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cessione del credito - Dipartimento di Giurisprudenza

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cessione del credito - Dipartimento di Giurisprudenza
ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO I
Prof. CARLO GRANELLI
SEMINARIO
12.5.2011
Cessione del credito
Cass., sez. III, 10-05-2005, n. 9761
Cass., sez. III, 29.3.2005, n. 6558
Accollo
Espromissione
Cass., sez. II 24/02/2010 n. 4482
Cass., Sez. III, 10.11.2008, n. 26863
Cessione del credito
IL CASO
La società Gamma effettua una fornitura di materiale a favore di Beta, che deve pagarne il
corrispettivo.
Successivamente, Gamma cede il credito vantato nei confronti di Beta ad Alfa.
Poiché Beta si rifiuta di pagare, asserendo, fra l’altro, che Gamma non le ha comunicato l’avvenuta
cessione, Alfa adisce le vie giudiziarie.
Si illustrino le ragioni a sostegno delle rispettive posizioni di Alfa e Beta.
Cass., sez. III, 10-05-2005, n. 9761.
La figura della cessione del credito è un rapporto giuridico bilaterale, intercorrente tra cedente e
cessionario; essa può riguardare anche crediti futuri, e rileva nel momento in cui questi vengono a
giuridica esistenza; il perfezionamento della cessione avviene col semplice consenso tra cedente e
cessionario, ed è opponibile al debitore ceduto dal momento della notificazione allo stesso; la
notificazione è atto a forma libera, senza che sia necessario trasmettere a detto debitore l’originale
o la copia autentica della cessione.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con atto 27 aprile 1996 la società Alfa ha convenuto in giudizio innanzi al tribunale di Firenze la
società Beta, chiedendone la condanna al pagamento della somma di FF. 2.187.500, oltre interessi
legali dal 10 novembre 1994.
Ha esposto l'attrice (Alfa), a fondamento di tale richiesta, che Beta, in forza di contratto 5 ottobre
1994, aveva acquistato dalla Gamma rottami in ottone e barre per il prezzo sopra indicato e a fronte
di tale fornitura la creditrice aveva emesso la fattura n. 1089 del 10 ottobre 1994.
Il credito portato da tale fattura era stato ceduto a essa concludente ma la convenuta, benchè a
conoscenza della avvenuta cessione, aveva rifiutato il pagamento.
- Costituitasi in giudizio, Beta ha resistito alla avversa pretesa eccependo, da un lato, che la cessione
di credito descritta nella citazione introduttiva era sfornita di prova, dall'altro, che la stessa non le
era opponibile.
Ha evidenziato, in particolare, la convenuta, che la fattura non si riferiva ad alcuna consegna di
materiale, che la asserita cessione di credito non era valida sia perchè redatta in inglese sia perchè
non contenente espressioni univoche volte a precisare la volontà di cessione, sia perchè, infine,
proveniente dal solo cessionario.
Svoltasi la istruttoria del caso, l'adito tribunale con sentenza 18 gennaio 1999 ha accolto la
domanda.
2. Gravata tale pronunzia dalla soccombente Beta, la Corte di appello di Firenze con sentenza 25
giugno 2001 - 4 ottobre 2001 ha rigettato il gravame, con conferma integrale della pronunzia del
primo giudice e condanna dell'appellante al pagamento delle spese di lite.
3. Avverso tale pronunzia, notificata il 15 novembre 2001, ha proposto ricorso, con atto 14 gennaio
2002 Beta, affidato a 4 motivi e illustrato da memoria.
Resiste, con controricorso Alfa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1
1. Hanno accertato, in linea di fatto, i giudici del merito che:
- con contratto 5 ottobre 1994 Gamma ha venduto a Beta kg.250, 000 di rottame di ottone;
- a fronte di tale fornitura la venditrice ha emesso, in data 10 ottobre 1994, una prima fattura (n.
1089) e poi, in data 25 ottobre 1994, altre due fatture (nn. 1158 e 1159) i cui importi sommati tra
loro corrispondono esattamente all'ammontare della prima fattura (n. 1089);
- successivamente, in data 25 novembre 1994, la venditrice ha emesso nota di credito con cui ha
stornato e annullato la prima delle ricordate fatture: tale annullamento ha accertato la sentenza
gravata, "si palesa come una operazione fittizia quanto maldestra posta in essere dalla emittente le
fatture la quale, trovandosi in gravi difficoltà finanziarie, tanto che di lì a poco veniva dichiarata
fallita, escogitò tale marchingegno per lucrare due volte sulla medesima fornitura";
- anteriormente alla detta data del 25 novembre 1994, e, in particolare, il 19 ottobre 1994 Beta
(acquirente del materiale in questione e debitrice del corrispettivo) ha avuto conoscenza della
mutata titolarità attiva del proprio debito (ceduto alla società attuale controricorrente).
Certo quanto sopra, facendo applicazione del pacifico principio giurisprudenziale secondo cui nei
confronti del cessionario di un credito derivante da fatture non sono opponibili le eccezioni fondate
su fatti successivi alla comunicazione di cessione del credito, quale lo storno delle fatture, la
sentenza gravata ha evidenziato che lo storno della fattura 1089, poichè successivo alla data in cui il
credito da questa portato era stato già ceduto a terzi, non era opponibile al cessionario che aveva, di
conseguenza, diritto al pagamento del proprio credito.
2. La ricorrente censura la riassunta pronunzia denunziando, con il primo motivo " violazione
dell'art. 1266 c.c. e di ogni altra norma e principio in materia di cessione di credito. Omessa
motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.)" .
Si osserva (Beta), infatti:
- la emissione, il 10 ottobre 1994, della fattura n. 1089, che recava la clausola "franco stabilimento",
prima della fornitura dei materiali (iniziata unicamente il 25 dello stesso mese di ottobre) era
contraria tanto alla specifica previsione del contratto inter partes del 5 ottobre 1994, quando alla
prassi seguita nei rapporti tra le parti che prevedeva la emissione della fattura in contestualità o
successivamente alla fornitura dei materiali e, quindi emessa per un credito inesistente;
- quanto precede è talmente incontrovertibile che allorchè la venditrice ha iniziato ha consegnare il
materiale (25 ottobre 1994) ha emesso regolari fatture relative ai crediti derivanti dalle prestazioni
rese, tutte regolarmente pagate da essa concludente.
3. Il motivo è manifestamente infondato.
Come puntualmente evidenziato in controricorso con la deduzione in esame, lungi dal denunziare la
violazione delle norme di legge indicate nella intestazione del motivo stesso, o vizi della
motivazione, rilevanti sotto il profilo di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c, parte ricorrente pretende, contra
legem e cercando di superare quelli che sono i limiti del giudizio di Cassazione, una nuova
valutazione dei fatti di causa.
In particolare, pur avendo accertato i giudici del merito che la "fornitura" di cui al contratto 5
ottobre 1994 era stata regolarmente eseguita dalla parte venditrice, la ricorrente mira a sollecitare
una diversa lettura degli elementi di causa (e del contratto inter partes, peraltro neppure trascritto
nei punti essenziali e rilevanti al fine del decidere, in ricorso), al fine di pervenire alla conclusione
in contrasto con gli accertamenti compiuti dal giudice del merito che in realtà il contratto 5 ottobre
1994 non aveva avuto esecuzione, almeno alla data della emissione della fattura e della cessione del
credito da essa portato.
Anche a prescindere da quanto precede, comunque, l'assunto di parte ricorrente è totalmente
infondato perchè muove da un presupposto contraddetto da una giurisprudenza più che consolidata
di questa Corte e, in particolare, dall'assunto che non sarebbero suscettibili di cessione crediti
2
"futuri" (o, come si assume si sia verificato nella specie, sub condicione costituita dalla consegna
della merce venduta).
Per contro si osserva che in giurisprudenza non si è mai dubitato da lustri, che possano essere
oggetto di cessione anche crediti futuri (cfr., ad esempio, già la remota Cass. 10 maggio 1966, n.
1209, nonchè, recentemente, Cass. 22 aprile 2003, n. 6422 e Cass. 19 giugno 2001, n. 8333).
È evidente, pertanto, anche atteso che la ricorrente non ha difficoltà ad ammettere che, pur se in
epoca successiva alla fattura 1089, la merce ivi indicata le è stata regolarmente consegnata, con
conseguente suo obbligo di pagamento del corrispettivo, che la deduzione non coglie nel segno.
La debitrice, infatti (cioè Beta) essendo a conoscenza della cessione del proprio debito sin dal 19
ottobre 1994 non poteva pagare, successivamente alla detta data, la stessa "fornitura" al debitore
originario.
Deve ribadirsi, infatti, in conformità a una giurisprudenza più che consolidata e da cui totalmente, e
senza alcuna motivazione totalmente prescinde la difesa di parte ricorrente che nella cessione di
credito, il debitore ceduto può opporre al cessionario tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre
all'originario creditore.
Tuttavia, se dopo la cessione intervengano fatti che incidono sulla entità, esigibilità o estinzione del
credito, la loro efficacia deve essere considerata in relazione alla nuova situazione soggettiva che si
è stabilita in dipendenza del già perfezionato trasferimento del diritto.
Pertanto, dopo il perfezionamento della cessione, che avviene col semplice consenso, la risoluzione
consensuale del contratto da cui traeva origine il credito ceduto convenuta fra l'originario creditore
cedente ed il debitore ceduto, non è opponibile al cessionario, in quanto, una volta realizzato il
trasferimento del diritto, il cedente perde la disponibilità di esso e non può validamente negoziarlo,
recedendo dal contratto, mentre il debitore ceduto, a conoscenza della cessione, non può ignorare
tale circostanza (in termini, Cass. 7 aprile 1979, n. 1992. Sempre in questo senso, altresì Cass. 16
aprile 1999, n. 3797, nonchè sempre nel senso che, perfezionatasi la cessione con il semplice
consenso, la modificazione convenzionale degli effetti (già verificatisi) del contratto dal quale
traeva origine il credito ceduto, convenuta tra l'originario creditore cedente ed il debitore ceduto,
non è opponibile al cessionario in quanto, una volta realizzato il trasferimento del diritto, il cedente
ne perde la relativa disponibilità, e non può validamente negoziarlo in danno del cessionario, giusta
il disposto dell'art. 1265 c.c. - la cui ratio ha portata generale pur regolando la norma stessa
fattispecie particolari - mentre il debitore ceduto, a conoscenza della cessione, non può ignorare tale
circostanza, Cass. 27 gennaio 2003, n. 1145).
Certi i principi che precedono, non controverso che nella specie lo "storno" della fattura 1089, da
parte della venditrice è avvenuto senza ombra di dubbio in epoca successiva alla avvenuta
conoscenza, da parte della debitrice Beta, della avvenuta cessione del credito, correttamente i
giudici del merito hanno ritenuto inopponibile detto "storno" alla cessionaria e non opponibile a
questa il pagamento eseguito da Beta, del materiale di cui al contratto 5 ottobre 1994 in favore
dell'originaria creditrice.
4. Con il secondo motivo, denunziando "violazione e falsa applicazione dell'art. 1264 c.c. Illogicità
ed insufficienza della motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.)" la
ricorrente censura la sentenza gravata nella parte in cui questa "da per valida la notificazione della
cessione effettuata...con la comunicazione del 12 ottobre 1994".
Si osserva, infatti, che "la notificazione effettuata da soggetto che pretenda di essere cessionario del
credito, se non accompagnata da conferme del creditore - originario o dai documenti relativi alla
pretesa cessione non è idonea di per sè ad assolvere la sua specifica funzione, che è...quella di
portare a conoscenza del debitore il mutamento della titolarità del diritto di credito".
"Nella specie, prosegue parte ricorrente, Beta dopo avere ricevuto, in data 19 ottobre 1994, la
predetta comunicazione da parte della cessionaria non ha ricevuto alcuna comunicazione in tale
senso da parte del creditore originario...ha ricevuto successive fatture, regolarmente pagate, nelle
quali Alfa non è mai indicata quale cessionario di alcun credito; Alfa si è sempre limitata a
3
rivendicare, quale cessionario, il pagamento di un solo credito...quello portato dalla fattura
1089...con ciò rendendo di difficile comprensione i documenti successivamente prodotti, dai quali si
dovrebbe desumere l'acquisto da parte di Alfa di tutti i crediti presenti e futuri di Gamma".
"Tutte queste circostanze - conclude la ricorrente - in aperto contrasto con quanto erroneamente
valutato dal giudice del gravame, non sono certo idonee a garantire (contrariamente al requisito
essenziale per la opponibilità della cessione ex art. 1264 c.c.) la conoscenza della intervenuta
cessione, intesa come assoluta certezza o, quanto meno, come il risultato di situazioni obiettive di
apparenza dell'avvenuta cessione, idonee, nella loro univoca significazione, a giustificare che la
cessione sia effettivamente avvenuta".
5. Al pari del precedente il motivo non coglie nel segno sotto nessuno dei profili in cui si articola.
5.1. Giusta la testuale previsione di cui all'art. 1264, comma 1, c.c. "la cessione del credito ha
effetto nei confronti del debitore cedute quando...gli è stata notificata".
Sia la giurisprudenza di questa Corte sia la prevalente dottrina sono fermissime nell'interpretare la
disposizione in esame nel senso che la natura consensuale del contratto comporta che il credito si
trasferisce dal patrimonio del cedente a quello del cessionario per effetto dell'accordo, mentre
l'efficacia e la legittimazione del cessionario a pretendere la prestazione dal debitore (in quanto alla
semplice conoscenza della cessione da parte di costui si ricollega l'unica conseguenza della non
liberatorietà del pagamento effettuato al cedente) conseguono alla notificazione della cessione al
contraente ceduto.
La "notificazione" - prevista dall'art. 1264 c.c. - ancora, non si identifica peraltro con gli istituti
dell'ordinamento processuale e non è, pertanto, soggetta a particolari discipline o formalità,
integrando un atto a forma libera (Cass. 12 maggio 1998, n. 4774; Cass. 2 settembre 1997, n. 8387).
In particolare, ove la notificazione, consistente in una dichiarazione recettizia, venga fatta in forma
scritta, la stessa non deve essere necessariamente sottoscritta dal creditore cedente, essendo al
riguardo sufficiente che vi siano inequivoci elementi indicanti la relativa provenienza, in modo che
risulti al debitore ceduto pienamente assicurata la prova e la non problematica conoscenza
dell'avvenuta cessione (Cass. 26 aprile 2004, n, 7919, Analogamente, Cass. 28 gennaio 2002, n.
981).
Potendo la "notificazione" della avvenuta cessione del credito avvenire con qualsiasi mezzo idoneo
a far conoscere al debitore la mutata titolarità attiva del rapporto è pacifico, altresì, in
giurisprudenza che non è necessario che al detto fine sia trasmesso, al debitore ceduto, l'originale o
la copia autentica della cessione, essendo sufficiente possa conoscerne gli elementi identificativi e
costitutivi (Cass. 2 febbraio 2001, n. 1510).
Pacifico quanto precede è evidente la infondatezza del motivo in esame sotto il profilo di cui all'art.
360 n. 3 c.p.c.
I giudici del merito, infatti, contrariamente a quanto si invoca con il motivo in esame, si sono,
correttamente e puntualmente attenuti ai principi di diritto sopra evidenziato.
Accertato - in particolare - che la debitrice aveva ricevuto il 19 ottobre 1994 notizia, per iscritto,
della avvenuta cessione del proprio debito nei confronti della MIMETCO, ancorchè la
comunicazione provenisse dalla cessionaria e non dal creditore ceduto, esattamente la Corte di
appello di Firenze ha evidenziato "la negligenza addebitabile esclusivamente alla odierna appellante
cioè alla Europa Metalli s.p.a., la quale, una volta notificatale la cessione del credito non doveva
pagare consentendo alla MIMETCO di incassare due volte il prezzo per la stessa fornitura e
comunque avrebbe dovuto informare la ignara cessionaria, che proprio a tal fine la aveva
appositamente notiziata" .
5.2. Quanto alla censura svolta nel motivo sotto il profilo di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c., si osserva che
è rimesso, e non può essere, del resto, diversamente, integrando la circostanza un tipico
accertamento di fatto, al giudice del merito la verifica, in concreto, in ogni singola fattispecie, se vi
è stata o, meno, una "notifica" nei sensi precisati sopra idonea, o meno, a rendere "opponibile" al
debitore ceduto la avvenuta cessione del suo debito.
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Tale accertamento, quindi, secondo le regole generali, non è sindacabile in sede di legittimità
allorchè suffragato da una motivazione congrua e priva di errori logici o giuridici.
Ribadito, in particolare, che il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione
denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c. si configura solo quando nel
ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti
decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile
contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento
logico giuridico posto a base della decisione, si osserva che detti vizi non possono consistere nella
difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello
preteso dalla parte, perchè spetta solo a quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento
e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le
risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza
all'uno o all'altro mezzo di prova (In argomento, tra le altre, Cass. 7 agosto 2003, n. 11936; Cass. 14
febbraio 2003, n. 2222).
L'art. 360, n. 5 - infatti - contrariamente a quanto suppone l'attuale ricorrente non conferisce alla
Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì
solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l'esame e la
valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l'apprezzamento dei fatti.
Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere
solo quando tale vizio emerga dall'esame del ragionamento svolto dal giudice, quale risulta dalla
sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente e illogico, non già quando il giudice abbia
semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e
dalle deduzioni di parte.
Certo quanto sopra si osserva che la ricorrente lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata
rilevanti sotto i ricordati profili, si limita - in buona sostanza - a sollecitare una diversa lettura, delle
risultanze di causa preclusa in questa sede di legittimità.
Anche a prescindere dai pur assorbenti rilievi che precedono, infine, deve escludersi che gli
elementi indicati in ricorso potessero condurre a una diversa soluzione della lite.
È certo, infatti come ampiamente osservato sopra, da un lato, che la notizia della cessione non deve,
necessariamente, provenire dal creditore cedente, dall'altro, che non deve essere "notificato" nella
sua integrità al terzo debitore il contratto di cessione.
Da ultimo non può tacersi che era - comunque - onere del detto debitore, avuta notizia della
"cessione" omettere il pagamento del corrispettivo della stessa "fornitura" al creditore originario o,
comunque avvisare, immediatamente la parte cessionaria del comportamento - non certamente
ispirato a buona fede e a quelli che sono i corretti rapporti commerciali - tenuti dalla cedente il
credito.
6. Ha affermato, ancora, la sentenza impugnata, dopo le considerazioni riferite sopra (e oggetto dei
primi due motivi di ricorso) che "tale cessione peraltro trovava la sua giustificazione, quale ulteriore
riprova di quanto sostenuto, nel contratto denominato Security assignment, datato 28 aprile 1983,
che documenta la disciplina della cessione in garanzia tra Gamma e la odierna appellata, e rispetto a
questa generale previsione, la cessione in contestazione ne rappresenta uno specifico atto di
esecuzione contrattuale".
7. Con il terzo e il quarto motivo la ricorrente denunzia, nella parte de qua la sentenza dei giudici
d'appello lamentando, ancora, nell'ordine:
- da un lato, "violazione e falsa applicazione dei principi in tema di cessione dei crediti nella
Common Law (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.) terzo motivo;
- dall'altro, "violazione e falsa applicazione della legge n. 976/1986 e della legge n. 218/1995.
Illogicità e insufficienza della motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3
e 5 c.p.c.)" quarto motivo.
5
8. Entrambi i ricordati motivi sono inammissibili. In buona sostanza la parte finale della sentenza
impugnata reca una seconda ratio decidendi, a suffragio della conclusione fatta propria dalla
sentenza stessa.
È di palmare evidenza, pertanto, una volta rigettati i primi due motivi, con i quali è stata censurata
la prima delle riferite rationes decidendi, la inammissibilità, per carenza di interesse, degli ultimi
due.
Giusta un insegnamento assolutamente pacifico presso la giurisprudenza di questa Corte regolatrice
e che nella specie deve trovare ulteriore conferma, ove una sentenza (o un capo di questa) si fondi
su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario - per giungere alla
cassazione della pronunzia - non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica
censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l'accoglimento di tutte
le censure, affinchè si realizzi lo scopo stesso dell'impugnazione.
Questa, infatti, è intesa alla cassazione della sentenza in toto, o in un suo singolo capo, id est di tutte
le ragioni che autonomamente l'una o l'altro sorreggano.
È sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero
che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, perchè il motivo di
impugnazione debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di
interesse, le censure avverso le altre ragioni (in tale senso, ad esempio, tra le tantissime Cass. 23
ottobre 2001, n. 12976, nonchè, Cass. 24 maggio 2001, n. 7077).
9. Risultato totalmente infondato in ogni sua parte il proposto ricorso deve rigettarsi, con condanna
della parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di
legittimità in favore della controricorrente, liquidate in E. 100,00 per spese, E. 6.000,00 per onorari,
e oltre rimborso forfetario delle spese generali e accessori come per legge.
Cessione del credito
IL CASO
La società Alfa è debitrice verso la società Beta di una somma di denaro; non avendo liquidità, Alfa
cede a Beta, ad estinzione del suo debito, un credito dalla stessa vantato nei confronti della società
Gamma. Siccome quest’ultima non provvede a pagare quanto dovuto, Beta agisce in giudizio per
ottenere soddisfazione del suo credito nei confronti di Alfa.
Si illustrino le ragioni a favore e contro l’accoglimento della domanda della società Beta.
Cass., sez. III, 29.3.2005, n. 6558.
La cessione del credito in luogo dell’adempimento, prevista dall’art. 1198 c.c., non comporta la
immediata liberazione del debitore originario, che consegue solo alla realizzazione del credito
ceduto, ma comporta l’affiancamento al credito originario di quello ceduto, con la funzione di
consentire al creditore di soddisfarsi mediante la realizzazione di quest’ultimo credito; all’interno
di questa situazione di compresenza, il credito originario entra in fase di quiescenza, e rimane
inesigibile per tutto il tempo in cui persiste la possibilità della fruttuosa escussione del debitore
ceduto, in quanto solo quando il medesimo risulti insolvente il creditore potrà rivolgersi al debitore
originario.
6
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
L'Emmegi agro - industriale s.r.l. (Emmegi) proponeva opposizione al decreto, con il quale il
presidente del tribunale di Taranto le ingiungeva di pagare lire 296.735.540 all'associazione di zona
tra produttori agrumari ed ortofrutticoli delle province di Lecce, Matera, Taranto (AZPAO),
sostenendo di avere estinto il debito mediante la cessione di credito verso l'AlMA (ora EIMA), la
quale aveva compensato il credito ceduto con un suo maggiore credito verso l'AZPAO.
L'opposta resisteva; intervenivano nel giudizio di opposizione Francesco Amatulli, Filippo
Bellacicco, Giovanni Simonetti, Nicola Biscozzi, Cosimo Camardo Leggieri, Orazio Maraglino,
Francesco Zecchino, Orazio Carmine D'Echia, Cosimo Palmisano, Rocco Bellisario, Palma De
Filippis, Rosalba Schettini, coop. Campo verde a r.l., Azienda agricola Serenella a r.l., soci
dell'AZPAO.
Il tribunale di Taranto accoglieva l'opposizione e revocava il decreto opposto.
Su gravame dell'AZPAO e degli interventori la corte di appello di Lecce - sezione distaccata di
Taranto - condannava l'Emmegi al pagamento di somma di importo pari a quella ingiunta,
considerando che nella specie si doveva applicare la norma di cui all'art. 1198 c.c. e non quella di
cui all'art. 1267 stesso codice, "posto che sì tratta di cessione pro solvendo in luogo di adempimento
e non di cessione tout court di contatto, con la conseguenza che il debitore cedente è liberato con la
riscossione del credito vantato, se non risulta una diversa volontà delle parti che nella fattispecie
non è stata neppure dedotta. Solo in questi limiti è fatto salvo il disposto dell'art. 1267, 2 comma".
L'Emmegi si è gravata di ricorso per Cassazione, affidandone l'accoglimento a tre motivi; l'AZPAO
in liquidazione ha resistito con controricorso; si è successivamente costituita con memoria
l'Emmegi in amministrazione straordinaria e si è integralmente riportata al ricorso; le parti hanno
depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso figura sottoscritto dall'avv. Buccico, che dal 2002 è componente del C.S.M., e da altri
avvocati, i quali hanno svolto la successiva attività difensiva.
Risalendo, tuttavia, il ricorso al 2001, nessun dubbio può sorgere sulla sua ammissibilità.
2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia "violazione dell'art. 360, n. 5, c.p.c. nonchè dell'art.
360, n. 3, in relazione all'art. 111 Cost. e 132, 2 comma, n. 4, c.p.c.. Omessa e/o insufficiente
motivazione circa punto decisivo della controversia"; la corte di merito - si sostiene - non ha
esplicitato l'iter logico - giuridico seguito; in particolare si è limitata a riprodurre l'art. 1198 c.c.
senza stabilire alcun collegamento con l'art. 1267 stesso codice; in definitiva, ha aderito alla
ricostruzione giuridica della vicenda prospettata dall'AZPAO, ma non ha indicato le ragioni, per le
quali ha disatteso quella contraria.
3. Con il secondo motivo si deduce "violazione dell'art. 360, n. 3, c.p.c. in relazione agli artt. 1198,
1267, 1362, 1367 c.c. Violazione dell'art. 360, n. 5, c.p.c. per omessa, insufficiente, contraddittoria
motivazione su punto decisivo della controversia"; la presente fattispecie ricade sotto la previsione
dell'art. 1198 c.c., il cui contenuto normativo risulta dalla combinazione dei due commi che lo
compongono; secondo la corte di merito la cessione di un credito in luogo dell'adempimento
disciplinata dal menzionato art. 1198 attribuisce al creditore cessionario la facoltà alternativa di
rivolgersi al debitore originario o a quello ceduto; senonchè, l'art. 1198, richiamando l'art. 1267,
istituisce un collegamento tra le due norme e tale collegamento comporta che il creditore, cui il
debitore abbia ceduto un credito in luogo dell'adempimento, è tenuto ad escutere prima il debitore
ceduto e, solo in caso di inadempimento di quest'ultimo, può rivolgersi al debitore originario; in
altri termini, fino a quando non sia inutilmente escusso o per lo meno non risulti insolvente il
debitore ceduto, il debito originario è inesigibile; nella specie, peraltro, l'atto di cessione reca la
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clausola "pro solvendo" e ciò vale a rendere, comunque, operante la regola della preventiva
escussione del debitore ceduto.
4. Evidenti ragioni di connessione consigliano la trattazione unitaria dei motivi.
5.1. La corte di merito ha affermato che la fattispecie è regolata dall'art. 1198 e non dall'art. 1267,
implicitamente escludendo un rapporto tra le due norme.
5.2. Viceversa, in dottrina si sottolinea il rapporto legislativamente stabilito tra tali norme attraverso
il richiamo della seconda da parte della prima e si muove da questo rapporto per ricostruire la figura
della cessione di credito in luogo dell'adempimento.
Secondo un orientamento dottrinale la cessione regolata dall'art. 1267 si distingue da quella prevista
dall'art. 1198 per diversità di disciplina e "rationes" ispiratrici.
In questa ultima forma di cessione il creditore cessionario è titolare di due distinte pretese: l'una,
quella originaria, nei confronti del debitore cedente; l'altra, quella derivata dalla cessione, verso il
debitore ceduto, con la peculiarità che, in caso di inadempimento di quest'ultimo, il creditore ha la
facoltà di scegliere se agire contro di lui o del debitore originario.
Per effetto del rinvio all'art. 1267 tale facoltà viene meno quando la mancata realizzazione del
credito ceduto sia dovuta al comportamento negligente del cessionario e, cioè, con il realizzarsi
delle condizioni previste dal menzionato articolo che determinano liberazione del debitore cedente.
Altro orientamento dottrinale ritiene che la figura delineata dagli artt. 1198 e 1267 sia unitaria e
costituisca una specie di "datio in solutum", nella quale la prestazione dell'"aliud" è rappresentata da
una comune cessione "solvendi causa" con annessa garanzia di solvenza, sicchè la responsabilità del
cedente è legata alla solvibilità del ceduto ed è destinata a funzionare nel caso in cui il patrimonio di
quest'ultimo sia escusso infruttuosamente.
La dottrina prevalente vede una conferma della tesi della cessione a scopo di adempimento e non in
luogo di esso nel richiamo dell'art. 1267, che fa obbligo al cessionario di agire diligentemente per la
realizzazione del credito ceduto a pena della perdita della garanzia, precisando che si tratta di
richiamo in via analogica, considerato che nell'art. 1198 non è prevista garanzia di solvenza del
debitore ceduto da parte del cedente, come è invece prevista nell'art. 1267.
Secondo tale tesi per effetto della cessione il creditore diventa titolare di due diritti di credito, uno
dei quali, quello originario, è inesigibile fino all'eventuale inadempimento di quello ceduto; il
soddisfacimento di uno di essi determina, tuttavia, estinzione dell'altro.
5.3. Questa Corte non ha avuto frequenti occasioni di occuparsi dell'art. 1198.
Con la remota sentenza 28.1.1975, n. 340, ha affermato che la cessione del credito "pro solvendo"
non ha di per sè efficacia novativa in quanto a norma dell'art. 1198 il debitore cedente non rimane
liberato, ma, salva diversa volontà delle parti, la sua obbligazione verso il proprio creditore si
estingue solo con la riscossione del credito ceduto; successivamente, con sentenza 3.7.1980, n.
4213, ha evidenziato che la cessione di un credito può essere preordinata sia al conseguimento di
uno scopo di garanzia che, a norma dell'art. 1198, ad una funzione satisfattoria; più recentemente
con sentenza 28.6.2002, n. 9495, ha ritenuto che nell'ipotesi di cessione "pro solvendo" a scopo
solutorio in cui il creditore cessionario diventa titolare di due crediti concorrenti, l'uno verso il
proprio debitore e l'altro verso il debitore ceduto, si è in presenza di distinte obbligazioni, aventi
ciascuna una propria causa e l'attitudine ad essere oggetto di autonomi atti di disposizione, con
l'unico limite costituito dal fatto che l'obbligazione originaria si estingue con la riscossione del
credito verso il debitore ceduto; non risulta alcuna pronuncia di questa Corte sulla specifica
questione che si pone nel presente caso.
5.4. In relazione a tale questione va rilevato che la cessione prevista dall'art. 1198 non estingue il
credito originario, ma affianca ad esso quello ceduto con la funzione di consentire al creditore di
soddisfarsi mediante la realizzazione di quest'ultimo credito.
Si verifica, pertanto, la coesistenza di due crediti: quello originario e quello ceduto; stante il
richiamo che l'art. 1198 fa al secondo comma dell'art. 1267, in cui si subordina la responsabilità del
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cedente non al solo adempimento del ceduto, bensì al fatto che il cessionario abbia iniziato e
proseguito con diligenza le istanze contro quest'ultimo, il credito originario rimane quiescente fino a
quando il cessionario non abbia inutilmente escusso il debitore ceduto; la realizzazione del credito
ceduto produce l'estinzione anche di quello originario.
In altri termini, la cessione del credito in luogo dell'adempimento non comporta liberazione del
debitore originario, che consegue alla realizzazione del credito ceduto; il credito originario rimane
inesigibile per tutto il tempo in cui persiste la possibilità di fruttuosa escussione del debitore ceduto;
il creditore cessionario è tenuto ad escutere prima il debitore ceduto e, solo quando il medesimo
risulti insolvente, si può rivolgere al debitore originario.
6. Ai principi sopra esposti non si è attenuta la corte di merito, la quale, riformando la sentenza di
primo grado, ha implicitamente ritenuto inutile la preventiva escussione del debitore ceduto che
quella sentenza aveva, invece, giustamente ritenuto necessaria.
Pertanto, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla corte di appello di Lecce per nuovo
esame e pronuncia sulle spese del giudizio di Cassazione.
7. Rimangono assorbiti gli ulteriori profili dei motivi esaminati ed il terzo motivo.
P.Q.M.
la Corte accoglie il primo ed il secondo motivo; assorbito il terzo; cassa in relazione la sentenza
impugnata e rinvia, anche per le spese, alla corte di appello di Lecce.
accollo
Nell'accollo cumulativo esterno non liberatorio per il debitore originario - che si perfeziona con il
consenso del creditore, il quale può aderire alla convenzione di accollo anche successivamente, in
tal modo acquisendo il diritto ad ottenere l'adempimento nei confronti del terzo - l'obbligazione
dell'accollato, in analogia alla disciplina dettata per la delegazione dall'art. 1268, secondo comma,
cod. civ., degrada ad obbligazione sussidiaria, con la conseguenza che il creditore ha l'onere di
chiedere preventivamente l'adempimento all'accollante, anche se non è tenuto ad escuterlo
preventivamente, e soltanto dopo che la richiesta sia risultata infruttuosa può rivolgersi
all'accollato.
Cassazione civile, sez. II 24/02/2010 n. 4482
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 1653-2009 proposto da:
GENFIMM SRL (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro
tempore elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE
22, presso lo studio dell'avvocato CUCCIA ANDREA, rappresentato e
difeso dall'avvocato BOCCHINI ERMANNO;
- ricorrente contro
C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA CESARE BALBO N. 21, presso lo studio dell'avvocato GANDINO
ANTONIO SILVIO, rappresentato e difeso dall'avvocato MORRA EMANUELE;
G.L. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,
9
VIA BANCO DI S. SPIRITO 48, presso lo studio dell'avvocato D'OTTAVI
AUGUSTO, rappresentato e difeso dagli avvocati CESARE MASSIMILIANO,
LOPIANO MICHELE;
- controricorrenti con due separati atti avverso la sentenza n. 4060/2007 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI,
depositata il 21/12/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
11/02/2010 dal Consigliere Dott. UMBERTO GOLDONI;
udito l'Avvocato BOCCHINI Ermanno, difensore del ricorrente che ha
chiesto di riportarsi agli atti;
udito l'Avvocato MORRA Emanuele difensore dei resistenti che si
riporta agli atti;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
MARINELLI Vincenzo che ha concluso per inammissibilità in subordine
rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 2002, G.L. deduceva di essere proprietario di una unità immobiliare in
(OMISSIS), facente parte del fabbricato "(OMISSIS)"; nel (OMISSIS), con atto di pennuta e
costituzione di servitù, esso esponente aveva provveduto a regolare ogni questione relativa alla
comunione delle opere realizzate, con il comproprietario del fabbricato, C. F.; tra l'altro, veniva
pattuito che in caso di vendita del primo livello, lo stesso C. si obbligava a murare una finestra che
affacciava sul giardino.
Nel (OMISSIS), il predetto alienava alla società GEIM srl la quota di sua proprietà esclusiva del
predetto fabbricato; benchè sollecitata a provvedere alla ricordata muratura, la società non aveva
provveduto.
In ragione di tanto, il G. aveva provveduto a citare la Geim ed il C. di fronte al tribunale di Napoli Sezione distaccata di Capri- per sentir dichiarare l'avvenuta assunzione dell'obbligazione da parte
della Geim, con condanna all'esecuzione della prestazione e, in subordine, chiedendo la condanna
per danni del C..
Entrambi i convenuti si costituivano, resistendo alla domanda.
L'adito Tribunale, con sentenza del 2004, accoglieva al domanda attorea e condannava la Geim a
murare la veduta de qua; regolava le spese.
La società proponeva appello cui resistevano il G. ed il C.; la Corte di appello di Napoli, con
sentenza in data 19/21.12.2007, rigettava il gravame e regolava le spese.
Osservava la Corte partenopea che dall'esame dei due atti su cui si basava la richiesta del G.,
emergeva che non poteva assumersi l'estraneità della Geim all'impegno assunto dal C. anche se non
v'era una espressa dichiarazione di accollo.
Precisava la Corte distrettuale che per accollo doveva intendersi l'assunzione di un debito altrui
mediante una convenzione tra il debitore accollante ed il terzo accollato, il quale si obbliga ad
adempiere, in sostituzione del primo, al creditore accollatario, senza partecipazione al negozio del
creditore medesimo.
Su tale base, e in ragione della volontà manifestata dalle parti, doveva concludersi che la volontà
manifestata dalla Geim fosse nel senso di una accettazione consapevole degli obblighi assunti con
l'atto del (OMISSIS).
Per la cassazione di tale sentenza ricorre, sulla base di due motivi, la Geim srl;
resistono con separati controricorsi, il G. ed il C..
La società ricorrente (oggi GENFIMM srl) ed il C. hanno presentato memoria.
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MOTIVI DELLA DECISIONE
Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso proposte dai
controricorrenti; per un verso si assume l'incompatibilità (e, conseguentemente, la sopravvenuta
carenza di interesse al ricorso) del comportamento tenuto dall'odierna ricorrente dopo la pronuncia
della sentenza qui impugnata in quanto avrebbe dato esecuzione alla sentenza stessa, tanto da
dimostrarne la intervenuta accettazione, con la coltivazione del presente ricorso.
L'eccezione non merita accoglimento; per vero, la sentenza era provvisoriamente esecutiva e l'aver
ottemperato agli obblighi che ne scaturivano non poteva costituire una implicita accettazione della
decisione, siccome derivante da una specifica prerogativa della sentenza stessa, donde la perdurante
sussistenza dell'interesse al ricorso.
Per altro verso si eccepisce la violazione dell'art. 366 bis c.p.c. applicabile alla fattispecie ratione
temporis, atteso che il ricorso è stato proposto nel lasso di tempo in cui la norma predetta, oggi
abrogata, spiegava la sua validità.
Questa Corte non ignora la copiosa giurisprudenza che si è formata al riguardo e che può essere
riassunta nel senso secondo cui i quesiti di diritto devono per un verso investire la valenza di una
regola generale ed astratta e, per altro verso, collegare la stessa alla fattispecie che ne occupa; ora,
nel caso di specie, i quesiti proposti a conclusione dei due motivi di ricorso assolvono senza dubbio
alcuno al primo requisito, mentre ad una lettura non meditata parrebbero (segnatamente il secondo),
non assolvere alla altra caratteristica ritenuta pure necessaria.
In realtà però, non può sottacersi che la questione che entrambi i motivi sollevano, sotto profili
diversi, ma coincidenti, è di diritto nel senso pieno del termine, per cui la esatta determinazione
della regola iuris da applicare comporta di per se la soluzione, in un senso o nell'altro, del caso
concreto, cosa questa che consente di ritenere l'idoneità allo scopo dei quesiti come formulati e la
conseguente reiezione della eccezione relativa.
Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1273 e 1362 c.c.; ci si
duole infatti della ricostruzione quale operata dalla Corte partenopea della fattispecie in esame,
siccome contrastante con la figura dell'accollo, quale prevista dall'ordinamento.
Con il secondo mezzo ci si duole di violazione e falsa applicazione delle norme suddette e di vizio
motivazionale; si assume che la Corte distrettuale non avrebbe svolto alcuna indagine circa al
volontà delle parti di coinvolgere o meno all'accollo il terzo, in quanto la sentenza impugnata si
sarebbe limitata ad affermare apoditticamente che sussisterebbe un accollo esterno.
I due motivi possono essere esaminati congiuntamente; invero, la tesi che sotto profili solo
parzialmente diversi viene sostenuta è quella della sussistenza di un accollo interno, come tale non
suscettivo di produrre effetti al di fuori dell'ambito dei contraenti.
La tesi su cui si basa invece la sentenza impugnata è invece quella, basata sulla lettura dei due atti
intervenuti, il primo tra il G. e il C. ed il secondo tra questi e la allora Geim, dalla cui semplice
lettura emerge in modo inequivoco da un lato l'obbligazione del C. di murare, in caso di vendita del
primo livello, la finestra de qua, e dall'altro l'accollo della stessa obbligazione da parte della allora
Geim, acquirente appunto del primo livello.
A questo secondo negozio non aveva originariamente preso parte il G., il quale peraltro ha
dimostrato di aderirvi successivamente, chiedendo espressamente alla allora Geim la muratura della
finestra.
Trattasi dunque di accollo cumulativo esterno, con successiva adesione del creditore;
la giurisprudenza di questa Corte è nel senso secondo cui nell'accollo cumulativo esterno non
liberatorio per il debitore originario, che si perfeziona comunque con il consenso del creditore, in
analogia con quanto previsto per la delegazione dall'art. 1268 c.c., comma 2, l'obbligazione
dell'accollato degrada ad obbligazione sussidiaria, di talchè il creditore ha l'onere di richiedere
preventivamente l'adempimento all'accollante, anche se non è tenuto ad escuterlo preventivamente e
solo dopo che la richiesta sia stata infruttuosa, può rivolgersi all'accollato (cfr. Cass. 24.5.2004, n
9982).
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In base a tali condivisi principi, risulta dunque conseguente ritenere che il creditore abbia aderito
successivamente all'accollo e legittimamente si sia rivolto per l'adempimento all'accollante e ciò in
base alla univoca interpretazione dei due atti in cui il rapporto è venuto a concretizzarsi ed alla
inequivoca, successiva adesione del creditore, manifestata con la reiterata richiesta di adempimento
all'accollante.
Il creditore può infatti aderire successivamente alla convenzione di accollo, acquistando così il
diritto alla solutio nei confronti del terzo (cfr. Cass. 3.2.1969, n. 305).
Consegue che la motivazione della sentenza impugnata sia corretta sia in relazione alla regola iuris
applicata che nella ricostruzione della volontà delle parti, adeguatamente interpretata in base agli
elementi già evidenziati e non suscettivi di altri significati se non di quello fatto proprio dalla Corte
partenopea.
E' appena il caso di aggiungere che ad analoga conclusione si sarebbe pervenuti sulla base della
applicazione al caso di specie della disciplina della obligatio propter rem, solo adombrata nel
controricorso C., ma che pure avrebbe potuto regolare la fattispecie in esame se vista sotto tale
diverso profilo.
Ai quesiti di diritto posti con il ricorso deve dunque rispondersi nel senso che nell'accollo
cumulativo esterno, istituto risultato applicabile nel caso di specie, il creditore può aderire anche
successivamente, come è avvenuto nella specie, così acquisendo il diritto di ottenere l'adempimento
nei confronti del terzo, risultando conseguentemente estranee alla fattispecie diverse regulae iuris.
Il ricorso va pertanto respinto.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore del
C. in 3.200,00 Euro, di cui 3.000,00 Euro per onorari e a favore del G. in 2.200,00 Euro, cui
2.000,00 Euro per onorari, oltre agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2010.
Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2010
espromissione
L'espromissione è un contratto tra creditore e terzo, al quale resta estraneo il debitore. Pertanto, là
dove tale contratto dovesse assumere la natura di un rapporto ad esecuzione continuata o
periodica, il diritto di recesso previsto in via generale dall'art. 1373 cod. civ. per tutti i rapporti di
durata spetta all'espromittente, e non all'obbligato originario, che non è, appunto, parte del
contratto di espromissione.
CASS. CIV., SEZ. III, 10.11.2008, n. 26863
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
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M.N., elettivamente domiciliato in ROMA VIALE MAZZINI 146, presso lo studio dell'avvocato
SPAZIANI TESTA Ezio, che lo difende unitamente all'avvocato CORNACCHIA DIEGO, giusta
delega in atti;
- ricorrente contro
ICOS COOP SOCIALE A RL;
- intimato avverso la sentenza n. 2775/04 della Corte d'Appello di MILANO, Sezione Quarta Civile emessa il
29/6/2004, depositata il 29/10/04;
RG. 1883/2002;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 06/06/08 dal Consigliere Dott. Nino
FICO;
udito l'Avvocato SPAZIANI TESTA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARINELLI Vincenzo, che ha
concluso per accoglimento p.q.r. del ricorso
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Como, in accoglimento della domanda di ICOS coop. soc. a r.l., ha condannato M.N.
al pagamento della somma di Euro 22.297,10 a titolo di integrazione delle rette di degenza
corrisposte da C.G. dal marzo 1997 all'aprile 2000, giusta l'impegno in tal senso assunto dalla M.
con dichiarazione del 9 maggio 1989.
La M. ha appellato la sentenza e la Corte d'appello di Milano, ritenuto che l'impegno assunto
integrasse un contratto di espromissione cumulativa comportante solo il trasferimento del debito
dalla C. alla nuova debitrice, non anche delle posizioni attive, tra cui la facoltà di recesso, in quanto
spettante unicamente alla debitrice originaria, ha escluso che potesse avere efficacia il recesso
comunicato dalla M. nel settembre 1996.
Avverso quest'ultima decisione la M. ha proposto ricorso per Cassazione affidandolo a due motivi.
L'istituto intimato non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
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Col primo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1272, 1373, 1324 e 1560 c.c.) la
ricorrente ha dedotto che la Corte di merito ha errato nel configurare come espromissione l'impegno
assunto, di pagare alla casa di riposo la parte residua della retta di degenza dalla C. corrisposta
direttamente mediante versamento della propria pensione, presupponendo l'espromissione la
sussistenza di una precedente altrui obbligazione ed essendo invece l'assunzione del debito
antecedente alla erogazione delle prestazioni assistenziali dalla quale sarebbero scaturiti il credito
(della casa di riposo) e il correlativo obbligo di pagamento. Ha precisato la ricorrente che più
corretto sarebbe stato ricondurre l'obbligazione assunta alla figura della promessa unilaterale di
pagamento di prestazione futura e che, in ogni caso, trattandosi di rapporto di durata a tempo
indeterminato, ad essa spettava la facoltà di recedere unilateralmente, ex art. 1373 c.c., giusta il
rinvio disposto dall'art. 1324 c.c., in materia di atti unilaterali.
La censura è fondata.
Presupposto giuridico imprescindibile dell'espromissione, che non può essere ignorato dal giudice
del merito nell'attività logico- giuridica di interpretazione del contratto, è la sussistenza di
un'obbligazione altrui, precedente all'assunzione da parte dell'espromittente (Cass. 2267/65,
19118/03). Essa, pertanto, non può avere ad oggetto un debito non ancora sorto, che sorgerà se e
quando il creditore avrà effettuato la sua prestazione, un debito indeterminato nell'an, anche se
determinabile nel quantum. In mancanza di tale presupposto potrà aversi non estromissione, ma
assunzione di un'obbligazione di garanzia per futuri possibili debiti dell'obbligato, garanzia in
relazione alla quale la facoltà di recesso è pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza (Cass. n.
2284/99).
D'altra parte, pur volendo ritenere che ricorra nella specie un contratto di espromissione, che è
contratto tra creditore e terzo, del tutto svincolato dal rapporto esistente tra terzo e obbligato e tra
quest'ultimo e il creditore (Cass. 2932/04), la facoltà di recesso unilaterale, prevista dall'art. 1373
c.c., per i contratti ad esecuzione continuata o periodica, che rappresenta una causa estintiva
ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, rispondendo all'esigenza di evitare
la perpetuità del vincolo obbligatorio, in sintonia con il principio di buona fede nell'esecuzione del
contratto (Cass. 6427/98, 14970/04), spetta al terzo che assume l'obbligazione altrui, non
all'obbligato originario, che non è parte del contratto di espromissione.
L'accoglimento del primo motivo comporta l'assorbimento dell'esame del secondo motivo, col
quale, sotto il profilo del vizio di motivazione, la ricorrente ha dedotto che la casa di riposo aveva
aderito al recesso da essa comunicato.
Il ricorso va dunque accolto, va cassata la sentenza impugnata e, non occorrendo ulteriori
accertamenti di fatto, ricorrendo giusti motivi, va rigettata la domanda proposta da ICOS con l'atto
introduttivo del giudizio e vanno compensate tra le parti le spese dell'intero giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la
domanda proposta da ICOS con l'atto introduttivo del giudizio. Compensa tra le parti le spese
dell'intero giudizio.
14
Così deciso in Roma, il 6 giugno 2008.
Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2008
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