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In taberna quando sumus
ISTITUTO SANDRO PERTINI GENOVA In taberna quando sumus Linee progettuali di un percorso didattico effettuato nell’anno scolastico 2001-2002 in una classe seconda del Liceo delle Scienze Sociali (cinque ore complessive di attività) * Prof. Francesco Macciò – Latino Prof. Andrea Visconti – Musica In taberna quando sumus (una traduzione; tra i testi, una lettura) Premessa L’idea di lavorare sui Carmina Burana, e segnatamente su In taberna quando sumus, mi venne proposta dal M° Andrea Visconti in vista di un ciclo di lezioni da tenere insieme nella classe II A del Liceo delle Scienze Sociali, nell’anno scolastico 2001-2002 presso l’istituto “Sandro Pertini” di Genova. A lui il compito di proporre una lettura e un ascolto del brano, sia nella potente trascrizione di Carl Orff¹, sia nella filologica ricostruzione, basata sull’interpretazione dei neumi gregoriani applicati al testo profano, della linea melodica elaborata dai clerici vagantes; a me il compito di muovere nell’ambito del testo latino e delle sue possibili traduzioni e di accostarlo poi a testi letterari con i quali gli studenti potessero avere una qualche familiarità. Per quanto atteneva alla seconda “consegna” non ho avuto dubbi: ho pensato quasi subito, con una scelta mi auguro non troppo arbitraria, a Cecco Angiolieri, ai suoi componimenti più celebri, assai “vulgati” anche nel mondo della scuola. Riguardo al testo sono sorte invece delle perplessità nell’affidarmi alle traduzioni italiane oggi in circolazione: quella di Giuseppe Vecchi (Poesia latina medievale, Parma 1958²), a una prima lettura indulge sì a rime e ritmi, ma inciampa in limine, al v. 2, nel lemma humus, tradotto in modo poco persuasivo con “mondo”; quella più recente curata da Piervittorio Rossi (Carmina Burana, Milano 1989), spesso inutilmente descrittiva e prosaica, rinuncia a un impianto fonoprosodico, senza apportare apprezzabili contributi interpretativi rispetto alla traduzione di Vecchi (tra l’altro al v. 2 ripropone ancora il termine “mondo” per humus). Di qui la decisione di fornire – ai miei alunni s’intende – una traduzione che senza “tradire” il significato del testo, lo restituisse in aderenza al suono e al ritmo dell’originale. Così ha preso le mosse questo lavoro, rivolto non unicamente, almeno nelle intenzioni di oggi, al mondo della scuola. una traduzione² In taberna quando sumus non curamus, quid sit humus, sed ad ludum properamus, cui semper insudamus. Quid agatur in taberna, ubi nummus est pincerna, hoc est opus, ut queratur, sed quid loquar, audiatur. Quando alla taverna siamo della fossa non ci curiamo ma al gioco ci affrettiamo al quale sempre noi sudiamo. Che si faccia alla taverna dove il soldo è pincerna questa è cosa da indagare se mi state ad ascoltare. Quidam ludunt, quidam bibunt, quidam indiscrete vivunt. Sed in ludo qui morantur, ex his quidam denudantur; quidam ibi vestiuntur, C’è chi gioca, c’è chi beve, c’è chi insieme a caso vive. E tra quelli al gioco intenti c’è chi viene denudato, c’è chi si è qui rivestito, quidam saccis induuntur. Ibi nullus timet mortem, sed pro Baccho mittunt sortem. chi con sacchi si ricopre. Qui nessuno teme la morte, ma per Bacco tirano a sorte. Primo pro nummata vini; ex hac bibunt libertini. Semel bibunt pro captivis, post hec bibunt ter pro vivis, quater pro Christianis cunctis, quinquies pro fidelibus defunctis, sexies pro sororibus vanis, septies pro militibus silvanis. Il primo bicchiere per il denaro del vino dal quale attinge il libertino; una bevuta per i prigionieri, poi tre bevute per i viventi, quattro per i cristiani tutti, cinque per i fedeli defunti, sei per le sorelle svampite, sette per i cavalieri silvani, Octies pro fratribus perversis, novies pro monachis dispersis, decies pro navigantibus, undecies pro discordantibus, duodecies pro penitentibus, tredecies pro iter agentibus. Tam pro papa quam pro rege bibunt omnes sine lege. otto per i fratelli perversi, nove per i monaci dispersi, dieci per i naviganti, undici per i litiganti, dodici per i penitenti, tredici per i partenti. Per il papa e per il re tutti bevono per tre. Bibit hera, bibit herus, bibit miles, bibit clerus, bibit ille, bibit illa, bibit servus cum ancilla, bibit velox, bibit piger bibit albus, bibit niger, bibit constans, bibit vagus, bibit rudis, bibit magus. Beve la padrona, beve il padrone, beve il cavaliere, beve il clero, beve quello, beve quella, beve il servo con l’ancella, beve il lesto, beve il pigro, beve il bianco, beve il nero, e il costante e lo svagato beve il rozzo, beve il mago, Bibit pauper et egrotus, bibit exul et ignotus, bibit puer, bibit canus, bibit presul et decanus, bibit soror, bibit frater, bibit anus, bibit mater, bibit ista, bibit ille, bibunt centum, bibunt mille. beve il povero e il malato, beve l’esule e l’ignoto, beve il piccolo e l’anziano, beve il presule e il decano, beve la sorella, beve il fratello, beve la vecchia, beve la madre, beve questa, beve quello, bevon cento, bevon mille. Parum durant sex nummate † ubi ipsi immoderate bibunt omnes sine meta, quamvis bibant mente leta. Sic nos rodunt omnes gentes, et sic erimus egentes. Qui nos rodunt, confundantur et cum iustis non scribantur. Duran poco sei denari dove tutti a garganella stanno a bere senza meta sia pur con mente lieta. Ci condannano le genti così ad essere indigenti. Chi ci denigra sia dannato, non sia tra i giusti annoverato. tra i testi, una lettura La poesia si colloca in una vasta tradizione giocosa, presente per tutto il Medio Evo, prima in latino, lingua ormai senza comunità linguistica, come è noto, eppure lingua ancora viva, di comunione di idee, poi nelle varie lingue nazionali che da quell’ecumene linguistico a vario titolo discendono. Si tratta, sia detto per linee molto generali, di una produzione letteraria sfaccettata che attinge a motivi popolari riequilibrandoli in un gioco allusivo e raffinato: una sorta di contrappunto parodico, giullaresco e goliardico, all’immaginario alto della cultura occidentale, che puntava alla sublimazione dello spirituale, alla spiritualizzazione dell’amore e così via. Si pensi, per portare un unico, importante, ancorché tardivo esempio, alla poesia del nostro Cecco Angiolieri, la cui forza sta proprio nell’insofferenza delle idealità cortesi e slilnovistiche (Cecco che polemizza con Dante, per intenderci, che oppone all’angelicata Beatrice, la volgare ma sapida Becchina). Proprio in Cecco, nelle scelte tematiche, nella tensione comico-parodica di derivazione colta, nel frequente ricorso all’iperbole, nell’insistenza su particolari realistici, nella vena quasi pre-espressionistica della sua poesia troviamo sorprendenti coincidenze con il repertorio tematico-stilistico offerto dai Carmina. Un celebre sonetto, che suona come manifesto programmatico della poesia di Cecco, potrebbe esplicitare anche il leitmotiv dei Carmina Burana (le sottolineature sono di chi scrive): Tre cose solamente m’ènno in grado le quali posso non ben ben fornire cioè la donna, la taverna e ‘l dado queste mi fanno il cuor lieto sentire³ Nel carmen potatorium In taberna, i versi incipitari, in possibile connessione testuale con la Salax taberna (C. 37) di Catullo, assumono, pur in un contesto ludico, connotazioni più serie, sulla linea del “carpe diem” oraziano, poesia di decifrazione colta e allusiva, come sappiamo, che avrà poi più persuasive attestazioni nel celebre refrain laurenziano: “Chi vuol esser lieto, sia / di doman non c’è certezza”: In taberna quando sumus non curamus, quid sit humus, sed ad ludum properamus, cui semper insudamus. Nella taverna si gioca, si beve, è un mondo chiuso, protetto, caldo, che consente di ribaltare nella gioia la drammaticità del mondo esterno, di quel brivido che corre lungo la schiena e che è dato dal termine metonimicamente connotato humus, in posizione forte, appunto, a fine verso. In questo testo la gioia, la spensieratezza che pervadono tutto il canto muovono proprio da una consapevolezza di caducità, di finitezza, determinata da questa forte opposizione iniziale, che è il nucleo fondante del testo, tra lo stare in taberna al sicuro e la preoccupazione, il pensiero invasivo e subito scacciato (non curamus) dell’humus. Il concetto è ribadito esplicitamente, senza ricorrere alla connotazione, nella chiusa della strofa successiva, nel gioco oppositivo (mortem ~ sortem pro Baccho), rimarcato anche dall’avversativa sed in punta di verso (Ibi nullus timet mortem, / sed pro Baccho mittunt sortem). La seriosa premessa dell’esordio è subito risolta, così come il genere del componimento richiede, in uno sviluppo giocoso, dove vengono sfatati alcuni topoi della classicità: anziché properare ad humum, è possibile affrettarsi verso il ludus (prerogativa della taberna e insieme scelta letteraria sottesa allo stile comico), per ottenere il quale si potrà anche insudare, verbo destinato ovviamente a rievocare ben più nobili occupazioni connesse alla sfera del labor. La poesia è tutta qui, in questi sfolgoranti versi iniziali. Il testo si sviluppa poi, o si avviluppa, in un vorticoso gioco onnicomprensivo, un gioco che racchiude all’interno della taberna tutte le categorie umane, nella predicazione multipla della loro varietà, salvandole in qualche maniera dall’incubo dell’humus. Il ritmo è dato da una progressione versale trocaica isometrica, strutturata in ottonari a rime baciate. L’isodinamismo del trocheo, o quello che di esso rimane, e la rima del tutto sconosciuta alla poesia classica documentano che ci troviamo nel tempo del ritmo accentuativo; la metrica quantitativa è ormai tramontata lasciando in superficie una patina, un residuo inattivo. Le strofe procedono concettualmente abbinate. Le prime due, racchiuse entro i termini oppositivi di cui si è detto, dopo una sorta di proemiale invito all’ascolto (hoc est opus ut queratur,/ sed quid loquar audiatur), presentano le stramberie della vita in taberna mediante l’evocazione di anonime schiere di bevitori. I motivi del denudamento (v.12) e della “pauperistica vestizione” (v. 14), piuttosto frequenti nella poesia tabernaria, riecheggiano moniti e precetti biblici (cfr. Libro dei Re III, 31 e Giona III, 5), probabilmente connessi, in chiave parodica, con le spinte ereticali di rinnovamento spirituale e religioso che sconvolsero il mondo cristiano medievale. La terza e quarta strofa si dispiegano, con la serie degli avverbi numerali, nell’elencazione di bevute che farebbero sfigurare perfino Sir John Falstaff. Il tono solenne, quasi liturgico, contrasta con la bassezza dell’argomento, evocando in dissacrante parodia momenti del rito religioso cristiano (cfr. ad esempio, nel messale romano, l’oratio fidelium del venerdì santo, ma altri più persuasivi riscontri si hanno con numerose celebrazioni delle Missae votivae e delle Orationes diversae). La quinta e la sesta strofa si snodano in una struttura rigida, monocorde, parossisticamente dettata dal dispositivo anaforico del bibit che ricorre addirittura 28 volte (se si conteggiano le conduplicationes apofoniche in bibunt) su 16 versi. In questo ossessivo reticolo fonico, le parole perdono peso semantico e referenziale e acquistano forza sonora di puri significanti; i versi danno voce a un invasamento, a un’ebbrezza che, anche sotto l’aspetto fonico-ritmico, preannuncia, con largo anticipo in Europa, la poesia ditirambica di ascendenza francese. Nell’ultima strofa, a sé, spaiata come fosse un’aggiunta successiva, c’è un rallentamento concettuale, una struttura meno scandita, più complessa. Insieme con il motivo di sapore goliardico della “stremità”, per dirla ancora con le parole di Cecco (Parum durant sex nummate […] et sic erimus egentes), si affilano strali polemici contro l’ipocrisia moraleggiante della gente, risolti ancora nella direzione di un giocoso anticlericalismo: i versi di chiusa (“Qui nos rodunt, confundantur / et cum iustis non scribantur”) sono riconoscibilissima parodia del Salmo 68, 29 della Vulgata. Diversamente dal sonetto più celebrato di Cecco, S’i’ fosse foco, dove il poeta senese dà voce a una pratica di cancellazione, di annientamento totale che lascia in piedi solo il proprio io in mezzo all’incarnazione dei suoi pur condivisibili gusti amorosi, l’anonimo autore del carmen intona il canto della presenza, della salvazione, dell’enumerazione fragorosa dell’umano, nell’azzeramento delle gerarchie sociali e delle barriere insormontabili che calcificano la vita. La taberna è il luogo del capovolgimento, di una stramba metanoia dove se il basso va al posto dell’alto, il comico al posto del serio, il ventre al posto del cervello, anche gli umili possono andare al posto dei potenti. La taberna può allora divenire, in questo scambio tra spirituale e materiale, un rovesciamento del tempio cristiano, un luogo sacro di rituali libagioni in onore di un dio sovversivo e potente come Bacco, dio taumaturgico capace di edificare un altro mondo, privo di regole, di sperequazioni, di privilegi e di tabù. Rispetto però al sonetto di Cecco, con cui il carmen ha in comune almeno il riferimento alle massime autorità del mondo medievale (l’ordine di apparizione è lo stesso, ma il papa e il re sono oggetto qui, al v.31, di smisurate bevute, là invece amplificazione di impossibili ferocità), questo testo da solo non regge, non riesce a decollare. Se, cioè, S’i’ fosse foco ha in sé la sua straordinaria musica giocata sui sapientissimi equilibri, nelle disposizioni delle protasi e delle apodosi, operati dal grande poeta senese, il carmen potatorium ha vigore soltanto nella musica in cui Karl Orff lo ha immerso. Sostenuto da una propulsione percussiva di efficace linearità, dallo sviluppo dinamico dei fiati che introducono l’avvicendarsi di linee melodiche sorvegliatisssime e di mirabile semplicità, la poesia In taberna quando sumus vive nella straordinaria complementarità di una musica ridotta all’essenziale, all’elementare, come è essenziale ed elementare la parola che l’ha ispirata. Francesco Macciò Note ¹ Compilati agli inizi del XIII secolo e così chiamati dal convento di Benediktbeuern (Bura Sancti Benedicti) in Baviera, dove il manoscritto è stato rinvenuto, i Carmina Burana hanno “ispirato” l’opera omonima di Carl Orff (1937), generalmente eseguita in forma di cantata scenica. ² La traduzione di In taberna quando sumus è stata condotta sul testo dell’edizione critica A. Hilka, O. Shumann, B. Bischoff, Carmina Burana, Heidelberg 1930-1970. ³ Per le citazioni dalle opere di Cecco Angiolieri mi sono avvalso di M. Vitale, Rimatori comico realistici del Due e Trecento, Torino 1956. Su tale percorso didattico pluridisciplinare, gli alunni hanno sostenuto la seguente prova di verifica: Liceo delle Scienze Sociali classe IIA Latino- Musica Fila A È consentito l’uso dei testi forniti in fotocopia e del dizionario di latino. 1) Prendi in esame le prime quattro strofe nelle due traduzioni che ti sono state fornite, soffermati su tre punti in cui rilevi discordanze e, avvalendoti delle tue conoscenze della lingua latina, esprimi qualche riflessione in proposito. (Max 15 righe) 2) Che rapporto intercorre tra il sonetto S’i’ fosse foco e In taberna? (max 10 righe) 3) Trascrivi il punto in cui si parla degli aspetti metrici di In taberna, fornendo una definizione dei seguenti termini: ottonario, trocheo, metrica quantitativa. Fila B È consentito l’uso dei testi forniti in fotocopia e del dizionario di latino. 1) Prendi in esame le ultime quattro strofe nelle due traduzioni che ti sono state fornite, soffermati su tre punti in cui rilevi discordanze e, avvalendoti delle tue conoscenze della lingua latina, esprimi qualche riflessione in proposito. (Max 15 righe) 2) Che rapporto intercorre tra il sonetto Tre cose solamente m’ènno in grado e i Carmina burana? (max 10 righe) 3) Trascrivi il nesso in cui ricorrono, nei testi forniti, le seguenti figure: iperbole, metonimia, anafora e fornisci su ciascuna di esse una definizione.