando la conferma che il Papa dice proprio così: “Sous cette forme expresse, l’éthique nouvelle est tallement en
dehors de la Foi et des principes catholiques,
que même un enfant, s’il sait son catéchisme,
s’en rendra compte et le sentira”. Qualcuno
a questo punto dirà: “Vabbé, ma tu vai a
prendere Pio XII! E’ preconciliare!”. Sì, è
preconciliare, e allora? Forse per questo
è meno ragionevole? Lo stesso Papa Francesco, pochi giorni fa, in una delle meditazioni rivolte ai preti per il loro giubileo,
ha raccomandato di leggere Haurietis
aquas, l’enciclica di Pio XII sulla devozione al Sacro Cuore (1956), e ha commentato: “Ma è preconciliare! Sì, ma fa bene!”.
Nel corso del tempo, naturalmente, l’insegnamento della chiesa in materia è andato avanti, e san Giovanni Paolo II, con
Veritatis splendor, l’enciclica del 1993 “circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della chiesa”, torna a
confrontarsi con la questione della “morale della situazione” o, come diciamo oggi, del caso per caso.
Ascoltiamo dunque Papa Wojtyla. Il capitolo di Veritatis splendor che qui ci interessa è il secondo (La coscienza e la verità), dove il Pontefice, interrogandosi sul
rapporto tra la libertà dell’uomo e la legge di Dio, e sottolineando che ciascuno di
noi avverte dentro di sé, nell’intimo della sua coscienza, una legge che non è lui
a darsi e che lo chiama sempre a fare il
bene e a fuggire il male, a un certo punto
scrive: “In tal senso le tendenze culturali
[…] che contrappongono e separano tra loro la libertà e la legge ed esaltano in modo idolatrico la libertà conducono ad
un’interpretazione “creativa” della coscienza morale, che si allontana dalla posizione della tradizione della chiesa e del
suo Magistero”.
Giovanni Paolo II è ben cosciente dell’opinione di diversi teologi, secondo i
quali la funzione della coscienza non può
essere ricondotta alla semplice applicazione di norme morali generali. Secondo
tali teologi, dice il Papa, “queste norme
non sono tanto un criterio oggettivo vinco-
lante per i giudizi della coscienza, quanto piuttosto una prospettiva generale che
aiuta in prima approssimazione l’uomo
nel dare un’ordinata sistemazione alla
sua vita personale e sociale”. Quando
però si tratta di fare i conti con la realtà
concreta del singolo caso, è la coscienza
individuale, con la sua “creatività” a essere esaltata. Qui sembra proprio che Giovanni Paolo II, con più di vent’anni d’anticipo, immagini certi passi di Amoris laetitia che mi lasciano perplesso. Ma ascoltiamo ancora Wojtyla: “Per giustificare simili posizioni, alcuni hanno proposto una
sorta di duplice statuto della verità morale. Oltre al livello dottrinale e astratto, occorrerebbe riconoscere l’originalità di
una certa considerazione esistenziale più
concreta. Questa, tenendo conto delle circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla
regola generale e permettere così di compiere praticamente, con buona coscienza,
ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge morale”.
E che cosa succede lungo questa strada? Dove si va a parare secondo la logica
delle eccezioni alla regola generale? Risposta di Giovanni Paolo II: “In tal modo
si instaura in alcuni casi una separazione,
o anche un’opposizione, tra la dottrina del
precetto valido in generale e la norma
della singola coscienza, che deciderebbe
di fatto, in ultima istanza, del bene e del
male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette
‘pastorali’ contrarie agli insegnamenti del
Magistero e di giustificare un’ermeneutica ‘creatrice’, secondo la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata,
in tutti i casi, da un precetto negativo particolare”.
Parole profetiche. Alle quali Giovanni
Paolo II aggiunge questa riflessione: “Non
vi è chi non colga che con queste impostazioni si trova messa in questione l’identità
stessa della coscienza morale di fronte alla libertà dell’uomo e alla legge di Dio”.
Consiglio a tutti di rileggere interamen-
BORDIN LINE
di Massimo Bordin
La parola chiave è un aggettivo: “Vero”. Più impegnativo e
meno preoccupante della “Verità” con
la maiuscola, usata dalla procura di Trani quando manda lettere a questo giornale. L’aggettivo si usa per definire qualcosa come corrispondente alla realtà,
qualcosa di effettivamente avvenuto e di
verificabile. “Gravi, scomposte e sorprendenti” sono state definite da una
nota del Csm le parole pronunciate, e
poi smentite, dal presidente dell’Anm
Davigo sul metodo correntizio per le nomine dei magistrati. Il profluvio di aggettivi copre l’economia di quello decisivo:
“False”. Sul merito delle dichiarazioni
l’aggettivo è rimasto nella penna dei
consiglieri. Il criterio di verità viene
però recuperato a proposito della effettiva pronuncia di quelle parole. La nota
te Veritatis splendor. Ma io, dicevo, ho una
seconda questione da affrontare: quale
relazione c’è tra misericordia e giustizia
divina? Papa Francesco, meditando sulla
parabola del padre misericordioso (cfr Lc
15,11-31), nel corso degli esercizi spirituali con i preti (San Giovanni in Laterano,
prima meditazione, 2 giugno 2016) a un
certo punto spiega: “Il cuore di Cristo è un
cuore che sceglie la strada più vicina e
che lo impegna. Questo è proprio della
misericordia, che si sporca le mani, tocca, si mette in gioco, vuole coinvolgersi
con l’altro, si rivolge a ciò che è personale con ciò che è più personale, non ‘si occupa di un caso’ ma si impegna con una
persona, con la sua ferita”. Poi, dopo aver
messo in guardia dal “clericalismo” che
riduce una persona a un caso non che dalla “pastorale pulita” ed “elegante” che
però non si mette in gioco e non rischia
niente, dice: “La misericordia va oltre la
giustizia e lo fa sapere e lo fa sentire; si
resta coinvolti l’uno con l’altro. Conferendo dignità – e questo è decisivo, da non dimenticare: la misericordia dà dignità – la
misericordia eleva colui verso il quale ci
si abbassa e li rende entrambi pari, il misericordioso e colui che ha ottenuto misericordia. Come la peccatrice del Vangelo
(Lc 7,36-50), alla quale è stato perdonato
molto, perché ha amato molto, e aveva
peccato molto”.
Sono parole molto belle, che certamente toccano il cuore di molti. Non di meno
c’è da interrogarsi: “La misericordia va
oltre la giustizia”. Dunque, quando io morirò e sarò davanti a Dio, secondo quale
metro sarò giudicato? Se, in nome della
morale della situazione, non avrò rispettato le leggi universali date da Dio e trasmesse dalla mia santa madre chiesa, come sarò accolto da Dio? E poi: è la misericordia, solo la misericordia, che mi conferisce dignità? E la libertà? E la responsabilità? Qui mi è arrivato in aiuto il testo di un amico. Non farò il suo nome, perché non so se gli fa piacere (da quando alcuni mi hanno bacchettato per le mie criè successiva a una smentita di Davigo, di
cui sembra tenere conto molto relativamente. Davigo quelle parole le ha veramente dette? A questo punto l’aggettivo
slitta, cambia di bersaglio e si può usare.
Una agenzia riassume: “Csm: se vere, parole gravi e sorprendenti”. Dopo meno
di mezz’ora Davigo replica per la stessa
via: “Non vere le dichiarazioni attribuitemi”. Nel senso che sostiene di non
averle dette. La verità, minuscola, è che
sono vere le dichiarazioni, sentite da un
paio di centinaia di magistrati che le
confermano e vero il loro merito. Come
si deduce dalla singolare volgarità dell’aggettivo “sorprendente” che il Csm
spiega nella sua nota, dove in soldoni dice: ma come? Ti abbiamo appena promosso e tu ci ripaghi così? La ribadita
smentita dell’incorruttibile Davigo suona come una presa d’atto del punto da
non oltrepassare.
tiche al pensiero pastorale di Francesco,
continuo a esporre me stesso ma evito di
farlo con altri, che potrebbero non gradire), però saccheggerò impunemente il suo
pensiero. Dunque, sostiene il mio amico,
sulla parola misericordia, così centrale
nel magistero di Francesco, occorre interrogarsi. E’ parola bellissima, che tocca direttamente il cuore, specialmente dei sofferenti (come ho visto bene dalle decine
e decine di reazioni che mi sono arrivate
dopo i miei ultimi articoli dedicati ad
Amoris laetitia), ma non bisogna pronunciarla invano. Se ci facciamo caso, nell’insegnamento della chiesa la misericordia
non è mai lasciata sola. Recita per esempio il Salmo 84: “Misericordia e verità
s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e
la giustizia si affaccerà dal cielo”. Ecco.
Misericordia, giustizia, verità. Non ci sarebbe bisogno di misericordia se non ci
fosse il peccato e non ci fossero i peccatori. Possiamo isolare la misericordia infinita di Dio dai suoi comandamenti? Si
può disgiungere la misericordia dalla giustizia? Si può separare la misericordia
dalla legge assegnata per la nostra salvezza?
La misericordia senza giustizia e senza
verità, dice il mio amico, non ha significato. Per la chiesa c’è un tribunale di misericordia sempre aperto, fino all’ultimo respiro: è il sacramento della confessione.
E’ lì che tutti noi, anche all’ultimo secondo dei tempi supplementari, e anche se
nella nostra vita siamo stati grandissimi
peccatori, possiamo essere perdonati.
Possiamo esserlo se ci pentiamo sinceramente e chiediamo perdono. Ecco la giustizia che fa capolino. La misericordia
non è il colpo di spugna che tutto cancella. Dio ci prende sul serio! E noi siamo
chiamati a fare altrettanto con lui!
“Neanch’io ti condanno” dice Gesù all’adultera. Ma aggiunge: “Va’ e d’ora in
poi non peccare più”. Io ho invece l’impressione che oggi ci stiamo costruendo
un Dio a nostra immagine e somiglianza,
del quale diventa espressione una chiesa molto simpatica ma, ahimé, relativista.
Una chiesa che sembra avere a cuore non
la salvezza delle anime, ma il benessere
psicofisico delle persone. Una chiesa che,
ignorando giustizia e verità, non giudica
ma si limita a consolare e giustificare. E’
una chiesa à la page, che pensa di non dover perdere tempo con la dottrina e per
questo piace molto ai laicisti di ogni colore ed estrazione. E’ una chiesa che non
ritiene necessario, perché poco “moderno”, confermare i fratelli nella fede, ma è
sensibile agli applausi che arrivano dai
lontani. Così tutti quelli che, con ostinazione e senza rendersi conto di essere fuori moda, continuano a porsi il problema
della giustizia e della verità (poverini: leggono ancora Pio XII!), diventano automaticamente “dottori della legge” e “farisei”. Mi sbaglierò, ma c’è qualcosa che
non funziona.
Aldo Maria Valli
Vaticanista del Tg1. L’articolo è tratto
dal suo sito personale
MARCO TEGLIA (1949-2016)
Guardare la tempesta ricordando quel grand’uomo del “Popolo”
I
eri c’è stata una tempesta
sopra la mia casa. Ha abbattuto arbusti, piegato alberi, strappato fiori, una cascata d’acqua, tuoni e lampi
hanno fatto saltare la luce e
PICCOLA POSTA - DI ADRIANO SOFRI
tremare i muri e spaventare Brina e Brillo, che non hanno paura di niente. Con la
tempesta è un po’ come con i naufragi.
Hans Blumenberg, riprendendo la metafora di Lucrezio, intitolò un suo gran libro “Naufragio con spettatore”. Se ne accorgono ora i soccorritori del Mediterraneo, e tutti noi che guardiamo tre o quattro volte al giorno il nostro prossimo che
naufraga e annega, e ci commuoviamo un
po’ per lui e ci rallegriamo molto per noi.
La casa in cui abito non è al mare, è una
vecchia casa colonica con una loggia, e
quando fischia il vento e la bufera infuria
mi copro, mi metto seduto al riparo e me
ne sto a guardare la furia degli elementi.
Anche ieri, e mi sono ricordato di quando
ci sedevamo insieme, io e Marco Teglia, a
guardare il temporale e stare zitti, coi cani suoi e miei accucciati accanto senza litigi. Marco è nato a Lucca nel 1949 e ha
abitato per più di trent’anni nella stessa
casa, anzi fu grazie a lui e a suo fratello
che vi fui accolto con Randi quando Lotta Continua finì e, spiantati, ci rifacemmo
una vita. Marco, che era anche buon suonatore di piano e di chitarre, liuti e mandolini, tre anni fa pubblicò un libro intitolato “Il Popolo va agli Uffizi”, e poi un
seguito, “Il Popolo va a Viareggio”. “Nacque Guerrino Anchioni, ma la mamma
non ebbe latte per sfamarlo, lo portava,
dunque, da tutte le conoscenti di recente
parto. Guerrino succhiò il latte di cento
donne del popolo, ebbe cento fratelli, divenne il figlio del popolo e poi il ‘Popolo’,
come tutti da allora lo chiamarono”. Era il
Millenovecentoventotto, nella campagna
della Lucchesia, e il Popolo si fa la sua
strada, venti chilometri ad andare e venti
a tornare, a vendere braccia e vanga, e intanto recita a memoria i versi della Gerusalemme e di Dante e dell’Orlando. Finché decide di prendere il treno e andare
agli Uffizi a veder Giotto, L’Angelico e
Leonardo. Il Popolo è un gran personaggio, che fa ridere e intenerisce. Anche
Marco Teglia. Magari l’avete conosciuto,
per qualcuna delle serate che faceva nei
locali e i teatri e le case del popolo e degli amici raccontando le sue storie e cantando le sue canzoni, metà sentimentali
da far quasi piangere, metà comiche da
far ridere con le lacrime agli occhi. Insomma, il Popolo viene a Firenze. Sale sul treno come un soldato che va alla guerra. Al
Duomo non c’è un omino che rovescia
manciate di granturco ai piccioni? “O che
li mangiate?”. “Mangiate cosa?”. “Codesti
piccioni”. “O che date i numeri?”, risponde quello inorridito. “Allora che li governate a fare?”. “Rallegrano la città con i loro voli”. Un piccione gli sale sul cappello,
gliela fa sulla giacca. “Sì, rallegrano la
città e concimano la vostra bella giubba”,
ride il Popolo, pensando che quello è più
bischero di lui. In piazza della Signoria si
indigna per la Giuditta che ha tagliato la
testa di Oloferne, e gli hanno fatto pure un
monumento; poi agli Uffizi passa e ripassa davanti alla Madonna di Giotto, con
l’occhio intenditore, fissa la vergine al
centro, e sembra guardarlo, si sposta di lato, e continua a fissarlo. “Questa move gli
occhi!”. Incontra uno, ci parla un po’,
quello lo trova buffo. “Anche voi siete
buffo, parete un prete”. “Sono un prete!”.
I preti di città sono strani. Anche al paese c’è gente strana, ma si conosce. Ferragalline, il miglior amico del Popolo, fa il
fabbro, si fa pagare in uova e castagne. Un
vizio ce l’ha, di rubacchiare. Quello che gli
manca per il lavoro, lo prende dove lo trova. Il Popolo gli chiede una lastra di marmo per il lavandino, la sua gli s’è rotta.
Ferragalline gliela procura, e va a montargliela, quando il Popolo è a vangare.
Raccomanda alla sorella del Popolo di
non toccarlo finché la calce non avrà tirato. Il Popolo torna, gli pare che il marmo
sia bello lucido, e anche robusto. “Già. Ro-
busto!”, fa lei con l’aria ironica. “Perché,
non ti piace?”. “A te ti piace?”. “A me sì,
e poi il marmo è sempre marmo”. “Allora
vieni a vedere!”, e s’infila sotto la lastra
cementata, e gli mostra la scritta: “Qui giace colpito da fiero morbo…”. Il Popolo
pensa che dritti si ha un’aria di prosopopea, e distesi non si vale nulla, come essere vivi o essere morti. Poi pensa che è
vero anche il contrario, per uno sdraiato
quello ritto è disteso, e forse per uno morto il vivo è il vero defunto e viceversa. Cerca di sbrogliare i pensieri, ma intorno le
cicale fanno sarabanda, riempiono tutto,
non lasciano l’intimità. “Le cicale rompono i coglioni!”, sentenzia il Popolo a voce
alta, le cicale si zittiscono. C’è una prefazione di Adolfo Natalini, che passava parecchie sere a inseguire Teglia nelle osterie di qua e di là, con Roberto Barni e
Staino e gli altri che vivon d’arte e il ragazzo Francesco. Marco Teglia somiglia al
suo Popolo? Non tanto: ha un aspetto da
Mangiafuoco che la sa lunga, è musicista e
antiquario e figlio d’arte, perché suo padre Remo era medico e scrittore di libri
pubblicati nei “Gettoni” Einaudi di Vittorini. Però è mimetico, e sa mettersi nei
panni di un filosofo di campagna. Le bufere vanno guardate in silenzio, con una
donna, o con un amico. Marco Teglia ora
è morto, la tempesta di ieri era formidabile e l’ho guardata da solo.
Darsi all’ippica
(Letteralmente). Mentre infuria la
battaglia pre-ballottaggio, c’è tutta
una Roma che “corre” coi cavalli
Non solo ballottaggio. Che altro succede in città, nei dieci
giorni che mancano al ballottaggio Virginia Raggi-Roberto
Giachetti? C’è infatti tutta una
CAMPO DE’ FIORI
Roma che si muove come se fosse in un altro
film, anche se di ballottaggi quasi solo si parla, tanto più che ora ci si è messo di mezzo pure il “caso Totti”: il campione ha parlato di
Olimpiadi – lui le vorrebbe eccome, a Roma,
nel 2024, e a quel punto c’è chi gli ha detto
“allora sei pro Giachetti” (candidato dem pro
Olimpiadi) e Totti per due giorni ha dovuto rispondere incessantemente che li vuole, sì, i
Giochi nella Capitale, ma che no, la politica
non c’entra. E allora Maurizio Gasparri, noto esponente e senatore romanista di Forza
Italia, ha detto alla “Zanzara”, su Radio 24,
che l’intervento del “Pupone” non gli è piaciuto per niente, e ha tirato fuori una vecchia
storia di investimenti immobiliari della famiglia Totti, gridando altresì “Totti dovrebbe
appartenere a tutti”, mentre Alessandro Di
Battista, dal M5s, ha fatto sapere che non saranno i Cinque stelle “a fermare lo sport”. E
uno poteva anche cominciare a pensare “uffa”, mentre i candidati sindaci si scontravano
a distanza e si recavano dall’ambasciatore
americano e parlavano con Richard Gere e
ascoltavano dichiarazioni di voto e non voto
dagli ex avversari, quando si scopriva, improvvisamente, che nel quartiere Prati aveva aperto un “ristorante per cani e gatti”, dove i quadrupedi possono attendere i padroni
in un finto prato, mentre i padroni possono
scegliere per l’animale domestico pasti a chilometro zero (ossessione che non riguarda
più solo la tavola degli umani) oppure far
consumare al gatto o al cane le “verdure stagionali”, la carne “di qualità” e i “biscotti artigianali” in loco, in apposite ciotole “da degustazione” (ma presto ci sarà anche il takeaway).
E poi, nelle prime serate estive, si apprendeva che c’è tutta una Roma solitamente invisibile intenta a giocare a polo (non era dunque un “polista” isolato Alfio Marchini, candidato sindaco non passato al secondo turno).
Una Roma che gioca qui, e non all’estero, come si era sempre pensato per via della forse
colpevole ignoranza di cose ippiche, qui nella città scenograficamente più inadatta a un
simile sport, visto più che altro nei film con
attori scelti a caso da “Pretty Woman” o
“Quattro matrimoni e un funerale”. E si apprendeva che, a due passi da Corso Francia
(Roma nord), gli appassionati di polo hanno
addirittura un loro club, con distese di prati
verdi e schiere di casette (box) per cavalli
che la sera fanno “cù-cù” alle macchine degli
ospiti del ristorante (molti dei quali neofiti
del genere) o di eventi-grigliata con dj set nel
fango (se piove), tipo Stonehenge Festival, o
nell’erba (se non piove), tipo raduno ibizenco-hippie rivisitato in serata décontracté per
liberi professionisti, con piccoli droni volteggianti sulla testa per ricognizioni fotografiche. Al primo cavallo che si affacci dal box,
l’ignaro avventore, concentrato a cercare parcheggio tra le fioriere, può pensare magari di
trovarsi nel prossimo film di Paolo Sorrentino (con apparizioni di destrieri al posto delle apparizioni di fenicotteri. Ma al secondo e
al terzo cavallo costui o costei capisce di trovarsi in un altrove rispetto al tutto elettorale (e altrove persino rispetto alle serate di
maggio in Piazza di Siena, quelle sì in linea
con la tradizione ippica della città, che da
Giulio Andreotti in giù ha sempre avuto un
debole per le corse e un’ossessione citazionista da pellicole come “Febbre da cavallo”).
Se poi ci si sposta nei quartieri più a sud, è
pur sempre un ippodromo (Capannelle) a
ospitare serate fuori-contesto rispetto al discettare di Mafie, debiti e riconteggi di voti,
e proprio nei giorni in cui il pensiero di darsi per così dire all’ippica ancora non sfiora
candidati sindaci e aspiranti consiglieri ancora intenti alla preparazione della battaglia
finale: succede infatti che all’ippodromo, da
molti anni adibito ad arena musicale estiva
e mega-villaggio per cene in stile “food
truck”, vada in scena, in una delle serate preballottaggio, nientemeno che il concerto dei
Duran Duran, il gruppo più amato dalle ex
ragazzine ed ex ragazzini anni Ottanta, oggi
quaranta-cinquantenni capaci di andare ancora in delirio e visibilio, sì, ma senza riuscire del tutto a distaccarsi dall’attualità politica, tanto che su Facebook, prima e dopo il
concerto, si potevano leggere commenti che
coniugavano l’eterna bellezza della canzone
“Wild Boys” all’eterna bruttezza dei cantieri
della metro C o delle strade crivellate di buche. Anche se poi la “Grande Bellezza”, zitta zitta, all’ombra del ballottaggio, a volte si
dimentica di essere romana: è stata infatti
l’Accademia di Francia di Villa Medici, ieri,
a organizzare una serata elettronica-mostraperformance live nel palazzo con giardino sopra Piazza di Spagna, luogo più che mai sorrentiniano da cui il dibattito pre-voto appare per forza di cose più marziano dell’ex sindaco marziano Ignazio Marino (e si capisce
che, tra un artista e un dj, tra scalinate e saloni, alberi e labirinti, l’elettore possa pure
pensare, per un attimo, di non trovarsi nel
bel mezzo della cosiddetta “sfida capitale”).
Marianna Rizzini
CONSORZIO INTERCOMUNALE DEL NOVESE
DEI SERVIZI ALLA PERSONA (C.S.P.)
Bando di gara - CIG: 6705898A15
Questo ente indice una procedura aperta, tramite il criterio dell’ offerta economicamente più vantaggiosa, per l’affidamento dei servizi di assistenza domiciliare ed educativa territoriale per minori e disabili. Importo compl.vo: €.
859.000,00. Durata del contratto: dal 1/08/2016 al 31/12/2017. Termine ultimo
per la ricezione delle offerte: 14/07/2016 ore 12,00. Apertura offerte: 14/07/2016,
alle ore 15,30. Info: www.cspnovi.it. Invio alla GUUE: 26.05.2016.
Il RUP dott.ssa Luciana Negri
SETA S.P.A
Esito di gara - CIG 6353417D8E
Servizio di acquisto, lavaggio, sanificazione e controllo degli indumenti da lavoro e D.P.I ad alta visibilità per il personale dipendente. Aggiudicatario: Lit Service SRL Casalgrasso (Cn).
Importo € 234.545,00+ IVA. Data di aggiudicazione 26/02/2016.
Il Responsabile del procedimento - Dr. Teresio Asola
ANNO XXI NUMERO 136 - PAG 3
EDITORIALI
La Cassazione licenzia le riforme
Sì all’art. 18 per la Pa. Tutti i danni dell’agenda economica dei giudici
L
a Corte di cassazione ha deciso “all’esito di una approfondita e condivisa riflessione” che il licenziamento del
personale del pubblico impiego non è disciplinato dalla legge Fornero ma dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
La legge del 2012 era intervenuta modificando le procedure precedenti il licenziamento dei dipendenti pubblici e specificando le motivazioni necessarie per
procedere, allo scopo di equiparare dipendenti pubblici e privati. Ora la magistratura cancella questa riforma, introducendo nuovamente privilegi per i dipendenti pubblici, giustificati forse da
qualche cavillo giuridico, ma sostanzialmente ingiusti. Per la verità, se c’era una
ragione per ostacolare i licenziamenti
per timore che essi non corrispondessero a esigenze aziendali oggettive ma fossero conseguenza di atteggiamenti discriminatori, questo poteva valere soprattutto nelle imprese private, dove in
realtà quando fu varato lo Statuto, alla fine degli anni Sessanta, questa pratica
era realmente diffusa.
Era probabilmente in considerazione
anche dell’esistenza e dell’efficacia di
queste norme della legge Fornero che
quando si è modificata con il Jobs Act la
normativa sui licenziamenti per i nuovi
assunti, abolendo per questa categoria
l’articolo 18, si è esclusa l’applicazione
delle nuove norme ai dipendenti pubblici. Ora la sentenza della Cassazione determina una ingiustificata differenzia-
zione nei trattamenti che sembra essere
un verdetto definitivo sull’inamovibilità
dei dipendenti pubblici, che se non è
esplicitamente anticostituzionale è comunque contraria al principio generale
dell’eguaglianza dei cittadini. Può sembrare meschino attribuire questa decisione semplicemente al fatto che anche
i membri della Corte sono dipendenti
pubblici, ma comunque il carattere di difesa di vantaggi della “corporazione” di
cui fanno parte gli stessi estensori della
sentenza lascia perplessi.
Più in generale si può osservare che è
in corso una specie di azione generalizzata della magistratura per ostacolare le
riforme che sono state adottate per fronteggiare gli effetti della crisi. Ci sono state sentenze contro il blocco degli automatismi di rivalutazione delle pensioni
più alte, recentemente è stata annullata
la riduzione dei ritorni ai comuni, oggi si
eliminano le minime modifiche legislative volute dal governo Monti per i dipendenti pubblici. In particolare sulla
delicata materia del mercato del lavoro
l’azione della magistratura, a cominciare
dai “pretori d’assalto” che si vantavano
di non aver mai emesso un giudizio favorevole a un datore di lavoro, ha amplificato gli effetti di irrigidimento già presenti nella legislazione, con ripercussioni pesanti e permanenti sulla funzionalità dell’apparato produttivo. Anche così le già deboli propensioni alla crescita
vengono raggelate.
Gli assassini del Bangladesh
Un’intervista descrive lo sprofondamento del paese nell’islamismo
L
a buona notizia, quanto meno, è che il
governo del Bangladesh si è deciso,
dopo quasi due anni, a confermare l’evidente: l’ondata di omicidi violenti contro
blogger laici, volontari delle ong, tra cui
il cooperante italiano Cesare Tavella, figure religiose non islamiche di spicco, è
opera del terrorismo islamico. Non era
così scontato: dei 39 omicidi in due anni
(tre soltanto a giugno), molti erano stati
derubricati come opera di gruppi di opposizione da parte di un governo laico ma
timoroso di irritare la bellicosa componente islamista della società. Ancora pochi giorni fa, ambiguamente, il ministro
della Casa citava come responsabile degli attacchi un complotto internazionale
di cui farebbe parte, ovviamente, anche
Israele. In un’intervista al New York Times, il capo dell’unità antiterrorismo della polizia del Bangladesh, Monirul Islam,
non solo ha cercato di fare chiarezza su
alcuni dei principali mandanti degli omicidi, ma ha anche fornito particolari inquietanti sul processo di radicalizzazione
in corso nel paese. Secondo Monirul
Islam, i due gruppi responsabili degli attacchi sarebbero Ansar al Islam e una
formazione meno conosciuta, Jama’atul
Mujahideen Bangladesh. Entrambi han-
no acquisito molta influenza, reclutando
e addestrando miliziani che sono stati poi
disposti in varie cellule dormienti. Questa versione ha ancora alcuni punti oscuri, non tiene conto, per esempio, del fatto che lo Stato islamico e al Qaida hanno
rivendicato alcuni degli omicidi. Il problema, secondo Monirul Islam, è che gli
islamisti stanno riuscendo nel loro intento di progredire la radicalizzazione
islamica del paese, retto dal 2009 da un
governo che tollera la diversità religiosa.
“In generale, la gente pensa che (i terroristi) abbiano fatto la cosa giusta, che non
sia ingiustificabile uccidere” i blogger, gli
attivisti gay e i sostenitori della laicità. I
processi di reclutamento sono iniziati tra
i giovani delle università, che sono stati
gli assassini della prima vittima, il blogger laico Thaba Baba, e oggi gli islamisti
sono riusciti a far passare il loro messaggio in tutto il paese, tanto che il governo
adesso è sulla difensiva, ha condannato
gli attacchi ma ha accolto parte delle richieste degli estremisti, dichiarando illegale la propaganda del “sesso non naturale”, e secondo gli analisti si trattiene
dal colpire più duro i miliziani per timore di una reazione generale. E’ così che
un paese sprofonda nell’islamismo.
Buongiorno Davigo
Wow! Il presidente dell’Anm scopre le nomine lottizzate delle toghe
A
l Consiglio superiore della magistratura “le nomine non convergono sul
candidato migliore, ma temo che la prassi sia quella di uno a me, uno a te e uno
a lui”, che è “una cosa orribile”. E’ con
queste parole, pronunciate mercoledì sera in un incontro al Palazzo di giustizia
di Milano, che il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo
Davigo, pare aver scoperto all’improvviso
la prassi lottizzatoria con cui l’organo di
autogoverno delle toghe è solito procedere alla nomina dei suoi componenti ai
vertici degli uffici giudiziari sparsi nel
paese. Per combattere questa degenerazione, secondo Davigo, occorre “pretendere dal Csm la massima trasparenza e,
quindi, che venga messo in ‘intranet’ tutto quello che è in valutazione, il fascicolo personale di chi fa domanda”. E non si
parli di privacy: “Chi ricopre un incarico
pubblico rinunci alla privacy, perché è al
buio che avvengono le porcherie e i baratti”. L’improvvisa presa di coscienza di
Davigo arriva, forse, in maniera tardiva,
se si considera che l’ex componente del
pool di Mani pulite è in magistratura dal
1978 e che di nomine, anche nei suoi ri-
guardi, da allora ne ha conosciute parecchie, inclusa quella a presidente di sezione di Cassazione ricevuta qualche
giorno fa. Il corto circuito, insomma, è
servito, ed è stato comprensibilmente colto al volo dalla consigliera laica del Csm,
Elisabetta Casellati, che ha chiesto a Davigo di rinunciare alla nomina appena ottenuta, perché “o anche lui ha goduto di
questa prassi scandalosa, e al buio sono
avvenute, per usare le sue stesse parole,
la porcheria e il baratto che lo riguardano, oppure dovrebbe avere il coraggio di
fare piena luce sulle nomine che sarebbero state spartite”. Di fronte alle critiche, incluse quelle del Csm – che ha definito le parole di Davigo “gravi, scomposte e sorprendenti” – il presidente dell’Anm ha rettificato le sue dichiarazioni,
ma solo precisando che si riferiva alle cosiddette “nomine a pacchetto”, anche se
a rigor di logica nulla esclude che gli accordi spartitori tra le correnti possano
concretizzarsi in deliberazioni del Csm
distinte e separate nel tempo. La critica
di fondo, dunque, rimane, e siamo sicuri
che a tali “porcherie” Davigo ora intenderà subito porre rimedio.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 10 GIUGNO 2016
E se Google&Co. spostassero gli algoritmi su un presidente?
LA SILICON VALLEY È CAPACE DI PLASMARE IL NOSTRO MONDO. LE ACCUSE DI ASSANGE E LO SCANDALO DEL “BIAS” DI FACEBOOK
Roma. E se Google o Facebook decidessero di schierarsi alle prossime elezioni americane? Ora che il circo elettorale entra nel
vivo, con i candidati dei due partiti principali ormai definiti, questa domanda non è
più impensabile. Cosa succederebbe se i giganti della Silicon Valley decidessero di
schierarsi veramente, non con i singoli endorsement o le singole donazioni, pure milionarie, ai vari candidati, ma spostando il
peso dei loro algoritmi su questo o quell’aspirante presidente? Potrebbero contribuire
a cambiare la storia d’America, hanno il potere di farlo? Quel genio di Scott Adams, autore delle vignette di Dilbert, ha già inquadrato perfettamente il problema. In una striscia recente, Dilbert partecipa a una riunione della compagnia per cui lavora. “Abbiamo vinto un contratto per scrivere il software delle macchine per votare”, dice il capo,
e Dilbert risponde subito: “Chi vuoi che diventi presidente?”. Il capo protesta, “stai insinuando che vuoi truccare il sistema?”. Dilbert si difende: “Non commetterei mai un
crimine solo perché mi avvantaggia ed è impossibile farsi scoprire”.
E’ difficile crederlo, o forse è fin troppo
prevedibile, ma conversazioni simili, negli
uffici dei giganti della Silicon Valley, sono
avvenute per davvero. E’ successo ad aprile,
per esempio, quando il sito Gizmodo ha ottenuto i risultati di un sondaggio interno ai
dipendenti di Facebook per decidere le questioni di rilievo da sottoporre nelle riunioni
con il ceo Mark Zuckerberg. Tra le questioni messe a tema si leggeva: “Quale responsabilità ha Facebook per evitare che Trump
diventi presidente nel 2017?”. Nel sondaggio
interno la domanda è stata scartata, ma è un
sintomo di quanto tutti, dalla dirigenza ai dipendenti, sappiano dove potrebbe arrivare il
potere di Facebook. Il sospetto è stato riproposto questa settimana da Julian Assange di Wikileaks, che intervenendo in video a
una conferenza a Mosca a cui partecipava
anche il presidente Putin ha accusato Google di fare campagna “direttamente” per Hillary Clinton. In realtà, Assange non si riferiva a Google, ma a un’azienda terza fondata
dal suo presidente Eric Schmidt che, pubblicamente e con regolare contratto, fornisce
servizi digitali alla campagna di Clinton. Ma
tanto è bastato per far tornare a circolare i
sospetti. Sia chiaro: non ci sono prove che
Google, Facebook o altri abbiano influenzato elezioni o altri momenti della vita pubblica di qualsivoglia paese. Ma il fatto stesso che abbiano le potenzialità per farlo è un
fattore di cui non si può non tenere conto.
In una ricerca pubblicata l’anno scorso su
Proceedings of the National Academy of
Sciences, Robert Epstein e Ronald Robert-
son dell’American Institute for Behavioral
Research and Technology hanno calcolato,
per esempio, che manipolando il proprio algoritmo Google può convincere “facilmente”
circa il 20 per cento degli elettori indecisi a
spostarsi su un determinato candidato. “Google ora ha il potere di ribaltare il 25 per cen-
to delle elezioni nel mondo senza che nessuno se ne accorga”, ha scritto Epstein. Facebook invece ha fatto esperimenti su se
stesso quando, alle elezioni americane di
midterm del 2010, decise di testare il suo potere mostrando a 61 milioni di utenti dei
messaggi che surrettiziamente li incitavano
ad andare a votare (per nessun candidato in
particolare: lo scopo era aumentare la partecipazione politica). Il social network calcolò che, complessivamente, 340 mila persone si lasciarono convincere. Facendo una
proporzione priva di valore scientifico ma
indicativa degli ordini di misura, se Facebook applicasse queste strategie a tutti i suoi
1,65 miliardi di utenti attivi riuscirebbe a
mobilitare oltre 9 milioni di elettori. Abbastanza per far vincere un’elezione se i messaggi mostrati fossero a favore di un candidato specifico – e rispetto a sei anni fa, l’abilità di penetrazione e la tecnologia del social sono migliorate.
Una questione di fiducia
I dati dicono che tendiamo a fidarci dei social media più che di ogni altra fonte di informazione. Secondo un sondaggio Pew, citato
da Robert Schlesinger su U.S. News, il 62 per
cento degli americani ottiene le informazioni
dai social media, e una percentuale simile ritiene che queste informazioni siano imparziali. Al contrario, i tassi di fiducia nei media tradizionali sono da anni in caduta libera: per ottenere un’opinione di cui fidarsi, l’utente medio preferisce rivolgersi a Facebook
piuttosto che al New York Times. Questa fiducia è dovuta in buona parte alla spersonalizzazione dei social media. Siamo convinti
che dietro ai risultati di ricerca di Google e
agli articoli sulla bacheca di Facebook agisca
un algoritmo freddo, un cervello digitale che
distribuisce meriti e punizioni senza alcuna
parzialità. Questa concezione si scontra contro due problemi. Il primo è che l’algoritmo,
paradossalmente, è più umano di quello che
crediamo, come ha mostrato il piccolo (e ridimensionato) scandalo della sezione “Trending topics” di Facebook, gestita da redattori in carne e ossa che avevano pieno giudizio
editoriale (tendenzialmente liberal) sulle
news da proporre agli utenti. Il secondo è che
l’algoritmo risponde a parametri che sono
modificati in continuazione: quello di Google,
dice l’azienda stessa, è riaggiustato 600 volte
in un solo anno. E cambiare l’algoritmo significa cambiare il nostro modo di pensare.
“Google (e, aggiungiamo noi, Facebook) è diventato la porta d’ingresso praticamente per
tutta la conoscenza umana”, ha scritto
Epstein in un articolo recente su Aeon. Questo potere di persuasione, che Epstein e il
suo socio, riferendosi a Google, hanno battezzato “Search Engine Manipulation Effect”,
non si limita soltanto al campo politico, anzi.
Per ora i teorici di internet hanno notato che
i social network agiscono per “bolle”: gli algoritmi tendono a mostrarci opinioni simili
alle nostre, creano un’immagine del mondo
che vorremmo. Il Wall Street Journal di recente ha mostrato in maniera plastica che la
bacheca di un elettore progressista e di uno
conservatore cambiano drasticamente: nella
prima Clinton, Sanders e Planned Parenthood la fanno da padroni, nella seconda
è tutto un Trump e Breitbart. L’algoritmo modella il mondo digitale a nostra immagine e
somiglianza. Ma cosa succederebbe se qualcuno decidesse di modellare noi? E’ un fenomeno quasi inedito nella storia democratica dell’occidente: mai prima tanta fiducia
era stata riposta in enti con così tanto potere. L’unico precedente, forse, risale al lontano 1876, quando Western Union, che allora
deteneva il monopolio delle linee del telegrafo negli Stati Uniti, decise di usare la sua
influenza per far eleggere presidente
Rutherford Hayes. Ci riuscì.
Twitter @eugenio_cau
Draghi smonta la favola: gli immigrati non curano la piaga demografica
Roma. “Neppure la più alta immigrazione attesa sarà probabilmente in grado di
compensare il declino naturale della popolazione della zona euro”. Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, parlando ieri davanti alla platea di banchieri
e uomini d’affari del Brussels Economic Forum della Commissione europea ha così respinto la vulgata secondo la quale un aumento della popolazione extra-europea può
da sola contrastare l’endemico declino demografico continentale. “Le politiche pubbliche – ha detto Draghi – possono certamente temperare tali effetti accogliendo e
integrando gli immigrati ma dal momento
che non possono fare molto per intervenire
nei trend demografici, ne consegue che aumentare la crescita nel lungo termine richiede un aumento della produttività”. Draghi dunque sostiene che l’immigrazione di
per sé non può risolvere il problema e offre
una visione differente da quella proposta in
passato dal suo vice, Vítor Constâncio. Il vicepresidente della Bce, un ex politico socialista portoghese, aveva detto che per sopperire alla mancanza di nascite (“un suici-
dio demografico”) c’è bisogno di immigrati.
Tuttavia l’apporto di nuova popolazione non
può essere una panacea, come ha avvertito
l’Economist ridimensionando i propositi
buonisti tedeschi in fatto di accoglienza dei
rifugiati. Secondo gli ultimi calcoli del demografo dell’Università di Milano-Bicocca
Gian Carlo Blangiardo, in uno scenario che
contempla l’assenza di migrazioni la popolazione dell’Unione europea a 28 membri
calerebbe tra il 2015 e il 2050 di 40 milioni
di abitanti, da 507 a 466. La forza lavoro (la
popolazione in età 20-64) calerebbe di 70 milioni, da 306 a 233. Le stime, ripetiamo, si basano sullo scenario di assenza di immigrazione. E’ dunque chiaro che recuperare un
“gap” di 70 milioni di persone prodotto in 35
anni significa avere un apporto netto regolare di popolazione di 2 milioni ogni anno in
aggiunta a quella esistente. Un numero
enorme. E’ perciò improprio ritenere che il
declino demografico inerziale d’Europa sia
risolvibile con politiche d’accoglienza spinte: nemmeno quelle basterebbero. Inoltre,
anche se l’immigrazione apporta popolazione giovane non vuol dire che gli immigrati
residenti conservino una “cultura della fecondità” di cui sono comunemente ritenuti
portatori. In Italia, il secondo paese più vecchio al mondo, la popolazione immigrata è
passata da una media di 2,6 figli per donna
nel 2008 a una media di 1,9 nel 2015. “Hanno imparato in 6-7 anni a fare quello che gli
italiani hanno fatto in 14-15”, dice Blangiardo. L’invecchiamento della popolazione e la
cronica bassa natalità allarma politici, economisti, autorità religiose. E anche dal punto di vista di un banchiere centrale i motivi di preoccupazione abbondano. La Banca
dei regolamenti internazionali (Bri), che
opera da Banca centrale delle Banche centrali, ha provato la correlazione tra l’aumento della popolazione e la bassa inflazione nel paper “Can demography affect inflation and monetary policy?” del 2015. Lo
studio, condotto analizzando 22 paesi nel
periodo 1955-2010, afferma che l’aumento
dell’età della popolazione ha un certo effetto inflazionistico, accelera la velocità di
circolazione della moneta, contrariamente
a quanto suggerirebbe la visione prevalente o, ad esempio, il caso del Giappone; pae-
se più vecchio del pianeta e in deflazione da
oltre un decennio. “Una quota maggiore di
persone a carico (cioè giovani e vecchi) è
correlato con l’inflazione più alta, mentre
una quota maggiore delle coorti in età lavorativa è correlata con l’inflazione più bassa”, dice la Bri che però sottopone le sue
analisi a ulteriori approfondimenti e lascia
aperto il dibattito su quali siano le politiche
più adatte, per quanto possibile, a gestire il
fenomeno attraverso le leve monetarie. Una
cosa però è chiara: l’invecchiamento della
popolazione potrebbe limitare l’efficacia
del programma di stimoli non convenzionali della Bce, in primis il Quantitative easing,
perché si crea un ulteriore impedimento
nel canale di trasmissione tra le banche e
l’economia reale. Le persone anziane sono
meno disposte a indebitarsi mentre i giovani europei, che in teoria dovrebbero essere
più disposti a contrarre prestiti per finanziare progetti futuri, tipo mettere su famiglia, sono una piccola porzione di popolazione con un alto tasso di disoccupazione
che decide di fare figli sempre più tardi. Un
circolo vizioso. (a.bram.)
In Turchia ora si accusa Berlino per gli attentati di Istanbul
Roma. “E’ un lavoro tedesco”. Questo il
titolo, a caratteri cubitali, sulla prima pagina del quotidiano filogovernativo turco
Günes. Il riferimento è al terribile attentaDI
MARIANO GIUSTINO
to con autobomba che la mattina del 7 giugno scorso ha provocato la morte di 11 persone nel centralissimo quartiere di Vezneciler di Istanbul. Secondo il quotidiano pro
Erdogan, dietro il tragico attentato vi sarebbe la mano della Germania. Sempre in
prima pagina, sono riportati pesanti fendenti a Berlino, accusata di “aver sempre
nutrito l’organizzazione terroristica curda
Pkk” e di aver dato totale appoggio alle proteste di Gezi che il presidente turco Erdo an ha sempre considerato parte di una
trama mirante a rovesciare il suo governo.
“Questo è opera della Germania”, si legge
in un occhiello dello stesso quotidiano Günes. E ancora: “La Germania ha cercato di
C’
era una volta New York. Gli Stuyvesant, i Vanderbilt e i Roosevelt. La
sala da ballo di Mrs Astor, “quella traditrice di Edith Wharton”, Zelda e Scott,
Dottie Parker, “lingua e penna affilati come rasoi”, El Morocco, Hildegarde che si
esibiva e Cary Grant inginocchiato ai suoi
piedi. La Quinta Strada, Tiffany, le prime
al Met. La New York “dei teatri, dei cinema, dei libri; la città del New Yorker,
di Vanity Fair e di Vogue”. La New York
dei balli e dei pranzi di beneficenza, degli attici e delle suite dei grandi alberghi.
E c’erano una volta Truman Capote e i
suoi cigni: Babe Paley, Slim Hawks, Marella Agnelli, Gloria Guinness, C. Z. Guest e Pamela Churchill (“non un gruppetto di debuttanti, di sicuro”). Si ritrovavano tutti a pranzo, il momento clou della
giornata: “Il motivo per cui alzarsi al mattino, andare dal parrucchiere, comprarsi l’ultimo Givenchy o il nuovo Balenciaga; la ricompensa per la casa perfetta, i figli perfetti, il marito perfetto”. Si andava
al Colony Club, al Quo Vadis, ma soprattutto alla Côte Basque, dove, nei locali
che furono di Le Pavillon, il restaurateur
Henri Soulé, esponeva le signore dell’alta società e, tra porcellane, argenterie e
fiori freschi, i Cigni, spiluccando prelibati piatti francesi e bevendo Cristal di
Roederer, cincischiavano, spettegolavano ma, soprattutto, si esibivano (“perché,
ovviamente, per indossare un certo tipo
di abiti e possedere il prestigio necessa-
impedire la costruzione del terzo aeroporto e ha riconosciuto il genocidio degli armeni. E si pensa che vi sia la Germania dietro l’organizzazione terroristica che ha
compiuto l’attentato del 7 giugno a
Istanbul”.
Gia durante il suo recente viaggio in Africa, Erdogan aveva dichiarato ai giornalisti che l’approvazione al Bundestag della risoluzione sul riconoscimento dei massacri degli armeni avvenuti tra il
1915-’16 sotto l’Impero ottomano
era stato “frutto di una mente superiore”. Usando toni complottistici, Erdogan accusa senza mezzi
termini il governo tedesco di compiere operazioni che hanno lo scopo di destabilizzare il suo governo, manovrando oppositori politici, giornalisti e personaggi influenti dei media turchi. Egli fa riferimento in particolare ad Aydin Dogan, proprie-
LIBRI
Melanie Benjamin
I CIGNI DELLA QUINTA STRADA
Neri Pozza, 368 pp., 18 euro
rio per essere benvenuti al Pavillon non
ci si poteva concedere il lusso di mangiare sul serio”). Fu nel 1965 che il loro
splendore raggiunse l’apice e, mentre
l’America iniziava a bombardare il Vietnam e Malcolm X moriva assassinato, i
Cigni passavano il tempo azzuffandosi
cercando di ricordare chi tra loro per prima avesse conosciuto quello scrittore,
piccolo di statura, omosessuale e con la
bionda frangetta corta che, all’improvviso, aveva saputo distrarle dalle loro vite
deprimenti e solitarie. Melanie Benjamin la chiama “la magia di Truman”: le
divertiva, le faceva sentire più belle,
ascoltava i loro segreti, le rendeva uniche
e straordinarie e loro, in cambio, si facevano in quattro per rendersi utili, “sostenitrici delle arti”. Gli donarono nuovi
guardaroba e vacanze in yacht a zonzo
per il Mediterraneo ma, soprattutto, gli
offrirono tutto il mondo al quale appartenevano. Quando, nel 1966, fu pubblica-
tario del maggior gruppo media del paese
e del prestigioso quotidiano liberal Hürriyet, il più letto nel paese. Dogan è accusato dal presidente turco di essere al servizio dei tedeschi attraverso gli
editorialisti Ahmet Hakan e Ertugrul Ozkök, definiti dal presidente
come “camerieri” del prestigioso
gruppo mediatico.
Per Erdogan non vi sono dubbi:
tutti i media del gruppo Dogan,
critici nei confronti del suo governo, sono definiti da lui come “un
problema molto grave per la Turchia, almeno quanto il terrorismo”. Egli invoca contro di essi
l’intervento della magistratura,
sostiene infatti che “i giudici dovrebbero
occuparsi dei media di Dogan così come
fanno col Pkk e con la comunità di Fethüllah Gülen”, anch’essa considerata un’organizzazione terroristica mirante a rovesciato “A sangue freddo”, la “non fiction novel” che vendette più di 300 mila copie e
restò nell’elenco dei bestseller del “New
York Times” per trentasette settimane,
Truman Capote divenne ricco e famoso.
Come i suoi Cigni. E siccome “Subito dopo le parate, le statue e i parchi, New
York amava le feste” per consacrare il
suo successo organizzò il “Ballo in bianco e nero”. Per tutta l’estate Babe, Marella, Slim, Gloria e C. Z lo aiutarono nei
preparativi mentre lui, una “piuma intellettuale sui loro cappelli ingioiellati”,
si dedicò con lo stesso impegno con cui
scriveva, a redigere la lista degli invitati
(“doveva essere una combinazione unica
di alta società, aristocrazia del denaro,
uomini rispettati e personaggi nuovi ed
entusiasmanti”). Melanie Benjamin racconta – tra realtà e immaginazione – cosa è successo in quegli anni, ma soprattutto “quale prezzo avevano dovuto pagare per le vite che conducevano. Perché
c’è sempre un prezzo da pagare. Specialmente nelle favole”. Nel 1975 infatti tutto cambiò: Capote pubblicò sull’Esquire
“La Côte Basque 1965” (terzo capitolo di
“Preghiere esaudite”), in cui mise a nudo i suoi Cigni, rivelando i loro segreti soprattutto quelli di Babe Paley, la preferita, l’unica che forse amò sinceramente.
Ne raccontò ogni cosa: i vestiti, i tradimenti, i trucchi, le bugie. A New York
scoppiò il pandemonio. I Cigni lo misero
al bando. Lui li rese eterni.
re il governo del partito Akp da lui fondato. L’opposizione in Turchia, in particolare
quella filocurda e di sinistra libertaria del
Partito democratico dei popoli (Hdp), è
sempre più preoccupata che la crisi con la
Germania possa contribuire ad alimentare
la retorica antioccidentale di Erdogan, utilizzata per mantenere un elevato sostegno
pubblico alla sua persona. Da qualche tempo Erdogan nei suoi comizi ha perfino utilizzato apertamente espressioni di disprezzo per i valori universali della democrazia
e delle libertà, da lui definiti “valori occidentali estranei alla cultura e alla storia
turca”. Come ha osservato recentemente
Aydan Ozoguz, il commissario tedesco per
l’integrazione, sul New York Times, “Erdogan e i turchi ultranazionalisti otterranno
una spinta enorme da questa crisi. “Useranno la risoluzione del Bundestag come
prova di un ulteriore attacco da parte dell’occidente alla Turchia”.
IL FOGLIO
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ANNO XXI NUMERO 136 - PAG 4
La Giornata
* * *
In Italia
RENZI FISCHIATO: “RIVENDICO IL
BONUS DI 80 EURO”. Il presidente del
Consiglio, Matteo Renzi, è stato fischiato
durante il suo intervento all’assemblea annuale di Confcommercio, mentre parlava
del bonus di 80 euro ai lavoratori dipendenti introdotto dal governo: “Che non fosse apprezzato da voi lo sapevamo da tempo – ha replicato il premier – ma che fosse
una misura di giustizia sociale verso gente
che non guadagna 1.500 euro al mese lo rivendico con forza”.
* * *
Silvio Berlusconi sarà operato al cuore la
prossima settimana per la sostituzione della valvola aortica. Il suo medico personale,
Alberto Zangrillo, ha detto che il leader di
Forza Italia – ricoverato al San Raffaele –
soffre di “un’insufficienza aortica di grado
severo” e “ha rischiato di morire”.
(articolo in prima pagina)
* * *
Aumentano gli occupati. L’Istat ha reso
noto che nel primo trimestre del 2016, l’occupazione è cresciuta dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente, con 242 mila occupati in più su base annua (+1,1 per
cento). Aumentano i dipendenti a tempo indeterminato: +341 mila in un anno.
Per il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, “l’Italia sta gradualmente
ripartendo”, ma ora è cruciale proseguire
“con le riforme per la crescita e l’ammodernamento del paese”.
* * *
Agli statali si applica l’articolo 18. La Corte di Cassazione ha affermato in una sentenza che il licenziamento del personale
del pubblico impiego non è disciplinato
dalla legge Fornero, bensì dall’articolo 18
dello Statuto dei lavoratori.
(editoriale a pagina tre)
* * *
ArcelorMittal verso offerta per Ilva. Il colosso industriale lussemburghese, leader
nel settore dell’acciaio, ha confermato che
intende presentare un’offerta insieme al
gruppo Marcegaglia per l’acquisto dell’azienda siderurgica italiana.
* * *
Borsa di Milano. FtseMib -0,81 per cento.
Differenziale tra Btp e Bund a 134. L’euro
chiude in calo a 1,132 sul dollaro.
Nel mondo
BARACK OBAMA HA DATO IL SUO ENDORSEMENT A HILLARY CLINTON.
“Non penso che sia mai stato qualcuno così tanto preparato per essere presidente”,
ha detto ieri. Poco prima, il presidente aveva visto il candidato socialista Bernie Sanders, che correrà anche per l’ultima primaria del ciclo, quella di Washington, ma presto si incontrerà con Clinton per discutere
su come “lavorare insieme” per sconfiggere Donald Trump. Clinton ha già ottenuto
un numero di delegati sufficienti per assicurarsi la nomination.
* * *
Israele aumenta le truppe in Cisgiordania
dopo l’attentato terroristico a Tel Aviv che
mercoledì sera ha provocato la morte di
quattro ebrei israeliani. Lo spostamento riguarda due battaglioni. Le autorità hanno
inoltre sospeso 83 mila permessi concessi
ai palestinesi della Cisgiordania per attraversare il confine.
* * *
Le forze libiche hanno conquistato Sirte.
Lo comunica lo stesso comando dei combattenti vicini al governo di Tripoli, secondo cui lo Stato islamico sarebbe stato cacciato dalle sue ultime basi nel centro della città. Se i report si rivelassero veri, il
gruppo terroristico avrebbe perso tutte le
sue conquiste territoriali nel paese.
Due attacchi esplosivi, uno provocato
da un’autobomba e l’altro da un attentatore suicida, hanno fatto almeno 28
morti ieri a Baghdad. Colpiti una strada
commerciale e un checkpoint dell’esercito. Lo Stato islamico ha rivendicato gli
attacchi.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 10 GIUGNO 2016
Produttività, fate presto! Che ci fa Fassina con Salvini?
Al direttore - Fassina con chi?
Giuseppe De Filippi
Con Raggi, con Di Maio e con Salvini.
Forse. Mamma mia. Auguri.
Al direttore - L’ottimo Antonio Gurrado che
scrive nella sua rubrica “Bandiera Bianca”
sul sito del Foglio “la religione non è né un parere né un sentimento ma è quod religat, ossia
ciò che da millenni lega gli individui in società”, si chiede “quante decine” di cristiani
del genere “non intrinsecamente personale”
(bellissimo) si possano trovare oggi, in Europa. Esagera, Antonio Gurrado. Qualche decina di migliaia di cristiani la si trova ancora,
capace di rispondere alla domanda: “Quando
cade la Pentecoste”. Molti di meno, alla successiva: “Chi è Nicodemo”. Scendiamo al centinaio con la terza e ultima: “Chi ha scritto gli
Atti degli Apostoli”. A meno che Gurrado, con
“quante decine”, non volesse riferirsi al clero.
Gaetano Tursi
Al direttore - La contrattazione decentrata,
quindi a livello di singola azienda, è semplicemente una cosa intelligente da fare e non
da oggi: sinistra e destra, in questo campo, sono connotazioni di “contorno” in una tavola
di dibattito ma non colgono l’essenza del cambiamento in atto negli ultimi 20 anni e i cui
prodromi si manifestano negli anni 90: globalizzazione e mercato dei servizi/prodotti, rap-
porto clienti/fornitori,taglio della verticalizzazione delle strutture organizzative e sviluppo
orizzontale delle stesse, digitalizzazione e “internet delle cose 4.0” di oggi. Education e competenza a tutti i livelli della struttura aziendale (privata e pubblica) costituiscono un valore
necessario ai fini di un miglioramento della
produttività e quindi nello scambio lavoro/remunerazione: il “Job grading” che si “disegnava” negli anni 90 e primi 2000 non è certo quello di oggi per la medesima azienda; di converso il necessario cambiamento di education e
competenza, allo stesso modo degli operatori
rappresentati, dei sindacati e dei gestori delle
aziende. Lo studio citato di Ichino, riprende
una vecchissima diatriba che, per sintesi, chiamerò “gabbie salariali”: se non si risolvono i
problemi esplicitati sopra, e per il sud, allo sviluppo logistico (l’Inghilterra ha un budget di
30 miliardi di sterline per questo) i salari legati al “territorio” diventano diversivi politici ma
di una politica da terzo mondo.
Massimo Costantini
Alta Società
Uscirà in autunno un libro su Mario
d’Urso, con articoli dei suoi più cari
amici ed estimatori. Lo cura il nipote
Serra di Cassano. Sarà un volume
da non perdere.
Come direbbe qualcuno, FATE PRESTO!
Al direttore - Il suo Foglio e pochi altri hanno dedicato attenzione alla crisi umanitaria
e politica in un paese vicino a Italia ed Europa come il Venezuela. Perciò le segnalo che
ieri il Parlamento europeo, approvando una
risoluzione ad hoc sostenuta dai maggiori
gruppi politici, ha realizzato un balzo in
avanti. Un gesto diplomatico forte. Al presidente Maduro chiediamo “urgenti riforme
economiche” da realizzare insieme al Parlamento (dove l’opposizione ha conquistato il 6
dicembre la maggioranza dei due terzi e la
possibilità di convocare un referendum per
porre fine al mandato presidenziale).
E’ la quarta risoluzione sul Venezuela dal
febbraio 2014, ma presenta due novità. La prima: non ci focalizziamo più soltanto sulla difesa dei diritti umani, pure fondamentali e infatti reclamiamo il rilascio immediato dei circa duemila prigionieri politici, ma sull’emergenza umanitaria in un paese che pur essendo produttore di petrolio, soffre la scarsità di
cibo e medicinali. Le cronache ci dicono che
alcuni venezuelani curano per disperazione
l’ipertensione con l’aglio e invece dell’insulina meditano il ricorso alle foglie di bambù. La
mortalità negli ospedali è cresciuta in un anno del 31 per cento, quella infantile si è centuplicata rispetto al 2012 (dallo 0,02 al 2 per
cento) e quella materna quintuplicata in 3
anni. Un misto di residui ideologici e malaf-
fare ha fatto piombare uno dei pilastri dell’America latina (nostri cugini) in un incubo. La
risoluzione chiede all’Alto rappresentante Federica Mogherini un piano di assistenza, e al
presidente Maduro di accettare gli aiuti.
La seconda novità è politica. Al governo di
Caracas chiediamo di rispettare la Costituzione, in particolare i meccanismi legali dell’impeachment con la possibile revoca del mandato presidenziale nel 2016 per via democratica.
Se l’inflazione, anche sui beni elementari,
supera ormai il 700 per cento annuo secondo il Fondo monetario internazionale, e se il
Venezuela ha subìto nel 2015 la terza peggiore recessione mondiale con un crollo del 18
per cento di pil, pane e medicine sono la frontiera che precede finanche la libertà. Nessuna dittatura o utopia in Terra, per quanto sostenuta in Italia da minoranze di nostalgici
terzomondisti, può mascherare il disastro di
un paese ostaggio di ideologismo e corruzione. Una Europa che rispetti se stessa e non
voglia abdicare al proprio ruolo di attore diplomatico globale deve prendersi cura del paradosso venezuelano. E, soprattutto, dei venezuelani.
Antonio Tajani, vicepresidente del
Parlamento europeo con delega all’America del sud
La posta va inviata a [email protected]
(10 righe, non più di 600 battute)
L’asse franco-americano si ricompatta su Raqqa. La domanda sul dopo
(segue dalla prima pagina)
E’ la prima volta che il ministero della
Difesa francese conferma la presenza delle sue forze speciali in territorio siriano
(non ha precisato il numero degli uomini
impiegati): fino a ora era noto il dispiegamento francese soltanto nel Kurdistan iracheno (circa 150 uomini). “L’offensiva di
Manbij è sostenuta da molti paesi, tra cui la
Francia”, hanno detto alla France Presse
fonti dell’entourage del ministro della Difesa, Jean-Yves Le Drian, che già venerdì,
in un’intervista televisiva, aveva spiegato
che il sostegno francese consiste in “armi,
presenza aerea e consulenza strategica”.
Washington, che ha già testimoniato il suo
coinvolgimento nell’operazione di Raqqa
con le immagini sul fronte pubblicate nelle settimane scorse, vuole riprendere Manbij per impedire allo Stato islamico di avere accesso a quel confine che serve per approvvigionamenti di armi e uomini e anche
per far uscire jihadisti diretti in Europa.
Secondo il Syrian Observatory for Human
Rights, le forze dell’Sdf hanno ripreso il
controllo dell’autostrada che porta a Manbij: stando alle stime di Washington avrebbero perso già alcune decine di uomini (almeno 100 i feriti) nell’operazione.
Il coinvolgimento della Francia segna
un’importante evoluzione della missione
internazionale contro lo Stato islamico, a
lungo caratterizzata da cautele e incertezze. Le relazioni tra Parigi e Washington sulla questione siriana avevano subìto un
enorme raffreddamento all’inizio della crisi siriana, quando Barack Obama annunciò, nel 2013, un intervento contro il regime di Bashar el Assad, che aveva violato
“la linea rossa” utilizzando armi chimiche
contro il suo popolo, che poi non fece. Nelle 36 ore in cui il blitz pareva imminente,
il presidente francese, François Hollande,
aveva già fatto scaldare i motori dei suoi
aerei da guerra, ma ricevette una telefonata notturna da Obama in cui gli annunciò:
ferma tutto, voglio chiedere il voto al Congresso, l’operazione è rimandata. Hollande,
che si era speso molto diplomaticamente
per riconoscere le forze d’opposizione al
regime di Assad e aveva più volte chiesto la
dipartita del dittatore, rimase di sasso, e
soltanto dopo gli attentati a Parigi dello
scorso novembre ha deciso di rimettere a
disposizione le sue forze (aeree) in Siria.
Ora americani e francesi si riuniscono per
la missione più importante (e attesa da
tempo): espugnare Raqqa, assieme alle Sdf
sostenute e armate dai paesi occidentali,
con il sostegno sempre presente dei curdi
siriani. Se sul futuro dell’offensiva – a chi
va Raqqa una volta che è liberata? – ci sono molte perplessità e al momento non è
noto se sia pronto un piano, la coalizione
internazionale a guida americana non è
mai apparsa tanto determinata ad attaccare frontalmente lo Stato islamico. Confermata la presenza dei francesi, il messaggio
è chiaro anche per il regime di Damasco:
il rais Assad ha annunciato che riprenderà
“ogni centimetro” di Siria, ma è probabile
che non sia questo il programma dell’alleanza occidentale, considerato che anche
il premier israeliano Benjamin Netanyahu,
in visita a Mosca negli scorsi giorni per te-
nere aperto il canale di collaborazione con
la Russia, ha ribadito: “Non vedo Assad nel
futuro della Siria”.
Poiché i tempi sono importanti in una
guerra che ha deciso di rinunciare all’urgenza, dopo mesi di intervento militare russo (dal settembre del 2015) e un annuncio di
ritiro delle truppe da parte di Vladimir Putin, dopo la presa di Palmira, anche le forze di Damasco con la copertura di Mosca
hanno deciso – proprio ora – di dirigersi
verso Raqqa. La via d’accesso è diversa da
quella americana, le notizie sono un po’
confuse, e fino a questo momento Washington ha negato ogni coordinamento con le
forze russe. Gli osservatori spiegano che le
due offensive alternative sono volte, appunto, al dopo: chi avrà la sovranità su Raqqa? La buona notizia è che lo Stato islamico potrebbe davvero subire una sconfitta
importante, quella meno buona è che c’è
voluta una competizione internazionale di
potere, una gara, per andare finalmente a
liberare Raqqa.
Paola Peduzzi
Mercoledì 15 giugno ore 15.30
ARA PACIS
Lungotevere in Augusta (angolo via Tomacelli) Roma
AI CONFINI
DELLA GIUSTIZIA
Che cos’è il giudice terzo?
Quali sono gli interventi sulla giustizia
che possono sbloccare il paese?
* * *
Il Foglio organizza un grande evento per discuterne a Roma,
all’Ara Pacis, il prossimo 15 giugno, alle ore 15.30
* * *
Interverranno il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il vicepresidente
del Csm Giovanni Legnini, il primo presidente di Cassazione Giovanni
Canzio, il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, il procuratore della
Repubblica a Torino Armando Spataro
La Francia condanna Uber. Il tribunale di
Parigi ha condannato la società californiana a 800 mila euro di multa per il suo servizio UberPop, sospeso in Francia dal luglio 2015 e definito dalla corte “un sistema
illegale”. Multati anche il direttore di Uber
Europa e quello di Uber Francia.
Al Shabaab colpisce in Somalia. Il gruppo
terroristico islamista ha attaccato ieri una
base dell’Unione africana occupata da forze etiopi, uccidendo, dicono, 43 soldati. La
missione ha negato le perdite e detto che
nello scontro centinaia di miliziani sono
stati uccisi.
IL RIEMPITIVO
di Pietrangelo Buttafuoco
Incorreggibile Matteo: dopo la
ruspa, il lanciafiamme. Così ha detto:
“Entreremo col lanciafiamme”. Tutto
lo sforzo per avvicinarsi ai moderati,
tutta la fatica per accreditarsi leader
della maggioranza liberal-democratica viene vanificata da questa sparata.
L’acqua – si sa – non gli va per l’orto: a
Roma è andata male, a Milano il solito Silvio Berlusconi s’è preso la rivincita. Ed è proprio incorreggibile, Salvini. Dopo la ruspa, se ne viene dunque
col lanciafiamme. Cosa dobbiamo vedere ancora, che si faccia una felpa –
in collegamento tivù, contro i centri sociali armati di idrante – col suo nuovo
motto: lanciafiamme?
Contrordine, compagni: il lanciafiamme apparso ieri in tutti i giornali
e rilanciato in tutte le televisioni non
arriva dall’armamentario di Salvini, è,
al contrario, la solita #voltabuona. Orsù, twittate: #lanciafiamme.
Modera
Claudio Cerasa
direttore de
Posti limitati. Ingresso libero fino a esaurimento.
L’iniziativa è realizzata grazie al sostegno di
Con la collaborazione di
Piano con l’ordalia
Perché in vista del referendum
di ottobre i dati economici
peseranno più dei ballottaggi
S
trane elezioni, quelle in cui sotto la vernice delle parole di rito s’affaccia la ruggine di una sconfitta corale. Abituati come
siamo alle rivendicazioni ostinate di successi più o meno veritieri, scopriamo ora che alle comunali di domenica scorsa tutti i partiti hanno trovato ragioni per dolersi. Il Partito democratico l’abbiamo auscultato in diretta con il segretario Matteo Renzi: siamo i
primi ma non ci basta, dice lui. Traduzione:
arretramento omogeneo (peggio al sud), ritirate simbolicamente rilevanti nelle città
principali, su tutte la Capitale, un senso di
generalizzata irrequietezza che va ben oltre
i richiami dei gufi e le malignità della minoranza interna. Dei Cinque stelle si dice che
sono bravi nell’assedio delle casematte più
sensibili (Roma e Torino) ma perdono consensi un po’ ovunque. Forza Italia ha di che
consolarsi oltre la linea gotica, può premere per conquistare Milano epperò patisce
molto la concorrenza della Lega salviniana
ed è in via di liquefazione da Roma in giù.
A sua volta la Lega delle destre non sfonda
e anzi si consegna a un certo velleitarismo
parolaio, portandosi dietro i sogni della pur
valorosa Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia). Il
resto sono dettagli marginalissimi (tipo la sinistra pulviscolare). E insomma, sebbene
questo sia tecnicamente impossibile, vincitori rotondi e scintillanti stavolta non ce ne
sono. Il che induce il variopinto fronte del
TTR (Tutto Tranne Renzi) a ricercare un che
di unitario, come dimostrano le profferte di
voti per i ballottaggi che viaggiano lungo
l’asse Salvini-Grillo. S’indovina un tramestio
febbrile di minoranze a caccia di scalpo. Il
destinatario della caccia selvaggia ha già risposto che eventuali rovesci a Milano e Roma non lo costringeranno a porgere il collo
al nemico. Ha ragione lui, Matteo Renzi, e
sono illusi i sedicenti cacciatori. Certo l’ordalia renziana è iniziata, il fatto è innegabile: per la prima volta, dacché governa, emergono crepe sulle mura portanti della sua politica e del suo consenso personale. Gli italiani convocati alle urne domenica scorsa
potrebbero, sì, aver voluto punire il Pd al
dettaglio nelle realtà locali più desolanti e
terremotate, e perfino la sua dirigenza all’ingrosso laddove non è stata capace di offire
nomi di qualità messi al riparo dalle faide
interne. Ma questo non basta a farne un premier periclitante, il momento in cui la sua
leadership incontrerà il segno del destino
non può essere fissato all’indomani dei ballottaggi, perché è già saldamente ancorato al
referendum di ottobre sulle riforme costituzionali.
E qui entrano in gioco alcune variabili finora un po’ sottaciute. Il referendum si è ormai caricato d’un sovrappiù di senso, gli elettori ne sono consapevoli. Ma proprio per
questo la scelta tra il Sì e il No non resterà
circoscritta alla materia referendaria, terrà
conto anche dei risultati economici di Palazzo Chigi, e delle sue capacità di maneggiare
i dossier più urgenti, a cominciare da sicurezza e immigrazione. Sulla qualità della ripresa economica e degli effetti del Jobs Act
ieri l’Istat ha diffuso dati incoraggianti: cresce dello 0,5 per cento il numero dei dipendenti a tempo indeterminato (+75 mila), diminuiscono quelli a termine (-2,4 per cento,
-57 mila) e nel primo trimestre dell’anno si
registrano 341 mila occupati in più su base
annua (+1,1 per cento nei dati grezzi). Meno
convincente invece è la posizione del governo nella gestione dei flussi migratori e di riflesso sulla sicurezza percepita nelle città
più esposte. Ma la controversa prestazione
elettorale della Lega dimostra che gli italiani votano con il portafogli più che con le viscere e sono poco disposti a premiare un’opposizione priva di caratteri omogenei coagulati intorno a una proposta alternativa impersonata da una figura precisa. Ancora una
volta, al riguardo, il Cav. ospedalizzato e attendista si mostra più scaltro degli altri. (ag)
INNAMORATO FISSO
di Maurizio Milani
Gentile Beyoncé,
vi scrivo per dichiararvi il
mio amore, vero e unico (che
sareste voi). Abito in provincia di Lugano (CH), fino all’età di 27
anni ho vissuto di stenti. Vivevo con
mia nonna che faceva la merlettaia. Le
sue amiche la chiamavano “la povera
scema”.
Quando la nonna è mancata il nostro
tenore di vita è ulteriormente calato
(sotto i 5.000 franchi svizzeri). Io non
ero in grado di fare il merlettaio.
Mia sorella è andata a Londra, oggi
ha un negozio di merlettaia a Piccadilly. E’ l’unica merlettaia di Londra. L’altra rimasta in tutto il Regno Unito è a
Birmingham. E’ nostra zia. Oggi compie 97 anni.
Oggi compio 46 anni, sono impiegato come magazziniere del Newcastle
soccer. Porto le maglie dei calciatori
a lavare. Siamo l’unica squadra al
mondo che fa lavare le maglie a mano. Le lava mia zia. Non quella di 97
anni, sua sorella. Ieri mi ha detto di
essere un po’ stufa. La capisco: prima
la rosa della squadra era di quindici
giocatori, adesso è del doppio. Guadagno mille sterline al mese. Beyoncè
sei bellissima.
Amore, ieri mi ha scritto la direzione di un noto social network. Loro sono rimasti delusi, e anche io: su 1.000
amicizie che ho richiesto nessuna ha
accettato di ricambiare. Mai nella storia di Facebook era avvenuto un rifiuto così totale. Quelli della dirigenza
per pro forma mi hanno dato la loro.
Adesso ho 25 amici, tutti del cda del
potente social network.
ANNO XXI NUMERO 136 - PAG I
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 10 GIUGNO 2016
IL FiGLIO
a cura di Annalena
Dove c’è un bambino
Finisce la scuola, inizia l’emergenza delle non vacanze
PA D R I
Non solo bar. Il Fanciullo Sovrano
colonizza l’intera casa (i genitori
felici nello stanzino delle scope)
La campanella, la commozione, il Ramadan e l’insalata di riso. Risse fra genitori con panico estivo
Stefano Bartezzaghi e quel brivido
al coccige ogni volta che qualcuno
dice: “Sei un bravissimo papà”
N
on è solo il bar/ristorante, dove i bambini ti si affollano soprattutto e non
metaforicamente tra i piedi, anche se vicino a casa, nel romano quartiere Esquilino,
c’è un locale che talvolta ospita molte
mamme con bambini (bambini riflessivi,
dunque vestiti di cachemire e vellutini, tipo piccoli Baby George ma in quota società
civile). Lì ci sono queste mamme che ascoltano Lucio Dalla e bevono moltissimo
mentre questi Baby George riflessivi-aggressivi giocano a terra con delle costruzioni di legno ecocompatibili, e tu inciampi in questi pargoli col tuo Franciacorta in
mano e le mamme alzando l’occhio già allucinato dal loro Margarita ti guardano con
disprezzo perché non cedi loro il passo (ai
bimbi gentrificati).
Ma questi pargoli allevati a terra non
hanno colpa, sono abituati agli ampi spazi, pur essendo di città e non provenendo
da ranch texani: ed è questa la temperie
veramente inquietante che riguarda il
Nuovo Mondo dei Bambini. E’ chiaro infatti che quello di oggi è il Mondo dei bambini; in una società che punta tutto sul ringiovanimento, è chiaro che i bambini sono padroni. Anche a causa del rapporto
numerico invertito: un tempo vi erano
quattro-cinque bambini per famiglia, i
nonni causa cattiva alimentazione e stenti morivano presto, c’era un eccesso di offerta di bambini, dunque il loro valore di
mercato era naturalmente basso; oggi i
nonni vivono tipo highlander fino a 105 anni, sfasciando conti pubblici, e mamme ansiose incerte tra carriera e bebè producono rari marmocchi, e quando il marmocchio nasce, conteso da quattro, cinque, anche sei nonni in famiglie molto allargate,
il marmocchio è un miracolo, e il potere
sarà suo.
Si diceva, la temperie: quella più notevole è architettonica e urbanistica, e ci si
stupisce che Biennali e Saloni del mobile
ancora non contemplino mostre e installazioni site-specific dedicate al mutamento progettuale e abitativo della casa del
Bambino. Un tempo vi era infatti, nelle nostre case piccolo o gran borghesi, il salone,
la camera dei genitori, e poi quella dei
bambini, che era piccola; se proprio affluenti, una stanza dei giochi, da tenere
molto ordinata. Adesso, in tutte le famiglie
autoriprodotte che si conoscono, la planimetria è cambiata. La casa è trasformata
in un’unica grande stanza dei bambini, dove i genitori, o il monogenitore, si aggirano furtivi.
Formalmente, infatti, la stanza del figlio
rimarrà, in catasto essa esiste, ma è chiaro che serve al fanciullo solo per ricoverarsi la notte e espletare il riposo notturno; è
la casa intera che diventa teatro (proprio
in senso letterale) delle gesta del bebè.
Tutte le case possedute da bambini ormai
sono simili: ingresso, salone o salotto, e al
centro del salone, il palcoscenico del fanciullo. A seconda del ceto e dell’appartenenza politica, il palcoscenico o zona d’influenza del fanciullo avrà un maxischermo
con collegate le manopole della playstation oppure un fondale, già parete di casa,
con scarabocchi e disegni e calchi delle
mani del fanciullo, tipo edicola votiva. Intorno, la platea (il tavolo) e i palchi (i divani) su cui i genitori e i loro ospiti possono
ammirare le gesta del fanciullo (specie durante i pasti). Al centro del palco, la pila
dei giochi accumulati che il Fanciullo deve avere sempre a portata di mano: non più
relegati come un tempo nella cameretta
vengono ora esibiti all’ospite incolpevole.
Qui, forse, altri mutamenti sociologici; per
chi è cresciuto negli anni Settanta-Ottanta
il consumo vistoso del bambino, per dirla
col filosofo Thorstein Veblen, era sottoposto a censure (“pensiamo ai bambini poveri”) mentre caduto il Muro e cessate le
ideologie, anche nelle case più di sinistra,
il bambino è allevato nel turboliberismo: il
bambino in sé diventa, in quanto bene costoso e di difficile mantenimento, l’unico
status symbol che la nostra sfortunata generazione si può permettere di ostentare.
Il Fanciullo Sovrano avrà dunque tutto nel
suo palco, giocherà con la sua playstation,
si esibirà in karaoke, leggerà agli ospiti le
fiabe dai venticinque libri con pop-up
(Città del Sole, per ceti ecologisti) deposti
ai suoi piedi tipo rito apotropaico, tipo Ziggurat; fino a quando, finalmente esausto,
andrà nella sua cameretta.
Che però col tempo crescerà in dimensioni: perché il senso di colpa del genitore anziano occidentale la troverà presto
troppo piccola, come se il bambino non
avesse già a disposizione l’intero salone e
avesse bisogno invece, come un bisonte, di
ampie praterie da brucare e distese incontaminate da cavalcare. Presto il genitore
anziano e ansioso prenderà allora una decisione, e una stanza: quella più piccola e
angusta della casa, quella di servizio, quella degli ospiti, anche il magazzino delle
scope; ci infilerà un lettino, ci dormirà,
sarà felice così, mentre il piccolo mostro di
là crescerà in appetiti e ambizioni che il
mondo poi non gli soddisferà. La mamma
andrà spesso fuori a bere, talvolta portandoselo, per esibirlo, e risparmiare sulla
baby sitter. Ed è il bambino in cui inciampiamo col nostro Franciacorta: e che ci fa
decidere che non verremo mai più nei bar
coi bambini della prateria.
Michele Masneri
di Annalena Benini
A
ll’improvviso, è finita. E’ suonata la
campanella e i bambini di quinta elementare sono usciti, ognuno aggrappato
alla maestra come poteva (le maestre hanno molte mani e molte braccia e riescono
sempre ad abbracciarli tutti), e tanti piangevano, altri ridevano ma di un riso nuovo,
come un fremito all’angolo della bocca, i
pugni stretti, si guardavano intorno per vedere dov’erano le madri, o le nonne (c’era
un solo padre davanti a scuola quel giorno, in bermuda sandali e marsupio, molte
gli sorridevano e gli dicevano: bravo, una
ha detto perfino: bel marsupio). Le madri
e le nonne, e le baby sitter e le maestre,
piangevano e si abbracciavano per salutarsi, e anche quelle che si stavano azzuffando su WhatsApp nelle chat della classe hanno fissato una tregua per commuoversi in pace, sicure comunque che non si
è trattato di un addio alle armi: di lì a pochi minuti hanno ripreso a lottare, come
se fosse già settembre. Yasmina, dieci anni, ha iniziato il Ramadan perché ormai è
grande, quindi non andrà al picnic di fine
anno, su cui si litiga da mesi, e la maestra
piangeva soprattutto per il picnic senza
Yasmina (che non è andata nemmeno al
campo scuola, perché una femmina non
può dormire fuori casa), e la baciava sulle guance e le diceva: la mia bambina, e
Yasmina consolava la maestra ridendo: dice che la sera mangia la pizza davanti ai
cartoni animati ed è una specie di grande
avventura, mangiare solo quando fa buio,
come gli adulti, e però i compagni insistono: dai, vieni a casa mia oggi pomeriggio
e mangiamo la nutella di nascosto, oppure digiuniamo tutti insieme e aspettiamo
la luna.
Una madre, con gli occhiali da sole a
coprire le lacrime, guardava Yasmina e
gli altri bambini correre a prendere le
piantine di pomodoro, regalarsi le ultime
figurine e farsi promesse di amicizia eterna con un balletto delle mani, un linguaggio speciale imparato su YouTube, e ha
sospirato a voce alta, un po’ troppo alta e
teatrale: loro sono così migliori di noi. Le
altre madri si sono girate di scatto, già
piene di furia, e dopo un attimo di silenzio la rappresentante di classe si è messa
davanti alla madre teatrale con gli occhiali da sole e le ha detto con una specie di ghigno: almeno questa volta all’insalata di riso ci pensi tu. La commozione
è svanita, la riflessione sul Ramadan si è
dissolta, i pensieri sul futuro dei nostri figli anche, andranno alle medie, poi alle
superiori, chissà se troveranno la loro
strada, il lavoro che non c’è, noi che li
guardiamo partire, sembra
ieri che sono nati, sembra
ieri che ero giovane, e
telefonami fra vent’anni, niente, non c’era
più niente, nessuna malinconia,
nessun dolore,
sparito anche quell’attimo di felicità: adesso,
a un minuto
dalla fine
della scuola, tutto lo
spazio fisico
e sentimentale è occupato
dall’insalata di
riso per il picnic.
E dalle dodici settimane davanti, di cui
almeno nove da riempire di campi estivi,
nonni anche in affitto, anche sconosciuti,
piscine, trekking, cortili di parrocchie,
parchi acquatici, campeggi, corsi di sci
nautico, corsi di stelle alpine, corsi di pittura, corsi di yoga nei boschi, corsi di
brunch itinerante, e piscine gonfiabili in
balcone, e pattini a rotelle in corridoio tutto il giorno e tutta la notte.
La sera dell’ultimo giorno di scuola, dopo che lo zaino è finito nella cuccia del
gatto (che in questo periodo entra in depressione), ci si siede con la testa fra le
mani al tavolo della cucina, in mezzo a
una nuvola di fumo e già di disordine estivo, canottiere, trucco colato, volantini di
campi estivi lontanissimi, salvagenti bucati, ombrelli perché comunque piove, e
sempre sempre sempre la borsa con i costumi da bagno che si è persa, ci si siede
e si comincia a litigare su chi deve restare a casa la mattina dopo con i bambini.
E’ una specie di incantesimo, di capovolgimento delle aspirazioni, perché per
tutto l’inverno si è desiderato lavorare da
casa, si è immaginato uno studio confortevole dove di tanto in tanto, nel tardo pomeriggio, un figlio si affaccia a chiedere un
bacio, e poi tutti insieme felici apparecchiano la tavola per la cena,
con la televisione spenta, e gli
adulti bevono
un bicchiere di
vino e si raccontano la giornata e
decidono quale
film guardare dopo cena, quando i
bambini dormono. Ma adesso
che non è più
inverno, adesso che questi
tre mesi di
emergenza sono iniziati ed è
chiaro a tutti, anche ai genitori rissosi in
chat già pronti a contestare le pagelle, che
dureranno per sempre e che quasi nessuno arriverà vivo a settembre, il buon senso è svanito e ci si sente in guerra: adesso
l’unico desiderio è la fuga, la diserzione.
Quindi l’ufficio fino a notte fonda, quindi
amore davvero domani se non vado a quella riunione mi licenziano, cerca di capire,
stammi vicino, è importante. Forse pensi
che io invece non abbia un lavoro? Pensi
che adesso porto tutti in villeggiatura e tu
arrivi il venerdì sera con la cravatta slac-
ciata e la valigetta e io ti vengo incontro
con un bicchiere di vino? E voi due, che
cosa fate ancora alzati? Mamma, ma sono
le nove, c’è ancora luce e domani non si
va a scuola. Allora guardate i cartoni! Ma
non ne abbiamo voglia. Giocate con l’iPad!
Che pizza. Guardate video strani su YouTube! Ma hai sempre detto che non possiamo, che è pericoloso. Fate i compiti delle
vacanze! Ma non ci hai neanche comprato
i libri delle vacanze. Allora tirate le bombe d’acqua dalla finestra! Va bene.
E’ un periodo molto pericoloso, questo,
perché porta con sé il caos, perché saltano
tutte le regole, perché si avvicinano anche
le vere vacanze, a cui affidiamo i desideri di rinascita, e perché bisogna restare
saldi e fare finta di essere normali, ed essere molto gentili con le animatrici del
campo estivo per convincerle ad aspettarci ogni giorno per quasi un’ora oltre l’orario di chiusura. Ma soprattutto bisogna fare l’insalata di riso per mille persone, per
il picnic di fine anno in campagna, come
se ci fosse davvero qualcosa da festeggiare, in questa fine scuola, fine ciclo, fine
pazze chat con i genitori, fine pazza gioia
del lunedì mattina, e quando il picnic sarà
finito, quasi sicuramente per pioggia, non
avremo più niente per cui litigare, resteremo soli con le nostre non vacanze, con i
nostri desideri di inverno.
Così, con la testa tra le mani e in mezzo
al fumo delle sigarette, è cominciata quest’estate lunghissima e quando, verso le
due di notte, i bambini sovreccitati si sono addormentati, ho visto che il fratello di
seconda elementare, che non si era per
niente commosso all’uscita da scuola e
non aveva salutato la maestra e aveva tirato la palla nel canestro per sette ore di seguito, adesso dormiva abbracciato a Hulk
e stringeva qualcosa in mano, un pezzetto
di carta scritto male a matita. Piano piano ho aperto la mano sudata e ho letto, era
un biglietto di saluto: “Caro Giulio, mi è
piaciuto molto giocare con te a sardina e
penso che sei il ragazzo più buffo della
classe, è un vero peccato che devo andare
a Foggia. Matilde”.
LA LETTERA. Flami pensa al futuro e Francesco De Gregori ricorda “un senso di libertà”
Cara Annalena, Flami si alza dalla sedia, saluta con voce leggera e se ne va, portandosi dietro le borse sotto gli occhi, le mani
sudate e un meritato sollievo che le massaggia le tempie. L’esame
di maturità è andato bene, qualche volta lo rivivrà in sogno. Flami legge Raimond Carver e David Foster Wallace ma non ha il
coraggio di leggere nel suo domani. A casa s’interroga con i suoi
genitori, ma i loro consigli sono senza forma e senza peso. Lei ha
chiesto come potrebbe prepararsi a un futuro popolato di lavori oggi sconosciuti. E loro hanno scritto nell’aria in stampatello maiuscolo che dovrà salvarsi dai rimpianti. Flami li osserva. Eccoli lì,
due tipi assurdi catturati dai loro pensieri che induriscono come
colla a presa rapida. Anche i genitori hanno i loro fantasmi. Ora
Flami sa che può scontrarsi benissimo con le proprie paure, purché non le rimangano incollate addosso. Cari saluti.
Antonio Cianfarini
Caro Antonio, c’è un passo del libro-intervista di Francesco De Gregori con Antonio Gnoli, “Passo d’uomo” (Laterza) in
cui De Gregori ricorda il rapporto con suo padre, funzionario
di biblioteche preoccupato che la musica “rovinasse” Francesco e suo fratello, ma che comunque “ci portava in dono un
certo senso di libertà”. Però una volta impedì al fratello Luigi di leggere “Furore” di Steinbeck, e non amava nemmeno
che i figli leggessero romanzi di fantascienza. Ci si ricorda di
certi gesti dei genitori, se ne dimenticano altri, importantissimi, e all’improvviso, spesso tardi, si scoprono cose nuove.
Francesco De Gregori ha raccontato: “Qualche tempo fa ritrovai un passo di Kahlil Gibran annotato e sottolineato da mio
padre, dove si dice che i figli non appartengono ai genitori: ‘Potete amarli, ma non costringerli ai vostri pensieri, poiché essi hanno i loro pensieri. Potete custodire i loro corpi ma non
le loro anime, poiché abitano in case future, che neppure in
sogno potrete visitare. Cercherete di imitarli, ma non potrete
farli simili a voi”. Potrete portare in dono un senso di libertà.
Scrivete le vostre lettere a [email protected] (non più di 10 righe, 600 battute)
e inviateci i disegni dei vostri bambini
Illustrazione di Anna Sutor
Papà ci è sempre sembrato quello che era: schizzato, a tratti matto, un grande indefesso ubriacone
Papà, a noi ci è sempre sembrato quello che era. Mio fratello Nic, mia madre ed
io, lo abbiamo sempre visto per quello che
era, un essere tremendamente fragile,
uno sbandato, iperemotivo, schizzato, a
tratti anche matto, e un grande indefesso ubriacone. Ho detto a mio fratello, un
po’ per ridere un po’ no: Sai, pensandoci
adesso credo che in fondo l’unica vera au-
tentica passione della sua vita, l’unico
punto fermo, quello a cui ha veramente
tenuto fede fino all’ultimo è stato la bottiglia. Mia madre è andata a rovistare nei
diari che Renato ha sempre scritto durante tutta la vita e specie nelle serate alcoliche e ci ha trovato, ancora fino a poche settimane prima della morte, ci ha
trovato segnati una serie di wischetti che
lui aveva tirato giù con piacere e anche
con senso di spregio verso tutta l’umanità, in particolare verso i dottori che volevano sottrargli la sua amata compagna
di vita, la sua steslla polare, la sua bottiglia. E poi verso i passati superiori di
quando era carabiniere (i vari tenenti, colonnelli, generali eccetera a cui non aveva smesso di portare rancore anche a di-
stanza di venti, trenta, cinquant’anni dai
fatti). E per finire, verso l’amata moglie
che comunque, anche se in gamba e bella come un’attrice, un chiaro difetto ce
l’aveva, che continuava a rompergli il
cazzo sul bere.
Rossana Campo, “Dove troverete un
altro padre come il mio” (Ponte alle Grazie, pagine 160, euro 13)
L
ei parlava seduta
di fronte a me, io
non ero veramente interessato. A distrarmi
era anche uno strano
fastidio
crescente,
non proporzionale alla lieve noia del colloquio, colloquio che a
un certo punto virò
sul personale. “Sono sicura che sarai un
bravissimo papà”, mi disse. Era, lo capivo,
sinceramente intenzionata a conferirmi
una patente sulla fiducia, come il Nobel
per la Pace a Barack Obama neoeletto; io
però ci sentivo una nota stonata. Non fu comunque quello il motivo per cui poco dopo saltai in piedi, all’improvviso. Doveva
scusarmi: non riuscivo proprio a rimanere
lì e soprattutto non potevo più stare seduto,
non sapevo perché. Me lo rivelò un medico
il giorno dopo, impiegando una parola che
ignoravo: coccigodinìa. E’ la pungente infiammazione di una minima terminazione
nervosa laggiù, dove c’è il ricordo della coda; sue possibili cause: o trauma o stress.
E’ passato più di un quarto di secolo. Per
una delle associazioni che la bizzarria della vita ci propone, quel saettare dall’osso
sacro mi si ripresenta da allora alla memoria, e con un brivido, ogni volta che sento
usare l’espressione: “essere un bravo padre”. Mi capita anche con “una brava madre”, ma in grado più tenue, mancando
l’immedesimazione.
“Bravo”: il pur simpatico aggettivo coniuga il moralismo più sospiroso, e passivoaggressivo, e la mitologia dell’efficienza
produttiva; correttezza e meritocrazia consociate in una specie di patto del Nazareno del controllo sociale. “Non-bravo!”: il ritiro della patente era implicito nelle torve
occhiate di altri genitori, quando l’una o
l’altra figlia incapricciata veniva ridotta alla ragione, e bruscamente. Cioè non per il
tramite delle sfibranti trattative da suq o
da conferenze di pace orientali a cui loro si
sottoponevano, temendo di essere temibili, temuti. Le bambine almeno erano dirette: “Cattivo!”. Me lo dicevano senza litoti, e
in faccia.
Ogni genitore pare curioso di confrontarsi a ogni altro genitore, usando il metro della bravura: “E’ un bravo papa? E’ una brava mamma?”. Registrando il ritorno occasionale della dimenticata coccigodinia, io
non ho mai risposto e ho cambiato discorso, sempre.
Sono brave, bravissime le donne che riescono a conciliare accudimento e piena vita professionale e personale, senza neppure le facilitazioni che altri welfare offrono
altrove. Ma non posso proprio prendere
per “bravura”, cioè o performance o fioretto, i miei pensieri, le parole, le opere e ovviamente anche le omissioni dei venticinque anni intercorsi dall’età del primo pannolino a quella del primo sussidio di disoccupazione. E va certo concluso che a me è
andata più che bene – altro che “bravo”! –,
pensando al ménage con le due elettrici (di
chissà chi) che ora vivono a casa mia, come
me riempendo e svuotando frigorifero, forno, lavatrice, sacchetti della spesa con buona armonia e alternata assiduità. Adulti
oramai tutti e tre, le mansioni di coordinamento del palinsesto dei soggiorni, passaggi, partenze, rientri si distribuiscono equamente, fra ognuno e ognuna, il più essendo
però determinato dal Caso.
Il Caso è più forte degli artifici che possiamo opporgli perché le cose vadano bene e noi possiamo uscirne diplomati con un
“bravo” o “brava”. Si può essere bravi a lavorare, ma l’unico punto di analogia fra un
mestiere e l’essere genitori è che ci si sente occupati, e anche lì occupati in senso più
militare che professionale. Le tue terre sono invase da uno o più squatter, con usanze tribali proprie e una vocazione inesorabile al filibustering e alla resistenza passiva contro il potere, che sei poi tu.
Impazienze, orgogli, ansie, errori marchiani, noie, frustrazioni, tenerezze indicibili e saggi scolastici più indicibili ancora:
un intero film scorre nella ricapitolazione
di quegli anni in cui è stata più intensa la
formazione reciproca. Ne vanno poi a far
parte persino le tue amnesie perché, cresciuta, una figlia ti dirà ridendo: “Ti ricordi quando…?”; tu non lo ricordi affatto e,
appena lei lo fa, vorresti che non te l’avesse mai ricordato. Forse queste creature di
cui tanto fermamente quanto scioccamente
ci sentiamo autori sono le uniche persone
con cui, finché sono in età infantile, non ci
pare possibile fare “brutta figura”. Si incaricheranno da grandi di notificarci quanto
erronea fosse l’illusione. Uno dei film che
più mi piacquero da ragazzo fu quello di
Carlos Saura il cui titolo, Cria cuervos, viene dal proverbio spagnolo che avverte: “Alleva i corvi che ti caveranno gli occhi”. Nessuna figlia mi ha ancora cavato gli occhi né
mi ha mai causato una recrudescenza della coccigodinia. Brave loro. La casa è ancora piena, come il tempo e la vita, e mi viene in mente quel che i possidenti usavano
dire ai primogeniti: “Un giorno tutto questo
sarà tuo”. La direzione si è rovesciata: è la
frase che, almeno con lo sguardo, sento rivolgermi dalle figlie, per il tempo in cui
“padre” diverrà per me un titolo onorario,
al più un laticlavio. Il tempo in cui tutto, e
il tempo stesso, sarà appunto mio.
Stefano Bartezzaghi
ANNO XXI NUMERO 136 - PAG II
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 10 GIUGNO 2016
RITRATTI NON SOLO PALLONARI DEI 24 PAE
Attentati, crisi politiche, nuove elezioni, vecchi burocrati, minacce di fuga, immigrati da gestire. Che
Albania
Per la prima volta l’Albania
arriva a disputare la fase finale degli Europei e ha una
squadra particolare: allenata
dall’italiano Gianni De Biasi,
è formata da giocatori albanesi e kosovari, due nazionali in
una. E non è detto che in futuro non ce ne
saranno di più. Dal 1999 non c’è sostanzialmente più immigrazione albanese verso l’Italia, semmai la tendenza è al rientro, ma
il paese governato dal premier Edi Rama
del Partito Socialista d’Albania (centrosinistra) non è solo diventato mèta per gli investimenti esteri (“non ci sono i sindacati e
non si paga più del 15 per cento di imposte” ricordò Rama a Renzi nel 2014) ma di
rifugiati e immigrati dal medio oriente. La
chiusura a intermittenza della “rotta balcanica” dell’immigrazione verso l’Europa
continentale potrebbe rendere l’Albania
una porta di passaggio per gli immigrati
economici e anche, come il Foglio ha raccontato, di guerriglieri islamisti. Una nuova frontiera di nuova immigrazione.
Francia
La paura è il sentimento
nuovo, rispetto a quattro
anni fa. Colpa degli attentati terroristici contro la
redazione dei vignettisti
di Charlie Hebdo nel gennaio 2015, e dell’ondata di
attacchi in nome di Allah compiuti dieci
mesi dopo: il massacro al Bataclan (93 morti), le sparatorie per le strade dei vari arrondissement di Parigi, e le esplosioni dei
kamikaze udite nello Stade de France, durante un’amichevole tra la stessa nazionale di calcio francese e la Germania. Stato
di allerta nazionale, chiusura temporanea
delle frontiere, poi il lento ritorno alla normalità. Con un timore, però, strisciante,
inedito. Perché la Francia, nelle parole del
ministro socialista Kanner, scopre improvvisamente di aver allevato al suo interno
“cento Molenbeek”. Nel frattempo, l’economia dopo quattro anni abbandona la crescita zero, in favore di una timida ripresa,
fatta solo di zero virgola. Dati che non soccorrono in alcun modo il presidente
François Hollande, ai minimi storici di popolarità, stretto tra scioperi di massa contro il Jobs Act francese, una sinistra che
prova a organizzarsi su binari liberali (con
Emmanuel Macron) e una Marine Le Pen
che viaggia in testa nei sondaggi, sognando
la conquista della poltrona dell’Eliseo il
prossimo anno.
Romania
La Romania di Anghel
Iordanescu, l’allenatore
degli storici quarti di finale a Usa ‘94, è entrata a
Euro 2016 solo grazie la
disastrosa fase di qualificazione della Grecia. E
sempre per la crisi (economica) della Grecia e per le condizioni di salvataggio che
Atene ha dovuto accettare, Bucarest è intenzionata a rinviare di una decina d’anni
l’entrata nell’euro (quello di carta e non di
calcio). D’altronde dentro l’Unione europea e fuori dalla moneta unica per adesso
non si sta tanto male: la Romania è un paese ancora in fase di transizione, ha seri
problemi di corruzione, ma l’economia cresce attorno al 4 per cento e comunque rispetta gran parte dei parametri di Maastricht propedeutici all’ingresso nell’Eurozona. I problemi quindi non sono con Bruxelles, ma con Mosca. L’Ucraina è lì vicina e il
timore è che l’espansionismo russo possa
ripresentarsi negli stessi termini nella vicina e amica Moldavia, dove c’è il problema dalla repubblica separatista russofona
della Transnistria. Se Putin dovesse decidere di risolvere la questione a modo suo,
come in Crimea, sarebbe una chiara minaccia per l’autonomia e la sicurezza di
Bucarest. A ciò bisogna aggiungere che da
poco in Romania è operativo lo scudo anti
missile della Nato ed è inutile dire che la
Russia non l’ha presa con sportività.
Svizzera
Le polemiche sui paradisiaci vantaggi fiscali non
hanno smesso di accompagnare la piccola confederazione elvetica negli
ultimi quattro anni. Sarà stato per questo,
e per la consueta pubblicazione (a puntate) dei nomi delle celebrità di tutta Europa
presenti nelle liste “segrete” dei presunti
evasori fiscali, che Berna ha deciso di darsi un restyling: svariati accordi anti evasione con i paesi occidentali e, l’anno scorso,
una storica intesa con l’Unione europea
per la fine del segreto bancario dal 2018. I
tassi di crescita dell’economia, intanto, restano tra i più invidiati: il +1 per cento di
pil del 2012 è raddoppiato nel biennio successivo, prima di scendere e risalire quest’anno al +1,4 per cento. Ma gli svizzeri
continuano ad essere gente strana: il “no”
all’introduzione del salario minimo pronunciato dagli elvetici in un referendum di
due anni fa, è stato confermato da un altro
“no”, agli inizi di giugno di quest’anno, stavolta contro un reddito di cittadinanza di
oltre 2 mila euro al mese. Grillo ancora
non ci crede.
* * *
Inghilterra
La squadra inglese inizia gli
Europei ma non sa come li
finirà. Il calcio non c’entra,
c’entra che nel bel mezzo
della competizione, quando
iniziano gli ottavi di finale,
il Regno Unito vota al referendum sulla Brexit e nessuno sa che cosa accadrà dopo. I tedeschi
e i francesi hanno presentato una mozione
che dice: se vince la Brexit, la squadra inglese (pure quella nordirlandese e gallese
tra l’altro) non gioca più, non è più europea, fatti suoi, “out is out”. Considerando
che i tempi di un’eventuale Brexit non sono noti nemmeno ai fan più sfegatati dell’addio all’Europa, è difficile immaginare
che ci siano effetti immediati sulle partite
di calcio. Ma i tedeschi e i francesi nell’Uefa, intanto, ci provano. L’atmosfera apocalittica che avvolge il Regno Unito alle prese con il referendum più sciagurato del decennio contagia anche il calcio: se vince la
Brexit, i calciatori con passaporto europeo
non avranno più automaticamente il permesso di giocare in Inghilterra, e secondo
gli esperti questo sarebbe un altro, devastante disastro. I sostenitori della Brexit rispondono: pazienza, ci sono tanti talenti
nostrani da valorizzare. I tifosi britannici
non fanno eccezione e, nei sondaggi, appaiono divisi sul referendum. Anche se il
“leave” è sempre un po’ più avanti. Chissà
perché, lo sospettavamo.
Russia
Quattro anni fa, in Russia,
diventava presidente Vladimir Vladimirovich Putin.
Dopo quattro anni è ancora
lì, dopo essere già stato primo ministro dal 1999 al
2000, poi presidente dal
2000 al 2008, poi di nuovo primo ministro
dal 2008 al 2012. La stabilità politica, insomma, è garantita. Più volatile il quadro
dell’economia del paese. Ecco cosa scrive
la Banca d’Italia nella sua ultima relazione: “Il quadro economico si è ulteriormente deteriorato a causa del crollo degli introiti dalle esportazioni e degli effetti delle sanzioni internazionali. Il pil è diminuito del 3,7 per cento nel 2015 (era cresciuto
dello 0,7 per cento l’anno precedente), risentendo della domanda interna. Per sostenere l’economia la Banca centrale ha
più volte abbassato il tasso di riferimento
(dal 17 all’11 per cento), nonostante l’inflazione, sospinta dal deprezzamento del rublo, sia salita fino a sfiorare il 16 per cento
in agosto”. E’ sulla politica estera che la
Russia ha fatto miracoli: da paria delle relazioni internazionali in ragione del suo interventismo in Ucraina, Putin è diventato
negli ultimi due anni – dopo l’intervento in
Siria che ha bloccato l’avanzata di Stato
islamico e islamisti vari – il Mr. Wolf che
“risolve i problemi” della politica internazionale (copyright: Financial Times). Motto
del Cremlino: l’importante non è partecipare, ma vincere.
Slovacchia
Nel 2012 per la prima volta
nella storia della Slovacchia indipendente un solo
partito conquistò la maggioranza assoluta in Parlamento: la Direzione-Socialdemocrazia di Robert Fico. Un ex-comunista
che nel 2006 era già diventato premier su
una piattaforma anti-austerity, nel 2010
aveva perso il potere per uno scandalo, ma
che in capo a due anni era riuscito a recuperarlo promettendo più tasse per i ricchi.
Riconosciuto dal socialismo europeo, in
questi quattro anni Fico ne ha però sconcertato i leader per i suoi slogan anti immigrati: “Non c’è spazio per l’Islam in Slovacchia!”. Non gli è valso a mantenere la maggioranza assoluta al voto dello scorso 5
marzo, ma comunque è restato primo ministro. Così, il primo luglio assumerà la presidenza di turno dell’Ue: una prima volta
della Slovacchia politica, in singolare abbinamento per la prima qualificazione agli
Europei di una Slovacchia calcistica che
comunque, non lo dimentichiamo, nel 2010
ci fece fuori dai Mondiali in Sudafrica.
Galles
La Regina Elisabetta c’era
quattro anni fa come c’è
adesso. David Cameron c’era
quattro anni fa come c’è
adesso. Perché il Galles è
formalmente Gran Bretagna
nonostante le squadre nazionali diverse
per ogni competizione sportiva, Olimpiadi
escluse. I movimenti indipendentisti sono
come da anni dormienti, la vita prosegue
senza strattoni, a eccezione dei due Sei
nazioni conquistati dai gallesi nel rugby e
alla vittoria della Coppa di lega inglese da
parte dello Swansea nel 2013. Un fatto di
portata storica: prima degli Swans solo il
Cardiff 85 anni prima. L’altro accadimento epocale è una scoperta storica: l’arco
lungo, l’invenzione che stava per far vincere la Guerra dei Cent’anni agli inglesi, non
era inglese ma gallese. E sembra una cosa
di poco conto, ma a Cardiff e dintorni non
lo è.
* * *
Germania
”Angela Merkel guidava la
Germania nel 2010 e la guida ancora oggi. L’economia
tedesca era la più solida allora e lo è anche oggi”. Così
scrivevamo due anni fa, nella guida fogliante ai Mondiali di calcio che
la Germania vinse in finale contro l’Argentina (dopo aver battuto il Brasile 7 a 1, facendo lievitare la simpatia per Berlino).
Oggi dovremo ripeterci: Angela Merkel guidava la Germania nel 2012, quando si giocarono gli ultimi Europei, e la guida ancora oggi. L’economia tedesca era la più solida allora in Europa e lo è ancora oggi. Ad
aggiungere noia a noia, non passa anno
senza che Forbes non nomini la cancelliere Merkel “donna più potente del mondo”
(ci scuserà Hillary Clinton, ma quando lei
cominciava a vantarsi di poter diventare
“la prima presidente donna degli Stati
Uniti”, noi qui in Europa eravamo già ermafroditi, svezzati da qualche decennio
dal binomio tra gentil sesso e potere con
Merkel, Margaret Thatcher, Helle Thorning-Schmidt e altre ancora). La Germania,
nel frattempo, è diventata solo un po’ più
affollata (nel 2015 ha aperto le porte a più
di un milione di rifugiati) e purtroppo più
filo turca (nel 2016 dona miliardi di euro a
Erdogan perché non si ripeta quanto accaduto nel 2015). Sempre fortissima, comunque, e centrale.
ese: God bless our homeland Ghana.
Irlanda del Nord
Una delle canzoni più cantate dai protestanti nordirlandesi ricorda il sanguinoso assalto della 36a Divisione dell’Ulster contro le
trincee della Somme, il
primo luglio 1916. Un secolo dopo, di nuovo in terra di Francia i nordirlandesi tenteranno un assalto impossibile contro uno sbarramento tedesco. Per
fortuna, stavolta con un pallone, e non con
quelle pallottole che nell’Ulster hanno
continuato a fischiare fino a tempi recenti,
tant’è che nel deplorare un’economia stagnante l’Economist ha comunque celebrato che dopo gli accordi di Stormont del
1998 “la buona notizia sull’Irlanda del
Nord è che ha ora problemi normali”.
Frutto della pace è una stretta interrelazione col Sud, e MartinMcGuinnes è oggi
Deputy First Minister a Belfast dopo essersi candidato per la presidenza a Belfast
nel 2011. E questi sono non solo i primi Europei in cui l’Irlanda del Nord si qualifica,
ma anche la prima competizione calcistica
in assoluto dove le due Irlande arrivano in
fase finale assieme.
Polonia
A leggere dotti editoriali e
terrorizzanti reportage redatti nelle redazioni chic dell’occidente gaudente, pare che la
placida Polonia sia la Corea
del nord d’Europa, con una
sorta di Kim Jong-un al governo che minerebbe la democrazia e la felicità del popolo redento. La Costituzione
messa in pericolo dal pugno di ferro del
gemello sopravvissuto Kaczynski (l’altro è
morto in circostanze misteriose con mezzo
stato maggiore della Difesa mentre si recava a una cerimonia in Russia), che teleguiderebbe la giovane premier conservatrice
Beata Szydlo e l’ancor più giovane presidente Andrzej Duda. Eppure, mentre fuori
dai patri confini si urla al regime, l’economia va, il turismo tira e pure a Bruxelles –
dove un altro polacco, il progressista Donald Tusk, è presidente del Consiglio europeo – sono costretti ad ammettere che tutto sommato sotto i totalitarismi le cose andavano peggio. Varsavia si rafforza, al punto da costituire una serie di brigate militari pronte per rispondere a un eventuale attacco del nemico storico russo. In Francia,
la Polonia cerca la consacrazione da tempo annunciata e sempre smentita dal campo. Squadra in crescita e piena zeppa di
giovani, federazione fortissima, Zibì Boniek come nume tutelare. L’obiettivo è non
fare figuracce e andare oltre gli ottavi.
Ucraina
A pochi giorni dall’inizio degli Europei, un uomo di nazionalità francese era stato
arrestato dai servizi segreti
ucraini dell’Sbu al confine
con la Polonia. Con sé portava cinque mitragliatrici, due
lanciarazzi, 125 chilogrammi
di Tnt e 100 detonatori. La ricca dotazione,
secondo l’intelligence di Kiev, serviva a
compiere almeno una quindicina di attacchi terroristici prima e durante gli Europei. L’Ucraina è diventata la grande armeria da cui qualunque terrorista degno di
questo nome può attingere per piazzare
bombe, soprattutto se nel mirino c’è l’Europa. D’altra parte, la guerra nel Donbass,
tra un accordo di Minsk e un altro, nei fatti non si è mai interrotta. Nonostante l’elezione di una classe politica nuova, i sistemi di potere sono ancora legati all’oligarchia di una volta, e le istituzioni restano
fragili. Le divisioni tra filorussi e sostenitori del governo di Kiev si riflettono anche
nella Nazionale di calcio, descritta dagli
esperti come una buona squadra ma dallo
spogliatoio diviso in due blocchi: da una
parte quello che vede il suo leader in Andriy Yarmolenko della Dinamo Kiev, dal-
l’altra la corrente guidata da Taras Stepanenko, centrocampista dello Shaktar Donetsk, la squadra del Donbass per eccellenza. Dicono i bene informati che i due
non si sopportino, né in campo né fuori e
che la loro rivalità possa compromettere la
campagna di Francia della Nazionale. Ah,
agli Europei partecipa anche la Russia e
con una giusta (e macabra) combinazione
le due Nazionali potrebbero incontrarsi
già agli ottavi di finale. Tanto per non farci mancare niente.
* * *
Croazia
Il 22 gennaio 2012 il
66,7 per cento dei croati
votarono sì al
referendum
per l’adesione
all’Unione Europea. Il primo giugno 2016 si è
presa la soddisfazione di poter
decidere col
suo sì sull’adesione della
Serbia.
Il
primo quadriennio
nell’Ue è
stato accompagnato
da una
ripresa
del Pil,
ma alle
elezioni
d e l l o
scorso 8
novembre
il socialdemocratico Zoran Milanoviç,
premier uscente, ha perso la
maggioranza.
Neanche il centrodestra di Tomislav
Karamarko è riuscito
a imporsi, per l’irruzione della terza forza, il
“Most” (Ponte), simile
ai Ciudadanos spagnoli.
Un accordo tra Most e il
centro-destra ha fatto così nascere il governo di
Tihomir Ore‰koviç: tecnocrate già emigrato in Canada, dove era diventato un
alto dirigente della multinazionale farmaceutica Teva.
Dopo quattro mesi però la
maggioranza è già andata a
pezzi. I croati possono consolarsi con la nazionale più forte dei
Balcani: terza ai Mondiali del
1998, qualificata in quattro delle
ultime cinque edizioni degli Europei.
Repubblica Ceca
Quattro anni fa,
la Repubblica Ceca si fermò agli
ottavi, eliminata
dal Portogallo
dopo aver vinto
il proprio girone.
Sembrava la resurrezione, la fine del periodo oscuro: qualche anno
buio culminato con la non
partecipazione al mondiale
del 2010 in Sudafrica e la
misera figura agli Europei svizzero-austriaci
del 2008. Bruciava, poi, l’ascesa della vicina e fin lì
calcisticamente ininfluente
Slovacchia, che
in Sudafrica eliminò addirittura l’Italia.
Adesso la Repubblica Ceca ha pure cambiato nome, diventando Cechia per l’orgoglio dei nazionalisti locali (non di tutti,
molti avrebbero preferito il più romantico
e storico Boemia) e l’orrore dei cultori dell’eufonia. Praga con i suoi ponti e la sua
storia resta il cuore dell’Europa, anche se
è meglio non mostrare troppo entusiasmo
per Bruxelles in uno dei paesi più euroscettici dell’Unione, con il presidente Milos Zeman che non ne vuol sapere di ripartizione dei profughi e di avviare processi
d’integrazione: “Siamo davanti a un’invasione”, ha detto qualche mese fa.
Resta il paese meno cristiano in
Europa e quello dove si vota meno (due anni fa, per il rinnovo
del Parlamento europeo, s’è recato alle urne il 18 per cento degli aventi diritto).
Spagna
Una mattina di primavera del
2012, un dirigente europeo visitò
la
Moncloa, il
palazzo presidenziale spagnolo, per parlare con il primo ministro Mariano Rajoy.
L’eurocrate avrebbe poi
raccontato al Mundo che
Rajoy disse: “Io mi sveglio
tutte le mattine senza sapere quello che succederà e mi addormento
tutte le sere senza sapere
quale disastro dovrò affrontare il giorno successivo”. Ecco, la Spagna di
quattro anni fa era così, consapevole soltanto di essere diretta
verso il disastro. Erano gli anni più duri
della crisi finanziaria
globale, Madrid era
nell’occhio del ciclone e Rajoy era
succeduto a Zapatero da appena un
anno. L’ex premier
socialista aveva già
ANNO XXI NUMERO 136 - PAG III
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 10 GIUGNO 2016
ESI CHE DA OGGI SI GIOCANO GLI EUROPEI
e cosa succede nelle nazioni che si sfidano a calcio in Francia da oggi al 10 luglio. Guida geopolitica
approntato alcune durissime misure d’austerity, ma il grosso era ancora tutto da fare, e nel 2012 Rajoy dovette subire un’ondata di impopolarità come pochi altri. La
cura da cavallo è riuscita, oggi la Spagna è
una storia europea di successo, il suo pil
cresce più di ogni altro paese del continente nonostante alcuni fondamentali economici, come l’occupazione, siano ancora
preoccupanti. Negli ultimi tempi però alla
fine dell’instabilità economica ha fatto seguito l’inizio di quella politica. Le ragioni
dell’origine di due partiti anti establishment come Podemos e Ciudadanos è da ricercarsi negli anni terribili della crisi.
Questi partiti oggi compongono un inedito
quadripartitismo che ha paralizzato il quadro politico alle elezioni del 20 dicembre
scorso e che rischia di ripetere il risultato
ai comizi del prossimo 26 giugno, indetti da
re Felipe dopo che non si è trovato un accordo sul nuovo governo.
Tabellini, infografiche, commenti e stroncature. Così il Foglio racconterà Euro 2016 (O’Malley c’è)
C
ome al Mondiale di due anni fa, forse
più di due anni fa, il Foglio apre i suoi
orizzonti e si dà al calcio europeo. Da oggi
fino al 10 luglio, giorno della finale di Parigi, racconteremo partite e curiosità dell’Europeo di Francia con articoli, commenti, analisi e infografiche. Lo faremo
naturalmente sul nostro sito, www.ilfoglio.it, e nel numero che troverete in edicola, su tablet e smartphone tutti i giorni.
La squadra che racconterà gli Europei è
rodata. Dopo lunghe ed estenuanti trattative (e molto brandy promesso) abbiamo
convinto Jack O’Malley a scriverci la sua
su una competizione che disprezza (alme-
no fino a quando l’Inghilterra non si avvicinerà alla finale). Il nostro storico collaboratore ha promesso di stroncare l’Europeo quotidianamente (o quasi) e ci chiede
di garantire ai lettori che già scrivono
preoccupati che con lui ci sarà la squadra
delle wags per allietare chi legge. Troverete O’Malley online e su carta. Con lui anche Lanfranco Pace, che abbiamo legato
alla poltrona davanti a al televisiore sintonizzato sui canali Sky e Rai che strasmetteranno le partite: con la sua penna meravigliosa racconterà ogni match che verrà
giocato in terra francese nel prossimo mese. Subito su web, Pace compilerà i suoi
tabellini non necessari e imperdibili, che
gli amanti del cartaceo e dei tempi più posati troveranno, rimaneggiati, anche su
carta. Non soltanto loro, però: su online e
cartaceo altre firme della redazione racconteranno le partite, pubblicheranno le
fotografie più belle e analizzeranno gli
aspetti più curiosi. Tutta la redazione è
mobilitata (Maurizio Crippa si sta scaldando da giorni), giornalisti e collaboratori arricchiranno sito e giornale con i loro articoli (già oggi trovate Francesco Caremani
sugli stipendi dei mister delle Nazionali e
Michele Boroni su come i principali sponsor della manifestazione sportiva hanno
cambiato strategia comunicativa) e non
mancherà la penna surreale di Alessandro
Bonan a farci sorridere con le “frasette”
fulminanti di Bonanza. Tornerà a grande
richiesta (nostra) il “Bar Sport” fogliante:
un reportage semi allucinato di tutte le
opinioni calcistiche dei redattori del Foglio così come escono via Skype, mail,
chat, WhatsApp e alla macchinetta del
caffè (sì, ci sarà anche Marina Valensise).
Sul Foglio online, poi, tutti gli interventi,
articoli, video, fotografie e commenti saranno facilmente rintracciabili cliccando
sul riquadro “Euro 2016” sotto la testata.
Piero Vietti
Turchia
Rispetto al 2012, la Turchia
ha ancora lo stesso leader
(sebbene in una posizione
diversa, era primo ministro,
adesso è presidente), lo stesso partito politico al potere,
la stessa classe dirigente.
Ma è come se in quattro anni Recep Tayyip
Erdogan fosse diventato un’altra persona.
Quattro anni fa la Turchia e il suo leader,
nonostante alcune avvisaglie preoccupanti, erano ancora un faro di democrazia nel
mondo islamico, un esempio del fatto che
la convivenza tra islam, moderazione politica e crescita economica erano alla portata di tutta la regione. Erdogan, con il suo
ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu,
predicava la politica del “nessun problema con i vicini”. L’Erdogan di oggi, invece,
non solo è invischiato in problemi enormi
con tutti i confinanti, guerra siriana in primis, ma ha ricominciato il conflitto interno
con i curdi, autori, in alternanza con lo Stato islamico, di attentati sanguinosi in tutto
il paese – e nel frattempo ha fatto fuori politicamente Davutoglu. Sotto la guida del
nuovo Erdogan, la Turchia è crollata nelle
classifiche internazionali di libertà religiosa e di espressione, il governo ha fatto
chiudere giornali e represso l’opposizione.
I rapporti con l’Europa e l’occidente – per
cui la Turchia rimane un alleato fondamentale, si veda per esempio l’accordo sui
migranti con l’Ue – si sono sfilacciati. E l’economia, che pure continua a crescere a
ritmi sostenuti, ha perso lo slancio di un
tempo.
Italia
L’ultima volta che l’Italia si
presentò a una competizione
internazionale, i Mondiali
2014, c’era già il governo
Renzi. Il nostro miglior biglietto da visita, in Francia,
sarà la raggiunta stabilità
politica che mancava da un
po’, come la continuità nel calcio. Il paese
si avviava a una stagione di riforme e crescita, ce lo riconosceva pure la Merkel. Il ct
era Cesare Prandelli, fu un disastro. Ma
tutti diedero la colpa a Balotelli: l’immigrato. E questo ci porta dritti all’Italia di
oggi. Oggi gli Azzurri non è che facciano
proprio sognare: anche questo ha qualche
somiglianza con l’Italia come la vedono in
Europa. Si sente un po’ la fine dello sprint,
siamo un paese di ottusi frenatori. La Nazionale ha deciso di cambiare, affidando il
futuro non a un giovanotto ma a un 68enne
che si chiama Ventura (avviso ai francesi:
non Lino Ventura) e c’è il rischio che dietro le quinte tornerà a comandare una zazzera grigia rotta a tutte le esperienze, Marcello Lippi. Se non trovate la somiglianza
Ungheria
L’ultima sua partecipazione a una
competizione internazionale seria risale al 1986 e non è
che nel precedente
decennio l’Ungheria si fosse fatta valere sui campi di
calcio. Ora che è tornata a giocare in
mondovisione pure a giugno, già il collettivo mediatico-sentimentale si è dato al
ricordo commosso e commovente dei
tempi che furono, dell’èra dei Puskas e
degli Albert, parlando di mito che torna
e di araba fenice risorta. In realtà, molto
più banalmente, l’Ungheria va agli Europei solo perché Platini ha deciso di allargare il numero delle squadre partecipanti, trasformando la competizione in una
sorta di Clericus Cup dell’amicizia.
Trent’anni fa Budapest era ancora nel
Patto di Varsavia, i comunisti governavano e la cortina di ferro passava proprio
lungo i suoi confini. Adesso al posto delle cortine ci sono le reti anti migranti, il
governo è guidato da Viktor Orbán (che
fa litigare i popolari europei che non lo
ritengono uno dei loro) e la bandiera blu
a dodici stelle sventola – seppur maliconicamente – lungo il Danubio. Mentre a
Bruxelles guardano con terrore le riforme del premier, definito a giorni alterni
razzista-populista-sciovinista, lui ricorda
a tutti che nel 2014 l’Ungheria è il paese
che più è cresciuto economicamente nel
continente.
Islanda
* * *
Belgio
A Bruxelles gira molto una
pubblicità inquietante del
Carrefour in cui i 24 convocati dal ct Marc Wilmots sono ritratti stipati in un carrello della spesa, reparto salatini. Ma tant’è, perché l’entusiasmo è palpabile, è tutto
un “Allez les Diables”, un tappezamento
uniforme di foto che ritraggono il sogghigno sicuro della bandiera della Nazionale,
Vincent Kompany (la foto, ahi loro, è probabilmente antecedente all’infortunio che
lo terrà lontano dalla competizione). Quasi
come fosse un collante artificiale, il paese
si ricompatta attorno ai “diavoli rossi”, cercando di mettersi alle spalle uno dei periodi più difficili della sua storia. Dopo gli attentati di Bruxelles sono arrivati gli scioperi, i primi uniti ai secondi da una linea
sottile: lo scollamento sociale, dove il multiculturalismo è vissuto con la spontanea
noncuranza dei rassegnati. Il mondo alla
rovescia del “paese delle illusioni”, come
fu definito una volta da un politico belga,
in questi mesi è fatto di secondini che non
sorvegliano più i ladri, poliziotti che non
acciuffano più i terroristi, militari che non
vogliono fare il lavoro dei poliziotti, controllori di volo che non guardano più gli
aerei, addetti alla sicurezza che non perquisiscono più agli aeroporti, autisti che
non guidano più gli autobus, ferrovieri che
non pilotano più i treni. Tutto è possibile,
in Belgio. Persino che un giorno diventi un
paese normale.
chiola, gli estremismi, sia a destra che a
sinistra, si fanno più forti e il problema
migranti diventa centrale, fobia in molte
parti del paese. I problemi sono alle frontiere. Da un lato quella con la Slovenia
dove arrivano i profughi siriani che percorrono la tratta balcanica. Dall’altro il
Brennero, presidiato da maggio dalla polizia austriaca. Vienna minaccia l’Europa
di chiuderne l’accesso: per ora si sono intensificati i controlli e sono arrivati tre
container per le procedure di identificazione.
In blu le nazioni europee che saranno rappresentate dalle rispettive Nazionali di calcio a Euro 2016. In rosso quelle che non ce l’hanno fatta a qualificarsi (immagine presa da Wikipedia)
con Denis Verdini, ve la suggeriamo noi.
Diciamola tutta: a Renzi non sta portando
proprio bene; speriamo meglio per la Nazionale. Però l’Italia non è messa male come nel 2014, e chi lo dice è un gufo. C’è il
Jobs Act, la Buona scuola, la Fca di Marchionne, la Cirinnà. Soprattutto c’è la grande riforma costituzionale all’orizzonte, che
ci farà entrare nella top ten delle nazioni
europee. Noi italiani siamo un popolo di
commissari tecnici e di costituzionalisti. In
bocca al lupo.
Eire
Sulla carta l’Irlanda (Eire) è
la meno temibile del girone
dell’Italia, ma è pur sempre
la nazione che sta uscendo
meglio dall’europeo della
crisi. Dopo la bolla immobiliare e il collasso del sistema bancario che
l’avevano trasformata in uno dei pigs dell’Eurozona, tanto da dover richiedere l’intervento della Troika, la “tigre celtica” è
tornata a correre. Dopo aver chiuso il programma d’assistenza (e d’austerity) da 85 mi-
liardi di euro, l’Irlanda ha la crescita più alta d’Europa (più 8 per cento nel 2015 e più 5
nel 2016), il pil è il 10 per cento superiore ai
livelli pre crisi, il pareggio di bilancio è vicino, la disoccupazione cala di almeno un
punto l’anno e il debito pubblico è sceso di
oltre 20. La situazione politica, logorata da
anni di austerity, però è più instabile. E’ stato riconfermato Taoiseach (primo ministro)
Enda Kenny del Fine Gael, ma in un governo di minoranza con l’appoggio esterno degli storici avversari del Fianna Fáil (i due
partiti conservatori sono rivali dai tempi
della guerra civile, eredi di Michael Collins
contro quelli di Éamon de Valera). E sull’economia incombe la minaccia esterna della
Brexit, che può rallentare la galoppata della tigre celtica.
Svezia
Nelle guide turistiche è “il paradiso degli ecologisti”, ricca di
biciclette, piste ciclabili, aree
verdi. La Svezia si fregia di essere la più moderna e cosmopolita d’Europa, un modello di
Una guida interattiva sul nostro sito
La Francia gioca in casa, la Germania
vuole ripetersi dopo il mondiale vinto in
Brasile, la Spagna vuole mettere in bacheca il quarto titolo continentale, il terzo consecutivo. Sarà gara a tre? Difficile.
Perché Oltralpe in tante possono fare il
colpaccio: dall’Inghilterra al Portogallo,
passando per il Belgio. E l’Italia? Tutti la
danno per dispersa. Come ai Mondiali
del 2006. Ma quella era, forse, un’altra
storia. Su www.ilfoglio.it trovate il nostro
speciale, un’infografica interattiva che vi
terrà compagnia per tutta la rassegna
francese. I gironi, le partite, i convocati,
i favoriti e i record battipali e imbattibili della quindicesima edizione dei Campionati europei di calcio raccolti in una
guida imperdibile. (g.b.)
uguaglianza, pari opportunità, alfabetizzazione, integrazione, welfare state, diritti civili. In svedese si dice “folkhemmet”,
la casa di tutto il popolo, in cui c’è lo strapotere dei sindacati e un settore pubblico abnorme. In questa pietra filosofale
della felicità economica, politica e sociale, le tasse sono “skat”, tesoro comune e
bene al servizio della società. Bernie
Sanders l’ha portata a modello, assieme
agli imam. Una società prospera, indifferente alla religione, ideologicamente accogliente e tollerante, ma in cui l’illusione della “diversità” si è da tempo sfibrata nel contagio della violenza: gli ebrei
svedesi scappano tutti, specie da Malmö;
in molte città la popolazione islamica è
già un quinto; i migranti arrivati sono già
il due per cento della popolazione; gli
stupri proliferano; i Verdi sono sotto inchiesta per infiltrazioni islamiste e il
paese è da anni ormai il capofila del partito antisraeliano in Europa. Senza contare che 300 svedesi sono partiti per combattere per l’Isis in Siria (durante la Seconda guerra mondiale ci furono meno
svedesi nelle fila delle SS naziste, 180).
Tante ombre, dunque, dietro a questo mi-
racolo di omogeneità, solidarietà, armonia e disimpegno, un mix di socialismo,
luteranesimo e un pizzico di Eurabia.
* * *
Austria
Quattro anni fa Heinz
Fischer era
il presidente della Repubblica, Werner Faymann il cancelliere;
ora Heinz Fisher è ancora presidente della Repubblica, ma lascerà la carica l’8 luglio al vincitore delle ultime elezioni presidenziali, il verde Alexander Van der
Bellen – che è riuscito al secondo turno
ad avere la meglio del candidato della destra populista e xenofoba Norbert Hofer,
vincitore al primo turno –, mentre alla
guida del governo c’è Christian Kern, delfino del predecessore, membro del Partito socialdemocratico austriaco (SPO). In
quattro anni è cambiato molto. La grande
coalizione con i popolari del OVP scric-
L’Italia? Male. I nostri pronostici apotropaici
Credo che pure alla Gazzetta si vergognino della griglia di partenza (cioè dei
pronostici) fatti per l’Europeo più snobbato che ci sia mai stato. L’hanno messa
a pagina 4, addirittura dopo le cavolate
di mercato che di solito tirano in piena
estate quando non c’è altro da seguire
che amichevoli del tipo Valli del SannioNapoli. Mettono la Germania in prima
fila, e ci sta. Poi dietro la Francia, e siamo tutti d’accordo. Sul Belgio terzo (da
qualche anno lo mettono sempre terzo,
sarà perché è pieno di giovani e multietnico) iniziamo a dubitare, sulla Spagna
quarta concordiamo. Ma ecco che al sesto posto (dopo l’Inghilterra di Hodgson)
c’è l’Italia. Ora, va bene essere patriottici, colorarsi di verde bianco e rosso, rispolverare slogan da mondiale 2006 e
piazzare la faccia di Lippi come fosse
una sorta di amuleto meno sfigato di
quello usato nel 2010. Ma a tutto c’è un
limite. Come possa una squadra che
schiera Pellé e non si sa chi in attacco,
Thiago Motta con la maglia numero 10, e
si affida all’anziano Buffon come sicurezza ultima e unica, lo sa forse solo la
più ignota divinità che sovrintenda all’ordine delle cose. Comunque vedremo,
c’è tempo per discutere e annoiarsi (il
programma della prima fase è eccitante
quanto una tribuna politica anni Settanta programmata alle undici di sera su
RaiStoria) e, speriamo, per fare mea culpa. Penso che gli Azzurri non andranno
oltre gli ottavi, soprattutto perché salvo
poche eccezioni passeranno alla seconda fase tre su quattro, e il parterre propone squadre anni luce distanti dalla
nostra per forza, fantasia e bel giuoco.
Noi, come quasi sempre, ci affidiamo alla scaramanzia e ai ricorsi storici. Spesso ci va bene.
Elpidio Pacifico
E’ la prima volta
che l’Islanda si qualifica a una competizione calcistica, e
otto islandesi su 100
festeggeranno andando a seguire la
nazionale in Francia: una cifra relativamente imponente,
ma che in termini assoluti fa appena
20.000 persone. Scherzi di un micro-Paese dalle dimensioni talmente familiari
che sulle maglie dei calciatori i tifosi
hanno chiesto di far scrivere il nome invece del cognome. La piccola trasferta di
massa ci segnala però possibilità di spendere, e in effetti dopo il crack finanziario
del 2008 fu proprio nel 2012 che l’economia iniziò a riprendersi, in modo che ora
è tornata ai livelli pre-crisi. In compenso,
la politica resta agitata. Nel 2013 gli elettori hanno mandato a casa il governo di
sinistra, richiamando al potere lo stesso
centro-destra responsabile della crisi. Ma
il primo ministro Sigmundur David Gunnlaugsson ha dovuto dare le dimissioni per
i Panama Papers, e secondo i sondaggi alle elezioni anticipate potrebbero essere i
Pirati il primo partito.
Portogallo
Il panico da rating,
spread e debito pubblico di quattro anni fa
sembra alle spalle, per
il paese che dà l’iniziale al gruppo dei sorvegliati
speciali
dei
“Pigs”. Terminato il piano di salvataggio della
Troika, il pil nel 2015 è cresciuto dell’1,5
per cento, e si confermerà allo stesso tasso quest’anno. Le agenzie di rating hanno dichiarato la fine dell’emergenza finanziaria, mentre la disoccupazione è
scesa dal 18 per cento del 2012 al 12 per
cento degli ultimi mesi. Il premier di
centrodestra Pedro Passos Coelho, autore delle misure di austerity, alle elezioni
politiche del 2015 è diventato il primo
leader della zona euro a confermarsi alla guida di un governo dopo il “trattamento Troika”. Ma in assenza di una
maggioranza assoluta in parlamento, ciò
non è bastato. A guidare il paese lusitano, dopo una sfiducia-lampo al governo
Coelho, è da alcuni mesi una larga coalizione di sinistra, capitanata dal socialista Antonio Costa, che mira a “voltare pagina” rispetto all’austerità. La legge di
bilancio dello scorso febbraio ha rischiato la bocciatura della Commissione europea, e ora Lisbona resta sorvegliato speciale dell’Ue. Un po’ come Cristiano Ronaldo, seppur in circostanze ben più dilettevoli.
Hanno scritto in questa pagina: Ermes Antonucci, Giovanni Battistuzzi,
Alberto Brambilla, Luciano Capone,
Eugenio Cau, Maurizio Crippa, Luca
Gambardella, Marco Valerio Lo Prete,
Matteo Matzuzzi, Giulio Meotti, Paola
Peduzzi, Maurizio Stefanini.
ANNO XXI NUMERO 136 - PAG IV
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 10 GIUGNO 2016
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